martedì 12 ottobre 2010

VERDEMELA di Mayoor

“Sai cos’è? Fanno così perché cercano di ottenere qualcosa.
Poi, dopo, si arrendono.”

La telefonata  che ascolto è rumorosa, di fretta. Una sbrigativa serie 
di ipotesi tutte volte al positivo, di frutta, ma troppo dolci.


L’architettura dei viali è mal riuscita, fanno meglio le ombre, il caffè
ma lo spazio tra le cose è pulito. C’è nell’aria un amorevole daffare montano.


Il senso gentile della decenza è nei figli mattinieri ancor nelle lenzuola. 
Ristrutturazione del capodanno duemila.  Strade interrotte, pochi pensieri
frenetici tecno pizzaioli. Null’altro, mi pare.


Forse più tardi una spoglia insalata di riso, la stramba versione acustica 
di Eric Clapton.  Camicie col colletto aperto, meridionali del nord-est
sudisti dell’ultimo piano, centinaia di persone gemelle che non si guardano.
Visite della finanza sui piatti coreani ancora vuoti.


Scrivere certe mattine è scartabellare. Nessuna parola liquorosa, troppe 
fette di sole. I semafori tutti rossi. 

“Non può mettere la moto qui”
“Un attimo, mi sta suonando il telefono...”
“Lo dico perché...”

Guardo guardo. Un piccione prende il volo.


Oh, come una stella del Louvre una ragazza si affaccia nella vetrina.
Guardo, mi guardate.  

Di qualcuno che passa si nota la suola delle scarpette tra i passetti rapidi. 
E’ verde.  

Il futuro dovrà pur cominciare da un colore. Un verde mela, ma finto
molto finto.

6 commenti:

Anonimo ha detto...

Giuseppe Beppe Provenzale ha scritto:

Gli occhi agli arresti domiciliari e le sinapsi carcerate dietro lenti tristi.
Il verdemela non esiste, ci sono tanti colori e tanti. Quello centrale del caleidoscopio di Mayoor é lui stesso e ciò dovrebbe renderlo felice. Scoraggiato dietro un'umanità che comunque possiede un futuro, magari lontano da strade disegnate male da alberi smarriti.

Poi le parole adiacente i vezzi della critica. Sintetiche:
Scrittura più sciolta che non in lavori precedenti, scorrevolezza di immagini rese in versi piani sulla soglia della rima.

Moltinpoesia ha detto...

Mi sono reso conto che scrivevo per un'umanità futuribile, una umanità più equilibrata e felice. Senza saperlo stavo snobbando il dolore, scrivevo quasi senza tenerne conto. Questo perché ritenevo che, grazie all'intenso lavoro introspettivo che ho fatto in questi ultimi vent'anni, bastasse dare testimonianza di ciò che è bello e che è possibile riapproppriarsi della gioia, del gioco, ma della fantasia, perché spesso il dolore deriva unicamente dalla miopia dovuta a nocivi condizionamenti. Ma questa gioia, che esprimevo anche con disobbedienti giochi verbali, di fatto non sapeva arrivare al cuore delle persone. Lo sentivo quando leggevo in pubblico.
Per tenere conto del dolore della gente dovevo necessariamente calarmici, diventare dolore io stesso, riprendere a pagare lo scotto di essere infelice.
Mi ha aiutato, in questa trasformazione, il confronto con gli altri, con i poeti e con il pubblico, e moltissimo ha fatto anche il lavoro decondizionante svolto con i miei compagni del gruppo di improvvisazione.
Va da se' che anche lo stile ne ha risentito. Più colloquiale, più comprensibile, mi pare. E' una questione per me d'amore, fare qualche passo indietro rispetto a me stesso, per solidarietà. Ci sto provando. Mi perdono qualche verso prosaico di troppo, ma è per farmi capire meglio. Tutto qui.
Grazie per il tuo graditissimo commento, Beppe.

Moltinpoesia ha detto...

azz... ho corretto solo ora un imperdonabile apostrofo. Ed anche questa mia risposta a Beppe Porvenzale è scritta davvero troppo di getto. D'ora in avanti starò più attento.

Anonimo ha detto...

