venerdì 27 maggio 2011

OMAGGIO
IN MORTE
DI GIOVANNI GIUDICI
(1924-2011)


autore e titolare del copyright della foto RINO BIANCHI:rinobianchiphotographer@gmail.com

È morto in questi giorni il poeta Giovanni Giudici.  Non ha avuto gli onori della Merini. Poeta minore rispetto a lei? No, maggiore. Solo che la sua figura di piccolo borghese d’antan  - ruminatore prima    delle sue “gioie” de L’educazione cattolica (la sua prima raccolta del 1963), poi  del «vissuto dell'uomo impiegatizio nella sua versione più tetra» (Zanzotto) e infine, da vecchio, ritiratosi a Le Grazie (in provincia di La Spezia) dov’era nato nel 1924 -  non attizzava più i giornali o la TV  della società spettacolare. A differenza della poetessa Merini, tanto “folle e infelice”, la sua infelicità era troppo fredda e riservata, non  rientrava in nessuna delle  recite previste per il pubblico snob-democratico d’oggi.  Ho letto alcune anodine “preci” di poeti e critici che hanno avuto occasioni d’incontrarlo. Ne parlano compassati, attingendo ai loro antichi ricordi («Una volta, in un'intervista del 2000, Giovanni Giudici disse che Saba gli aveva insegnato la pazienza»). Una volta! Non un cenno a come si era e a come  si è  ridotta oggi l’Italia  (di sinistra), che  almeno  tra anni Sessanta e Settanta lo accolse e un po’  del suo  autobiografismo si servì.  Si buttano appunto sulla biografia (staccata dalla storia), sugli sforzi fatti da Giovannino per  uscire dalla miseria, arrivare alla Olivetti, frequentare i letterati già  col successo in tasca. Viene ricordato  pure che «letteratura e politica»  sono stati «i due interessi prevalenti della sua vita, insieme con il giornalismo». Di quale politica si tratta? Silenzio. Si rischia di dover parlare dei suoi legami col socialismo italiano e poi della sua adesione al PCI: fastidiosi fantasmi  da prima repubblica, che oggi potrebbero turbare le inossidabili speranze  dei lettori democratici.  Come fastidioso sarebbe parlare della sua vecchiaia, della malattia, della scelta di isolarsi. Un conoscente mi raccontò di come Giudici si lamentasse perché tutti l’avevano  ormai completamente trascurato o dimenticato. Capita ai comunisti. Capita ai poeti. Capita ai vecchi. Ma  per un giorno o due ci sono stati i «coccodrilli» a  piagnucolare in suo onore. Questo lo concede ancora ai poeti la Grande Stampa. Meglio lasciar perdere e rileggere o leggersi per la prima volta qualcuna delle sue poesie. Queste due che ho scelto mi paiono in tema e fuori tema allo stesso tempo. Una morte  immaginata così impiegatizia e piena ancora di sentimenti tremebondi, ma ancora “naturale”,   quasi da augurarsela rispetto a quelle che ci preparano guerre e disastri nucleari. [E.A.]


Descrizione della mia morte

Poiché era ormai una questione di ore
Ed era nuova legge che la morte non desse ingombro,
Era arrivato l'avviso di presentarmi
Al luogo direttamente dove mi avrebbero interrato.
L'avvenimento era importante ma non grave:
Così che fu mia moglie a dirmi lei stessa: prepàrati.

Ero il bambino che si accompagna dal dentista
E che si esorta: sii uomo, non è niente.
Perciò conforme al modello mi apparecchiai virilmente,
Con un vestito decente, lo sguardo atteggiato a sereno,
Appena un po' deglutendo nel domandare: c'è altro?
Ero io come sono ma un po' più grigio un po' più alto.

Andammo a piedi sul posto che non era
Quello che normalmente penso che dovrà essere,
Ma nel paese vicino al mio paese
Su due terrazze di costa guardanti a ponente.
C'era un bel sole non caldo, poca gente,
L'ufficio di una signora che sembrava già aspettarmi.

Ci fece accomodare, sorrise un po' burocratica,
Disse: prego di là - dove la cassa era pronta,
Deposta a terra su un fianco, di sontuosissimo legno,
E nel suo vano in penombra io misurai la mia altezza.
Pensai per un legno così chi mai l'avrebbe pagato,
Forse in segno di stima la mia Città o lo Stato.

