giovedì 18 novembre 2010

CONTRIBUTI
Leonardo Terzo
Un garbuglio etico-estetico irrisolto
di Theodor W. Adorno:
“È serena l’arte?”

In piccolo (su questo blog) abbiamo cominciato a discutere di poesia e sofferenza. L’amico Leonardo Terzo ci ha suggerito di guardare più in alto e nel passato proponendoci la lettura di un brano di Theodor Adorno, intitolato "È serena l’arte?" (in "Note per la letteradtura 1961-1968", pp.273-280, Einaudi, Torino, 1976). Adorno, si sa, oggi è fuori moda, forse sconosciuto a giovani e anziani e poi richiede denti filosofici forti. Ma perché i moltinpoesia non dovrebbero nemmeno tentare di masticare la sua splendida prosa-pensiero? Lo ha cominciato a fare lo stesso Leonardo Terzo con queste sue osservazioni. E’ un invito a seguirlo. Mi scuso per il momento di non poter inserire il testo di Adorno, ma lo farò appena possibile. [E.A.]

Nel saggio “È serena l’arte?” (Note per la letteratura 1961-1968, Einaudi, Torino, 1976), l’arte, giudicata da Schiller (Wallenstein) e Ovidio (Tristia) come serena, in contrapposizione alla vita che invece sarebbe seria, è accostata da Adorno al tempo libero, mentre la vita è accostata al tempo del lavoro. Dunque fatica contro divertimento, serietà contro distrazione. Sono soprattutto sfere divise. Ma anche disimpegno che contraddice il reale, o ristoro per rinnovare le energie lavorative. Secondo Adorno, Hegel sarebbe stato il primo a dire che l’arte non è un giocattolo utile o piacevole.
A mio parere, la differenza di base che permette di caricare la contrapposizione con valori di diversa natura, è quella tra realtà e finzione, (i romantici preferivano “immaginazione”), molto temuta per esempio da Platone e dai Padri della Chiesa. L’idealismo tedesco sarebbe infatti il primo a redimere invece l’immaginazione come speculazione inventiva, da re-impiegare nel mondo. In Inghilterra è la differenza ideologica fra novel realistico e romance fantastico: entrambi aspirano a intervenire nel mondo, l’uno sottolineando la base di realtà su cui impegnarsi, l’altro immaginando prospettive oltre la realtà.
Secondo Adorno, forse l’arte sopravvive nello svolgere un compito di contraddizione del reale, proprio perché è piacevole. È la mia teoria del piacere come una pallottola, senza il quale l’opera d’arte sarebbe una pistola caricata a salve. L’immaginazione, come speculazione filosofica, prima appare diversa dal piacere, inteso come superficialmente edonistico, ma poi il piacere si mischia alla scoperta creativa, e l’estetica diventa una filosofia che esplora una facoltà umana fatta di sensibilità, dimensione formale e “immaginale” del pensiero stesso. (Vedi il libro di Silvana Borutti, La filosofia dei sensi, Cortina, Milano, 2006.)

