venerdì 18 marzo 2011

CRITICA
Giorgio Linguaglossa
Il discorso poetico nel '900.
Con un'introduzione di E.A.





Premessa. I lettori di questo blog non si spaventino né si urtino per la frequenza di termini non comuni in questo scritto del critico Giorgio Linguaglossa. I linguaggi “speciali” hanno una loro necessità, non sono sempre latinorum per tenere alla larga il “popolo” dai saperi che contano. Ai finti tonti, che eventualmente protestassero invitando polemicamente a parlare “semplice”,  come si fa in TV o a scrivere  “chiaro” come fanno (mistificando) i pubblicitari, ribatterei: perché non fiatate di fronte a certi linguaggi  specialistici, dei medici ad es.? Provate a leggere un qualsiasi foglio di’istruzioni per l’uso di  un medicinale. E allora perché tanta presunzione di saperla più lunga di fronte a un testo di critica letteraria?
Linguaglossa   ci dà qui un esempio del suo discorso critico, che ha radici in una visione filosofica  e utilizza un grado di astrazione elevato ma non irraggiungibile. Per chi tra noi di filosofia poco masticasse ho pensato a questa introduzione che semplifica e riassume  il suo pensiero in modo da permettere almeno ai più volenterosi un primo accostamento.

Il suo punto di partenza è la crisi della Ragione (il riferimento è all’omonimo libro che il filosofo  Aldo Gargani pubblicò nel 1979 rimettendo in discussione il primato del logos) . E di logos «ferito a morte» parla qui Linguaglossa. La crisi della Ragione – egli dice - ha trascinato con sé  anche la poesia, dando spazio a poetiche che egli giudica «epigoniche e acritiche». Anche la narrativa (quella di Borges, di Calvino), rinuncia a parlare dell’«altro» (il mondo, la realtà, ciò che sta o potrebbe  stare oltre la superficie o i dati  dell’esperienza immediata) e finisce per parlare  di se stessa («si autoreferenzializza»), svela di essere (o si riduce a) pura «finzione». Alla stessa conclusione giunge nel 1971 Montale con Satura: qui il suo «discorso poetico», prima volto ad interrogare il mondo sia pur con tremori e incertezze da gran borghese, si ripiega su se stesso, dichiara «la propria costitutiva mancanza», diventa nichilista («dietro il paravento del «soggetto» si apre il fondale del nulla»).
Le  stesse correnti di pensiero del neopositivismo e dello strutturalismo (forti soprattutto negli anni ’60-’70) avevano imposto un’attenzione quasi esclusiva a tutto ciò che  si presenta come «linguistico» e avevano ridotto  il mondo  a «fondale unidimensionale», anticipando quella che poi sarà «la superficie infinita della civiltà mediatica» (o società dello spettacolo prevista da Guy Debord). 
Questo processo, che s’impone con la massima evidenza soprattutto nelle grandi metropoli («nella città anomica e a-topica», cioè senza più leggi e senza luoghi; si ricordi che più recentemente l’antropologo Marc Augé ha parlato di non luoghi, per indicare il venir meno del rapporto profondo, emotivo e non solo utilitaristico, fra uno spazio e i suoi abitanti), svuota anche i «miti» (ai quali Linguaglossa  attribuisce valore positivo in contrasto con le correnti illuministiche “demitizzanti”): essi da pubblici diventano privati (più precisamente: « diventano il «privato» di ciò che non è più neanche «pubblico», mettono in «pubblico» ciò che non è più nemmeno «privato»»).
Il risultato è la «confusione babelica» in cui siamo immersi. Si è arrivati alla «fine di una civiltà poetica», qui esemplificata nei versi cinici e leggeri di Marcoaldi.  Anche due poeti stimati da Linguaglossa - Dante Maffia e Roberto Bertoldo - che  contrappongono alla confusione babelica   un loro «discorso poetico» sono costretti  a presentarlo o come «discorso dei «folli»», di «sopravvissuti» o come cicatriziale» (così è definita all’inizio di questo scritto la poesia di Bertoldo, fattosi  poeta delle «cicatrici» linguistiche). L’analisi qui condotta da Linguaglossa fa riferimento alla filosofia di Heidegger, che, sulla scia di Nietzsche e soprattutto nella sua opera maggiore Essere e tempo  (dove è introdotto anche il termine Dasein, dell’”esser-ci”, di complicata interpretazione), teorizzò «la morte del soggetto» e, studioso della poesia del Novecento, la interpretò appunto come «liturgia»  della «morte del soggetto», tentativo estremo di cogliere la «presenza-assenza» del Dasein, dell’”esser-ci”.
Quale la “conclusione-programma” della  visione filosofica e poetica di Linguaglossa?
La si coglie con chiarezza nell’ultimo paragrafo che comincia con «Se cessa il domandare a che pro rispondere?». Per Linguaglossa i poeti devono  abbandonare una poesia diventata « il luogo dell’asseribilità generalizzata» (semplificando: dominio della chiacchiera , termine heideggeriano per eccellenza, « melassa viscida e grigiastra»).  Se insistessero a ignorare la «morte del soggetto», persistessero cioè nella finzione «che l’«io» esista e goda di buona salute e possa scherzare e parlare e… «sputare»» (come afferma Marcoaldo nei versi citati), produrrebbero soltanto «simil-poesia» (termine usato  per la prima volta, mi pare, da Raboni).  Il modello proposto da Linguaglossa  dev’essere «cosciente di quello che succede» e, , come i personaggi di Beckett, imparare a diventare muto e sordo di fronte al «mondo». Perché questo è per Linguaglossa «il «miglior modo di parlare».


