martedì 3 maggio 2011

CONTRIBUTI
Ennio Abate
Le ceneri di Pasolini

Questo articolo uscirà sul prossimo numero 5 della "rivista di poesia e arte sociale" FAREPOESIA, pubblicazione quadrimestrale a cura di EDIZIONI  FAREPOESIA, un progetto editoriale di Tito Truglia (titoxy@libero.it) 


Insomma, c’è l’opera Pasolini; e c’è la leggenda Pasolini,
 e questa presso la maggioranza prevale sull’altra.
(A. Asor Rosa, La Repubblica, 21 ott. 2005)


1. Carta d’identità di un lettore né filo/né anti-Pasolini

Non sono stato un lettore appassionato  di Pasolini, ma non credo  per pregiudizi omofobi. Semplicemente Pasolini per me è appartenuto a lungo a un altro mondo che sentivo fuori dalla mia portata. Ricordo di aver letto di lui e in ritardo, da giovane, solo Ragazzi di vita. Il primo scrittore italiano, che mi prese tanto che ne lessi quasi tutti i libri, fu Cesare Pavese. A fine liceo, feci letture convulse di vari narratori americani che uscivano nei primi Oscar Mondadori, della Recherche di Proust, dell’Ulisse di Joyce.
Seguì un temporaneo e sessantottesco rifiuto della letteratura in nome della politica; e poi il riavvicinamento soprattutto attraverso la mediazione di articoli e saggi di Franco Fortini, per me divenuto e rimasto «maestro a distanza» anche quando potei incontrarlo di persona. L’attenzione verso Pasolini e una maggiore consapevolezza dell’importanza della sua opera mi vennero proprio leggendo gli scritti, polemici e a volte spietati, che Fortini gli ha dedicato. In particolare, fu da Attraverso Pasolini, letto appena uscito nel 1993, che più tardi, nel ’97, trassi spunti per un corso  di scrittura, che intitolai Fortini/Milano-Pasolini/Roma. In tale occasione feci anche la mia prima attenta e coinvolta lettura de L’usignolo della Chiesa Cattolica e de Le ceneri di Gramsci. La traccia di lavoro, allora  preparata, metteva a confronto biografie e opere principali dei due scrittori, che sentii (e sento ancora) complementari e antagonisti e interni alla problematica politica e culturale della sinistra comunista che avevo fatto mia. Complementari e antagoniste mi parvero Roma e Milano, le città dove abitarono, ma anche i luoghi della loro formazione giovanile: Casarsa per Pasolini e Firenze per Fortini. E, storicamente e più in generale lo sono, i mondi a cui essi si sentirono emotivamente e intellettualmente legati - quello contadino per Pasolini,  quello urbano-industriale per Fortini - e che, tra gli anni  Cinquanta e Settanta del Novecento, vennero a più duro confronto e scontro nella storia dell’Italia. Sulla base, infine, della mia duplice esperienza di vita – infanzia e giovinezza in un Sud cattolico (Salerno), età adulta nel Nord industriale (Milano e hinterland), riconosco nella prima somiglianze di emozioni con  quella iniziale (casarsese-romana) di Pasolini; e nella seconda una forte vicinanza alla politicità di tipo fortiniano. Queste le credenziali della mia riflessione d’oggi su Pasolini.

2. Commemorazioni

Il 21 ottobre 2005 sulle pagine culturali di «Repubblica» -  ora giornale principe della “sinistra” -  Sofri, Arbasino ed Asor Rosa commemorarono Pier Paolo Pasolini a trent’anni dalla sua morte. Quegli articoli toccarono alcuni topoi ricorrenti della discussione su di lui e la sua opera. Sofri ne sottolineò l’«irriducibile diversità». Arbasino, intervistato da Antonio Gnoli, parlò con nonchalance della «tolleranza da parrocchia veneta» verso gli omosessuali durante gli anni Cinquanta e dell’inasprirsi della loro condizione nei decenni successivi. Asor Rosa si limitò a un onesto discorso professorale sul rapporto tra vita e letteratura, dichiarando la sua preferenza per Calvino, meno personaggio di Pasolini. Parto da quelle pagine per dire che già allora erano divenuti minimi i cenni al ruolo di scrittore politico e civile svolto da Pasolini, ma che sono bastati altri 5-6 anni per assistere a un ulteriore restringimento (e impoverimento) del dibattito sul suo lascito. Questa è l’impressione che ho ricavato dall’introduzione di Marco Belpoliti al suo Pasolini in salsa piccante.[1] La sua attenzione si concentra sull’omosessualità dello scrittore e regista (ancora uno dei temi, ma non il più importante nel dibattito di «Repubblica»), che viene presentata come l’unica e più valida chiave di interpretazione del personaggio e della sua opera.