Poesia che si finge prosa, secondo me, perché di una certa poesia conserva e mette in risalto il carattere estetico, tanto spesso chiuso in sé e sopravvalutato.
Un brano di telefonata. Ignoti restano quelli che cercano e poi non cercano più («si arrendono»).
Il filtro dell’io, che s’impone di leggere il mondo e giudicare solo mediante brevi, apodittiche affermazioni (soggettive): la telefonata è rumorosa e fatta in fretta, l’architettura dei viali è mal riuscita, lo spazio tra le cose è pulito, ecc.
Un affastellarsi di immagini quotidiane, quasi televisive, a zapping: strade, insalata di riso, camicie , meridionali, piatti coreani, un piccione. Senza nessi tra loro. Da contemplare? Da gustare?
Tutto il pensiero (implicito in queste immagini o preparato da queste immagini?) pare affiorare nell’ultima strofa :

Il futuro dovrà pur cominciare da un colore. Un verde mela, ma finto
molto finto.

Affermazione casuale, capricciosa, svagata. Com’è casuale la sua origine: la suola verde delle scarpette che suggerisce un futuro verde mela, ma «finto/molto finto».
Pare a me che il presente «finto», perché ridotto a frammenti acustici e visivi, non può che preparare questo futuro «finto/molto finto».

Ennio Abate

Anonimo ha detto...

Mi piace molto l’idea del parlare chiaro. Farsi capire, calarsi nel dolore, usare uno stile più colloquiale. Finalmente! Una poesia intrisa di prosa diventa più chiara, più aperta, più comunicativa, più autentica. La smette di starsene arroccata nell’incomprensibile e nell’inesprimibile per i pochi eletti. Ma chi sono questi eletti? Che lingua parlano? Hanno un cuore atomico? Il presente anche se intriso di mordi e fuggi e ridotto a schegge acustiche e visive, come dice Ennio, va reso compatto da noi stessi. Se continuiamo a dire che siamo frammentati e finti finiamo per crederci e cominciamo a imbrattare tutto di fango, invece cerchiamo di spargere petali di rose. Se diciamo che non abbiamo futuro finiamo per annientarci e distruggere. Diciamo piuttosto che abbiamo la bellezza dei buoni sentimenti dentro di noi e crediamoci. Sta tutto qui il gioco. Credo che abbiamo una cospicua dose di umanità all’alba della nostra età.
Giuseppina Broccoli

Anonimo ha detto...

A quanto pare sembra impossibile tentare una narrazione iper-realista che non contenga giudizio. Eppure questa poesia l'ho scritta sul tram, e poi passeggiando, mentre mi recavo ad un appuntamento di lavoro. Lo faccio spesso, a volte mi siedo all'ora dell'aperitivo al bar Lucas, vicino alle colonne di San Lorenzo, ascolto guardo e scrivo. Inevitabilmente molto di ciò che mi circonda finisce con l'entrare nella poesia, e spesso così come arriva... una telefonata, qualcuno che cammina.
Per la verità ricordo che in quei giorni ragionavo sull'insorgere di un colore prevalente, il verde (mela) appunto, come colore nuovo dopo i pastelli del post-moderno che sostituirono i colori primari della pop-art, che sostituivano a loro volta i marroni-grigi del dopoguerra e che erano partiti, forse, da Le Corbusier ( in sintonia con gli umori dell'epoca).
Ecco perché, nelle mie intenzioni, tutto il preambolo della poesia Verde mela voleva essere un tre-testo per giungere all'ultimo verso.
Tuttavia concordo con Ennio, non sono riuscito nell'intento. Infatti avevo postato questa poesia proprio perché mi sentivo incerto e speravo in qualche utile commento.
Dice bene anche Giuseppina, che ringrazio. Avevo tentato dei versi in prosa, non solo per mia personale curiosità di linguaggio, ma anche perché quel giorno mi sentivo depresso e incapace di volare.
Credo che scrivere partendo da come si sta vada sempre bene, anche quando ne viene poco, perché anche quel poco è una faccenda umana che si può affidare alla poesia. Poi magari la si butta. Infatti Verde mela, a meno che non la riprenda in considerazione un altro me diverso, è scesa di posizione anche nella mia classifica personale delle cose che ho scritto. Troppo cemento, troppa invadenza urbana, generano voci indistinte. E il poeta si fa sordo.

mayoor