Se questa sintesi di lettura rispetta il pensiero di Linguaglossa sulla poesia può essere considerata una risposta alla domanda che vado ponendo (quale poesia oggi?), come non vedere che si tratta di  una  critica drastica di gran parte della  produzione contemporanea e soprattutto della ipotesi dei moltinpoesia. Si spiega  così la ragione più profonda, non dovuta solo a fretta o a disattenzione, del suo giudizio negativo sulla poesia di Dell’Aquila. Non solo quel testo ma gran parte dei testi che oggi si scrivono rientrano  per  Linguaglossa nella categoria della chiacchiera: non s’interrogano cioè sulle «cose fondamentali», si disperdono in quelle «accidentali o inessenziali».
Prima di respingere indignati  al mittente questa critica che mette in discussione la nostra ricerca in poesia, io ci rifletterei. Perché ci trovo qualche  vicinanza al mio discorso sull’ambivalenza della produzione dei moltinpoesia.
Non sono però convinto che si possano però tagliar via come interamente «accidentali o inessenziali» le pratiche ambivalenti eppur reali e diffuse  dei molti.
Mi sono costruito  finora sul modello  cui accennò Fortini in una conversazione e che qui trascrivo:


Bisogna scaldarsi – disse []Fortini] all’incirca - con quello che si ha. Io su molte cose preferisco essere n arretrato, un tonto, perché non posso, non ho tempo, non ho testa. È giusto che sia così. Non
servono le ultime novità. Un buon manuale liceale spesso è sufficiente. In filosofia o punti sullo
specialismo o punti sull’ignoranza. I due – il filosofo e il tonto – s’incontrano e vanno a passeggio
conversando.
 
Cercherei perciò di spingere il critico-filosofo Linguaglossa a incontrarsi e a conversare con i "tonti". Forse perché mi sento un po' filosofo e un po' tonto, vorrei parlare sia delle cose fondamentali che delle accidentali.   E mi chiedo poi dubbioso se davvero  certe cose siano fondamentali e altre accidentali.  E se la distinzione non vada continuamente sottoposta a verifica.  E anche: ammesso che uno sia riuscito a entrare nella zona delle cose fondamentali, che fa? Se ne nutre, ci riflette, scrive libri, dialoga con i pochi che capiscono (o sembrano capirlo) e basta? O dovrà pur tentare di farle arrivare (Il convivio dantesco! Il pedagogismo dell’umanesimo! Il rapporto avanguardia-masse della tradizione socialista e comunista! E tutte le buone rovine  raccattabili nella postmodernità! ) ad altri, a tanti possibilmente?
Capisco che a essere didascalici o pedagoghi ci si possa annoiare. Ma credo che ci si possa annoiare anche a ripetersi le cose fondamentali tra pochi intimi.  Sono per una critica dialogante tra livelli apparentemente alti  e livelli apparentemente medi  o bassi. Non esiste nessuna garanzia che da un incontro possa venir fuori qualcosa di significativo. Può essere anche una perdita di tempo. Ma  la scommessa va accettata.