Di quel legno rossiccio era anche l'apparecchio
Da incorporarsi alla cassa che avrebbe dovuto finirmi.
Sarà meno d'un attimo - mi assicurò la signora.
Mia moglie stava attenta come chi fa un acquisto.
Era una specie di garrotta o altro patibolo.
Mi avrebbe rotto il collo sul crac della chiusura

Sapevo che ero obbligato a non avere paura.
E allora dopo il prezzo trovai la scusa dei capelli
Domandando se mi avrebbero rasato
Come uno che vidi operato inutilmente.
La donna scosse la testa: non sarà niente,
Non è un problema, non faccia il bambino.

Forse perché piangevo. Ma a quel punto dissi: basta,
Paghi chi deve, io chiedo scusa del disturbo.
Uscii dal luogo e ridiscesi nella strada,
Che importa anche se era questione solo di ore.
C'era un bel sole, volevo vivere la mia morte.
Morire la mia vita non era naturale.
(G. Giudici, Descrizione della mia morte, in O beatrice,
Milano, Mondadori, 1972, pp. 117


Lais*

E mentre guardo alle reliquie
Che lascio - occhiali dal fodero rosso
E astuccio del tabacco con amore rilustrato
E diario sul verde d
el panno sottovetro
Al mio azzardo di esse
Solo eleggendo la fida dupont
Penelope a capo del letto vegliante
Nel buio del silenzio le trame
Pronta a fissarvi in segni spettri che volitate
Nel non sopito cèrebro e parlate

Ora che mi apparecchio al distacco quotidiano
E con due dita mi sfilo dal cuore
E la conficco nella lana del cuscino
Una spina compagna di dolore
Se si troncasse il filo di futile bava
Che tiene appesa questa vita di ragno
Cosa sarete voi
Oggetti che sapevate il caldo della mia mano?
Rifanno ordine vi scoprono inutili
Commentano - erano suoi
(G. Giudici, Lais, in Salutz (1984-1986), Torino, Einaudi, 1986, p. 93)

* "Lascito", "legato", con esplicito riferimento a
François Villon

3 commenti:

Anonimo ha detto...

Ennio Abate:

Un commento del 2004 di Giulio Ferroni su Giovanni Giudici:

Nella raccolta del 1998, Eresia
della sera, c’è il bellissimo Andar di fuori il
latte è un malestro, dove si confronta la
«misura del durare» del vecchio, il limite
del suo tempo di vita, con l’improvviso
dilagare del «latte al fuoco» sugli smalti
della cucina: il motto che dà titolo al componimento,
proferito da una «piccola serva
di una volta», conduce a trasfigurare
l’intera esistenza di chi parla (che scherzosamente
si designa come «gran flâneur»),
comparandola e identificandola con quella
di chi fa la guardia al bricco perché il
latte non esca fuori («trasfigurati/ I miei
minuti in ore/ Di sentinella al bricco traditore
»). E ciò si risolve in un fulmineo invito
a sentire la temperatura del latte con il
dito, per evitare che nel bollire vada fuori;
risoluzione di quell’impegno di «sentinella
» casalinga in un gesto curioso e un po’
gaglioffo, irrisoria e insieme stupita risoluzione
di ogni esperienza nel punto del suo
dissolversi: «Come in quest’aria si raggrinza/
Il tempo della vita che tracìma/ Ciò
che fu immenso preso stretto in una pinza
-/ Un passo ed è finito:/ Senti il latte se è
caldo/ Mettici il dito».

Si legge l'intero articolo a questo link:
http://archivio.unita.it/archivio/navigatore.php?page=23&dd=26&mm=06&yy=2004&nn=&ed=Nazionale&url=http://82.85.28.114/cgi-bin/showfile.pl?file=golpdf/uni_2004_06.pdf/26CUL23A.PDF

Anonimo ha detto...

Sono rimasta colpita dalla perfetta freddezza dei versi di Giovanni Giudici. Vita e morte appaiono vicine, quasi amiche indivisibili. Le parole scorrono e restano dentro con un ritmo coraggioso ed essenziale. Non conoscevo questo poeta. Grazie Ennio . Emy

Anonimo ha detto...

A Giudici ha nuociuto il suo carattere. Probabilmente ha amato troppo la sua poesia per occuparsi degli altri ed essere ricordato e apprezzato anche dal punto di vista umano .
Quando il grande talento si sposa alle doti umane, un artista diventa uomo tra gli uomini e la sua creatività viene percepita come "dono" ; diversamente scade a talentuosa esibizione , a comunicazione preziosa da teca museale .
Restano i suoi versi memorabili . Loro ci faranno compagnia per sempre . Lui rimarrà lontano , distante .

leopoldo attolico