3. Esame di un’introduzione

I miei dubbi e le mie riflessioni riguardano proprio questo taglio interpretativo. Mi sono chiesto: è innovativa la sua tesi? è criticamente significativa? segnerà una svolta negli studi  su Pasolini? Ne dubito. Non credo (e i sostenitori pasoliniani della «mutazione antropologica» dovrebbero essere i primi a riconoscerlo) che l’omosessualità di Pasolini sia ancora oggi un aspetto rimosso «perché il nostro è un paese profondamente cattolico, perbenista, nonostante gli scandali di questi giorni, al vertice della società politica, lo scandalo vero non è quello eterosessuale, ma quello omosessuale»[2]. Vedo perciò nella pubblicazione del libro di Belpoliti un episodio della competizione tra le corporazioni letterarie addette alla gestione della figura di P.P.P. E, infatti, la sua tesi è  stata subito contestata. È un fatto sintomatico, invece, che uno spostamento della riflessione dall’opera al personaggio si vada imponendo. Lo colgo, da esterno, almeno nel lessico degli addetti ai lavori. È, si dice, il corpo di Pasolini (cioè soprattutto le immagini, le foto del suo corpo, da vivo o soprattutto da morto)  che dovrebbe interessare i lettori d’oggi. Soprattutto? Soltanto? E perché? Al corpo punta la curiosità dei lettori o dei giovani che di Pasolini sentono parlare per la prima volta? Oppure è questo che di Pasolini interessa oggi ai post-pasoliniani? Propendo per questa seconda ipotesi. Il libro di Belpoliti mi pare un’operazione di revisionismo letterario, che, in parallelo con la revisione della storia italiana del secondo Novecento,cucina un Pasolini più gradito ai gusti postmoderni veicolati dai mass media, e cioè spettacolarizzato, destoricizzato, depoliticizzato. Un tale riduzionismo non mi pare contrastato da quanti si appassionano alla querelle tra i sostenitori del movente politico nell’uccisione dello scrittore e quanti lo ritengono vittima delle sue frequentazioni notturne di prostituti. Il saggio di Belpoliti, in fondo, dà man forte a questa seconda tesi. Viene perciò valorizzato dai giornali della cosiddetta “destra” e suscita le ire della cosiddetta “sinistra”. Si tratta di una replica nel campo disastrato della letteratura della ormai falsa (spero non solo per me) contrapposizione destra-sinistra, che invece continua a tener banco e a creare confusione nel campo altrettanto disfatto della politica italiana.

4. Il critico “complice”

Pure Belpoliti se la prende con la «sinistra intellettuale e politica» che, negli anni ’70, «disdegnò gli articoli del poeta comparsi su giornali e riviste, spesso pensando, o dicendo ad alta voce, che si trattava di cose già dette e ridette, da Marcuse, da Adorno e Horkheimer, dalla Scuola di Francoforte, una sorta di divulgazione di ben maggiori pensieri espressi decenni prima». Non si sofferma però sulle ragioni di quel “disdegno”.  Egli fa sua «l’ottica e l’etica della «disperata vitalità» pasoliniana. Gli dichiara una  «fraterna e totale complicità». Lo esalta come «l’unico sociologo, o pensatore, o moralista, in grado di interpretare la grande trasformazione italiana dagli anni Sessanta». Contraddizioni di Pasolini o nella sua opera? Certamente. Per Belpoliti sarebbe però giunta l’ora di sfrattare ogni aut aut. Pertanto dichiara che «si può essere con lui e contro di lui» e che «ora è venuto il momento dell’et et: possiamo accettarlo e respingerlo nel contempo». Come mai questo sia possibile oggi non lo spiega. Spiega, invece, come vuole «andare oltre Pasolini con Pasolini»: se lo scrittore di Casarsa mette sempre «il cuore in quello che scrive, il cuore e il corpo», pare che pure noi lettori dovremmo metterlo. Sembra  fiducioso in una facile, meccanica  trasposizione di cuore e corpo (o vita) in parola. Anzi sostiene che la «parola ..si fa carne» (una parafrasi non so se blasfema o parodistica dell’incarnazione). E apodittico proclama: «Pasolini lo si accetta in toto o lo si rifiuta», perché - secondo un’autorevole opinione di Andrea Cortellessa - «le sue affermazioni non possono essere confutate usando la sola ragione». Ecco un nuovo dogma: Pasolini fu «corsaro e luterano»  (cioè, esempio allo stesso tempo di «innocenza e colpevolezza, onestà disarmata e mistificazione ingegnosa») e anche il lettore, rinunciando a ogni spirito critico, dovrebbe  ingegnarsi ad esserlo, senza più distinguere tra opzioni tanto dilemmatiche? E tutto ciò perché noi (o Belpoliti e il suo giro?) staremmo di fronte a «una morte di cui non sembriamo più in grado di liberarci»? A questo punto, ancora al posto dei ragionamenti, troviamo la boutade, che  ha dato il titolo al libro:

