lunedì 8 novembre 2010

DISCUSSIONE
Rilanciando sul caso Merini:
No alla sofferenza produttiva
No al populismo televisivo









Commento di Ennio Abate 
(Cfr. in questo blog anche COMMENTI
L'ape furibonda
omaggiata e punzecchiata)


@ Emilia Banfi

 1. «La sofferenza dell'indigeno non produce poesia, essendo egli un indigeno ma la potrebbe produrre in chi lo vede soffrire».

Per me non la produce mai. La poesia nasce quando la sofferenza dà tregua, non grazie alla sofferenza. Smettiamola con questa visione della sofferenza che produce.
La sofferenza è sofferenza e produce  negli altri soltanto sofferenza o  istintivo distanziamento o cinismo. Solo una Maria Teresa di Calcutta, in base alla sua fede cattolica e all’esaltazione della Croce e della sofferenza di Cristo, può “amare” la Sofferenza (e magari anche alcuni sofferenti) e costruire una ambigua “macchina per alleviare la sofferenza”. Ambigua perché pienamente inserita nel sistema (che io chiamo capitalistico) che – non dimentichiamolo – produce progresso tecnico e scientifico ma anche grandissime sofferenze, fino alle guerre. Questa “macchina per alleviare la sofferenza” ha aspetti dannosi quanto il sistema (per me il capitalismo), ma gode del velo nobilitante dell’umanitarismo.
Chi si sente di dire evviva la morte per fame, evviva le bombe sugi civili, evviva le guerre? Quando qualcuno va però a guardare meglio cosa produce la "macchina per alleviare sofferenza" che convive con la macchina che produce fami, miseria e guerre, scopre gli scandali anche della finanza vaticana, le manovre troppo disinvolte del Santo padre Pio con i suoi ospedali etc,  il parassitismo delle ONG o delle confraternite-cooperative lombarde di Formigoni e delle stesse “cooperative rosse” che, mentre alleviano (in parte) la "sofferenza" s'ingrassano e ci sbafano pure.

2. Vabbé, basta che la riconosci «determinante».

3.  Io risponderò a tutte le tue domande, ma  teniamo i piedi per terra. Il Laboratorio Moltinpoesia
(per il momento o per sempre?) non è una Scuola. Non ha cioè la solidità economica, teorica, gli obiettivi chiari, una proposta verso  l’esterno che una Scuola ha o dovrebbe avere. Il rapporto tra noi non può essere di Maestro-i/ Discepoli-e, ma - direi – di ricercatori-ici  che confrontano tra loro i loro pezzetti di "verità" o opinioni. Certo, che bisogna cercare anche al di fuori di noi  interrogando come tu fai la parrucchiera o il ragazzo del bar. Ma basta, per carità, con la retorica delle «persone semplici». Nessuno lo è. Noi etichettiamo come «persone semplici» quelli  che  fanno mestieri “non intellettuali” e soprattutto persone che conosciamo poco (che, solo perché poco sappiamo di loro, ci sembrano semplici).

@ Giuseppina Broccoli

Il lato terapeutico o autoterapeutico delle arti (o della poesia) è un elemento  enfatizzato negli ultimi tempi soprattutto da  certi psicanalisti e certi medici. Io non sono certo che ci sia. Ma basta crederci e certi effetti  si creano. Nascono così laboratori di terapia basati sulla musica, sul colore, sul narrare, ecc.   Producono, come giustamente tu dici, del «materiale». Anni fa ho visto a Bergamo una bellissima mostra di dipinti (ossessivi, conturbanti) fatti da pazienti che erano stati reclusi nei manicomi.
Non saprei dire con certezza se davvero  avessero tratto benefici dipingendo.  Né saprei dire con certezza se quella è arte o non arte. Perché non esiste ancora o non si è sufficientemente consolidata una critica capace di giudicare questi fenomeni con l’intelligenza necessaria. È lo stesso problema che abbiamo con i tanti che scrivono poesie (secondo loro) o simil-poesie (secondo altri) o con casi come questo della Merini.
Il profluvio di scritti suoi,  fatti passare per poesie, lo è davvero? È stata davvero «poetessa» o soltanto o soprattutto «la donna bisognosa»? Io (non so Terzo) sono incerto, ma non ho escluso che Merini sia stata poetessa. Ho detto, invece, che il giorno in cui potessi avere il tempo per leggere i suoi scritti, andrei a cercare la poesia dove meno si fa sentire la Follia o la Sofferenza.
Perché invece   a tanti, anche con una ben vigorosa spinta di TV e mass media, piace la Merini proprio come esemplare di poetessa nella cui opera o nella cui vita la poesia si confonde o viene confusa con la follia (cos’è la poesia un po’ lo sappiamo, cos’è la follia lo sappiamo molto meno), è un problema.
Questi tanti si “immedesimano” più facilmente con  una poetessa che parlava “semplice” e non con Majorino che  è un poeta che parla “difficile”? Ma “immedesimarsi” basta? È una buona cosa? Giova a capire l'eventuale poesia di un testo?
Incoraggiare questa ”immedesimazione” e commercializzarla è una buona cosa, avvicina la poesia alla “ggente” e l’allontana (giustamente?) dalla poesia dei “pallidi intellettuali” (Mayoor)?
È il segno di tempi nuovi, di una democratizzazione  anche della poesia o un segno di degrado culturale, di «dittatura dell’ignoranza» (Majorino)?
Ripeto: che il successo della Merini « sia stato decretato proprio in un’epoca di crescente degrado culturale» (e politico) a me da molto da pensare. Soprattutto guardando in faccia quelli che tale successo l’hanno decretato (mass media e grandi case editrici ad essi collegate).
Hanno scelto della Merini reale  proprio gli aspetti patetico-folli-bizzarri  o tipici della «donna del popolo dal grande cuore» che più s’adattano al loro  perenne teatrino e permettono di proseguirlo.
Il fatto che anche a  te piaccia «quel suo traboccante sentimento», che credo tu trovi nei suoi testi, trascurando quanto sia anche effetto enfatizzato e messo in primo piano da TV e mass media, è il segno della tua e nostra parziale sottomissione al populismo televisivo.
Vox televisiva è ancora vox populi?


