mercoledì 27 ottobre 2010

DISCUSSIONE
Mayoor-Abate su “Cos’è la poesia?”
di F. Fortini



Mayoor:

Se i poeti e le loro poesie non fossero anche da considerarsi come casi umani degni di interesse, dove starebbe il valore della loro testimonianza?

Abate:
Ma la poesia non è solo o soprattutto testimonianza. È semmai anche testimonianza: documento, ma ancor più monumento, come dicono gli storici. Per essere chiari, un documento ha grande valore anche se brutto, un monumento (ad es. per diversi tra noi La ginestra  di Leopardi) soltanto se è ritenuto bello, cioè con un valore supplementare, in più, rispetto al documento.
Mayoor:  

L'apertura ai moltinpoesia, secondo me, è salutare se compresa come espressione del non-detto tra il chiasso uniformante del fin-troppo-detto. Mi chiedo se non ci sia del conservatorismo (scusate la bruttezza dell'ismo) in queste considerazioni di Fortini [Cfr. in questo blog: martedì 19 ottobre 2010 PROPOSTA DI LAVORO N.1 DEL LABORATORIO MOLTINPOESIA ottobre/novembre 2010: Lettura di Franco Fortini, Cos'è la poesia?], magari dovuta a qualche bega stilistica dei suoi tempi.
Sono un sostenitore della "creatività pura", come dici tu Ennio, non solo perché considero la creatività un fenomeno ampio dentro cui si inscrivono tutte le arti, ma anche per il fatto che ritengo che la creatività sia una disobbedienza anche verso se stessi. Per questo non credo sia da considerarsi come derivante dal romanticismo. Non è solo un rapportarsi presuntuoso all'ignoto (ignoranza) dell'ispirazione, non è uno sfogo gratuito. Come siamo passati dalla metrica al verso libero così possiamo anche assaporare il gusto di ogni contaminazione, e questo senza perdere nulla dell'arte poetica.

Abate:

L’essere moltinpoesia, cioè  tentare di fare poesia con la consapevolezza che oggi  siamo in molti e non più in pochi a occuparcene, è un dato di fatto. Verso questo fenomeno può esserci chiusura o apertura, attenzione o fastidio,  da parte di chiunque (addetti ai lavori, dilettanti, poeti laureati, riviste di poesia, lettori). Ma è ingiusto accusare Fortini di «conservatorismo». Il suo rifiuto della «creatività pura» non è cecità di fronte al fenomeno delle scrtitture di massa e nemmeno rispetto al  «fenomeno ampio dentro cui si inscrivono tutte le arti»; e cioè verso un poiein, un fare  spontaneo, universale, naturale, tipico dell’homo faber e che di solito viene esaltato acriticamente da chi si occupa d’arte per passione o per lavoro. Fortini sa  e invita tutti noi a riconoscere che oggi la creatività pura non  lo è più (ammesso che lo sia stato in passato).  E non è neppure più «disobbedienza». Non a caso s’era staccato da Adorno. Questi sosteneva che «la "poesia" nega e avversa e contesta tutto quello che è accettato nel quotidiano ripetuto» (F. Fortini, Cos’è la poesia?). Fortini gli aveva contrapposto addirittura la posizione di Osip Mandel’štam del 1922: «La poesia classica è poesia della rivoluzione» ( F. Fortini, Non solo oggi, p.207). Per lui non può essere più “disobbediente” una pratica (la “creatività pura”) che nelle società occidentali viene di fatto imposta sistematicamente da tutti gli apparati d’informazione e di persuasione; e quindi diventa un obbligo, un modello a cui conformarsi. Non è più possibile oggi essere disobbedienti come le avanguardie del primo Novecento (perciò criticò il neoavanguardismo del Gruppo 63 di Sanguineti & C.) in un’epoca in cui essere all’avanguardia è un’imposizione (del Capitale). Come  per una donna oggi non è  gesto di disobbedienza denudarsi, visto che tutto un sistema, dalla pubblicità alla moda, ha imposto alla donna (e soprattutto a lei) di denudarsi. Disobbedienza, allora, «verso se stessi»? Boh! Non vedo in giro eserciti di  puritani, bacchettoni o razionalisti. Altre sono le nevrosi. Non siamo più ai tempi di Freud. Ripeto quasi tutto attorno a noi ci spinge, ci obbliga, ad essere liberi, creativi, spontanei, selvaggi, hard, etc. È un comando. E a seguirlo non si è affatto disobbedienti e creativi, ma obbedienti e conformisti. Questo mi pare il messaggio critico presente nelle parole niente affatto conservatrici di Fortini.