«Per andare oltre Pasolini con Pasolini bisogna seguire il consiglio che il Corvo dà ai due suoi compagni di strada, Totò e Ninetto, in Uccellacci e uccellini: i maestri si mangiano in salsa piccante. Piccante, se possibile, per digerirli meglio. Attuare il procedimento di cui il poeta è stato un maestro, quello di divorare chi ci ha preceduto in sapienza, intelligenza ed età: ingerire con il maestro anche il suo sapere e la sua forza.».

Liberarsi, dunque, di un magistero (un po’ soffocante per lo stesso Belpoliti, pare) seguendo un consiglio di maestro Pasolini. Sempre più scettico mi chiedo quanti siano i post-pasoliniani ancora combattuti solo  da «amore»(?) e «repulsa» nei confronti di Pasolini, tanto da non saper  fare altro che «amarlo fino al punto di divorarlo, e ingerirlo per digerirlo».

5. Destoricizzare Pasolini

Questo invito a un simbolico rito cannibalico (o alla comunione cattolica) serve a Belpoliti per staccare Pasolini dalla storia e dalla politica di quel suo tempo. Eccolo perciò imboccare una scorciatoia oggi molto frequentata: fa combaciare la storia - i tempi lunghi della storia - con la ristretta  “storia generazionale”. Non a caso trascura ogni accenno al periodo della formazione antifascista di Pasolini, o alla crisi del ’56 e parla di Pasolini «a partire dal 1968-‘69». Con tale scelta vengono cancellate sia una certa storia della sinistra comunista sia certe aspirazioni sociali e politiche vive in Italia fino agli anni Settanta. Belpoliti s’appoggia - un’altra «fraterna e totale complicità»! - all’autorità di Alfonso Berardinelli, buon conoscitore a suo parere del «vizio dell’intellettualismo formale e del politicismo diffuso nella cultura di sinistra» (meno forse del proprio e altrui trasformismo). E così supera di botto il «complesso-Pasolini», di cui potrebbero restare vittime quei lettori che negli scritti del casarsese cercassero tuttora elementi - non dico per una «palingenesi generale della nostra società» - ma per una sua critica. Non sia mai!  Proprio in un momento in cui a Pasolini «non solo la sinistra, ma anche la destra non fa che manifestare questa devozione senza riserve ora»! Proprio in un momento in cui, in ossequio a sollecitazioni autorevolissime per imporre una (ipocrita) memoria condivisa da tutti, che sta diventando uniforme d’obbligo  in Italia, Belpoliti, strappando l’immaginetta del Pasolini diventato «il Padre Pio della sinistra», proclama la beatificazione “laica” di un Pasolini omosessuale per tutti. (Pochi vecchi coglieranno qui l’analogia possibile con quel «Gramsci per tutti», bersaglio su Giovane critica, una rivista agli albori del ’68, degli strali di un dimenticato storico, Stefano Merli).