E.A.
***


A UN CERTO PUNTO DELLO SCORRERE DEL NOVECENTO
AVVIENE CHE IL DISCORSO POETICO DECIDE DI VOLTARE PAGINA
 di Giorgio Linguaglossa
 
A un certo punto dello scorrere del Novecento avviene che il discorso poetico decide di voltare pagina. Il discorso conflittuale e cicatriziale  della poesia di Dante Maffìa e di Roberto Bertoldo vuole aprire il discorso poetico al «rispondere» dell’«altro»: il luogo è quel logos dell’asseribilità generalizzata quali sono diventate le poetiche epigoniche e acritiche oggi in auge, quel logos che è finito ferito a morte dalla crisi della Ragione. Il «rispondere» della Ragione poetante, con lo scorrere del Novecento, diventerà sempre più un problema, diventerà una finzione (benché non ancora pensato come tale). Il discorso del romanzo si autoreferenzializza: si assiste alla finzione letteraria di Borges e di Calvino che riflettono e mettono  in opera il palcoscenico della finzione narrativa. In Borges si assiste alla finzionalizzazione della finzione e in Calvino si assiste al lettore che entra dentro il libro che sta leggendo, che prende parte al racconto.

Il Montale di Satura (1971) si accorge con tempestività che dietro il paravento del «soggetto» si apre il fondale del nulla; da allora il discorso poetico non può fare altro che esprimere la propria costitutiva mancanza, fa i conti con il nichilismo. Il rispondere del colloquio alto-borghese di Montale è oggetto di se stesso, risponde a se stesso. È questo il paradosso: è un rispondere che non risponde a nessuno. Ma qui è l’intera interrogazione sul linguaggio che tramonta. È il XXI secolo che inizia.

Se il neopositivismo è un’epistemologia senza oggetto, in quanto logicista, lo strutturalismo, invece, si immergerà nel linguistico rinserrando il «soggetto» in un sistema di differenze, di rapporti significanti e di significati. I «miti» perdono con ciò la loro individualità e la loro sovraindividualità, diventano anonimi nella città anomica e a-topica, diventano il «privato» di ciò che non è più neanche «pubblico», mettono in «pubblico» ciò che non è più nemmeno «privato». Il lettore entra dentro la pagina scritta e vuole prendere posto accanto e al di sopra di chi parla. Questa è veramente la confusione babelica! Questo emerge anche dalla corrispondenza dei «soggetti» del discorso poetico «conflittuale» di Dante Maffìa essendo ognuno di essi il simbolico dell’altro. Il soggetto non fonda il simbolismo ma lo trova già bell’e fatto, entra nel bosco delle corrispondenze dove tutte le cose si corrispondono e si richiamano a vicenda - ma era un’illusione della civiltà del simbolismo! - In realtà esse (le corrispondenze) non si corrispondevano che per significanti e dissomiglianze e dissolvenze semantiche. Esse non corrispondono che per una convenzione pattuita tra l’emittente e i destinatari, tra il lettore e l’autore.
Il «soggetto» della poesia di Zanzotto e di Camillo Pennati è un soggetto trascendentale. Giunti al culmine della cultura dello sperimentalismo, la rifrangenza semantica mostra il suo profilo di cartapesta ammobiliata. Con lo strutturalismo e le sue poetiche epigoniche il mondo si assottiglia a fondale unidimensionale che prefigura la superficie infinita della civiltà mediatica e il linguistico che si estende a macchia d’olio…

Quando il poeta giornalista Franco Marcoaldi in Amore non Amore (1997), terzo libro pubblicato da Einaudi, scrive: «Io non sono il Dalai Lama, / sono più modestamente un lama: / io non parlo… sputo», è chiaro che qui siamo già dentro la fine di una civiltà poetica. Ed è chiaro che il critico non ha più ragion d’essere.

