sabato 13 novembre 2010

CONTRIBUTI
Ennio Abate, Commento a
Fortini CHE COS'E' LA POESIA?
Terza e ultima puntata







In quest’ultima puntata sull’intervista a Fortini Cos’è la poesia? partirò da una riflessione sui post dedicati alla figura di Alda Merini e a sofferenza e poesia (Cfr. COMMENTI L'ape furibonda omaggiata e punzecchiataDISCUSSIONE Rilanciando sul caso Merini: No alla sofferenza produttiva No al populismo televisivo DISCUSSIONE Sofferenza è/e poesia?).
Che sproporzione d’attenzione! Tanto sono state vivaci, numerose e quasi incontenibili le prese di posizione sulla Merini e su sofferenza e poesia, tanto invece scarse e striminzite quelle sull’intervista a Fortini. Sintomatico, direi degli orientamenti dominanti oggi non solo nella Poesia Ufficiale ma anche tra i moltinpoesia. La poesia o è lirica o sembra non essere poesia, proprio come  diceva Fortini nell’intervista.
Sintomatico pure del fatto che molti (troppi) nella poesia cercano  qualcosa e altri (pochi in realtà) cercano altro. Detto più direttamente e quasi brutalmente:  troppi inseguono nella poesia l’io, che sarebbe il luogo dell’intuizione, dell’ispirazione e quindi dell’accesso privilegiato, immediato e quasi esclusivo alla vita, ai sentimenti “eterni”, al mistero e persino a Dio; pochi puntano a usare la poesia come strumento di conoscenza (diverso però da quello più razionale delle scienze) da parte di un io/noi (non monade, ma in relazione o in tensione con altri/e) e che quindi richiede un distanziamento dalla vita, dalle emozioni, dal mistero per costruire oggetti estetici, diversi da quelli pratici ma capaci pur essi di aiutare a pensare se stessi, gli altri, la società, la storia, il mondo con maggiore libertà, fuori per quanto possibile da ogni schema ideologico imposto (religioso, politico, filosofico). È stato per far conoscere e discutere questa seconda concezione della poesia che avevo proposto l’intervista a Fortini, che mi era  parsa importante (tanto che ci ho scritto sopra ben tre post) e credevo potesse meritare ben più riguardi.
Come mai allora il dibattito nel Laboratorio ha preso una certa piega “sentimentaloide” e giustamente Leonardo Terzo si è lamentato che sia caduto «sempre più giù»?

Era così difficile capire che non si trattava di confrontare Merini e, che so, Leopardi per stabilire chi dei due abbia sofferto di più, ma eventualmente per valutare chi dei due sia stato più poeta e perché? Perché si stenta ad ammettere  che il filo  esistente tra sentimento e poesia (o realtà e poesia; o vita e poesia) non è mai immediato, ma soltanto indiretto; e che si spezza (anzi si deve spezzare) perché il contenuto  prende la forma poetica e non è più quello di prima?

Eppure credevo di essere stato chiaro, quando nella seconda puntata di riflessione su Che cos’è la poesia?avevo scritto: «Il sentimento non è di per sé poesia. Non è neppure u  pozzo privilegiato a cui attingere più facilmente poesia. Tirassimo su secchiate di sentimenti (in sfoghi diaristici, in colloqui con l’amico o l’amica del cuore), quando questi vengono poggiati sul terreno della poesia, diventano un’altra cosa. Ci troviamo di fronte innanzitutto a delle parole, disposte in versi. Sarebbe sbagliato atteggiarsi di fronte  a questi oggetti come fa l’amico che riceve una confidenza o lo psicanalista che raccoglie nel suo studio il racconto  di un trauma».

Aggiungo ancora. Una poesia “che parla di un barattolo”  (Cfr. DIZIONARIETTO MOLTINPOESIAEmilia Banfi Il barattolo) accende «un segnale preventivo, una luce rossa che annuncia "qui poesia"»(Fortini, intervista). E si distingue così da un qualsiasi altro scritto in cui pure si parla di un barattolo, ma che non accende tale segnale. Ma non parla di un barattolo? Sì. E non parla di una donna  sui sessant’anni che non crede più ai miracoli promessi dalla cosmetica e c’ironizza su? Sì. Ma contemporaneamente: «la poesia parla di qualcosa e nello stesso tempo parla di se stessa», della poesia cioè (Fortini, intervista). E perciò chi a sua volta legge o commenta  una poesia dovrebbe portare l’attenzione sul linguaggio e sul fatto che «il linguaggio poetico è uno spazio chiuso su se stesso nelle singole opere, è una identità, un perenne ritorno di elementi: […]la presenza costante della ripetizione, del raddoppiamento, del ritorno, del parallelismo […] e naturalmente poi c’è tutta una serie di livelli che va dalle scelte lessicali, alle figure foniche e ritmiche, allo svolgimento tematico, all’argomento, alle referenze ideologiche che vi stanno intorno, etc.» (Fortini, intervista).
Persino gettando un’occhiata superficiale,si vede, ad es., l’insistenza nella poesia di Emilia della rima (magìa-volerà via; seccare-invecchiare; dorato-mozzafiato; ecc). Sono questi (e altri elementi) ai quali dovremmo innanzitutto prestare attenzione prima di passare al resto (biografia, ideologia,storia, ecc.) altrettanto importante, se vogliamo essere un Laboratorio e non un circolo salottiero di amici che si  fa complimenti a vicenda.