6. Omosessuale e basta

Semplificare Pasolini, riducendolo alla sua omosessualità. Ecco la via  imboccata dai critici bel…politi! Pasolini, tolto al suo sodalizio politico più che documentato con la storia del PCI, deve essere visto come omosessuale e basta. Manco più uno scrittore omosessuale, ma di sinistra, del PCI. Cancellati Marx, Gramsci, il PCI, dev’essere cancellato pure il Pasolini politico o civile. Deve restare “la natura”, l’omosessualità. La visione politica di Pasolini  (per me discutibile, ma mai trascurabile) deve diventare una veloce mano di vernice culturale sulla sua omosessualità. Questa lettura  da bigino radical avrà di questi tempi il vento in poppa. E Belpoliti potrà sostenere indisturbato che  Pasolini fu sempre (durante l’intera sua vita?) un perseguitato a causa della sua omosessualità; e che solo o soprattutto per questa venne messo ai margini «non solo dalla destra, dai giudici, dai giornali benpensanti e reazionari, ma anche dalla sinistra». Forse ricordarsi del Freud de Il disagio della civiltà o del Marcuse di Eros e civiltà renderebbe più cauti, riconoscendo almeno quel “disagio” ad omosessuali ed eterosessuali. Ma lasciamo perdere… Che per Pasolini la «sua scandalosa omosessualità, mai nascosta ma sempre esibita»  sia «fonte e ragione della sua ispirazione poetica» o «soprattutto politica» è ipotesi che si può e si deve discutere. A patto, però, che non si  faccia derivare  tutta l’opera (o fosse pure la contraddittorietà dell’opera) esclusivamente dalla sua “fonte” omosessuale. Equivarrebbe a ripetere l’errore di chi spiega il pessimismo di Leopardi con le sue infermità o la famosa gobba. Ci fu davvero un filo diretto tra  vita e opera, tra esperienza omosessuale  e scelte culturali che  Pasolini andò facendo nel tempo? Ed è indispensabile, decisivo (per la “fede” dei fans o per i lettori seri?) prendere «atto della sua omosessualità»? Se la si mantenesse o mettesse tra parentesi o sullo sfondo (non per  volontà di rimuovere o sublimare, semplicemente tenendo ferma la distinzione, non infondata o dovuta a capriccio, tra vita e opera e la si considerasse “materia” comunque sottoposta a una formalizzazione, anche quando l’autore  lo negasse) non si capirebbe niente dell’opera di Pasolini o della sua personalità?

7. Giovani anti-esteti e politicizzati (una volta)

Quando poi Belpoliti scrive: «Certo c’è chi l’ha amato incondizionatamente anche a sinistra, in particolare tra i giovani aderenti al Partito comunista, cui Pasolini ha dedicato dopo il 1970 una forte attenzione e un’incrollabile speranza; ma anche questi ammiratori con ogni probabilità non hanno mai davvero preso atto della sua omosessualità, l’hanno ideologicamente sublimata, come accade sovente nell’entusiasmo dell’essere giovani, cogliendone gli esiti politici polemici ma non certo le premesse estetiche», c’è da trasecolare. Dunque, i giovani degli anni Settanta non potevano essere attratti da quel che diceva o scriveva Pasolini e che andava anche oltre il suo essere omosessuale? In quell’«entusiasmo dell’essere giovani», sfuggendo loro «le premesse estetiche» (omosessuali) di Pasolini, non coglievano forse altro e  proprio sul piano politico? Il pensiero che in quegli  anni la politica non fosse fogna con liquami mai prima così abbondanti e nauseabondi, che potesse essere una vera e diffusa passione e  che questa si andasse strutturando in cultura attiva (e non  solo in “ideologia”) non sfiorerà più la mente di Belpoliti, intento com’è (non so da quando) a rovistare finalmente in santa pace tra le «premesse estetiche» in  questo eterno presente di estetismo esasperato. Forse quello che lo storico Guido Crainz ha chiamato «il paese mancato»[3] non si sarà realizzato per la stessa «nemesi divina», che avrebbe, secondo Belpoliti,  posto fine alla “persecuzione” di Pasolini. Che dire? Speriamo che il prossimo saggio su Pasolini, che dovesse essere concepito da uno dei nuovi scrittori alla moda, non pretenda di spiegare lo scrittore partendo dal suo segno zodiacale.