7 commenti:

Anonimo ha detto...

Caro Ennio,

certo la parola sofferenza l'abbiamo usata spesso, ma si parlava della Merini e la sua vita è stata tutta sofferenza. Mi rendo conto certo, ci sono altri tipi di sofferenze, non amo la sofferenza come non amo gli eroi ma di tutto ciò la poesia ne è piena. Per quanto riguarda la parrucchiera, il ragazzo del bar hai ragione, definirli semplici è stato un mio grossolano errore ma tu mi avevi fatto una domanda talmente chiara che sottolineava la differenza che c'è fra i frequentatori della Palazzina e le categorie su esposte. Domande spero di non doverne più fare anche se tutto ciò che ti ho chiesto era per me davvero importante le tue risposte e non solo le tue mi hanno obbligata a riflettere e a capire di più, mi sono resa conto di avere a che fare con persone con conoscenze vastissime e vi assicuro che non è facile trovarne oggi, e se la "dittatura dell'ignoranza" non avesse da scontrarsi con la sapienza io non vi avrei posto nessuna domanda.
Comunque grazie . Ennio per quanto riguarda l'indigeno resto del mio parere anche se mi rendo sempre di più conto che la poesia è soprattutto intelligenza.Ciao Emilia

Anonimo ha detto...

Sofferenza e poesia, di Leonardo Terzo

La sofferenza sta in rapporto con la poesia come qualsiasi altra materia. Il problema non è se la sofferenza possa produrre poesia, ma in che rapporto sta qualsiasi argomento (quindi anche gioia, odio, erudizione, nazismo, ecc.) con la poesia. Nessun argomento di per sé è in grado di produrre poesia. Se voglio dire a qualcuno la mia sofferenza, posso fargli una telefonata, scrivergli una lettera, scrivere un trattato.

Se invece scrivo una poesia, è perché alla sofferenza che provo in quella situazione voglio dare espressione in una forma in versi. Qui si dirama un’ambivalenza:
1.Scrivo una poesia usando la sofferenza che sento come un pretesto per ricamare un messaggio la cui forza poetica è il vero scopo (sono un poeta o no?);
2.Scrivo una poesia per dare alla sofferenza una forma più efficace e quindi comunicarla meglio. Altri direbbero in modo più vero, o più finto (inventivo), o più profondo, o più superficiale (mi diverto pure), o più intenso, o più bello, è lo stesso. In questo secondo caso i versi hanno la stessa funzione di un utile spot pubblicitario per diffondere il contenuto di sofferenza.

Di solito le due cose all’atto della produzione non sono chiaramente distinguibili, ma è sempre possibile cercare di fare la distinzione, se l’autore ne ha coscienza e lo ritiene.

Per vedere come è complicata la questione (…tra il danneggiato e l’assicurazione…) i più sofisticati possono leggere il saggio di Adorno: “È serena l’arte?” ( in Note per la letteratura 1961-68, Torino, Einaudi, 1979), dove l’autore si attorciglia fra le due ipotesi.

Anonimo ha detto...

Non voglio più farmi domande.
Mi sembra d'aver capito che l'autore di una poesia ha per compito (termine davvero massacrante)il dover attendere che qualsiasi sentimento passi perchè così non influirà sulla tecnica e su ciò che sta producendo tenendo sempre ben conto(altro termine massacrante)che la sua poesia deve essere POESIA.
E' chiaro e ci voglio provare. Ve ne ho già mandato un esempio con la poesia "Verità".Non so se ci sono riuscita ma ci ho provato.Ciao Emilia
e grazie Leonardo

Anonimo ha detto...

