venerdì 22 ottobre 2010

DISCUSSIONE
Se molti scrivono
perché pochissimi leggono
i libri di poesia
e pochi frequentano
i reading di poesia?"

1° INTERVENTO: GIUSEPPINA BROCCOLI

Tralasciando l’ambiente universitario, è difficile constatare un diffuso interesse a livello popolare per la poesia, quindi se ne potrebbe dedurre che anche nel XXI secolo la poesia rimane un interesse per pochi, quasi un’ attività intellettuale ancora elitaria.
Ma naturalmente va tenuta anche in considerazione la possibilità di altri percorsi di crescita: ad esempio io  mi sono avvicinata alla poesia da completa autodidatta (a parte qualche reminescenza dalla mia esperienza universitaria).
Dedicandomi alla lettura della poesia non mi sentivo una privilegiata, o intellettualmente una super raffinata, ma ero unicamente interessata all’universalità del sentimento umano e alla conoscenza dell’Altro, per potervi essere in comunione.
Sono partita dalla lettura di poesia come condivisione e sono arrivata, nel corso del percorso di maturazione,  alla lettura come strumento per acquisire consapevolezza. Ho cominciato a leggere da Mario Luzi a Sandro Penna,  da Amelia Rosselli a Patrizia Valduga. Ho impiegato quasi un anno per leggere la raccolta di Giorgio Caproni e relative critiche di Pietro Citati, Gian Luigi Beccaria, Italo Calvino, ecc… ed il risultato è stato che  sono uscita completamente impregnata di certi poeti.
Ho notato poi, che dopo certe letture, quando mi mettevo a scrivere, nella mente si ripresentavano quelle esperienze letterarie, tramite risonanze, echi degli autori che avevo assimilato e con cui più sentivo di condividere qualcosa.
Leggere poesie di altre persone, non solo di autori affermati, ma anche sconosciuti, ha contribuito ad un processo di arricchimento della mia interiorità, perché dall’assorbimento delle consapevolezze altrui e di epoche diverse, è scaturito uno stato di arricchimento lessicale, di ricerca stilistica, di continuo labor limae. Grazie a questo background, acquisito soprattutto in età matura, ho potuto potenziare la mia creatività e ho avvertito la possibilità di contribuire con qualcosa di veramente mio e, forse, anche diverso.
Per quanto riguarda i reading di poesia devo ammettere che mi piace più leggere nel raccoglimento intimistico, che ascoltare poesie lette davanti ad un pubblico.
Preferisco la lettura  a mente, nel rifugio domestico, che permette sia di scegliere il momento dell’ azione del leggere, sia di tornare più volte sulla lettura degli stessi versi. Credo che molti contenuti e certe sfumature di una poesia risultino difficili da cogliere in una lettura orale e che la lettura  a voce non sia mai adeguatamente affascinante quanto quella a mente.

3 commenti:

Anonimo ha detto...

Vedi Mayoor, se partiamo dall’idea che la poesia è una forma di intrattenimento, allora va bene. La mettiamo sullo stesso piano dello spettacolo e il reading di poesia va benissimo. Non ho detto teatro, ho detto spettacolo. Si stabilisce che la poesia è arte/intrattenimento e ok (tanto tutto oggi è spettacolo). Ma se partiamo dall’idea che la poesia è momento di meditazione, allora la cosa cambia. Arte/meditazione non si può fare davanti a un microfono perché diventa un’altra cosa.

“…senza nemmeno che ci si preoccupi del suono della propria voce”. Perché preoccuparsi della propria voce? Non sempre la voce che esce dalle corde vocali corrisponde al significato e alla tonalità delle parole scritte. Il Pathos è troppo importante in alcune poesie. Luci, rumori, temperature, il vicino di sedia che fa uno starnuto possono stravolgere tutto. O si è in grado di recitare come solo grandi attori sanno fare o la resa dei testi può essere seriamente compromessa. Mi sbaglierò!

Perché dici che la fatica è il sottoprodotto dell’opera d’arte? Mi sembra che la fatica sia il prodotto e non il sottoprodotto dell’opera d’arte perchè la sua realizzazione comporta parecchio travaglio interiore.

Giuseppina

Moltinpoesia ha detto...

