martedì 18 gennaio 2011

CRITICA
Giorgio Linguaglossa
Il minimalismo
romano-milanese.
L'alleanza funesta


Anticipo un paragrafo del libro di Giorgio Linguaglossa "La poesia italiana dal 1945 al 2010" in corso di stampa presso l'editore Edilet di Roma.  Nel parlare di autori affermati come Patrizia Cavalli, Vivian Lamarque, Valentino Zeichen, Valerio Magrelli, Gianni D'Elia, Franco Marcoaldi, Franco Buffoni, il critico romano spezza un conformismo di giudizi favorevoli abbastanza diffuso e pone un serio problema: 
"Siamo così giunti all’ultima soglia del minimalismo, dove il minimalismo sfocia nel qualunquismo, nella crisi della cultura ludico-ironica che è finita nel blog di Raitre, nella cultura che è finita  nel canzonettismo di massa e nel cabaret di massa; dopo di che non resta nulla, c’è una spiaggia bianca e trasparente di conchiglie colorate…  d’ora in avanti si apre una strada tutta in salita: non resta che sperare in un ripensamento generale sullo scadimento e sul discredito cui è pervenuto l’oggetto «poesia»… la poesia diventa un atto di fede nel futuro".
E' un buon motivo per discuterne. [E.A]



Il libro di esordio di Patrizia Cavalli Le mie poesie non cambieranno il mondo (1974) segna, con alcuni anni di anticipo, l’inizio del riflusso della cultura del ’68. La poetessa romana mette la parola fine ad ogni tipo di poesia dell’interventismo: alla poesia politica, ideologica, civile, impegnata, ed apre la strada del disimpegno, dello scetticismo «privato» e del ritorno al «quotidiano». L’andamento colloquiale, i toni da canzonetta, più che da canzoniere, il piglio scanzonato e disimpegnato, un certo malizioso cinismo e scetticismo, l’esibizione spregiudicata del «privato», anzi, dell’abitazione privata (nella quale avviene il processo di teatralizzazione dell’io), l’esibizione del certificato anagrafico, del certificato medico, la preferenza per gli oggetti «umili» del quotidiano, l’ironizzazione dell’io lirico, la deterritorializzazione del «pubblico» sono tutti elementi che diventeranno presto paradigmatici (e sinallagmatici) e saranno presi a modello dalla nuova generazione di poetanti. La poesia diventa sempre più «facile», ironica e spiritosa, di conseguenza cresce a dismisura la frequentazione di massa di un certo tipo di epigonismo. In altre parole, Patrizia Cavalli è per Roma quello che Vivian Lamarque è per Milano. Entrambe sono modelli irraggiungibili. Entrambe aprono la sfrenata corsa in discesa del minimalismo romano-milanese. Un minimalismo acritico, disponibile, replicabile e ricaricabile all’infinito da una smisurata schiera di poetesse e poetanti del nuovo «privato» massificato delle società della post-massa. La poesia diventa un genere commestibile, replicabile, riciclabile in pubblico, nei caffé letterari e nei cabaret. D’ora in poi la poesia tenderà a somigliare sempre di più alle filastrocche dei comici di cabaret. L’amore mio è buonissimo è l’opera di esordio di Vivian Lamarque (1978), seguono Teresino (1981), Il signore d’oro (1986), Poesie dando del Lei (1989), Il signore degli spaventati (1993), Una quieta polvere (1996), e il riassuntivo tutte le Poesie 1972-2002 (2003). È subito un successo di pubblico e di critica. È la tipica poesia femminile degli anni Ottanta: finto-amicale, finto-individuale e finto-sociale; dietro questo impalpabile spartito di zucchero filato e banale puoi scorgere, come in filigrana, la durezza e la rozzezza del decennio del pragmatismo e dell’edonismo di massa, il decennio del craxismo, della ristrutturazione industriale e della ricomposizione in chiave conservatrice dei contrasti di classe del decennio precedente. È una poesia facile, buonista, igienica, ironica, colloquiale, finto-sincera, finto-amicale, finto-problematica, finto-delicata, finto-infantile fatta di un’aria sognante, di piccole gioie e piccole vicende familiari: il «privato» da lettino psicanalitico è squadernato sulla pagina senza alcuna ambascia. Un finto infantilismo (accattivante, disarmante e smaccato che mescola furbescamente il tono da fiaba con lo spartito finto-infantile), è diluito come colla appiccicosa un po’ dappertutto con una grande quantità di zucchero filato e un pizzico di tematica «alta» (la «morte»), così da rendere più appetitoso il menù da servire ai gusti di una società letteraria ormai irrimediabilmente massmediatizzata e standardizzata. Poesia che è, ad un tempo, il frutto tipicamente italiano della eterna arcadia che ritorna, come il ritorno del rimosso, nella cultura italiana che, da questo momento, conoscerà un lungo momento di oscuramento e di obnubilamento.