Cara Emy, io credo piuttosto il contrario. I sentimenti mettono in moto i versi, ma se sono mosso a scrivere versi, invece di confidarmi con le amiche, è perché sono un poeta. Ai sentimenti non si sfugge, sia che io sia un poeta, sia che non lo sia. Ma provare sentimenti non mi fa essere poeta. I sentimenti ci sono sempre, i poeti no.
L.

Anonimo ha detto...

L'opera d'arte offre allo spettatore la possibilità di considerare qualsiasi stato d'animo, quindi anche il dolore, grazie al fatto che l'artista ha saputo esternarlo. Nell'opera d'arte ciò che viene esternato diviene oggettivo, cioè privo di personali ed emotivi coinvolgimenti e quindi può essere considerato diversamente, può essere osservato, contemplato, ascoltato, compreso. Non lo dico io, lo disse il filosofo Severino ad un meeting (presente anche Cacciari) dove si parlava della morte.
Inoltre, chiunque abbia fatto una minima esperienza di bioenegetica dovrebbe sapere che tutti i sentimenti possono essere tradotti in atti creativi. Danzare la tristezza, la paura, ma anche la forza, l'amore, è possibile. Facendolo ne possiamo osservare l'umana bellezza.
Capisco che possa far sorridere, questa del danzare è certo l'ultima cosa che una persona ragionevole farebbe sentendosi triste, ma provate e poi magari se ne parla.
Il fatto è che le emozioni chiedono in primo luogo di essere vissute, espresse, e non raccontate o descritte. In breve, le emozioni ci tolgono creatività. Ecco perché è difficile esternarle in arte mentre vengono vissute.
Esprimere le emozioni artisticamente comporta automaticamente che se ne venga fuori perché l'azione d'arte attiva l'osservatore che è in ogni artista mentre crea, e l'osservatore ha una sua qualità contemplativa che ne esclude il coinvolgimento.
Accade anche scrivendo che si inizi una poesia con tristezza e la si finisca in modo consolatorio, o viceversa. Cosa accade dunque mentre si scrive? Accade che si attiva un processo alchemico tale per cui l'autore si trasforma insieme all'opera o, se preferite, seppur provvisoriamente, che l'opera trasforma l'autore.
Inoltre, le emozioni, prima ancora d'essere definite e comprese, sono da intendersi come energia vitale (libido). Se così intese non necessitano di particolari narrazioni biografiche, qualsiasi cosa arrivi andrà bene, ma sarà la libido a dare sostegno e forza.
Sia chiaro che non sto sostenendo che si debba scrivere emotivamente. Il poeta è anche il primo lettore di se stesso, intendendo per lettore quell'osservatore estraneo di cui parlavo sopra. In purezza l'osservatore è neutro.
Non so quanto c'entri tutto ciò con la Merini, se era un pretesto per parlare della sofferenza credo sia più giusto cercare di essere diretti.

mayoor

Anonimo ha detto...

Alla tua domanda: “È il segno di tempi nuovi, di una democratizzazione anche della poesia o un segno di degrado culturale, di «dittatura dell’ignoranza» (Majorino)?” mi sento di rispondere che è segno di degrado culturale. Ha ragione Majorino. I mass media individuano la preda, ci lavorano su per benino e gli stolti ci cascano! La TV e i media non hanno niente a che fare con quanto penso del caso Merini e non credo affatto che Vox televisiva sia ancora vox populi. È vox di certo tipo di popolo. Per quanto riguarda <> mi riferisco al sentimento di rabbia che covava nel suo cuore. È camuffato benissimo nei suoi testi, si spaccia per amore, per pietà, per miseria ecc…ma è soltanto rabbia. E la rabbia è una grande macchina motrice perché non è altro che dolore. Questo è il nocciolo della questione, il dolore che circola nella società che tu menzionavi. Mi sono chiesta se scrivesse per esprimere la sua sofferenza o lo facesse per pura passione.
Francamente, non so rispondere.
Giuseppina

Anonimo ha detto...

L'espressione della Merini che sia per sofferenza o per pura passione, ha dato un risultato abbastanza buono, anche se non in tutto ciò che ha scritto.Lo stato d'animo fa la differenza e come....ogni artista secondo me è complice o vittima del suo stato d'animo, poi
la competenza sarà ciò che lo farà trionfare, ma in tutte le opere che produrrà si troveranno i suoi sentimenti, il suo stato d'essere cosa che a me piace tanto scovare. Un artista che però dipende molto dai sentimenti dovrà sicuramente faticare molto di più nella finzione , ma comunque anche la finzione a lungo andare perderà la sua validità.Ciao Emy