Secondo Adorno l’essenza dell’arte consiste nella capacità di contraddire la realtà con la mera esistenza. Poiché la realtà è fondata sulla finalità, l’arte, a partire da Kant, si porrebbe una finalità senza scopi. Poiché la finalizzazione è una legge e una costrizione (principio di realtà per Freud), questa mancanza di scopi dell’arte è il suo scopo di testimonianza, per una libertà (dagli scopi della realtà) dentro la non libertà del reale. Così la sua semplice esistenza diventa una promessa di felicità, in termini di mancanza di costrizione.
Comincia qui a delinearsi ciò che poi è diventata la filosofia della differenza: dalla divisione tra lavoro e tempo libero a quella tra costrizione e libertà, a quella tra finalità e assenza di scopi, ovvero utilitarismo e non utile, tra economia di mercato ed economia del dono. La contraddizione sta nel fatto che il non utile e la differenza hanno un’utilità proprio per questo, come testimonianza dell’alternativa e della differenza. La contraddittorietà esibita diventa piacere, come utopia di una libertà dall’utile, dalle costrizioni e dalle finalità.
Poi però - sempre che io capisca bene - la serenità sarebbe per Adorno il distacco, in quanto finzione, dagli orrori o dalla violenza della realtà, di cui pure la serenità dell’arte rende testimonianza. La serenità non è un eventuale contenuto nobile e ideale, ma proprio il fatto di non essere la realtà, perché la realtà sarebbe di per sé “animalesca”. “Col chiamare la sventura per nome, l’arte crede di attenuarla.” (p. 274) Questo distacco o astrazione per Schiller sarebbe la qualità ludica (altro modo di chiamare la finzione). Questo gioco o distacco o finzione sarebbe però anche la sua serietà, o il suo modo di essere seria, probabilmente perché è appunto in tal modo che svolge il suo compito di arte. La finzione attenuerebbe ontologicamente la realtà de-realizzandola, ma anche perché inciderebbe sulla coscienza.
Questo venire alla coscienza (per usare un tic linguistico di Heidegger), a dire il vero però, non è solo dell’arte, ma di qualsiasi pensiero cosciente. Forse Adorno vuole dire che il venire alla coscienza per invenzione o finzione e astrazione è più “astratto” del pensiero “normale”. Infatti dopo dice che “l’arte come la conoscenza riceve tutto il suo materiale e in definitiva anche le sue forme dalla realtà, e precisamente dalla realtà sociale, per trasformarle...” entrando così nelle sue (dell’arte) inconciliabili contraddizioni. La prima contraddizione sarebbe il fatto che la finzione rappresenta la realtà, ma non lo è. Un’ulteriore contraddizione sarebbe anche data dalla compiutezza formale della rappresentazione dell’inconciliabilità delle cose rappresentate. Insomma la bellezza non sarebbe solo un fascino che agisce sui sensi, ma un fascino che agisce attraverso una conoscenza sensibile, dando anche alla conoscenza una sorta di armonia che, dal punto di vista logico. non ha. L’attorcigliarsi di Adorno sta nel dire che la consonanza è dissonante rispetto alla dissonanza: “l’armonia... proclama la dissonanza nei confronti del dissonante...” (275). La tensione tra la serenità e la realtà sta nell’essere serena richiamando ciò che sereno non è. Serietà sarebbe l’essere sereni nella forma retorica della litote: invece di dire “bello” dice “non brutto”. Per cui il significato è “bello”, che non viene nominato, ma si fa presente anche il “brutto” perché viene nominato. Il rapporto funziona però al contrario: è la serietà del brutto che diventa bella e serena, per esempio in Beckett. (Mi verrebbe da dire: ma va là! Ma no lo dico)
Un atteggiamento intenzionalmente e semplicemente sereno, senza gli attorcigliamenti suddetti, sarebbe per Adorno il prodotto dell’industria culturale e quindi oppio per le masse, perché prescrive agli uomini di “stare al passo”, cioè sarebbe “livellata sul bisogno degli uomini” e quindi “tradisce il suo contenuto di verità” (276). Questo è un modo di menzionare la “verità” come lo intendevano i romantici autentici come Shelley, e come lo intendono i cascami di romanticismo fuori tempo di oggi. Un’arte di “natura affermativa” è per Adorno “la maschera ghignante della pubblicità. Sic et simpliciter”. La comicità che una volta, per esempio in Aristofane, era immagine di umanità, “si è deturpata a diletto rumorosamente conformista”.(277)