8. Un consiglio di buona critica

Per sottrarsi alla tentazione di queste indagini dei filo-anti-post-pasoliniani sulle inclinazioni sessuali di Pasolini e sui moventi della sua uccisione, che restano indecifrati e forse diventeranno, com’è avvenuto per le stragi di piazza Fontana o  di Brescia, indecifrabili, visto il declino di una vita civile nazionale e lo smarrimento di un pensiero politico che da Machiavelli in poi aveva conservato un minimo di dignità teorica, bisognerebbe cambiare aria, distanziarsi, aggrapparsi a qualche buon libro. E allora mi permetto un consiglio: leggete o rileggete Attraverso Pasolini di Franco Fortini[4], saggio di sicuro assente dalla libreria di Belpoliti. Avviso: trattasi soltanto di una «buona rovina» di un’epoca conclusa. Se vi convinceste a maneggiarla, disponetevi alla fatica di chi tenti un ritorno ai classici (del passato prossimo); e siate pazienti come quando andate a far visita ai nonni o a dei bisnonni.  A scanso di equivoci e sapendo che la proposta (a pochi in verità…) suonerà strana,  si sappia che Fortini, sulla base del suo carteggio con Pasolini e dei saggi che gli dedicò, conduce un’acuminata critica al personaggio e alla sua opera (specie agli scritti “politici”). A leggerlo si colgono subito le distanze di epoca, di metodo e di qualità rigorosa della critica. Fortini attraversava in lungo e in largo la complessa biografia e visione della vita, della storia, della politica, della religione di Pasolini, per salvare – questo il suo scopo - le verità  cristallizzatesi nella sua opera (soprattutto nella poesia). Le voleva salvare («Proteggete le nostre verità»!) perché vedeva diventare l’opera di Pasolini «uno dei supporti ideologici della reazione politica»(211). Perciò invitava a disaggregarla, a separare «la biografia dall’opera e nell’opera l’autenticità dalle recitazioni di sé»(212),  ad isolare, tra la «congerie di enunciati e perorazioni», gli «elementi radioattivi», gli unici che permettono di «reinterpretare l’insieme» (VIII). E  faceva critica a tutto campo. Voglio anche ricordare che il tema dell’omosessualità  non è evitato.  In Attraverso Pasolini non c’è traccia di omofobia. Va ricordato anzi che Fortini, tra l’altro, si offrì di testimoniare a uno dei primi processi subìti da Pasolini. E in una lettera non spedita del 3 luglio 1959, pur ribadendo la distinzione tra vita e letteratura, non negava a Pasolini «una vera esperienza traumatica» o l’esistenza nella sua giovinezza di  un «trasparente dramma familiare»(27).

9. Attraverso,  non avverso a Pasolini

Credo che Attraverso Pasolini - testimonianza dichiaratamente soggettiva sullo scrittore di Casarsa - sia importante quanto gli scritti più noti e diffusi di altri suoi coetanei e amici  o studiosi (Zanzotto, Naldini, Siti); e che, in confronto alla produzione apologetica o “immedesimata” di pasoliniani e post-pasoliniani, colga in modo problematico il meglio di Pasolini. A chi, dunque,  ancora storcesse il naso (“Vorresti  che ci affidassimo proprio a un moralista come Fortini, che di Pasolini fu  nemico e detrattore!”), replicherei: vedete che Fortini ha posto  problemi fondamentali sia direttamente a Pasolini vivo, che glielo riconobbe,[5] sia dopo la sua morte. Leggere, dunque, Pasolini anche  attraverso i suoi occhiali “razionali” o “moralistici” non è tempo perso; e aiuta a non lasciarsi ipnotizzare dalla leggenda del Pasolini “mostro sacro”  o dalle mode. Lungi dal ridurci a tifosi dell’uno o dell’altro, troveremmo la spinta per interrogare  con pietas e rispetto la sua «disperata vitalità», senza però subirne il «ricatto», esserne “complici”, riproporla come un feticcio o fingere di liberarsene cucinandola in una delle tante salse da supermarket culturale odierno. Si tenga conto, infine, che le critiche fortiniane, comunque da soppesare una per una, non hanno mai comportato  una svalutazione della figura  umana e tragica dello scrittore di Casarsa né della sua grandezza poetica.