Il «soggetto» dunque, anche quello del «discorso conflittuale», si struttura nell’ambito di uno sdoppiamento simbolico (e di uno scambio simbolico). Il «discorso conflittuale»  di Dante Maffìa ne Lo specchio della mente (2000) e La biblioteca d’Alessandria (2006), come del resto ogni discorso uninominale, è quel discorso a valvola aperta dove il simbolico si richiama con un altro simbolico; essi richiamandosi, si rispondono, ma il loro è un parlare muto, è soltanto un episodio di una gigantesca incomprensione universale: il problematologico che qui affiora è una falsificazione del falso problematologico. Il discorso dei «folli» che parlano ne Lo specchio della mente e gli scrittori sopravvissuti de La biblioteca d’Alessandria che ci parlano della loro perdita a duemila anni di distanza è un discorso derisorio proprio perché pronunciato (mediante un atto di finzione) dopo duemila anni di distanza; è un discorso che rientra dalla finestra del logos dell’asseribilità generalizzata da dove se ne era andato via per la porta principale. Problematizza ciò che una cultura della giustificazione aveva sproblematizzato, ma è anche un logos derisorio tal quale quello dei «folli» che ci parlano dal pozzo senza fondo della loro follia:

un po’ di me è entrato
nella terra attraverso i tubi
del cesso e attraverso le nuvole
alle quali ho prestato
i miei capezzoli per abbeverarsi
prima di sciogliersi in pioggia…

*

Ci sono falchi nel letto
anime dannate che defecano
in continuazione e pretenderebbero
cortesie, almeno tolleranza.
Hanno rubato – e lo dichiarano – tutte le ombre
trovate nel loro roteare per il cielo, tutta
la solitudine delle nuvole e adesso
vorrebbero consegnarle a qualcuno
per custodirle. Non ne comprendo la ragione…

Il discorso poetico di Roberto Bertoldo ne il calvario delle gru (1999) e L’archivio delle bestemmie (2006) protesta contro il detto di Hegel secondo il quale «le ferite dello Spirito non lasciano cicatrici». La poesia di Bertoldo è, appunto, una protesta contro la ferite dello Spirito, sono una esplorazione chirurgica, una indagine e una rappresentazione delle «cicatrici» linguistiche: un discorso poetico retrogrediente che dalle «cicatrici» conduce al cuore della novecentesca crisi della Ragione poetica.

Nelle vostre facce getto la pausa di un sorriso
e cornici di rughe vi spaccano l’ombra sotto gli occhi.
Avete pelle di rosolio, sofferenze di rododendri,
scontate la morte come uno stagno.
Io vi porto frattaglie d’amore secche come parole.
rene grigie che il vento alza a fusilli.
E non ho sete che possa mungervi.
Io sono il seduttore di salice,
colui che spolpa le parole
e abbandona le bucce sui cornicioni della vita.
Non ridete delle mie pupille di fustagno,
vedono ancora i dolori, le desinenze dei sospiri,
i riverberi. Contro il vostro petto
batto un foglio testardo, ho in mano le labbra,
una voce che squadra la terra, qualche bemolle,
un calle, la lebbra. Oggi vi sono radice.

*

Ti prego, ferita che hai spodestato la mia anima,
ergiti nel tuo raggrumo per ovviare al male
che la mia pelle segnala
a spruzzi di rugiada cristiana,
non aprirti a queste lame che accadono
esorta la terra ad un assolo
contro i chiodi e le spine che accogliesti,
tu, indulgente e compassionevole,
soccorri questo corpo che sconfisse gli alibi.

*

Quelle parole che hai perso addosso a me
io le cerco ancora nel mio calamaio
ma non posso che accarezzarti con le dita sudice,
tanto le tue lacrime laveranno la mia impronta
e le guance che ti sorreggeranno come un riporto di terra
avranno limpidi singhiozzi nei solchi.
Hai avuto per me parole di campo,
gialle come il fondo delle dogaie,
nere come il lamento dei corvi,
hai forgiato la spada che mi fa tubare
sotto i tetti delle casematte,
ogni bacio è una ferita che infliggo,
una vendetta impropria, la mia maledizione.
E tu quando riempirai i tuoi fossi di cipria
penserai forse all’agnello crudele
che ancora brucia sulle ali delle colombe.