L’arte come bene di consumo sarebbe sintetica e falsa, per questo non può essere vera serenità. Secondo Adorno, dopo Auschwitz l’arte serena è cinismo. Baudelaire, Nietzsche e George l’avevano già capito prima della catastrofe con la rinuncia all’umorismo, valido ancora solo nella parodia polemica, dove diventa inconciliabile. Il ridicolo indubitabile del fascismo e di Hitler non farebbe ridere, perché le loro scempiaggini (che di per sé farebbero ridere) non sono separabili dai loro discorsi assassini. E questo può essere plausibile.
Ma Adorno si attorciglia ulteriormente: poiché la serenità dell’arte consiste nel liberarsi della semplice esistenza (?), come fanno le opere disperate, in esse il momento di comicità non viene espunto, ma “sopravvive nella loro autocritica, come comicità della comicità” (278). A sua volta la categoria del tragico si affida completamente al riso come in Beckett, che liquida così ogni umorismo consenziente. Nei lavori di Beckett ci sarebbe “il riso sulla risibilità del ridere e sulla disperazione.” (279)
Nell’arte moderna ci sarebbe l’estinguersi dell’alternativa tra serenità e arte, tra tragicità e comicità, tra vita e morte. Prima l’arte esprimeva la scissione tra la felicità della vita che prosegue e la sciagura. Ora l’arte nega questo passato. Ma - e di nuovo non si capisce perché - può essere tanto conciliazione quanto orrore. Tanto nausea per la pubblicità positiva a favore dell’esistenza, quanto rifiuto dell’immutabilità del dolore. Non le è permesso essere gioia nel dire la tristezza, cioè raggiungere la serenità rappresentando la serietà o tragicità della vita. Questo perché la gioia ha perso il contenuto di verità. Ma a questo punto Adorno dice che anche l’arte sarebbe stata seria, oltre che serena, e per l’ennesima volta non si capisce perché. A questo punto così i generi si mischiano: la tragicità appare comica e la comicità desolata. La dialettica negativa non funziona più. L’arte va verso l’ignoto, non è né serena, né seria, circondata dal nulla.
A mio parere qui Adorno ha troppo abusato dei giochi contraddittori della dialettica negativa, e si è arenato dove non sa più come risolvere i nodi che lui stesso ha ingarbugliato. Tutto parte dal rifiuto di accettare che anche per Auschwitz si possa andare oltre. In ciò proprio negando la dialettica negativa, perché il negativo del male è il bene. Invece dal male di Auschwitz Adorno non vuole o non sa uscire.
La serenità dell’arte, come abbiamo visto, si rifà al distacco insito nella finzione: una poesia su Auschwitz non è Auschwitz (sia che sia contro sia che sia una poesia nazista a favore dello sterminio). La rappresentazione, anche non artistica, per esempio storica, è positiva, perché fa capire. Il piacere che Adorno teme dall’arte sembrerebbe mero edonismo, ma il piacere dell’arte è altro - e questo è il nucleo del problema -, ed è il piacere del comprendere. La catarsi non è liberarsi della pietà e della paura per non pensarci più e fischiettare allegramente. Al contrario è non soccombere alla pietà e alla paura per saper opporsi ai nuovi possibili Auschwitz. Il piacere della comicità non è stupidaggine e intontimento, anche se la comicità può essere degradante e cattiva, ma investimento dell’interesse conoscitivo. La comicità non è solletico o altro piacere “animalesco”, per usare un aggettivo di Adorno, che egli riferisce alla pubblicità consumistica. Invece è, per lo meno, retorica, magari ingannevole come quella di Menenio Agrippa.
Ma la pubblicità consumistica, come pure la propaganda nazista, va smontata con argomenti logici, e anche eventualmente con rappresentazioni estetiche, avendo la forza di misurarsi sul campo della dialettica politica ed etica, nel caso dell’arte trasformata in poetica, e non rifiutando di scrivere poesie. La poesia brutta, come pure la poesia nazista, va riconosciuta come brutta e nazista, ma resta “tecnicamente” poesia. Adorno invece vuole impedire la produttività e la creatività poetica, a prescindere, regredendo per altra via ai timori di Platone e dei Padri della Chiesa, perché pensa che solo il dolore può parlare ed esistere dopo Auschwitz. Il che significa regalare tutta l’arte al male. Inoltre la cosiddetta “verità” idolatrata da Adorno sarebbe etica della sopravvivenza e perciò, secondo lui, negata per sempre all’umanità dagli orrori nazisti. Al contrario dei poeti romantici, che trovavano, magari illusoriamente, nella poesia proprio il contrario del male della realtà, egli fa soccombere la poesia di fronte al male.

