sabato 19 marzo 2011

DISCUSSIONE
"E questa è prosa o poesia?"
Su TEMPI MIGLIORI
di Luciano Roghi

Nella nostra mailing list Enzo Giarmoleo ha posto un problema: se uno mette in versi  (trascrive più o meno fedelmente) un articolo in prosa, fa poesia? Qui propongo un altro "esperimento": se uno afferra qualcosa di reale dell'altro e ha cognizione del suo dolore e lo scrive "bene", fa della prosa o della poesia?
Proviamo a parlarne a partire da questo pezzo di Luciano Roghi...[E.A.]


Mario  è nato e cresciuto nella stessa casa dove ha abitato sino a due giorni prima della morte.
Settantaquattro anni di  vita all’interno delle stesse mura, prima con  i genitori, e successivamente  con l’unico fratello, con il quale da anni non condivideva quasi nulla più . Troppe rabbie immotivate (rancori che nel tempo si erano trasformati in silenzio),  avevano  diviso  inesorabilmente i due.
Un buco alla gola era l’esito di un intervento che Mario aveva subìto molti anni prima a causa dell’insorgenza di una grave malattia. Come un proiettile che in un lampo gli aveva asportato la massa malata e con essa  le corde vocali, egli si era ritrovato  senza più voce.
Alcune vite, di per sé già silenziose, sembra necessitino per una strana beffa, di un ulteriore mutismo, quasi a  suggerire che il loro racconto oltre a non avere importanza,  non meriti  neppure di  compiersi.