Per ciò che concerne la «linea saggistico-narrativa» (dizione di Stefano Giovanardi) di Valentino Zeichen e Gregorio Scalise, mi sembra che il punto maggiormente evidente che accomuna i due autori citati è che si tratti di una poesia da intrattenimento: divertissement ludico-ironico quella di Zeichen, psicolinguismo e psicosperimentalismo quella di Scalise. La poesia di Zeichen è più un tipico prodotto da «zona franca», prodotto di neutralità tra poetiche confliggenti che non una poetica innovativa. Il primo libro di Zeichen Area di rigore (1976) è una poetica da imprinting, una poesia del «gioco», una poesia di «riflesso» della poesia «alta», una poesia «in minore», «tascabile», come risulta dal titolo di un’altra raccolta del poeta di Fiume, Metafisica tascabile (1998). Una poesia canzonettistica, da cabaret, che del cabaret ha l’andamento ludico-colloquiale e lo spirito da intrattenimento «pedestre». Una tipica «poesia da posizione», che si nutre parassitariamente della «posizione» della poesia «alta» e delle «tematiche» «alte»; che tende a presentarsi come una poetica «nuova» grazie ad una malcelata astuzia da «posizione», ma che in realtà la rende refrattaria alle sollecitazioni in quanto quella «neutralità da posizione» la rende inidonea ad uno sviluppo interno, ciò che significherebbe una autodistruzione del proprio registro stilistico e della propria posizione di rendita parassitaria. Appare ovvio che la neutralità tra poetiche confliggenti (la neutralità della finzione ludica e del gioco) funziona perfettamente come vitalizio e breve termine ma a medio o a lungo termine i rapporti di redditività stilistica risultano invertiti. Non è casuale che se confrontiamo una composizione dell’opera di esordio con una dell’ultima pubblicazione, a distanza di un trentennio, quello che salta all’occhio è uno stop temporale e stilistico: le due poesie sembrano scritte nello stesso giorno di uno stesso anno di uno stesso decennio: prive di identità perché prive di temporalità.
Metafisica tascabile «è programmaticamente una ipoglossia di secondo grado che si limita al commento «leggero» ed ironico di ogni evento del mondo; la sua «forma-commento» inghiotte ogni contenuto, lo stritola, lo dissolve ma non perché la sua ironia sia cloridrica, quanto perché la sua ironia è gratuita, aproblematica, galvanicamente banale. Tutti i valori occidentali sono così tascabilizzati e messi  in sordina, nonché alla berlina di un gaudente quanto superficiale e intellettualistico pseudo commento… la forma-commento della poesia di Zeichen è speculare alla forma-commento degli editorialisti e in genere di tutto il linguaggio massmediatico…. tipico prototipo stilistico di tutta la  carta stampata, i cui commenti imbonitori ambiscono convincere il lettore della propria bontà Perché è chiaro che non c’è commento senza il tentativo di “convincere” l’interlocutore… con l’imbonimento, alla morfologia del conformismo.
Altro esempio di conformismo intellettuale, anche se di spessore culturale meno elevato di quello presentato da Zeichen, è offerto da Gianni D’Elia. Il suo percorso poetico, dall’opera d’esordio: Non per chi va (1980), Segreta (1989) fino al Congedo della vecchia olivetti (1996) rappresenta un calzante esempio di poesia epigonica nella misura in cui risulta attestata su un calco di matrice pascoliana modernizzato in chiave progressista attraverso l’esibizione di una istanza politica vetero-marxista e un controcalco stilistico pasoliniano. Un ircocervo, un monstrum stilistico, frutto di perbenismo e conformismo. La modernizzazione restauratrice operata da D’Elia del linguaggio poetico pascoliano, riorganizzato e restaurato in chiave «progressista», è un comportamento inautentico e falso; il calco metrico e stilistico pasoliniano derubricato in pendio elegiaco ha, invece, un effetto sorprendentemente comico. È il ritorno all’idillio canforato, al neoelegiaco, alla poesia del cuore («raccoglie quella / ramella di menta con gli spiccioli, /ch’è un cuore»). È il segnale semaforico di una malattia della poesia del tardo Novecento minimalista: la problematicità dell’uscita dalla linea egemonica della poesia del Novecento, quella contraddistinta dalla linea Pascoli-Saba-Penna e dal binario Pascoli-Pasolini (come affermato da Stefano Giovanardi nella Introduzione alla «Antologia della poesia italiana del Novecento»). Infatti, non a caso il congedo nostalgico dalla vecchia olivetti produce cascami di neoelegia: un finto neoconservatorismo dello spirito ben si associa ad un mellifluo neoprogressismo della praxis: dinanzi alla vecchia olivetti c’è il mostro del computer, c’è il Moderno. D’Elia applica alla propria poesia un Pasolini de-pasolinizzato, la terzina delle Ceneri di Gramsci viene utilizzata come «traliccio» per le proprie intermittence du coeur, rime posticce e telefonate si alternano a contenuti da provinciale retoricoeur.