Del resto, con il Dasein Heidegger certifica la morte del soggetto; tuttavia l’ontologia del linguaggio poetico (come si diceva una volta) occulta il problema invece di rischiararlo: mette la «differenza» là dove esso è. La domanda sull’essere non è niente altro che la questione delle problematizzazioni del linguistico. Tutta la poesia (e il romanzo) del Novecento altro non sarebbe che un rifugiarsi nei «luoghi» dove il Dasein celebra la liturgia della propria presenza-assenza, ovvero, il palcoscenico della propria morte. E la problematizzazione del linguistico nel Dopo il Moderno dovrà necessariamente affrontare una nuova modalizzazione dell’esperienza linguistica. È questa, credo, la scommessa di un discorso poetico critico, consapevole della portata delle proprie problematizzazioni.

 Se cessa il domandare a che pro rispondere? Se la poesia diventa il luogo dell’asseribilità generalizzata, in cui non c’è domanda e non c’è risposta, quello che resta è una melassa viscida e grigiastra. Perché sia chiaro che, in assenza di domanda, non vi può essere un rispondere…  il rispondere è già un atto vandalico (e immotivato), in quanto non richiesto: A chi rispondere? Perché rispondere? A che pro? E per conto di chi? E per quale domanda?... Ecco perché, a rigore, oggi il discorso poetico va posto dentro questa problematica dilemmatica: da un lato occorrerà formulare una domanda fondamentale e, dall’altro, occorrerà formulare una risposta fondamentale, o almeno abbozzarla. Fatto sta che l’odierna simil-poesia in circolazione adotta, come vera, una finzione: che l’«io» esista e goda di buona salute e possa scherzare e parlare e… «sputare». Quando invece dovrebbe essere  chiaro che oggi un autore cosciente di quello che succede non può che mettere in scena due sordo-muti che tentano di parlare ma parlano, appunto, attraverso una finzione e una falsificazione.
Ed è appunto quello che cercano di fare i personaggi di Beckett: tentano di ridiventare muti e sordi di fronte al «mondo». E questo è il miglior modo di parlare.



3 commenti:

titoxy ha detto...

Due battute, spero consone (anche se informali...).

Mi piace il concetto di “asseribilità generalizzata” di Linguaglossa. Sembra davvero dominare sulla realtà. Sembra davvero esistere una confusione babelica. Ennio si pone su questa lunghezza... Mentre sto per accettare anch’io quest’affermazione però mi accorgo che i centri e le direttrici sono diversificati. Se ci sono delle line di confusione e di chiacchiera, ci sono ben precise (chiare ed evidenti) direttrici di potere che agiscono in maniera scientifica e tutt’altro che caotica.

L’asseribilità generalizzata, anche se ammessa, andrebbe comunque ricalibrata: “asseribilità generalizzata a vari livelli” (?).

Inoltre... Non riesco a conciliare la richiesta di formulazione di “una domanda fondamentale” (e conseguente formulazione di una “risposta fondamentale”), con la prospettiva posta come risolutoria e propria dell’atteggiamento beckettiano (meglio di Vladimiro/Estragone). Da una parte una richiesta di “forza” dall’altra di “coscienza annichilita”.
Credo che oggi (in realtà da sempre) vi sia una necessità “costruttiva” inappellabile. Un atteggiamento critico si può e si deve formare su molte linee ma non può venire meno alla richiesta di risposte "costruttive" (parziali e relative come sono sempre state le risposte...).

Inoltre... Cosa intende Linguaglossa per “la problematizzazione del linguistico nel Dopo il Moderno dovrà necessariamente affrontare una nuova modalizzazione dell’esperienza linguistica” ?