Che poi tutta questa storia della “creatività pura” sia cominciata col Romanticismo resta per me valido. È  col Romanticismo che, come ha ricordato anche Leonardo Terzo [post martedì 26 ottobre 2010 in questo blog], «prevale il criterio dell'originalità, il culto del nuovo, che ha cominciato ad esistere dalla scoperta dell'America fino alle avanguardie del 900».

Mayoor:

L’autocompiacimento, l'intimismo, lo sfogo personale sono difetti non di oggi. È bene rimarcarli, ma riguardano la brutta poesia di sempre della quale, va detto, storicamente non ne resta mai molto. E così sarà anche per molta poesia di oggi, se è vero che oggi l'intimismo e le inezie la fanno da padrone. Proviamo a metterla così: chi scrive sa cosa scrive oppure no? Il poeta ha o no padronanza dei propri pensieri? Dai commenti di Fortini sembrerebbe che dovrebbe averne,  però mi chiedo: conoscete qualcuno che sappia con esattezza quale sarà il prossimo pensiero che gli verrà in mente? Il pensiero può essere determinato? Sì? E allora mettiamola in soffitta l'ispirazione...

Abate:

Non sono d’accordo. Fai dell’«intimismo» una categoria astorica, metafisica, come se ci fosse sempre stata e sempre ci sarà. No, la poesia degli antichi non era e non poteva essere intimista o, quando lo era, lo era in modi diversi da quelli dell’Ottocento o di oggi. È un’illusione consolatoria sostenere che esiste «la brutta poesia di sempre» e che di essa « non ne resta mai molto». Quanti, e non solo tra i poeti,  affidano ingenuamente ad un astratto feticcio, il Tempo, il ruolo di giustiziere! Si dice: «Il Tempo ci darà ragione» o «Il Tempo mostrerà chi  sono i “veri poeti”». Non è affatto  sicuro che il Tempo sia un giudice eccezionale e provvederà a selezionare il buono dal cattivo e salverà dall’oblio inevitabilmente la “buona poesia”. No, la selezione di buono e cattivo la fanno le vicende umane: se vincono certe forze politiche e sociali, si conservano una certa poesia, una certa lingua, certi costumi; se perdono, s’inabissano interi continenti del sapere,  scompaiono nomi in una certa epoca sulla bocca di tutti, restano, se tutto va bene, delle rovine o degli archivi pieni di buchi.  Se oggi  «l'intimismo e le inezie la fanno da padrone», non è detto che  prima o poi e automaticamente non la faranno più da padrone domani.  Per sconfiggere intimismo e inezie, anche soltanto nel campo della poesia, bisogna che vengano sconfitte le spinte sociali reali, che si riconoscono nell’intimismo e nelle inezie e ne fanno il loro distintivo. I poeti che non si crogiolano nell’intimismo e nelle inezie possono/devono contrastare i poeti che invece ci sguazzano. Ma sapendo che l’impresa è ardua. «Chi scrive sa cosa scrive oppure no?»,  Certo,  chi scrive, prima o poi, per me «sa cosa scrive». Anche un bambino, man mano che s’impadronisce del linguaggio, capisce che certe parole  sono “brutte” e altre no, che certe parole “fanno male” e altre suscitano attenzione o simpatia o riso. Figuriamoci, se non lo capisce il poeta che con le parole dovrebbe averci un rapporto particolare, da poeta appunto. Altro problema, invece, è  quello di avere o no l’assoluta «padronanza dei propri pensieri». Nessuno, tantomeno chi esplora spesso zone inesplorate, ce l’ha. Non è certo questo che pretendeva Fortini, se poteva scrivere le seguenti parole: «Ho capito assai tardi che scrivere versi non è riconducibile ad una identità; non perché l’io sia un altro ma perché la parola ne colle pas [non rispecchia, non coincide] con la mia voce. L’opera è di un altro o è di altri o di nessuno. Per questo potrei vantare senza vergogna le mie poesie come geniali o affascinanti oppure ammutolire, un po’ addolorotato, se qualcuno dice di trovarle mediocri o brutte affatto. Difenderle non posso. È come se le avesse scritte mio figlio. O mio padre. Qualcuno che comunque è più giovane e più vecchio di me» ( F. Fortini, Metrica e biografia, in «Quaderni piacentini» p. 108, n.2 nuova serie 1981). Non  si tratta, dunque, di “padroneggiare” tutti i propri pensieri, ma di non rinunciare a pensare e a confrontarsi responsabilmente con altri pensanti adducendo a pretesto che i poeti non pensano, ma  devono andare perennemente a caccia dell’ispirazione, che – chissà perché – non avrebbe nulla a che pare col pensare.

13 commenti:

Anonimo ha detto...