A cosa può servire allora una discussione come questa su Merini e sofferenza e poesia  che ha avvicinato pericolosamente poesia e sofferenza (o follia) fin quasi  ad identificarle o confonderle, fino a farmi sospettare che si volesse sostenere che poesia è sofferenza e, sotto sotto, che si è poeti perché si soffre) o, come nel caso della Merini, perché si è sofferto tanto?
Non posso che contrapporre a tutto questo psicologismo “poetese” la diagnosi lucida di Fortini: «noi oggi abbiamo la tendenza a sopravvalutare come poesia l’espressione dei sentimenti soggettivi».
Ma prima di appellarmi al suo ipse dixit, mi chiedo seriamente quali possano essere le ragioni  del predominio anche tra i moltinpoesia di  quello che chiamerei il “partito del romanticismo”. Cosa c’è dietro questa “eccitazione”per il  tema  poesia e sofferenza e la trascuratezza per certi post (non solo quelli dedicati a Fortini)? Che ci sia davvero una sofferenza così forte da mettere in secondo piano la stessa funzione conoscitiva della poesia e spingere ad una sua trasformazione in una sorta di autoterapia? E questa sofferenza è individuale? E che tipo di  sofferenza è? E anche se tutti soffrissero e la poesia non potesse trascurarlo, perché in poesia la sofferenza si affacciare  di solito soprattutto come sofferenza dell’io?

Lascio aperte queste domande e torno a chiedermi, come ho già fatto, cosa ci sia in gioco in questa nostra discussione.  Mi rispondo da solo. È in gioco come ho detto all’inizio una scelta tra una visione della poesia “romantica” e una visione “classica” (sono vecchi termini ma forse ancora servono).  È questa contesa  che nella nostra discussione  si fatica a riconoscere.

Fortini, che pur sta bene nel partito dei “classicisti” perché sa che nella poesia «ci si trova di tutto» (aggiungo io: amore, morte, vita, sofferenza, politica, sesso,  guerra, ecc.), ma «lo si trova ad una distanza tale che ricorda continuamente la necessità di prendere le distanze», nell’intervista, è stato così saggio da difendere l’ ambiguità fondamentale della poesia: «è la sua lezione, una lezione insostituibile».  Questo vuol dire che è possibile tirare la poesia da tutte le parti. E quindi anche dalla parte del “partito dei romantici”. E infatti egli riconosce la contiguità della poesia con la ricerca della Verità e con il sacro. Ha detto nell’intervista:

« Chiunque legga una poesia, indipendentemente dal suo grado di coscienza o di conoscenza culturale rapporta le parole a una sfera di competenza e di risonanza che non è soltanto linguistica ma che è di tutta la sua mente, di tutta la sua coscienza, di tutto il suo inconscio. Anzi questo avviene in un modo diverso, e possiamo dire, per certi aspetti, più profondo o più coinvolgente di quanto non sia per altre forme di comunicazione linguistica proprio perché è ambigua, proprio perché ha un’apparenza informativa, comunicativa e persuasiva che viene modulata, per dir così, in una forma. Questa forma diventa deformatrice del messaggio e lo rende risonante come avviene nel sogno, in cui certe figure, certi personaggi sono dotati di doppie identità. Questo potere è stato attribuito alla poesia da tutte le più remote e diverse tradizioni della poesia e tradizioni culturali, e questo spiega anche tra l’altro l’equivoco continuo che c’è tra la sacralità di tipo religioso e la funzione del poeta. L’idea che il poeta sia ispirato dalle muse o dall’inconscio o da qualche demone segreto o dalla divinità è qualcosa che effettivamente accompagna direi tutte le tradizioni perché vi è stata un’epoca nella quale la funzione della poesia era quella di comunicare con una zona oscura, esterna alla cerchia illuminata dal fuoco della tribù, nella quale e dalla quale lo sciamano, il sacerdote e il poeta, il cantore facevano pervenire, dicevano che pervenivano i loro messaggi».

