mercoledì 16 marzo 2011

LABORATORIO MOLTINPOESIA
Critici e poeti: cani e gatti?
Resoconto
serata del 15 marzo 2011


Una volta sì, oggi no, purtroppo.. Questa, direi, la conclusione (provvisoria) dell’incontro tra Paolo Giovannetti, professore di Letteratura italiana alla IULM e i partecipanti al Laboratorio MOLTINPOESIA del 15 marzo alla Palazzina Liberty.
La questione è "vecchia". L’abbiamo affrontata spesso nelle discussioni anche improvvisate del Laboratorio. E fin dalla sua nascita nel 2006. Un’ossessione? O un problema importante anche se senza facili soluzioni?
Paolo Giovannetti, con una bella introduzione, ricca di  dati e di esempi ricavati dalla sua esperienza di accademico, studioso di metrica e storico della letteratura,  ci ha esposto il suo punto di vista  quasi “militante”: il rapporto tra critica e poesia non può essere più posto nei termini di collaborazione  “dialettica”(quindi non priva di tensioni) com'è accaduto nel solco di una lunga tradizione, dove ciascuno aveva chiaro le  regole del suo “mestiere”, perché  con gli inizi degli anni Ottanta siamo entrati  in una nuova epoca, quella postmoderna; quella lunga tradizione s’è interrotta e tanti problemi, compreso questo, non si pongono più come in passato.
Per cogliere meglio distanze e differenze, Giovannetti  ha narrato un episodio: il poeta Antonio Porta, avendo in mente di preparare un’antologia della poesia degli anni Settanta, si rivolse a Vittorio Sereni chiedendogli dei testi inediti. Sereni  confessò di non averne. Perché per lui scrivere poesia era un’operazione che nasceva soltanto da una necessità personale e storica, da un confronto serrato e non  frettoloso o episodico con  i poeti che l’avevano preceduto (la tradizione). Non, dunque, un’attività “spontanea”, quotidiana o quasi “fisiologica”. Non era, Sereni, uno  da scrivere poesia come si respira o come si fa una passeggiata. 
Tutt’altro è l’atteggiamento di gran parte dei poeti d’oggi. Ce ne sono di quelli che  non si limitano neppure a pubblicare una raccolta all’anno, ma ogni sei mesi. Ed  è facile incontrarne tanti che non sentono alcun legame con la tradizione (o le tradizioni: la classica, la moderna e persino  quella dell'"avanguardia"), non  si riconoscono in  alcun padre o maestro e non hanno uno stile facilmente riconoscibile. Altrettanto facile è incontrare critici (o sedicenti tali) che ormai praticano  più o meno onestamente una “critica amicale”, rituale, impressionistica, senza respiro generale (incapace cioè di collegare - come facevano i critici del passato di scuola storicista o marxista e persino strutturalista - il campo poetico ad altri campi: il sociale, il politico, il filosofico, lo scientifico, ecc.). Oppure si sono  asserragliati nel loro lavoro accademico sui pochi “veri” o “grandi” poeti del passato (più o meno recente) e rifiutano sdegnosamente di occuparsi della produzione contemporanea, perché giudicata a prima vista  scadente, noiosa, “barbarica”, insignificante.

La nuova realtà postmoderna non vede, dunque, critici e poeti neppure più come “cani e gatti”.
Si assiste a uno spappolamento dei “mestieri”. Domina un ignorarsi reciproco, l’anomia, la mancanza di regole (di rapporti, di proporzioni). I pochi cultori della tradizione o delle tradizioni letterarie e poetiche scrivono al massimo saggi su Montale e Zanzotto. Bisogna dire: a futura (improbabile) memoria, se la crisi generale e quella del libro in particolare ridurrà ancora più la comunicazione tramite cartaceo e tramite pensieri elaborati. I molti (i moltinpoesia!) fanno (sono costretti a fare?) una poesia fai da te . Altrettanto a futura (improbabile) memoria. Perché l’inflazione delle pubblicazioni a pagamento o autoedizioni (samizdat!) o sul Web (blog personali o siti di poesia) non crea di per sé lettori né critici  consapevoli e motivati in numero sufficiente per dare senso (pubblico, sociale, civile) a questa produzione caotica, ambivalente e, a voler essere ottimisti, solo in potenza e in modo non accertabile per ora, feconda.

