sabato 26 novembre 2011

Luigi Fabio Mastropietro
La poesia è morta viva la poesia



Il libro di Giorgio Linguaglossa Dalla Lirica al discorso poetico continua a ricevere  commenti e riflessioni. Questo intervento  di Luigi Fabio Mastropietro presenta una prima parte di denuncia risentita (e moraleggiante) del « MinCulPop di una letteratura e di una poesia anodine e neutrali» gestito «dai poetarchi e dai loro porno protettori governativi» e una seconda in cui ipotizza una visione  salvifica e sacrificale del compito dei poeti. (E.A.)


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Questa ultima opera di Giorgio Linguaglossa – critico dalla sensibilità finissima quanto eversiva, impegnato da anni in una solitaria lotta contro la satrapia mediatica di poetarchi e poetastri che da decenni costringe in catene la poesia e la fa marcire – non è solo uno studio storico–critico sulla poesia italiana contemporanea che riannoda i fili di un epos letterario tanto ampio e articolato, per ricondurlo ad una omogenea cornice critico–ermeneutica e per colmare una lacuna storica ormai annosa. Questa storia della poesia è anche e soprattutto un’arma a disposizione del libero pensiero. Una delle poche armi oggi disponibili per pensare. Una cartina di tornasole che rivela il vuoto autoreferenziale che si cela dietro l’entertainment pseudominimalista dominante in poesia e in letteratura.