E dunque, Ennio, rivolgersi alle Muse, all'ispirazione, è un venir meno alle proprie responsabilità? che servirebbe di non accontentarsi di reggere la penna, quasi potesse scrivere da sola lasciando il poeta tanto incolpevole quanto immeritevole?
Ah, lo sapevo, la vecchia scuola ha molto da insegnare.

Decostruire il palazzo di un discorso, mattone dopo mattone, è questo il fare della critica? Il poeta costruisce mentre il critico demolisce. L'uno sembra servire all'altro perché ciò che nella storia resta in piedi è perché è stato ben fatto?

E com'è che si "ben fa", oggi? Esiste ancora il plurale nell'autore, esiste ancora un palazzo verbale che abbia da essere completato, come la torre infinita di Babele... senza che ogni volta si debba ricominciare dalla fondamenta?

Ecco che con queste domande sto cercando di costruire ciò che la critica demolisce, cioè voglio vedere bene qual'è il palazzo di riferimento. Tu lo sai? Ciò che di nuovo viene scritto è ciò che è già stato scritto, è nuova scrittura della vecchia scrittura?

Il mio riferimento alla creatività (termine che considero attuale perché teso a demolire i confini tra le arti, abbracciandole ma sgombrando al tempo stesso la strada dalle macerie non fosse altro che per poter procedere), alla creatività come disobbedienza anche verso se stessi e verso ogni regola che costringerebbe il poeta a ripetere, voleva essere un invito.

La tendenza umana alla ripetizione non è altro che l'attitudine che la mente umana adotta quando s'incammina, quando deve scegliere da che parte andare. Difficilmente sceglierà un nuovo sentiero perché in quel caso dovrebbe tornare a porre attenzione a dove mette i piedi, ne' può sapere con certezza dove sta andando.

E' qui che la creatività entra in campo, nello stile e nella poetica che ogni autore si è scelto e che per ogni autore finisce col diventare il sentiero da percorre ogni volta. Possiamo considerare la creatività come un salto quantico che possa generare risveglio dal torpore ripetitivo della propria continua affermazione.

E' un procedere complesso, necessariamente decostruttivo che andrebbe fatto con coraggio, per chi se la sente. Non è giocare con più abilità, ma è mettersi in gioco... che mi sembra essere anche ciò che ha fatto, con gran fatica, Giancarlo Majorino nel suo "Viaggio...", saltando da un un verso a una citazione, dalla prosa al commento, dallo scoramento verso ogni altro sentimento, in piena libertà di scrittura. Allora il palazzo verbale della storia diventa una giungla dove si riscopre il senso e il piacere della propria libertà.

Ma è già visto? Dopo Joyce e il suo Ulisse, dopo Pound? Si, dopo di loro viene ciascuno.

Uff, il resto alla prossima.
ciao

Mayoor

Anonimo ha detto...

“…ma anche per il fatto che ritengo che la creatività sia una disobbedienza anche verso se stessi”.
Per favore Mayoor puoi spiegarmi meglio cosa intendi? Perchè la creatività è una disobbedienza?
Grazie.
Giuseppina

Anonimo ha detto...

La mente tende a ripetere ciò che ha appreso, anche quando si tratta di fare arte. La mente non si accontenta di fare, la sua qualità migliore consiste nel ri-fare. E questo accade finché non incontra nuove informazioni... che poi ripeterà per un certo periodo, se non per sempre.
Non parlo della disobbedienza contro qualcosa, la disobbedienza non è un fine, è solo la naturale conseguenza dell'essere creativi.
Forse però queste cose i poeti le sanno già.
Ciao

mayoor

Anonimo ha detto...

Ma avevi parlato di disobbedienza verso se stessi.
Creatività = insubordinazione = ammutinamento = ribellione.
Disubbidienza = resistenza passiva contro certi tipi di imposizioni praticate da alcuni governi e ritenute ingiuste?
Disubbidienza verso se stessi = resistenza passiva contro le imposizioni che ci si è date?
Potresti spiegare meglio la questione?

G.

Anonimo ha detto...