Che fare allora?  Giovannetti, distanziato nettamente dai suoi colleghi accademici con la puzza sotto il naso («spiegassero almeno perché la poesia d’oggi è scadente»), suggerisce un atteggiamento di attenzione e di dialogo (un po’- mi pare - quello che io ho chiamato «critica dialogante») nei confronti dei poeti d’oggi. O delle «pratiche virtuose»:  essere «eclettici», porsi da una «pluralità di punti di vista», imparare (persino) a «cambiare maschere», a non indossarne una sola, a non aggrapparsi a  «una sola poetica». ( A me ha fatto venir mente un famoso libro degli anni Ottanta: AA.VV., Sentimenti dell'aldiqua). E se  non nega al poeta la possibilità di «affidarsi all’estro», ritiene che al critico, no, questo non può essere concesso: a lui resta ancora un compito preciso, quasi da studioso di tradizione positivista: parlare sulla base di documenti.  

Nella successiva  vivace discussione sono stati ripresi i vari spunti  proposti da Giovannetti o riconfermati dubbi e posizioni abbastanza consolidate nel Laboratorio.
Le elenco brevemente, sollecitando i presenti a riferire al meglio il proprio punto di vista, scrivendolo qui sotto, nello spazio commento:
1. Stare, sì, attenti alla tradizione, ma è altrettanto importante fare attenzione al presente (Mayoor);
2. Chi sono questi critici in grado di giudicare se un testo è o non è poesia? (Giarmoleo) [Il riferimento è alla discussione sorta a proposito della poesia di Salvatore Dell’Aquila pubblicata in un post del blog MOLTINPOESIA];
3. Com’è possibile orientarsi tra le varie poetiche? (Colnaghi);
4. Chi dà al critico il potere (il mandato) per criticare? Un critico può fare il critico se non è un poeta?  Per me critici e poeti hanno ruoli del tutto separati (Provenzale);
5. Non vedo questa netta separazione tra critico e poeta. (Abate);
6. La critica oggi va a tentoni come accade in tanti altri saperi. Se quello del critico può essere anche in mestiere, questo non accade per il poeta. È possibile essere dei lettori consapevoli, ma bisogna riconoscere che il lavoro del critico è altra cosa (Pancrazi);
7. Non bisogna dimenticare che i poeti hanno sempre una limitata padronanza sulle cose che scrivono. (Accorsi);
8. Non credo che ci sia un venir meno dell’io in poesia. Noto piuttosto un eccessivo narcisismo esibizionistico nei poeti d’oggi. Per liberarsene, ben vengano invece luoghi di discussione e confronto come questo Laboratorio (Del Punta).

[A cura di E.A.]
      

6 commenti:

Anonimo ha detto...

Fine

Caduco il sole
infligge al vento
la sua condanna.

Ah! S'io fossi poeta!

Emilia

Anonimo ha detto...

Lucio Mayoor Tosi:

"Stare, sì, attenti alla tradizione, ma è altrettanto importante fare attenzione al presente".

Può essere che qualcuno arrivi alla poesia per innamoramento, per suggestione dovuta alle buone letture, per interesse agli accadimenti culturali, può essere, ma quello che poi accade è altra cosa. Scrivendo poesia s'innesca una particolare attenzione al presente, all'esistere individuale e/o collettivo, mentre la critica ha caratteristiche retroattive, arriva cioè al presente per analisi del passato. La critica confronta, decodifica, interpreta e spiega successivamente, si trova a disagio nell'attualità (termine ancor più effimero della modernità), perché non sempre riesce a metterla in buon ordine. Servono occhiali. E personalmente credo serva di avere una preparazione meno specialistica dove trovino spazio all'occorrenza anche le scienze introspettive, umanistiche e sociali, senza le quali si corre il rischio di interpretazioni monouso che potrebbero, anche per questo, rivelarsi fallaci o contraddittorie.