10. L’insieme storico non il dettaglio biografico feticizzato

In Attraverso Pasolini ritroviamo tutta la complessità di un rapporto tra due scrittori amici-nemici, cresciuti e scontratisi sulle problematiche della sinistra comunista italiana dal dopoguerra agli anni Settanta. Di quel rapporto sono toccati tutti gli aspetti: poetici, politici, intellettuali, biografici, caratteriali. E in stretta relazione con le vicende storiche e politiche di un tempo particolarmente  duro e di grande trasformazione per l’Italia. Le riflessioni su tale rapporto, che Fortini  dice «non di ostilità, ma di inconciliabilità» (XV), sulla poesia di Pasolini, che egli trova così “ossimorica”, sulle polemiche politiche in occasione di eventi cruciali (il 1956, il ’68), sulle speranze man mano deluse di una trasformazione in senso socialista, sull’ergersi di Pasolini sempre più a  «forza del passato»  contro quella che egli chiamò «mutazione antropologica»  e che Fortini lesse come fine di una secolare «Grande Causa» danno uno spaccato vivo di come  i due vivevano certi problemi di storia, psicologia, morale, politica, estetica e religione. La vita e l’opera di Pasolini - dice Fortini - non sarebbero comprensibili senza collegare «le stagioni della sua attività» con gli eventi pubblici e politici (guerra fascista 1940-1943; scomparsa dell’ipotesi socialista 1945-‘48; la guerra fredda e il 1956; il ‘68-‘69 e  la «latente guerra civile» fra 1969 e ‘74).Quella fu un’epoca in cui ancora pareva possibile «la fondazione di una società pluralista e democratica», in cui era ancora vivo «un enorme cumulo di simboli, connessi con l’idea di comunismo e di rivoluzione»(XIV) e il «lascito della guerra antifascista» non era ancora esaurito. Oggi nulla più di tutto ciò. La  pasoliniana «forza del passato» s’è dimostrata debolezza, ricerca evasiva di nuovi miti. Più egli senti esaurita l’ipotesi comunista, più si attaccò al suo passato contadino, al corpo, al mito (Grecia arcaica, Africa) e vide come fascismo (68) l’omologazione e il consumismo che avevano distrutto il suo “piccolo mondo antico” assieme alle lucciole. Ma il trapasso dal neocapitalismo anni Sessanta al capitalismo globalizzato ha distrutto anche l’ipotesi “operaista”, alla quale Fortini, sulla scia di Panzieri, legò le sue speranze. Pasolini visse forse le contraddizioni della storia “da adolescente”, Fortini “da adulto”, ma la storia ha  travolto entrambi. Fortini, pur rivendicando orgogliosamente quella partecipazione («non eravamo né pazzi né fanatici», X) ha espresso lapidariamente il suo bilancio: «Aveva torto e non avevo ragione». E ha, secondo me, segnalato anche  tutta la tragicità, attualità e irrisolta tensione di quella storia con estrema lucidità politica in questo passo:

«il tratto di vita nazionale che ha coinciso con la vita di chi scrive e con quella di Pasolini è stato asservito oltre ogni immaginazione, prima e oltre il conflitto delle cosiddette superpotenze, alla volontà politica e militare degli Stati Uniti. I partiti di opposizione, d’accordo con quelli di governo, col ceto imprenditoriale e con i meccanismi  dell’informazione hanno convenuto nel mantenere il silenzio sul grado  di quella subordinazione» (XIII).

Nessuna conciliazione, manco parziale, tra  natura e cultura, s’è fatta strada. Ma possiamo appoggiare la barbarie crescente intendendo la «mutazione antropologica» pasoliniana o la  fine della «Grande Causa» fortiniana come “fine della storia” e ritorno alla “natura”? Non lo penso. Continuiamo il nostro lavoro e insistiamo a confrontare Fortini e Pasolini  e ad interrogare la storia del secondo Novecento coi suoi lampi che parevano di rivoluzione ed erano invece avvisaglie di restaurazione. La conclusione di quell’epoca forse  chiarisce meglio la posta che fu in gioco  nel biennio cruciale del ’68-’69, quando Pasolini e Fortini rappresentarono nella dimensione politica le figure del “cattocomunista” e dell’”extraparlamentare”. Fortini è severissimo verso il Pasolini politico, fino a sostenere paradossalmente che solo «la poesia di Pasolini è politica nel miglior senso della parola». Troppo populismo ottocentesco. Troppa diffidenza verso le esperienze minoritarie ma innovative (per lui quelle dei Quaderni Piacentini  e dei torinesi Quaderni rossi) o ignoranza dei testi della Scuola di Francoforte che (sempre per  Fortini) avevano predisposto «gli strumenti concettuali con i quali interpretare l’avvento del neocapitalismo» (194). Pasolini non fa che accusare  l’antagonista di «una certa astrazione moralistica e mistica». Il loro contrasto su questi ed altri punti  va ricontrollato, ma non può essere abolito. Pasolini fu davvero utile al conservatorismo del PCI «quando prese posizione contro gli studenti del Sessantotto» (203) o agevolò con la sua opera quel «dialogo» tra gruppi dirigenti di partito e gerarchie ecclesiastiche  che sfocerà nel fallimentare «compromesso storico». Eppure, come  Fortini ammette, «nei suoi ultimi scritti (e in Salò) ha visto con occhi asciutti e lucidi quel che sarebbe venuto: «l’asservimento del comunismo al modo di produzione del moderno capitalismo». Ed aver «testimoniato lo scandalo […] gli vale la nostra riconoscenza» (204). Ma lo stesso può dirsi per l’opera svolta in altri modi da Fortini.