@ Mayoor

Dialogare costa, ha le sue regole. Una di quelle che adotto ormai per abitudine (=metodo) è questa: estrarre dallo scritto una frase del mio interlocutore, esaminarla alla luce del mio bagaglio emotivo e intellettuale, valutarla (è sincera o falsa? è superficiale o profonda? regge o no di fronte a concetti e valori che per me sono decisivi? mi mette in discussione o mi lascia indifferente? Ecc.), trovare una mia frase per contrastare o condividere e rilanciare all’altro la palla. A meno che non mi convinca della vanità o dell’impossibilità del dialogo e allora tendo a chiudere e a passare ad altro.
Sarò giudicato pedante, intellettualoide, poco “creativo”. Non m’importa. So, così facendo, di svolgere decentemente la mia funzione di interlocutore che sta addosso ai significati delle parole dell’altro e implicitamente chiede anche all’altro di stare addosso ai significati delle parole da me usate.
Tu, invece, nel primo commento al dialogo che ho costruito – preciso: utilizzando brani di una tua mail e costruendo una sorta di botta e risposta - hai un’altra abitudine (= metodo), magari più “creativa”, segui un tuo pensiero che non sta molto addosso a quanto io ho scritto. Non sei obbligato a seguire la mia abitudine(=metodo), ma ne risente secondo me la possibilità di dialogo.
Al suo posto, proprio perché non c’è un botta e risposta tuo alle mie affermazioni, metti, come si dice, altra carne sul fuoco, mentre quella già messa non è ancora (per me) cotta a sufficienza. E un po’ meni il can per l’aia.
Cosa c’entra e cosa significa, ad es., dire che per me «rivolgersi alle Muse» sarebbe «un venir meno alle proprie responsabilità»? A quali responsabilità ti riferisci?
Cosa significa questa frase che non capisco: « che servirebbe di non accontentarsi di reggere la penna, quasi potesse scrivere da sola lasciando il poeta tanto incolpevole quanto immeritevole?».
Certo, che «decostruire il palazzo di un discorso, mattone dopo mattone» è il compito della critica. Ma non è che un poeta non possa fare la stessa cosa poetando. Non è che un poeta non può essere contemporaneamente poeta e critico. È – uso una parola forte – insopportabile questo ricorrente tentativo di separare critica e poesia e di subire o far passare come ovvia un’affermazione stereotipata come questa:«Il poeta costruisce mentre il critico demolisce». Ma quando mai?
Dove stanno tutti ‘sti poeti soltanto costruttori e tutti ‘sti critici soltanto demolitori? È una semplificazione pigra e – ripeto – inaccettabile.
E nelle mie risposte dov’è contenuta l’affermazione che « nella storia [quello che] resta in piedi è perché è stato ben fatto?».
Io ho sostenuto tutt’altro. Ho detto che è sbagliato aspettare che il Tempo faccia giustizia. Ho detto che la buona poesia può essere seppellita dalla cattiva poesia, se forze sociali e politiche vincenti s’invaghiscono della cattiva poesia e scacciano la buona, magari per il semplice fatto che non la capiscono più o non accettano più di faticare (anche con l’aiuto di buoni critici!) per intenderla.
Quindi – ho detto - se vincono certe forze il segno + (più) viene dato a cose a cui noi (alcuni di noi almeno) daremmo il segno – (meno).
Il che non significa che è “ben fatto”. Anzi, purtroppo, la storia è zeppa di “mal fatto” ( e di malfattori che vincono 10 ad uno sui benefattori!). E il progresso non è garantito. Neppure nella scrittura. E sempre meno c’è la possibilità che le nuove generazioni possano scrivere avendo ricevuto in eredità (come un tesoro non come un peso) quanto scritto dalle vecchie generazioni o dagli antenati. Tu puoi invitare quanto vuoi e chi vuoi ( giovani e vecchi) alla “creatività” (=libertà), ma resta un invito vago, che si confonde con i comandi ad essere creativi (=obbligo, dunque) rivolti a gente che vive in condizioni di vita nelle quali la “creatività” è solo un surrogato, fumo senz’arrosto, nome senza significato.
Ciao
Ennio





Ennio Abate

Anonimo ha detto...