Ora, è un fatto che il conformismo stilistico coincida con un degrado della statura intellettuale del minimalismo del cuore di D’Elia, il quale occupa, nell’ambito del riformismo moderato della poesia contemporanea, l’ala più estrema della neoelegia, della beatificazione del tempo passato, degli operai,  della propria milizia politica nel seno del proletariato, della repressione dello Stato, etc… insomma, tutto il solito repertorio di luoghi comuni per un uditorio stordito dalla massificazione della cultura. Direi che l’operazione di spregiudicato conformismo di D’Elia si incontra, sullo stipite della rispettiva parentela, con lo sciocchezzaio della poesia di un Valentino Zeichen».1
L’operazione di Valerio Magrelli si inserisce nella linea del neoriformismo moderato e conservatore della poesia degli anni Ottanta. Magrelli ricomincia da capo: dalla problematica leggibilità del reale. Una poesia da esplorazione di microinterni, una concezione della poesia intesa come scrittura-osservazione, metascrittura che concepisce gli oggetti perfetti nella loro aseità. Manipolabili, modificabili e indagabili da un occhio esterno. Poesia descrittiva e oggettiva di derivazione cartesiana passata al vaglio di Lacan, in realtà sottoposta all’arbitrio del soggetto che opera una pseudo indagine. Si passa dalla scrittura asettica e asessuata del primo Magrelli, quello di Ora serrata retinae del 1980, al secondo Magrelli,  quello di Esercizi di tiptologia del 1992, fino a giungere al terzo di Didascalie alla lettura di un giornale (1998). Nel giro di circa venti anni Magrelli passa dalla micrologia alla ipoglossia (la poesia diventa la glossa di seconda istanza degli eventi massmediali, quasi una informazione di secondo grado).
È noto che la poesia di Magrelli, nella sua tensione verso l’oggettività, diventa asettica ed asessuata: gli oggetti diventano combinabili e manipolabili. Nel 1980 appare Ora serrata retinae. Il libro è fresco, dalla sintassi essenziale, leggibile, immediatamente decodificabile, estraneo sia alla linea dello sperimentalismo sia a quella dell’opposta sponda di chi tentava una ristrutturazione del genere lirico in chiave simbolista rimodernata. È subito un successo di critica e lettori. La spiegazione del successo è da attribuire, da un lato all’abbandono della scatola acustica del post-simbolismo, dall’altro alla riduzione della gamma delle tematiche a quella  dello spazio-corpo e dello spazio-psiche. È una riforma per riduzione che privilegia il primato della figuralità ideativo-visiva rispetto a quella concettuale-spaziale.
La poesia di Magrelli diventa subito emblematica, oggetto da subito di culto e di epigonismo, produce una schiera di adepti e di imitatori, coniuga una gradevole leggibilità alla essenzialità stilistica e lessicale. Opera una «riduzione», è questa la ragione del suo successo. Vero è che la poesia di Magrelli favorisce l’emergere di una linea di gusto che vedrà il minimalismo romano accorrere in aiuto al minimalismo milanese ormai boccheggiante, getta le basi di una impostazione «neoriformista» che si muove su un duplice binario: la riflessione psiche-corpo e la forma-commento che opta per la micrologia.