11. Poeta di una scissione

Quali dunque le ceneri di Pasolini da onorare oggi? Non quelle del maudit, dell’intellettuale organico al PCI,  ma quelle – e qui resto ancora d’accordo con Fortini - del poeta scisso tra passato e presente, tra mondo contadino e industriale, del poeta che «ci ha dato, e splendidamente, la figura di un intellettuale piccolo borghese del dopoguerra alle prese con i temi  ideologici e morali del socialismo italiano» (36). L’immagine fortiniana di un Pasolini testimone della tragedia storica dell’Italia del secondo Novecento è ben diversa da quella del  Pasolini maudit, reietto, eversore, perseguitato per la sua omosessualità, tante volte riproposta dai mass media e ripresa ora da Belpoliti. Per Fortini, come per Belpoliti, Pasolini vive e testimonia la contraddizione. Ma Fortini non  contrabbanda gli aut aut con gli et et, non concilia l’inconciliabile come fa Belpoliti. Per lui la contraddizione di Pasolini non è aggirabile: resta sia «nell’opera», dove egli è «spartito tra esasperazione formale e immediatezza tematica» e sia «nella biografia», dove si è dibattuto «fra narcisismo radicale e autentica passione per il passato e l’avvenire storico-sociale». E se «l’opera ‘sta in piedi’ dove le due componenti  si esasperano al massimo», Fortini non dimentica mai che «la biografia corre al suicidio per mancanza di individuazione, di fissazione dell’eros in forme adulte ossia d’amore» (81). Non esita perciò, invece di accodarsi ai rituali apologetici, a presentare Pasolini come un egocentrico, sadomasochista, decadente, poco dialogante e in fondo nichilista («non credeva veramente né in Dio né nella storia», 179). Ne salva però con convinzione la poesia. E non è poco.
                                                       E.A. 30 aprile 2011 



[1] Marco Belpoliti, Pasolini in salsa piccante, Guanda, Parma 2010.
[2] Da http://www.wuz.it/intervista-libro/5241/marco-belpoliti-pasolini-salsa-piccante.html . Il riferimento agli «scandali di questi giorni» è ovviamente alle vicende  di Berlusconi e del suo entourage.

[3] G. Crainz, Il paese mancato. Dal miracolo economico agli anni  ottanta, Donzelli, Roma 2003.

[4] F. Fortini, Attraverso Pasolini, Einaudi, Torino 1993.
[5] In una lettera del 1964 scriveva a Fortini:« io tengo sempre presente nel mio fare questa tua intelligenza» (F.F., Attraverso Pasolini, p. 123).

4 commenti:

Anonimo ha detto...

Giorgio Mannacio:

Un non contributo


Caro Ennio, dal tuo scritto – veramente notevole – ho solo da imparare. Nulla posso dirti di critico o integrativo per la semplice ragione che i due tuoi autori mi sono pressocchè sconosciuti. Sono una seria lacuna nella mia cultura , ma così stanno le cose. La letteratura italiana del nostro tempo è stata per me, come per te, Cesare Pavese. L’ho letto tardi ma lo considero un classico e a lui ritorno sempre riportandone sempre una “ emozione originaria “. Degli stranieri gli unici che veramente mi hanno colpito – cosa diversa , come sai bene, dal “ mi sono piaciuti “- sono stati Kafka e Joyce. Di Pasolini ho letto Ragazzi di vita, che non mi ha spinto a leggere altro. Ho visto invenzioni geniali in Uccellacci e uccellini ; ho letto – senza interesse – alcune sue poesie.
Di Fortini poeta ho letto Questo muro che ho trovato privo di interesse e valore estetici. Dai suoi saggi politici mi ha allontanato una esperienza personale ( un mancato colloquio con lui negli anni di piombo) che forse stoltamente ho ritenuto risolutiva in senso negativo. Ho in libreria Verifica dei poteri cui certamente ritornerò.
Per mia sfortuna non ho avuto né prima del liceo, né durante il liceo, né all’Università dei “ grandi maestri “ nel senso tradizionale del termine. Ad alcune conclusioni estetiche,morali, filosofiche e politiche sono arrivato con le mie sole esigue forze attingendo , in gran parte, ad una ricchissima biblioteca privata ( circa 3000 volumi ) lasciatami da mio padre morto molto giovane. Si trattava, ovviamente, di apporti largamente inattuali la cui integrazione con “ testi attuali” non è stata molto agevole.
Mi sono scelto pochi punti di riferimento e tra questi non vi sono i tuoi autori.
Posso dirti, sul piano generale ( e scontati i difetti di conoscenza di cui ti ho detto) che si tratta di autori di grande complessità la cui “ vicenda culturale , politica e umana” non può essere banalizzata. Una banalizzazione è – se ho capito bene dalle poche cose lette in proposito- il libro di Belpoliti - che ben si iscrive in tutto un “ circuito banalizzante” che pare oggi la cifra significativa di un clima generale.
Mi pare di scorgere un tono di sufficienza nei confronti di Asor Rosa. Sarà professorale ma dice alcune cose sagge nel ricordare Oscar Wilde. Ipocrisia vittoriana e moralismo italico sono prossimi e le due vicende letterarie e umane - opportunamente contestualizzate nelle modificazioni socio-economico-politiche – presentano alcune analogie. La morte di Pasolini – quale che sia il risvolto giudiziario – rappresenta la conclusione quasi coerente di una battaglia per l’affermazione globale di una esperienza esistenziale. Ovviamente anche il “ modo” della sua morte non è neutrale rispetto al giudizio che si deve dare non tanto di Pasolini ma della società che lo ha accolto o rifiutato.
Alla polemica Fortini – Pasolini sarei portato a dar un senso non riduttivo,ma relativo e strumentale quale materiale di analisi per l’interpretazione delle scelte estetiche e politiche dei due autori.
Un caro saluto. Giorgio



.

Anonimo ha detto...

"
...
Nella facilità dell'amore
il miserabile si sente uomo:
fonda la fiducia nella vita, fino
a disprezzare chi ha altra vita.
I figli si gettano all'avventura
sicuri d'essere in un mondo
che di loro, del loro sesso, ha paura.
La loro pietà è nell'essere spietati,
la loro forza nella leggerezza,
la loro speranza nel non avere speranza."

Quando un intellettuale va dove non serve avere speranze, dove si avverte che la vita basta a se stessa, non può che ricavarne un'esperienza di vita dove le ideologie decisamente non servono. Se mai condannano, limitano, infastidiscono. Tutt'al più le bandiere rosse sanno di sangue.
C'è molto cristianesimo in tutto ciò, altro che porre l'accento sull'omosessualità. Passi che negli anni '50 e '60 ci si scandalizzasse per questo, ma oggi le cose vanno diversamente. Oggi sappiamo che teniamo le distanze dei gay solo per timore della nostra possibile omosessualità. Non ci vuole molto, qualche rudimento di psicanalisi basterebbe. Anche il richiamo di Fortini alla sessualità adulta, quindi all'amore, se non precisa all'amore senza distinzioni, entrando quindi nel vivo della faccenda, resta un richiamo teorico, un pour parler.

mayoor

Anonimo ha detto...

Caro Ennio,
oggi mi chiedo dopo averti letto, se Pasolini non fosse stato omosessuale?
Mi rispondo che il sesso c'entra , c'entra sempre, in questo caso le critiche non si sarebbero dilungate se non si fosse parlato della sua sessualità e del suo drammatico epilogo,le sue poesie le avremmo sì salvate ma lui ed il suo mito sarebbero finiti nel solito oblìo. - Non desiderare la donna d'altri- per lui erano uomini, da qui il tutto. Ciao e grazie Emy

Anonimo ha detto...

Ennio Abate:

Cara Emy,
i miti si possono costruire su tutto: il sesso, la guerra, la pace, l'odio, ecc.
Basta vedere i Greci, che se ne intendevano più di noi.
Ma, appunto, non siamo più nel mondo antico e abbiamo capito che i miti hanno anche una faccia repellente.
Non vederla oggi è pericoloso.
Ciao
Ennio