@ Mayoor

Dialogare costa, ha le sue regole. Una di quelle che adotto ormai per abitudine (=metodo) è questa: estrarre dallo scritto una frase del mio interlocutore, esaminarla alla luce del mio bagaglio emotivo e intellettuale, valutarla (è sincera o falsa? è superficiale o profonda? regge o no di fronte a concetti e valori che per me sono decisivi? mi mette in discussione o mi lascia indifferente? Ecc.), trovare una mia frase per contrastare o condividere e rilanciare all’altro la palla. A meno che non mi convinca della vanità o dell’impossibilità del dialogo e allora tendo a chiudere e a passare ad altro.
Sarò giudicato pedante, intellettualoide, poco “creativo”. Non m’importa. So, così facendo, di svolgere decentemente la mia funzione di interlocutore che sta addosso ai significati delle parole dell’altro e implicitamente chiede anche all’altro di stare addosso ai significati delle parole da me usate.
Tu, invece, nel primo commento al dialogo che ho costruito – preciso: utilizzando brani di una tua mail e costruendo una sorta di botta e risposta - hai un’altra abitudine (= metodo), magari più “creativa”, segui un tuo pensiero che non sta molto addosso a quanto io ho scritto. Non sei obbligato a seguire la mia abitudine(=metodo), ma ne risente secondo me la possibilità di dialogo.
Al suo posto, proprio perché non c’è un botta e risposta tuo alle mie affermazioni, metti, come si dice, altra carne sul fuoco, mentre quella già messa non è ancora (per me) cotta a sufficienza. E un po’ meni il can per l’aia.
Cosa c’entra e cosa significa, ad es., dire che per me «rivolgersi alle Muse» sarebbe «un venir meno alle proprie responsabilità»? A quali responsabilità ti riferisci?
Cosa significa questa frase che non capisco: « che servirebbe di non accontentarsi di reggere la penna, quasi potesse scrivere da sola lasciando il poeta tanto incolpevole quanto immeritevole?».
Certo, che «decostruire il palazzo di un discorso, mattone dopo mattone» è il compito della critica. Ma non è che un poeta non possa fare la stessa cosa poetando. Non è che un poeta non può essere contemporaneamente poeta e critico. È – uso una parola forte – insopportabile questo ricorrente tentativo di separare critica e poesia e di subire o far passare come ovvia un’affermazione stereotipata come questa:«Il poeta costruisce mentre il critico demolisce». Ma quando mai?
Dove stanno tutti ‘sti poeti soltanto costruttori e tutti ‘sti critici soltanto demolitori? È una semplificazione pigra e – ripeto – inaccettabile.
E nelle mie risposte dov’è contenuta l’affermazione che « nella storia [quello che] resta in piedi è perché è stato ben fatto?».
Io ho sostenuto tutt’altro. Ho detto che è sbagliato aspettare che il Tempo faccia giustizia. Ho detto che la buona poesia può essere seppellita dalla cattiva poesia, se forze sociali e politiche vincenti s’invaghiscono della cattiva poesia e scacciano la buona, magari per il semplice fatto che non la capiscono più o non accettano più di faticare (anche con l’aiuto di buoni critici!) per intenderla.
Quindi – ho detto - se vincono certe forze il segno + (più) viene dato a cose a cui noi (alcuni di noi almeno) daremmo il segno – (meno).
Il che non significa che è “ben fatto”. Anzi, purtroppo, la storia è zeppa di “mal fatto” ( e di malfattori che vincono 10 ad uno sui benefattori!). E il progresso non è garantito. Neppure nella scrittura. E sempre meno c’è la possibilità che le nuove generazioni possano scrivere avendo ricevuto in eredità (come un tesoro non come un peso) quanto scritto dalle vecchie generazioni o dagli antenati. Tu puoi invitare quanto vuoi e chi vuoi ( giovani e vecchi) alla “creatività” (=libertà), ma resta un invito vago, che si confonde con i comandi ad essere creativi (=obbligo, dunque) rivolti a gente che vive in condizioni di vita nelle quali la “creatività” è solo un surrogato, fumo senz’arrosto, nome senza significato.
Ciao
Ennio

Anonimo ha detto...