Capire il presente è compito del critico in quanto esso opera come chiunque altro in questo contesto. A meno che sia principalmente uno storico, ma allora con la poesia che si fa avrebbe poco a che vedere in quanto la poesia, secondo me, oggi non ha occhi che per il presente, è più un accadimento che un ripensamento.
Se diamo per buona che la poesia è espressione nella solitudine, come non vedere quanto questa sia cambiata con la fine del millennio? Abbiamo mezzi tecnologici che ci mettono in relazione gli uni con gli altri, grazie a queste tecnologie la solitudine ne riesce depotenziata. Non è uno stare insieme illusorio, è un'altra forma di convivenza che inevitabilmente comporta l'uso di nuovi linguaggi. Perfino Montale l'aveva capito se già negli anni sessanta si concesse l'uso della parola "telescrivente" (so bene che non fu il primo).

Oggi la poesia è figlia di questa solitudine depotenziata, se ricorre a nuovi termini non può che volgarizzarsi, se vuole essere sociale deve decadere (che non è scadere). E la critica potrebbe darci una mano se facesse altrettanto. Se no i critici dovranno contentarsi dell'accozzaglia perché i nuovi poeti tarderanno ad arrivare.

Anonimo ha detto...

Giorgio Linguaglossa:

Caro Ennio,

condivido la tesi di Giovannetti che con gli anni Ottanta, cioé con l'ingresso del post-moderno, quel sottile filo che legava la critica con i testi si è dissolto per sempre, così come si è dissolta la «tradizione», o meglio, il senso di sentirsi uniti ad un percorso comune rappresentato dalla «tradizione». Quello che resta sono le macerie, oggi ogni poeta vuole soltanto recensioni amicali, arbitrarie e promozionali perché si è tutti un po' poeti d'occasione, perché rarametne si ha la competenza di studi e di disciplina che un tempo lontano (nel lontano Novecento prima degli anni Settanta-Ottanta) costituiva la figura di un poeta. I critici improvvisati, cioé i poeti-critici, i critici turisti sono diventati una calamità. Il discorso critico oggi è diventato il parlare di un ircocervo, qualcosa che oscilla tra l'omiletica [= arte del comporre le omelie] e la piaggeria, ma ormai è talmente dilagante questo costume che capisco come la mia scrittura critica possa risultare (e infatti risulta) ostica e, addirittura, dare ai nervi.

Anonimo ha detto...

Giorgio Linguaglossa:

Caro Ennio,

condivido la tesi di Giovannetti che con gli anni Ottanta, cioé con l'ingresso del post-moderno, quel sottile filo che legava la critica con i testi si è dissolto per sempre, così come si è dissolta la «tradizione», o meglio, il senso di sentirsi uniti ad un percorso comune rappresentato dalla «tradizione». Quello che resta sono le macerie, oggi ogni poeta vuole soltanto recensioni amicali, arbitrarie e promozionali perché si è tutti un po' poeti d'occasione, perché rarametne si ha la competenza di studi e di disciplina che un tempo lontano (nel lontano Novecento prima degli anni Settanta-Ottanta) costituiva la figura di un poeta. I critici improvvisati, cioé i poeti-critici, i critici turisti sono diventati una calamità. Il discorso critico oggi è diventato il parlare di un ircocervo, qualcosa che oscilla tra l'omiletica [= arte del comporre le omelie] e la piaggeria, ma ormai è talmente dilagante questo costume che capisco come la mia scrittura critica possa risultare (e infatti risulta) ostica e, addirittura, dare ai nervi.
16 marzo 2011 17:02

titoxy ha detto...