Cordialmente

Visto che ci sono vi propongo la visione di un breve “video-poema...” Silvioman contro il nucleare. Buon divertimento.
Lo trovate con questo link:
http://www.youtube.com/watch?v=FERKHZt3LNg

tito

Anonimo ha detto...

Giorgio Linguaglossa:

Caro Ennio Abate visti gli attacchi che sono stati portati alla mia scrittura critica, vorrei citare a mia difesa Alfonso Berardinelli.

Poiché lo stile della mia scrittura critica appare, a volte, ai lettori, singolare, idiolettica, incomprensibile, instabile, aleatoria, provvisoria, priva finanche di uno statuto gnoseologico, chiamo in mia difesa alcune frasi di Alfonso Berardinelli tratte dal libro La forma del saggio (Venezia, Marsilio, 2002), che ritengo particolarmente significative intorno alle questioni legate allo statuto della critica militante.

«La critica… mi sembra sempre di più un’attività da inventare, se si ha la forza e la voglia di farlo. Un’attività che richiede certe attitudini e certe particolari caparbietà e predilezioni cioè un personale e rischioso programma gnoseologico, morale, stilistico, una certa politica e un certo uso delle proprie letture» (p. 176).

«La forma del saggio conserva sempre qualcosa di immaturo, ama dominare senza che il suo dominio appaia tale. Regola i rapporti fra gli altri generi, si insinua fra loro e al loro interno, li alimenta e trae vantaggio dal loro splendore, se ne fa schermo imitandoli o pretende di indicare loro la strada da seguire. E il saggista è scrittore di prove e di esperimenti, sempre incerto se preferire per se stesso la riuscita o il fallimento, la forma conclusa e definitiva o il frammento aleatorio, le taglienti e perentorie certezze o i mascheramenti, i paradossi, l’istrionismo. Il saggista è perfino indeciso se scegliere fra la scelta e la sospensione delle scelte, fra la decisione e l’incertezza. Come genere letterario, perciò, il saggio è forse il più mutevole e inafferrabile dei generi. Il più esposto alle influenza di ogni altro genere, il più passivo nel suo orgoglio, il più impaziente nella sua irresolutezza… Arriva sempre in ritardo o sempre in anticipo?
Troppo tempestivo e troppo polemico, dominato dal demone della meditazione e da quello del presente effimero, schiavo dell’occasione e libero di divagare, il saggista, incapace di creare un altro tempo rispetto al tempo storico e al tempo della vita quotidiana, non ha riparo. Non può né evadere né fortificarsi dentro la trascendenza della forma artistica. Non può fluire in un racconto né sollevarsi in un canto. Rispetto a quella del narratore e del poeta lirico, la sua ispirazione è sussultoria, incostante, disorganica… Non sceglie fra responsabilità artistiche e responsabilità politiche: la sua scrittura soffre e gode di una perpetua instabilità, dato che non si fonda né sulla coerenza logica né sulla coerenza fantastica. Il saggista è un visionario del pensiero e un dialettico della metafora: scontento di se stesso, finisce di scontentare tutti, sia chi lo vorrebbe più dialettico, sia chi lo vorrebbe più visionario. Aspira alla vita essenziale, ma non riesce a distrarsi dalla cronaca. Oscilla fra il rigore dell’aforisma e la fatuità della battuta. La sua lingua è minacciata da tutti i gerghi… La sua lingua non è mai un’invenzione, né un dono…» (p. 18)

Anonimo ha detto...

Mi sto sempre più convincendo che Ennio Abate, oltre che essere un critico appassionato e un provocatore tenace e intelligente, sia anche un simpatico guitto che... una ne pensa e cento ne fa.
Vorrei rispondere alle cose dette da Linguaglossa in modo costruttivo, ma devo ammettere i miei limiti, non sono allenato per sostenere copiose argomentazioni e so che perderei troppo spesso il filo del discorso.
Trovo che il linguaggio di Linguaglossa sia ispirato, difficile sì, ma per via dei numerosissimi spunti di riflessione che sa offrire. Quindi per ora mi limito a ringraziare di tutto cuore.
Se mi riuscirà di mettere ordine ai pensieri proverò a dire la mia, gli argomenti che sono stati proposti sono davvero interessanti.

mayoor