La poesia del primo Magrelli si situa sull’orlo di questa crisi interna della forma-poesia. Non è da escludere che il poeta romano abbia avuto qualche cognizione dell’impasse in cui si era venuta a trovare la sua direzione di ricerca, ma la soluzione da questi tentata durante il secondo e terzo periodo della propria produzione, si orienterà verso una linea di, diciamo così, minor resistenza. La scelta della adozione del «punto di vista esterno», vale a dire, della forma-commento, in un certo senso permetterà di salvaguardare le acquisizioni dell’oggettività ma sacrificherà necessariamente le possibilità di sviluppo problematiche, aperte, limiterà la sua poesia allo scandaglio della fenomenologia «esterna» degli «oggetti», avviandola verso una direzione programmatica, preconfezionata, verso una fenomenologia priva di sviluppi: la poesia dovrà «persuadere», «convincere» attraverso l’argomentazione del commento, la chiosa della glossa.
Se riflettiamo sulla impostazione di Ora serrata retinae, sul punto di vista del soggetto («L’occhio rientra in se stesso»; «foglio bianco / come la cornea d’un occhio»; «Scivola la penna / verso l’inguine della pagina»; «Il bosco dei miei pensieri è in fiamme»; «Io abito il mio cervello / come un tranquillo possidente le sue terre»), non appare dubbio alcuno sul fatto che alla ristrutturazione della «lirica» operata dal primo Magrelli vada ascritto il merito di aver posto su un piano di «allucinata» ed edulcorata parità il rapporto soggetto-oggetto, cui corrisponderebbe un linguaggio tendenzialmente oggettivo; là dove gli istituti stilistici precedenti conoscevano soltanto una «prevalenza» del soggetto sull’oggetto (sia quello di matrice sperimentale che quello di matrice diremmo di derivazione simbolistica come la linea lombarda).
Esercizi di tiptologia appare nel 1992 (l’opera segna il secondo periodo della poesia magrelliana), mescola prose e poesie, reportages e traduzioni. È un libro esemplificativo di una intervenuta crisi del rapporto di non belligeranza tra soggetto e oggetto. Il mixage di generi e di stili significa che ormai la «forma-poesia» sta scontando una crisi interna. Ormai, nel tardo Novecento, non si può più scrivere come si è fatto nei decenni precedenti. Il mondo sta velocemente cambiando: è caduto il muro di Berlino, il comunismo diventa un fatto di archeologia, la neoavanguardia è diventata archeologica, internet è alle porte, i linguaggi mediatici minano alle fondamenta il dogma del linguaggio poetico. Chi finge di non accorgersene (ed è una sfida commovente), come Attilio Bertolucci, scrive un’opera di impianto pre-moderno: La camera da letto (1984 e 1988), dà alle stampe un «romanzo in versi», un «romanzo familiare» della propria famiglia dagli esordi del poeta alla maturità, una descrizione «retinico-impressionistica» della sua Parma dell’infanzia; un impressionismo lirico, un paesaggismo lirico che non può diventare l’epica del quotidiano per sua intima insufficienza, per sua interna manifesta inidoneità espressiva. La camera da letto è un libro importante e significativo perché ci fa capire, dall’interno, la intervenuta crisi interna degli istituti stilistici novecenteschi di matrice simbolistica, la loro incapacità ad esprimere esperienze significative della nuova civiltà telematica.
Fatto sta che con Didascalie alla lettura di un giornale (1998) Magrelli opterà, dopo un decennio di incertezza, per la subordinazione dell’oggetto rispetto al soggetto. Ciò significa che nella sua poesia d’ora in avanti l’oggetto (gli eventi massmediatici) fornirà una occasione per il «commento», la «glossa». La poesia magrelliana, se vorrà sopravvivere, dovrà accettare, anzi, dichiarerà ripetutamente e in modo manifesto, la priorità dell’evento sul commento; e quest’ultimo diventerà, sede di glossa, annotazione a margine. La «glossa» di Magrelli diventa così «l’impronta digitale» (dizione magrelliana) di una crisi personale piccolo-borghese, espressione intellettuale della piccola borghesia romana in crisi di liquidità e di identità storica. La tiptologia di Magrelli sarebbe nient’altro che una tecnica di segnali convenzionali con cui decrittare il codice di un altro sistema iconico-linguistico: la cronaca dei fatti massmediali. La poesia non si interessa più del segno linguistico (come è stato per lo sperimentalismo della neo-avanguardia) ma dei sub-segni del codice mediatico, diventa intellettualizzazione dei data-base dell’attualità mediatica.