Ci si può chiedere se questa « idea che il poeta sia ispirato dalle muse o dall’inconscio o da qualche demone segreto o dalla divinità» sia ancora attuale o, dopo essere stata  in parte abbandonata, non ritorni con prepotenza oggi.
 È questa  idea - mi pare  - che s’intravvede in alcuni degli interventi fatti: la poesia, anzi «l’estro creativo», l’ardore, l’ispirazione  per  Fara Butera è quasi peggio – dico scherzando - del fulmine: può «colpirci in qualsiasi momento». Emilia Banfi, concede sì, dopo le mie proteste, che «chi soffre ha sempre un attimo di tregua», ma non molla  il  “dogma” romantico-cattolico del valore in sé della sofferenza: «la sofferenza, la sopportazione» sarebbe «come un bagaglio che qualche volta appoggi a terra ma sai che ti appartiene».

Personalmente preferisco tirare la poesia dall’altra parte e sottolineare la contiguità tra poesia e “realtà”, “storia”, “corpo”, “politica” (virgoletto perché oggi tutti questi termini sono ballerini e  chiederebbero approfondite precisazioni). E spesso questi elementi «esterni al testo in quanto tale» intervengono sulla stessa poesia e acquistano più importanza o una certa importanza rispetto agli elementi tipici e propri del testo: quelli fonici e ritmici, le figure di discorso, la ripetizione, che servono per distinguere la poesia dalla prosa e in genere dalle altre scritture.

 E nell’intervista Fortini ha fatto un esempio di una chiarezza esemplare:

«Io vorrei prendere l’esempio di una brevissima poesia di Brecht che ha anch’essa un’epigrafe. "Qui giace/ Karl Liebknecht/ che combatté contro la guerra. Quando fu assassinato/ la nostra città c’era ancora". Si noti che di fronte a un testo come questo viene a mancare quasi del tutto l’idea corrente che la poesia sia intraducibile perché il baricentro, il peso di questi versi non è interno ai versi stessi, è esterno: consiste nel sapere dei destinatari, dei lettori. Per esempio se i lettori non sanno che questo Liebknecht è un rivoluzionario socialista tedesco che è stato ucciso da militari della destra nazionalista tedesca alla fine del 1918, insieme a Rosa Luxemburg; e se non sanno che "la nostra città" di cui si parla è Berlino e che la distruzione di questa città nella seconda guerra mondiale è avvenuta ventisette anni dopo la morte di Liebknecht, questa poesia ci diventa incomprensibile. Tutte le nozioni storiche, morali e politiche che premono intorno a quelle quindici parole - "Qui giace Karl Liebknecht che combatté contro la Guerra, quando fu assassinato la nostra città c’era ancora" - premono intorno a queste parole non diversamente da quanto faccia per esempio la teologia intorno alla poesia cristiana o la mitologia classica per poter capire il canto di Ulisse di Dante.»

Ma ha citato anche altri due episodi che dimostrano a sufficienza questo modo particolare (e per me preferibile) della poesia di “stare nel mondo”. Quando ha detto:

« Certo aveva ragione quel grande scrittore e poeta cinese che negli anni Trenta circa diceva che una canzone battagliera anche di pessima qualità, come possono essere gli inni patriottici, serve benissimo per incitare gli animi, per commuoverli, ma che per battere il nemico - Lu Sun parlava degli ufficiali di artiglieria - è meglio usare i cannoni. E tuttavia esistono opere poetiche apparentemente lontanissime dall’impegno che hanno avuto la funzione di indirizzare gli animi ad azioni generose, a scelte moralmente ricche come è il caso per esempio della poesia di Leopardi, cosa che il nostro De Sanctis aveva visto benissimo.»

O più avanti:

« sarebbe curioso ricordare un dialogo fra il rivoluzionario russo Alexander Herzen e Giuseppe Mazzini a Londra poco dopo la caduta della Repubblica Romana quando a Mazzini, che obbietta alla poesia di Leopardi di non essere sufficientemente animatrice di generosi sentimenti, Herzen invece risponde dimostrando che appunto è proprio questa sua apparente separatezza morale quella che ne fa la forza . Ne segue una scena molto bella in cui Aurelio Saffi, combattente della Repubblica Romana del 1849 e compagno di Mazzini, va con Herzen in una misera osteria londinese di profughi e di esuli a leggere le poesie di Leopardi».

Certo possono sembrare esempi troppo ottocenteschi  o da “poesia civile” oggi fuori mo. Ma questi legami della poesia con“realtà”, “storia”, “corpo”, “politica” non andrebbero dimenticati. E mi spiace che Beppe Provenzale ironizzi  e un po’ banalizzi, proponendo mille altre, magari divertenti,  relazioni possibili tra poesia &…   ma non una di queste che ho nominato o se la cavi, in stretto stile “poetese”, definendo la poesia «il suono di un flauto indigeno alzato alla Luna».