Nel suo silenzio Mario aveva proseguito  a lavorare, senza mai chiedere niente a nessuno. Aveva continuato  a consumare cene a orari differenti  dal fratello, si era occupato del giardino coltivando ortaggi, e aveva visto nascere  ed eclissarsi  gli astri per infiniti anni senza  mai pensare alla natura del loro splendore.
L’autunno era sceso ancora una volta nella sua casa. Nella sua abitazione faceva freddo ma lui sembrava non patirlo, nonostante un’altra malattia lo minasse da tempo. In vita sua  non aveva mai fumato né bevuto alcolici, ma il male che l’aveva attaccato era tipico del peggiore tabagista e del più accanito etilista.
Un addome gonfio e sproporzionato su un corpo ormai scheletrico gli ostacolava il respiro che era aspro e affannato, obbligandolo  dopo aver compiuto  il minimo sforzo,  a sedersi e riposare.
La cucina era la stanza dove trascorreva  tutto il suo tempo. Lì mangiava e  dormiva. Il suo pasto lo preparava all’alba per mezzogiorno,  ed esso  consisteva in una manciata di riso,  colorata di salsa.
Il divano era un giaciglio sporco e arruffato da coperte e lenzuola ormai  logore.
La casa era piena di polvere, annerita e sudicia come se anch’essa, come il suo abitante, non volesse più raccontarsi.
I balzi di un gatto, che sembrava ancora più sporco di quanto in realtà non fosse, animavano la gelida immobilità dell’alloggio. Mario, quotidianamente  preparava  la medicazione alla gola;  srotolava una benda estratta da un cassetto colmo di robivecchi, e questa,  mentre andava a cadere per terra, diventava un giocattolo per il  gatto,  che, drizzandosi sulle  zampe posteriori, si metteva a giocherellare con la garza, sfilacciandola e affondandovi  le grinfie.
Gli arredi della stanza erano disseminati di fotografie. Sopra la credenza volti di persone sicuramente amate, o soltanto legate da una lontana  parentela, sembravano vegliare su quell’uomo,  in un’atmosfera  solenne e  sarcastica.
Eppure anche quei visi, come gli oggetti domestici abbandonati e spenti,   non sembravano convinti di quel compito affettuoso: parevano svogliati nell’ occuparsi di un uomo che stava concludendo i suoi giorni, e che pur essi, mai evocati, non volevano, adesso, essere disturbati. 
Cercavo, ma non riuscivo a trovare  nulla, che potesse lasciare di quell’uomo, una traccia. Egli era completamente solo. Eppure il suo sorriso e i suoi  occhi azzurri, lasciavano trasparire una  nobiltà,  che, passata inosservata agli altri per un’intera esistenza, si mostrava ai miei occhi, come un tesoro che,  nonostante il poco tempo  rimasto,  andava dissepolto. 
Conoscevo Mario solo da pochi giorni e di lui sapevo pochissimo, quasi nulla.
Mi chiedevo com’era possibile andarsene per sempre,  lasciando  inascoltati i sogni, le aspirazioni, i suoni del pianto e quelli dell’allegria.
Se però, in quel momento mi trovavo in quella casa, avrei potuto osservarne la luce, sentire i rumori  che  distanziavano lui da me,  distanze  che forse potevo colmare,  condividendole. 
Allora cominciai a guardare i  luoghi in cui aveva vissuto, aspettando che fossero gli stessi luoghi a suggerirmi il loro passato. Osservai la luce nebbiosa del mattino: un raggio luminoso trafiggeva le persiane e propagava il  suo calore sino a quelle pareti fredde e dimenticate. Immaginai, quali sensazioni avesse   provato Mario,  quando da bambino, in uno stesso giorno nebbioso e altrettanto luminoso, avesse aperto le persiane e si fosse lasciato inondare dal sole.
Cercai di appropriarmi delle sue cose, per poter,  silenziosamente, farlo sentire meno solo.
Mario stava male: faticava a camminare, il rantolo del respiro era  sempre più opprimente e  il torpore che lo coglieva non appena si sdraiava, non lasciavano spazio a soluzioni domiciliari. Ero incerto se lasciarlo nella sua casa, (perché forse questa sarebbe stata la sua scelta) oppure se consigliargli il ricovero in ospedale. 
Considerai, però che a casa, non avrebbe avuto nessuno che gli rivolgesse una parola,  gli stringesse   una mano o gli desse  da bere.
Inoltre,il freddo pungente dell’alloggio, aggravava  la sua solitudine.
Mario scelse il ricovero.  Non chiamai nessuno: non mi  piacciono né  i curiosi che si accalcano attorno al  dolore umano, e che lo usano  per esorcizzare il loro, né i soccorritori che con le loro tute, sembrano appartenere  più a  un set cinematografico che non  alla realtà.
Accompagnai  Mario in ospedale. Sebbene appena giunti, c’imbattemmo in un operatore dell’ accoglienza che aveva la grazia di un mastino, mi accorsi che Mario era più tranquillo.
Nel congedarci gli dissi che sarei tornato  il giorno dopo a trovarlo. Ma non ce l’ho fatta.
Voglio  ora credere che qualcuno si sia avvicinato al suo letto e gli abbia parlato. E se anche non fosse andata così, mi conforta l’idea  che durante quelle ore, egli fosse avvolto, non dal freddo della sua casa,  ma almeno dal calore di una stanza riscaldata.   



Luciano Roghi

Marzo 2011

4 commenti:

Anonimo ha detto...

Caro Luciano, credo che la tua sia una grande metanarrazione nel senso che richiama a molti altri temi importanti quali l'appartenenza, l'interesse per gli altri, specie in una fase in cui domina il pensiero unico.Inoltre il racconto permeato di poesia, è scritto con il giusto distacco senza scadere quindi nel buonismo. Ho provato a togliere le ultime tre righe per sperimentare un altro effetto. Ciao e buon lavoro. Enzo Giarmoleo

Anonimo ha detto...

Anche qui la vita detta le sue parole. senza buonismo, commossa non mi esprimo e ammiro la grande capacità di Luciano. Ciao Emy

Anonimo ha detto...

"Allora cominciai a guardare i luoghi in cui aveva vissuto...Cercai di appropriarmi delle sue cose..."
Si tratta dell'espressione più consona del sentimento umano più nobile,l'amore inteso come solidarietà,condivisione.Ma questo è "contenutismo",il tema proposto sarebbe stato quello leggermente più accademico di stabilire la linea di confine tra poesia e non poesia.Mi sa che questa nobilissima classificazione abbia perso un po' di smalto,significativo resta il fatto che una bella prosa si consideri "poetica" e che una brutta poesia spesso la si possa giudicare prosastica.
Alberto Accorsi

Anonimo ha detto...

Ringrazio Enzo, Emilia e Alberto per i loro commenti.
Luciano