Ennio,
solo due note in quanto assente. ciao tito

Condivisibili i rilevamenti. Mi spiace non aver potuto far parte dei "molti". COmunque d'accordo sulla questione Critica/Poeti. Se l'ambiente tutto mostra un basso livello di produzione e di considerazione, vuol dire che ci sono dei difetti in ambedue le componenti (da una parte langue la riflessione e il pensiero critico, dall'altra l'estro e il fare). La soluzione? Si, come dite, riaprire dialoghi, fare comunità, gruppi collettivi, attivisti, studiosi e artigiani, seri, con volontà umiltà e anche estro e coraggio.
Non condivido del tutto le accezioni che vengono a formarsi sul postmoderno. A volte sembra che la responsabilità sia dell'epoca e non dei soggetti... Ad ogni modo il postmoderno ha (come tutte le epoche) luci ed ombre.. E' propria del postmoderno la possibilità di porre gli stili su una linea orizzontale e dunque di renderli utilizzabili a seconda dei punti di vista (o di azione). Infatti Paolo alla fine consiglia giustamente di non chiudersi in una poetica ma di restare aperti... Apertura che approvo anche se i tracciati programmatici vanno comunque segnalati e quanto più possibile resi coscienti.
Non condivido anche l'accezione negativa con cui viene presentata la pratica del fai da te... Questa ha illustrissimi predecessori sia in singoli sia in "movimenti". Forse c'è un appiattimento nella formula grande poeta-grande editore? Anche qui il problema non è il mezzo. Si vedono cose pessime anche con Mondadori ecc.
D'accordo comunque anche per puntare una barra sulle necessità del presente, e di non dover specializzare eccessivamente la distanza tra poeta e critico. In realtà di questi tempi per vari motivi e per varie cause mi pare che poeti e critici tendano ad abbracciarsi verso una medias delle cose poetiche che è troppo rivolta verso il basso.
Ecco, invece di perdere tempo sulla "vera poesia"... Centrare la discussione (come avete fatto alla fine) sul PROTAGONISMO / ECCESSIVO NARCISISMO ESIBIZIONISTICO che pervade la poesia d'oggi. Questo è un tema da mettere sul tavolo, su cui documentare e poi...rendere pubblici i risultati (nero su bianco).
saluti
tito

leopoldo attolico ha detto...

Prendo spunto dalla riflessione di Giorgio in ordine alla "crisi della Ragione" per spezzare una lancia ( non lancerei mai un ferro da stiro ) a favore dei poeti della generazione del '70.
Mi propongo non come avvocato difensore , ma da semplice osservatore stagionato anzichenò .

Credo che l'"handicap"dei poeti della succitata sia essenzialmente anagrafico , riconducibile al non aver vissuto sulla propria pelle e sui propri neuroni l'immediato dopoguerra e i due decenni successivi .
Penso che la circostanza sia stata decisiva per la formazione di una consapevolezza, di una sensibilità e di una conseguente apertura intellettuale .
Personalmente ritengo "fortunata"gente come Pagliarani, Emilio Villa , Sereni, Calogero, Matacotta ecc.,che ha vissuto l'esperienza della guerra ( e dell'anteguerra ) introiettandola e innervandola criticamente con quella del ventennio successivo : una fantasmagoria di "vissuto" , di climi , di stimoli culturali che la scrittura ha poi capitalizzato con gli esiti che sappiamo .

La quasi totalità della poesia dei quarantenni di oggi - per forza di cose - è fuori dalla Storia , dalla contemporaneità , dal presente . Sono cresciuti in un mondo depauperato di un Humus irripetibile , consegnato agli echeggiamenti di una cultura libresca e agli stanchi epigonismi di pattuglie di nostalgici ingessati / impaludati patetici pessimi maestri .
E' stata una generazione irretita / anestetizzata /clonata dai valori "culturali" e dalle suggestioni massmediali affatto commendevoli che sappiamo . E' gente che sa scrivere - e bene - dei soprassalti psichici mediati dai vulnus di cui sopra , ma non sa "vivere" nella sua scrittura perché la desertificazione delle coscienze e il depauperamento umanistico hanno affievolito o azzerato ogni capacità di lettura gnoseologica del Reale , dell'altro da sé , proprio quello che nella sua problematicità dovrebbe rappresentare il terreno privilegiato dei versi che mettono in scena il "teatro" del mondo , del soggetto che fa esperienza del mondo e la descrive .
Una generazione a cui è rimasta la lussureggiante "cultura del sé", che non sarebbe da biasimare o da sottostimare se non fosse proterviamente avvitata soltanto su se stessa e a referenti ostaggio di un " privato" incapace di rappresentarne valenze umori e istanze collettive .
Questo è quanto . La generazione del '70 è assolta ; non per insufficienza di prove , ma perchè le prove sono ( credo ) oggettivamente ( drammaticamente ? ) presenti documentabili e tali da autorizzare quantomeno la sospensione del giudizio .