Voglio forse dire, per concludere, che tra poeti  religiosi, orfici, sperimentali, realisti, impegnati politicamente, ecc. abbiano ragione questi ultimi? No. Ho voluto solo dire che la poesia non è solo quella dell’io e che la poesia (e lo stesso Laboratorio Moltinpoesia) è luogo di  ricerca e di contesa.
Con i più sobri e laici voglio dibattere, come fa Fortini, sul problema se la poesia sia «un sogno fatto in presenza della ragione» o piuttosto «un ragionamento fatto in presenza di un sogno». I più “ispirati”, che  non esitano a spingerla verso la religione, i cieli, la metafisica, li rispetto ma non li approvo né li seguirò.

3 commenti:

Anonimo ha detto...

Date a Dante quel che è di Dante
date ad Ennio quel che è di Ennio.

Ciao Emy e grazie-

Anonimo ha detto...

Caro Ennio, sulle questioni proposte e sulla sproporzione di cui tu giustissimamente parli, penso di poter dire qualcosa anch’io. L’assoluta e cristallina lucidità di Fortini merita quasi uno studio a parte, perché la sua concezione della poesia e del poeta si inscrive in un progetto molto più ampio che si slancia nel futuro, in un futuro rivoluzionario. Non riesco a immaginare cosa Fortini vedesse nella società post-rivoluzionaria che pure, credo, aspettasse. Sta di fatto che la sua poesia “classicista” è in realtà un’anticipazione di quella fine del moto storico che avrebbe portato la rivoluzione. La sua espressione, così ferma e nitida, è il contrappasso di quiete che viene alla tribolazione dei tempi che devono portare gli uomini a una finale catarsi dopo la maturazione rivoluzionaria. Più i tempi sono agitati e dubbiosi, più si dispera dell’esito finale, più la poesia di Fortini tende a rendersi granitica nella propria icastica oggettività. Ma è anche una poesia in continuo progresso sulle cose, una poesia che se non anticipa, almeno pensa la Storia, e dentro questo pensiero non vi è posto per sofferenze individuali di tipo sentimentali o esistenziali, almeno che esistenza e sentimenti non siano rivolti, come si dice, alla causa.

Per Leopardi la questione è totalmente differente. Leopardi pone una questione preliminare: il dolore. L’uomo è posto di fronte alle cose. E’ un essere senziente. La sofferenza è fondativa del suo essere, delle cose in quanto materia, della vita in quanto vita, vegetale, animale, umana che sia. Senza questa premessa filosofica e speculativa è inutile parlare di Leopardi poeta del sentimento, o del distacco morale, come diceva di lui Mazzini. Leopardi propone una visione generale e collettiva dell’essere delle cose. Prima della sua poesia c’è questa visione. Essa è politica, allargata cioè all’essere degli altri uomini, di tutta l’umanità e quindi anche alla polis, non meno di quanto possa essere politica quella fortiniana o la posizione mazziniana. Il suo essere uomo della polis è semplicemente diverso dall’essere uomo della polis in senso come inteso da Mazzini o Fortini. La sua riflessione parte da più lontano, e se non si interessa di questioni immediate, dell’immanenza rivoluzionaria o carbonara è solo perché è impegnata a trovare una spiegazione a qualcosa ritenuto fuori logica e fuori natura come il dolore. Dentro questo cubo magico possono poi trovare spazi per inserire fatiche e dolori derivanti da ideali maggiormente legati allo sviluppo della società in senso politico.

Diverso lo speculare della sofferenza in poesia. La sofferenza individuale non è poesia. Può generare una riflessione di cui la vera poesia si può nutrire posteriormente, perché scrivere con parole attuali dell’inospitalità del mondo (che era quello che faceva a suo modo Leopardi) è forse l’unica vera forma di poetare per sé e per l’altro-da sé. In questo senso, La Merini, che ha pagato sulla sua pelle l’essere aritista (o forse anche il volerlo essere ostinatamente), merita tutto il nostro rispetto umano, ma di poesia vera ne ha scritta poca. Le sua affezioni sentimentali, il suo invasamento erotico ne fanno una figura altamente connotata, ma solo quando ci dice qualcosa sulla essenza dell’esistenza e ponendo quesiti anche religiosi raggiunge la completa espressione di sé, la poesia compiuta.

Stelvio Di Spigno

Anonimo ha detto...

La lettura di Fortini mi ha molto interessata ed ho voluto fargli un omaggio,spero. considerando l'attuale momento politico .
Un abbraccio
Emilia Banfi

POTERE.

Sulla foresta scesa è l'ombra
connaturato silenzio di paura
nessun palpito fra le fronde antiche
il cane vuole sopraffare il lupo.

Sul fiume e attorno
sarà lotta di ugual latrato
scorrerà nell'ansa il sangue
sconcertante e ambiguo.

Quale morte finirà il lupo?
Quale morte finirà il cane?
della civetta il grido
attende.

BYEMY