AGGIUNTA A CURA DELLA REDAZIONE:
QUESTO COMMENTO PRECEDE QUELLO DI G. BROCCOLI

Ricordo la voce di Carmelo Bene che, pochi minuti prima dell'inizio, interrompeva il brusio degli spettatori nella sala del teatro dicendo "Tra pochi minuti incomincia lo spettacolo". Speaker oltre che artefice.
Questo per dire che la parola spettacolo non ha il senso di sminuire la rappresentazione, banalizzandola, ma al contrario è un termine decoroso e unificante per indicare tutte le forme di intrattenimento. Pensare che un reading di poesia non sia spettacolo, a mio avviso, è segno che si manca di umiltà... oppure che si vuol essere troppo umili demandando la responsabilità di quanto si è scritto alla sola arte, spesso senza nemmeno che ci si preoccupi del suono della propria voce. Quindi, più del problema se fare o no intrattenimento, direi che si tratta del venir meno del senso di responsabilità e del coraggio di mettersi un po' in gioco. Lo so che non è facile, ma un po' di impegno in questa direzione bisognerebbe incominciare a metterlo.


Se consideriamo che i reading sono quasi sempre anche la principale occasione per promuovere la diffusione di un libro di poesie, ne può derivare che anche il libro più bello si presenti con il volto della fatica. E si finisce con il vendere la fatica che, in definitiva, non è che un sottoprodotto dell'opera d'arte.
Basta andare su YouTube e riascoltate le letture di Ungaretti per capirlo, e poi confrontarle con.. che so, anche un Majorino, per capire quale sforzo di immaginazione serve per tornare alla resa del verso scritto.
Oggi continuiamo ad amare la poesia "A Silvia", ma allo stesso tempo amiamo Leopardi. Che c'entra l'autore con la poesia? C'entra e come.


Mi spiace davvero per aver saltato l'ultimo incontro, il tema era molto interessante. Pace, vorrà dire che capirò più avanti perché mai Fortini ce l'aveva tanto con l'ermetismo. Io tra l'altro ho avuto anche la fortuna di incontrarlo. Era un buon maestro, non per me che ero troppo giovane allora, ma ai poeti intorno a lui faceva sempre un grande effetto.


Mayoor

Anonimo ha detto...

Si suppone che chi scrive poesia abbia del talento. Il talento rende facile ciò che ad altri riesce difficile.
Non mi pare che Dante abbia mai fatto cenno alle sue fatiche di scrittore lamentandosene, eppure in quella sua operetta che tutti conosciamo, bene o male, di fatica deve averne provata molta, no?
Non così Leopardi: "talor lasciando e le sudate carte, ove il tempo mio primo e di me si spendea la miglior parte", ma è così ben espressa che si stenta a crederlo. Infatti la poesia "A Silvia" è stata scritta su una paginetta di quaderno, e contiene si e no quattro correzioni. Fa pensare che ci abbia messo si e no un'oretta per scriverla. Un'oretta per passare alla storia.
Parliamone di questa fatica: per me è la somma dei gesti esatti, in poesia come per qualsiasi altra arte, e i gesti esatti, curati, cercati, voluti con generosità... insomma il Lavoro, sono la componente magica che da forza all'opera. Senza quella miriade di pennellate, le opere di Van Gogh sarebbero forse delle sciocchezze? Forse, ma l'opera è nel lavoro che acquista forza. Il lavoro è la magia, è ciò che meraviglia, ma resta sottinteso quasi fosse un valore occulto. E personalmente preferisco che resti così, invece che lo si ostenti o che ce ne si compiaccia.

Quanto allo spettacolo è probabile che io mi sia espresso male, ma è certamente successo per ragioni di brevità. Certo, la poesia si completa nella scrittura, ma sono dell'idea che la voce sia una momentanea ri-scrittura. Poco importa che si abbia o no la voce allenata degli attori, importa che l'elemento vivo della presenza si faccia sentire almeno un po'. Durante i reading il pubblico non legge, ascolta. E' diverso. E' diversa la comunicazione. Dire, come ha detto la bravissima Luisa Colnaghi, che così facendo ci si abbassa a fare canzonette per me non ha senso, significa restare nella dimensione della scrittura in un contesto che di fatto è assai differente.

Mayoor