Del romano Franco Marcoaldi la migliore confutazione della sua produzione la si può rinvenire nei titoli delle sue raccolte: A mosca cieca (1992), Celibi al limbo (1995), Amore non amore 1993), L’isola celeste (2000). Un linguaggio «celibe», neutro, neutrofilico, che gioca «a mosca cieca» con se stesso, uno spettro stilistico ludico, divertissement ludico-ironico fin troppo facile e scontato, con una disseminazione di rime «facili», giocose, «nugae», dove il mondo reale perde la sua consistenza e tutto diviene leggero, friabile e frivolo come bolle di sapone, dove il mondo de-storicizzato è diventato un luna-park per la messa in burla da parte del «poeta» piccolo-borghese. Siamo così giunti all’ultima soglia del minimalismo, dove il minimalismo sfocia nel qualunquismo, nella crisi della cultura ludico-ironica che è finita nel blog di Raitre, nella cultura che è finita  nel canzonettismo di massa e nel cabaret di massa; dopo di che non resta nulla, c’è una spiaggia bianca e trasparente di conchiglie colorate…  d’ora in avanti si apre una strada tutta in salita: non resta che sperare in un ripensamento generale sullo scadimento e sul discredito cui è pervenuto l’oggetto «poesia»… la poesia diventa un atto di fede nel futuro.
Gli anni Novanta segnano l’apogeo di un tardo esponente del minimalismo romano-milanese: Franco Buffoni, il «longobardo», come lo definisce Magrelli, che confeziona piastrelle colorate e guide turistiche con le quali può soffermarsi amabilmente su terribili episodi bellici: Guerra (2005), ovvero, sulla città eterna: Roma. (2010), con eguale nonchalance, con la pseudo ironia dell’intellettuale piccolo-borghese. Analoghe considerazioni valgono per libri come Ceaflonia (2008) di Luigi Ballerini dove gli episodi bellici di una guerra lontana hanno lo stesso «valore» di un aperitivo poetico.
Per concludere, dobbiamo ammettere che il decennio Novanta segna la vittoria incontrastata del conformismo: il trionfo del minimalismo maggioritario, alla ricerca di una poesia sempre più «leggera». Si è così arrivati all’ultima spiaggia: alla poesia come guida turistica. Ciò ha una diretta e immediata ricaduta negli uffici stampa delle case editrici a diffusione nazionale che fanno pulizia degli autori «stilisticamente» non allineati. Le pubblicazioni vengono adesso decise dagli uffici stampa e questi ultimi dalle esigenze manageriali e «politiche». Si smarrisce completamente il filo della ricerca letteraria, le riviste tendono a diventare delle diramazioni degli uffici stampa dei maggiori editori. È con queste premesse che si apre il primo decennio del nuovo millennio.

1 Giorgio Linguaglossa «Appunti per la costruzione della nuova poesia» in Linee odierne della poesia italiana a cura di Roberto Bertoldo e Luciano Troisio pp. 78-79, supplemento a «Hebenon» nn. 7-8 2001

1 commento:

Anonimo ha detto...

Mi sembra si possa proprio dire che la caduta del muro di Berlino rappresentò la caduta di tutti i muri dell'ideologia che teneva serrati i ranghi del pensiero dentro i confini del collettivo. Alla fine degli anni 70 ci lasciammo lacerati dal bisogno del "personale" imposto, secondo me saggiamente, dal femminismo. Un'occasione ghiotta per poeti e intellettuali perché, ad esempio, apriva le porte alle nuove, coraggiose ricerche della psicanalisi che imponeva all'idealismo la sperimentazione personale, la verifica del pensiero nell'indagine del vissuto. Questo, a mio avviso, avrebbe potuto estendere le istanze sociali precisandole ulteriormente, andando oltre le dinamiche economicistiche, dette "reali", sottraendole al naufragio fazioso dell'ideologia. Non è stato così, non è ancora così.
Sono un lettore di poesia, appassionato anche se poco assiduo e disordinato per la verità, ma mi sento di condividere questa provocatoria analisi di Linguaglossa perché mi sembra che riassume e argomenta anche certe mie istintive perplessità. Tanto per dirne una, il fatto di chiamare l'inezia "minimalismo" , termine che non riguarda la sola poesia, oltre che a farmi innamorare dei sinonimi ( …è pur vero che ci si può innamorare di tutto in ugual misura), mi spinge a cercare un posto più adatto per le poesie che non amo che non sia il cestino (citando C.Bene a proposito delle poesie di Raboni), riconoscendo così anche il buono che c'è.

mayoor