@ Mayoor

Dialogare costa, ha le sue regole. Una di quelle che adotto ormai per abitudine (=metodo) è questa: estrarre dallo scritto una frase del mio interlocutore, esaminarla alla luce del mio bagaglio emotivo e intellettuale, valutarla (è sincera o falsa? è superficiale o profonda? regge o no di fronte a concetti e valori che per me sono decisivi? mi mette in discussione o mi lascia indifferente? Ecc.), trovare una mia frase per contrastare o condividere e rilanciare all’altro la palla. A meno che non mi convinca della vanità o dell’impossibilità del dialogo e allora tendo a chiudere e a passare ad altro.
Sarò giudicato pedante, intellettualoide, poco “creativo”. Non m’importa. So, così facendo, di svolgere decentemente la mia funzione di interlocutore che sta addosso ai significati delle parole dell’altro e implicitamente chiede anche all’altro di stare addosso ai significati delle parole da me usate.
Tu, invece, nel primo commento al dialogo che ho costruito – preciso: utilizzando brani di una tua mail e costruendo una sorta di botta e risposta - hai un’altra abitudine (= metodo), magari più “creativa”, segui un tuo pensiero che non sta molto addosso a quanto io ho scritto. Non sei obbligato a seguire la mia abitudine(=metodo), ma ne risente secondo me la possibilità di dialogo.
Al suo posto, proprio perché non c’è un botta e risposta tuo alle mie affermazioni, metti, come si dice, altra carne sul fuoco, mentre quella già messa non è ancora (per me) cotta a sufficienza. E un po’ meni il can per l’aia.
Cosa c’entra e cosa significa, ad es., dire che per me «rivolgersi alle Muse» sarebbe «un venir meno alle proprie responsabilità»? A quali responsabilità ti riferisci?
Cosa significa questa frase che non capisco: « che servirebbe di non accontentarsi di reggere la penna, quasi potesse scrivere da sola lasciando il poeta tanto incolpevole quanto immeritevole?».
Certo, che «decostruire il palazzo di un discorso, mattone dopo mattone» è il compito della critica. Ma non è che un poeta non possa fare la stessa cosa poetando. Non è che un poeta non può essere contemporaneamente poeta e critico. È – uso una parola forte – insopportabile questo ricorrente tentativo di separare critica e poesia e di subire o far passare come ovvia un’affermazione stereotipata come questa:«Il poeta costruisce mentre il critico demolisce». Ma quando mai?
Dove stanno tutti ‘sti poeti soltanto costruttori e tutti ‘sti critici soltanto demolitori? È una semplificazione pigra e – ripeto – inaccettabile.
E nelle mie risposte dov’è contenuta l’affermazione che « nella storia [quello che] resta in piedi è perché è stato ben fatto?».
Io ho sostenuto tutt’altro. Ho detto che è sbagliato aspettare che il Tempo faccia giustizia. Ho detto che la buona poesia può essere seppellita dalla cattiva poesia, se forze sociali e politiche vincenti s’invaghiscono della cattiva poesia e scacciano la buona, magari per il semplice fatto che non la capiscono più o non accettano più di faticare (anche con l’aiuto di buoni critici!) per intenderla.
Quindi – ho detto - se vincono certe forze il segno + (più) viene dato a cose a cui noi (alcuni di noi almeno) daremmo il segno – (meno).
Il che non significa che è “ben fatto”. Anzi, purtroppo, la storia è zeppa di “mal fatto” ( e di malfattori che vincono 10 ad uno sui benefattori!). E il progresso non è garantito. Neppure nella scrittura. E sempre meno c’è la possibilità che le nuove generazioni possano scrivere avendo ricevuto in eredità (come un tesoro non come un peso) quanto scritto dalle vecchie generazioni o dagli antenati. Tu puoi invitare quanto vuoi e chi vuoi ( giovani e vecchi) alla “creatività” (=libertà), ma resta un invito vago, che si confonde con i comandi ad essere creativi (=obbligo, dunque) rivolti a gente che vive in condizioni di vita nelle quali la “creatività” è solo un surrogato, fumo senz’arrosto, nome senza significato.
Ciao
Ennio

Anonimo ha detto...

@ Mayoor

Dialogare costa, ha le sue regole. Una di quelle che adotto ormai per abitudine (=metodo) è questa: estrarre dallo scritto una frase del mio interlocutore, esaminarla alla luce del mio bagaglio emotivo e intellettuale, valutarla (è sincera o falsa? è superficiale o profonda? regge o no di fronte a concetti e valori che per me sono decisivi? mi mette in discussione o mi lascia indifferente? Ecc.), trovare una mia frase per contrastare o condividere e rilanciare all’altro la palla. A meno che non mi convinca della vanità o dell’impossibilità del dialogo e allora tendo a chiudere e a passare ad altro.

Sarò giudicato pedante, intellettualoide, poco "creativo". Non m’importa. So, così facendo, di svolgere decentemente la mia funzione di interlocutore che sta addosso ai significati delle parole dell’altro e implicitamente chiede anche all’altro di stare addosso ai significati delle parole da me usate.

Tu, invece, nel primo commento al dialogo che ho costruito – preciso: utilizzando brani di una tua mail e costruendo una sorta di botta e risposta - hai un’altra abitudine (= metodo), magari più "creativa", segui un tuo pensiero che non sta molto addosso a quanto io ho scritto. Non sei obbligato a seguire la mia abitudine(=metodo), ma ne risente secondo me la possibilità di dialogo.

Al suo posto, proprio perché non c’è un botta e risposta tuo alle mie affermazioni, metti, come si dice, altra carne sul fuoco, mentre quella già messa non è ancora (per me) cotta a sufficienza. E un po’ meni il can per l’aia.

Cosa c’entra e cosa significa, ad es., dire che per me «rivolgersi alle Muse» sarebbe «un venir meno alle proprie responsabilità»? A quali responsabilità ti riferisci?

Cosa significa questa frase che non capisco: « che servirebbe di non accontentarsi di reggere la penna, quasi potesse scrivere da sola lasciando il poeta tanto incolpevole quanto immeritevole?».

[1. Segue Ennio Abate]

Anonimo ha detto...

Certo, che «decostruire il palazzo di un discorso, mattone dopo mattone» è il compito della critica. Ma non è che un poeta non possa fare la stessa cosa poetando. Non è che un poeta non può essere contemporaneamente poeta e critico. È – uso una parola forte – insopportabile questo ricorrente tentativo di separare critica e poesia e di subire o far passare come ovvia un’affermazione stereotipata come questa:«Il poeta costruisce mentre il critico demolisce». Ma quando mai?