Personalmente ho pena dei chierici – nell’accezione rivelata da Julien Benda – che oggi occupano le redazioni dei periodici culturali e delle case editrici padronali. Mi fa ribrezzo il pelo sullo stomaco dei pennivendoli un tanto al chilo che propagandano il MinCulPop di una letteratura e di una poesia anodine e neutrali. Mi danno la nausea i becchini delle major che spacciano questo placebo innocuo e indolore, escreto dal regime del basso impero televisivo. E non mi riferisco alla paleotelevisione, che tanto ha fatto a suo tempo per l’unità linguistica del Paese, ma alla neotelevisione commerciale che narcotizza e avvelena la coscienza civile italiana da più di trent’anni.
La vulgata di questa deiezione inodore dell’intrattenimento globale recita che la poesia la letteratura l’arte il teatro possono intrattenere più o meno piacevolmente, magari rassicurare le coscienze come certa puerile narrativa noir oggi in voga, ma mai possono aspirare a cambiare il mondo.
Certo, è difficile che oggi in Italia si possa aspirare ad una rifondazione della poiesi sociale e civile utilizzando la lallazione afasica della letteratura prodotta dai chierici e dai loro autistici autisti (nel senso di chauffeur). Difficile sperare in una catechesi della coscienza occidentale guidata dalla sciagura di una poesia caricata a salve. Una poesia che, come l’arte visiva contemporanea, si professa un’arte post–tutto. Una sorta di didascalia di routine sempre un passo indietro al mondo. Un’arte annunciatrice del vuoto. Un’arte trans–automatica, congelata per sempre nell’ultraconsumo del ready made duchampiano.
Ma siamo veramente convinti che l’impegno civile e politico (quale appartenenza e aderenza alla polis, al mondo), il senso del sacro e del tragico che sono elementi costituzionali e fondanti dell’arte e della letteratura rimosse o marginalizzate dai poetarchi e dai loro porno protettori governativi, non possano, anzi non debbano aspirare a cambiare il mondo e ad accelerare l’apocalisse della coscienza occidentale ormai in atto?
Io mi chiedo, quale altra cosa, oggi più che mai, ha il compito epocale di leggere il mondo per cambiarlo? Quale altra missione ha questo sacro ufficio di salvezza dell’uomo? Forse la politica stragista delle banche d’affari o la guerra monoteista per esportare democrazia precotta in cambio di petrolio? O forse la dittatura globale dell’economia e del profitto ad ogni costo o magari la politica di uno stato che, tra morti nelle fabbriche e nelle carceri, fa più vittime degli eserciti riuniti di Gog e Magog?
Quali altre visioni hanno il compito di guidare oggi la rinascita di un mondo sprofondato nel buco nero di se stesso, se non la letteratura testamentaria, la poesia musaica, il teatro di ricerca, l’arte visiva taumaturgica, la critica militante ed eversiva?
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Oggi più che mai è il tempo di credere nella poesia virale e affamata. Nella poesia medianica che nutrendosi della carne e del sangue del poeta, si nutre della carne e del sangue del mondo. Nella voce che per vivere ha bisogno di consumare i tessuti vitali di chi la pronuncia. Perché la poesia non è una scelta ma una condizione genetica di vita. La condizione di chi è affetto da un male e soffrendone produce una linfa che va a cristallizzarsi negli strati profondi dell’essere. La linfa vitale alimenta questo giacimento di ossidiana sepolto in fondo all’abisso della coscienza, ma non riempirà mai il Tartaro scavato sotto le ali di Crono. Non bastano nove giorni e nove notti all’incudine del dolore per toccare il fondo della poesia.
Il poeta non si riconosce poeta, ha terrore e nausea di questo compito e di questa definizione. La sua poesia nasce dalla dannazione di chi parla per il mondo e dallo stato di grazia di chi tace se stesso. Il poeta scrive malgrado se stesso. Canta con una voce non sua e sa bene che per dare spazio a questa voce altra che dimora dentro di lui deve struggersi e distruggere. La voce della poesia si leva dalle ceneri del tempio e risuona tra le macerie dell’io.
È questa la sola poesia possibile per chi porta su di sé i segni dell’attraversamento. Questa la sola condizione perché la voce parli oltre e contro di lui, in nome del dio che lo possiede. Questa la sola presenza, perché la poesia viva dell’assenza del poeta. Perché il raro clostridio di questa malattia che fa dire l’indicibile, contagi chi l’ascolta. Catturi il senso perduto delle cose e risvegli i sensi del mito. La cerimonia della poesia è officiata sul ciglio della voragine. E solo nell’offerta del sacrificio, la parola benedetta sarà detta bene e i sussulti della voce si placheranno.
La voce scaturisce dal corpo negato del poeta. Canta in una lingua inaudita e corrusca, scagliata nella gola dell’uomo dai primi lampi di concepimento del verbo. Una lingua gravida di senso che sembra nascere dallo stupro del silenzio primigenio. La lingua parlata dai morti e dai morituri. Muta e misericordiosa come quella dei morti. Barbara e sfigurante come quella dei morituri. La lingua pronunciata dalle labbra dell’esilio. Accecanti barbagli di una lingua antica come il dio che la divora.
Eppure questa poesia non ha alcuna azione drammatica, se non l’azione del primo uomo che si sradica dal cerchio di fuoco dei riti della comunità ancestrale per attraversare la propria morte e restituire al mondo la vera immagine di se stesso. Una poesia che è specchio pietoso del suo deserto. Una poesia che, grazie a Dio, non racconta ma scava pozzi. Non descrive ma dilata pori. Non insegna ma segna croci. Non consola ma unge pietre sulla soglia.
Superando quella soglia, il poeta rimane solo a consumare il cilicio dell’uomo. Fuori dal mondo, a inseguire la misura. Nel cuore del mondo, a distillare quella scaglia di luce che unisce la morte alla vita.
E come l’Imbunche, il bimbo santo di Josè Donoso, il poeta scopre in punto di morte che tutti gli orifizi del suo corpo, bocca, naso, occhi, orecchie, sono cuciti e che le sue mani e i suoi piedi sono legati al letto di contenzione. Il poeta non può parlare, né sentire, né vedere, né muoversi e resta lì fermo immobile ad ascoltare il passo grave che si avvicina.
Poi, all’improvviso, avverte che qualcosa si strappa dolcemente nel petto e come un canto si libera nel nulla, e gli sopravvive.

1 commento:

Anonimo ha detto...

Che dire? Non si può che condividere parola per parola. Questa critica, evidenziamolo, vale per tutti i livelli di espressione e potere, anche per quelli più bassi. E infatti Mastropiero parla anche di "Chauffeur".

Roberto Bertoldo