5 commenti:

Anonimo ha detto...

Questo contributo di Leonardo mi aiuta molto a capire gli aspetti dell'arte che ci hanno tanto mosso l'animo in questi ultimi giorni." Il piacere del comprendere, la catarsi non è il liberarsi ma il non soccombere" trovo questo pensiero di grande valore. Per quanto riguarda la comicità nel tragico e viceversa, non ho potuto fare a meno di pensare alla satira,la satira :dal dolore al comico, non soccombere, pulire l'animo e qui vedo la serenità, ma la vedo anche nell'uso dei colori e nelle forme quando l'artista esprime correlazione tra la sua arte e il suo stato d'essere, abbandonato in tempo prima di soccombere ad esso. L'aver vissuto sentimenti dolorosi o non, è di tutti, ciò che importa veramente nell'arte della poesia, penso che sia l'intuizione e la sensibilità dopo aver compreso ciò che accomuna il poeta con tutto il resto del mondo, ma questo è il mio piacere che io esprimo a volte in maniera scorretta ma che mi sorregge ogni volta che sento la necessità di capire meglio e di continuare. Vorrei chiedere ai critici, quando lo vorranno e visto l'argomento trattato, di portare qualche contributo teorico sulla satira che penso sia una delle massime espressioni di serenità nella sofferenza . CIAO E GRAZIE A VOI!
EMILIA

Anonimo ha detto...

Cara Emy,ti incollo l'indirizzo del mio vecchio sito
http://web.tiscali.it/teleo/
clicca sulla mia foto al centro e si apriranno i titoli dei vari settori. Il primo a destra è intitolato "Taccuino accademico", clicca lì e verrò fuori un elenco di pezzi che ho messo tra il 2001 e il 2003.
Il primo dice che cos'è la satira. Il quinto è intitolato invece "Cultura, destra e sinistra" un argomanto tornato recentemente d'attualità.
L.

Anonimo ha detto...

Costrizione, libertà, serenità, non realtà, finalità, assenza di finalità… dopo Auschwitz può parlare solo il dolore perchè la poesia crolla di fronte al male…. Ma, allora, la poesia esiste o non esiste? È un’altra menzogna inventata dall’uomo soltanto per non vedere certa realtà? Concludo che la poesia è menzogna e può andare bene soltanto per la pubblicità.
Giuseppina

Anonimo ha detto...

Cara Giuseppina,
spero che il tuo commento non sia il tuo reale pensiero, ti dico questo perchè io ho pensato di piantare lì tutto con la poesia ma non ci sono riuscita essa
è con me in ogni istante . Scrivevo da sola e leggevo da sola,intorno a me nessuno condivideva questo mio interesse . Le tue poesie sono molte belle e spero di leggerne ancora. per quanto riguarda il contributo di Leonardo , è un pensare che lascia un po di amaro in bocca , sono certa che Leonardo porterà altri esempi di ugual valore, comunque tutto è utile per guardarsi dentro e per amor di poesia. Ciao bnotte Emilia.

Anonimo ha detto...

Ennio Abate

@Giuseppina

Non mi pare che la (troppo famosa) frase di Adorno che dichiarava l'impossibilità della poesia dopo Auschwitz debba indurre a una resa e al rifiuto della poesia.
E perché poi soltanto della poesia e non delle scienze, delle filosofie etc. che ad Auschwitz ( e alle sue repliche sotto altri climi e paesaggi)contribuirono e contribuiscono?
Non ha senso una sorta di "sciopero" della poesia o dei saperi per protesta contro un dominio assassino.
E neppure un eventuale suicidio di massa dei giusti, molto più drastico, no? Sarebbe la vittoria assoluta degli ingiusti.
Semmai quel monito di Adorno deve indurre ad essere meno compiacenti con la poesia e i saperi che, come diceva Marx, si riducono solo a infiorare le catene che i dominatori impongono ai dominati.
"La poesia è menzogna"? No, la poesia è finzione, come ho sottinieato nei post su COS'E' LA POESIA? dedicati a Fortini. E' ambigua, a doppia faccia. Quella compiacente e servile e quella attiva e "promessa di felicità". Sta a noi tener conto della sua ambiguità e non accontentarci mai né della perversa gioia di essere servi né della perversa presunzione di essere già liberi sol perché scriviamo poesia.