Dove stanno tutti ‘sti poeti soltanto costruttori e tutti ‘sti critici soltanto demolitori? È una semplificazione pigra e – ripeto – inaccettabile.

E nelle mie risposte dov’è contenuta l’affermazione che « nella storia [quello che] resta in piedi è perché è stato ben fatto?».

Io ho sostenuto tutt’altro. Ho detto che è sbagliato aspettare che il Tempo faccia giustizia. Ho detto che la buona poesia può essere seppellita dalla cattiva poesia, se forze sociali e politiche vincenti s’invaghiscono della cattiva poesia e scacciano la buona, magari per il semplice fatto che non la capiscono più o non accettano più di faticare (anche con l’aiuto di buoni critici!) per intenderla.

Quindi – ho detto - se vincono certe forze il segno + (più) viene dato a cose a cui noi (alcuni di noi almeno) daremmo il segno – (meno).

Il che non significa che è "ben fatto". Anzi, purtroppo, la storia è zeppa di "mal fatto" ( e di malfattori che vincono 10 ad uno sui benefattori!). E il progresso non è garantito. Neppure nella scrittura. E sempre meno c’è la possibilità che le nuove generazioni possano scrivere avendo ricevuto in eredità (come un tesoro non come un peso) quanto scritto dalle vecchie generazioni o dagli antenati. Tu puoi invitare quanto vuoi e chi vuoi ( giovani e vecchi) alla "creatività" (=libertà), ma resta un invito vago, che si confonde con i comandi ad essere creativi (=obbligo, dunque) rivolti a gente che vive in condizioni di vita nelle quali la "creatività" è solo un surrogato, fumo senz’arrosto, nome senza significato.

Ciao

Ennio


 

[2. Fine Ennio Abate]

Anonimo ha detto...

A giuseppina

"Disubbidienza verso se stessi = resistenza passiva contro le imposizioni che ci si è date?
Potresti spiegare meglio la questione?"

E' questo che intendevo, solo che non parlerei di resistenza passiva, di passività nell'essere creativi cosa ci può essere? Nulla. Perfino l'assecondare, l'accogliere... non sono attitudini passive se scelte consapevolmente. Essere creativi anche verso se stessi per me è vivere nel presente. Altro stereotipo? e non è uno stereotipo il pensiero di consegnarsi al continuum della storia? Tu sei tu, non sei nemmeno un individuo perché l'individuo è anch'esso una categoria sociale, non sei un individuo perché l'individuo, inteso socialmente, non ha alcun volto.
Per fortuna in poesia, senza neanche che si debba essere autobiografici, questo volto unico traspare. E lo fa indipendentemente da qualsiasi appartenenza sociale. Tu sei ciò che in altro linguaggio viene detto trasversale. Tu non sei nemmeno un poeta perché tu non sei i poeti. Tu non sei una categoria, e anche le regole che ti sei dato nel tempo ti fisseranno. Per me non è così che si vive. Jung ha parlato della necessità della maschera per comunicare, altrimenti è il caos, ma ha anche ben chiarito che si tratta di maschere.

mayoor

Anonimo ha detto...

Abate
"Dialogare costa, ha le sue regole. Una di quelle che adotto ormai per abitudine (=metodo)"

Mayoor
Sì che l'avevo capito, solo che invece di adottare il tuo metodo ho voluto farti delle domande per capire, non tanto cosa tu pensassi di quanto ho scritto, ma da dove provenisse il tuo pensiero.
Hai frammentato il mio discorso analizzandolo e io dovrei risponderti per chiarire, ma così facendo mi metti in difesa (sportivamente parlando). Invece io vorrei poter osservare per intero il tuo ragionamento, non arrivarci per deduzione.

La mia affermazione, scontata, che dice che il critico demolisce va riferita proprio al metodo. Non intendevo certo dire che il critico vuol demolire per il gusto di farlo, ma che questo è il metodo che il critico adotta.
E tu ne l'hai confermato pazientemente.

Abate
"Cosa c’entra e cosa significa, ad es., dire che per me «rivolgersi alle Muse» sarebbe «un venir meno alle proprie responsabilità»? A quali responsabilità ti riferisci?"
"Cosa significa questa frase che non capisco: « che servirebbe di non accontentarsi di reggere la penna, quasi potesse scrivere da sola lasciando il poeta tanto incolpevole quanto immeritevole?»"

Mayoor
Beh, questo è quanto avevo capito dalle parole che hai riportato di Fortini, un richiamo al senso di responsabilità, un certo dovere verso la conoscenza, per evitare l'approssimazione, l'improvvisazione, la faciloneria e le gratuite astrazioni. L'ho detto con parole mie, avevo capito male?

Mi sembrava, forse sempre per via di questo mio difetto di viaggiare su mondi paralleli, che dietro le parole di Fortini venisse indicata una teoria del "ben fatto". Se non è così, peccato. Mi ci sarei volentieri confrontato.

Abate
"E sempre meno c’è la possibilità che le nuove generazioni possano scrivere avendo ricevuto in eredità (come un tesoro non come un peso) quanto scritto dalle vecchie generazioni o dagli antenati."

Mayoor
Ci mancherebbe, ma sai quanta sete di buoni insegnamenti ci sarebbe?
Vedi? Sto già adottando il tuo metodo. Non vorrei farne un'abitudine perché così facendo, poi, chi tirerà le somme? Chi rimetterà insieme i mattoni del discorso per mostrare il chiaro e potente volto del palazzo?

Quanto al poeta-critico: confesso che non me l'ero mai posto questo problema, pensavo che il poeta esercitasse la sua critica già scrivendo, già mentre scrive, e che solo successivamente, proprio a volerlo fare, potesse tentare della divulgazione. Mi suona strano che il poeta possa generalizzare ( fare teoria) in quanto la sua arte lo riconduce obbligatoriamente a se stesso (questo se' è da prendere con le pinze). Ma forse fare critica è puntualizzare? Allora, mi vien da dire che una critica tra poeti dovrebbe essere altra cosa che la critica fine a se stessa.
Dovrebbe somigliare più ad un confronto.
Poeta e critico? Sì certo, è possibilissimo, ma mi sembrano faccende ben distinte. Uno ha il metodo di costruire e l'altro quello di demolire.
;-)

mayoor

Moltinpoesia ha detto...

"Poeta e critico? Sì certo, è possibilissimo, ma mi sembrano faccende ben distinte. Uno ha il metodo di costruire e l'altro quello di demolire" (Mayoor)

Mettiamola così: Se oggi il poeta (o l'uomo in generale) potesse vivere in armonia assoluta (o quasi) con gli altri uomini (società) e la natura non avrebbe bisogno né di costruire né di demolire alcunché.
E' una tale falsità che da secoli le religioni, le filosofie, le arti (poesia compresa) per rimediare a un mondo che nega in mille modi ogni possibile armonia, bellezza, convivenza pacifica, felicità, devono continuamente costruire dei, Dio, Essere Supremo (Ragione), mondi superiori (o infernali) o paralleli. Che diventano più o meno presto gabbie,
fanatismi, clausure nazionalistiche o comunitarie, gerarchie burocratiche, che fanno rinascere rabbia, insofferenza, voglia di distruggere e demolire.
I costruttori (tu dicevi i poeti) sono separabili
così nettamente dai demolitori (tu dicevi i critici)?
Ne dubito.
Mi pare arduo che uno passi tutta la sua vita esclusivamente a costruire e un altro soltanto a demolire.
Tutto avviene in spazi e tempi precisi.
Uno nasce dopo una guerra, ed è chiaro che la spinta a costruire prevarrà. Uno nasce nell'Italia attuale della deindustrializzazione, del degrado della politica, della "diddatura dell'ignoranza" (Majorino)
e mi pare più ovvio che gli venga la voglia di demolire.


Ennio Abate

mayoor ha detto...

demolire... me l'ero chiesto se fosse la parola giusta. Sarebbe stato meglio dire vivisezionare? Troppo dura... puntualizzare, precisare, chiarire, chiedere, insomma: criticare?
Qualcuno costruisce, altri criticano... oddìo, costruisce...me l'ero chiesto se fosse la parola giusta. Sarebbe stato meglio dire far nascere qualcosa dal nulla, aggiungere altro su ciò che è nato, inventare, cantare, saper scorrere, fluire, calpestare, guardare dal cielo, dalla terra e dal sottoterra, dare appuntamento ai tempi passato-oggi-e- fururo in un luogo, perdere la vista, osservare i microbi, gustare l'aria, avere freddo all'inferno, stringere la mano all'amore, uccidere bambini, masticare merda, profumare d'incenso, pilotare torpediniere, assemblare tutti gli alberi del mondo, diventare fiumi, dormire sull'everest, esplodere tra gli atomi, farsi inseguire dalle farfalle, oppure da un nugolo di parole sbagliate perché male interpretate?

La dittatura dell'ignoranza non sta già demolendo abbastanza?
Demolire... dovrei dire vivisezionare? Troppo dura... puntualizzare, precisare, chiarire, chiedere, insomma: criticare?
E che c'entra?

Vedo ora quanto male, quanti equivoci può provocare una parola sbagliata. Se sbagliata è la nascita della tragedia. Ora ci penso e riscrivo tutto quanto.

mayoor