venerdì 11 novembre 2011

Ennio Abate
Glossa a Linguaglossa



Note a «Dalla lirica al discorso poetico. Storia della poesia italiana (1945-2010)»

Eravamo davvero in tanti ieri sera all’incontro con Giorgio Linguaglossa arrivato da Roma. Per conoscerlo di persona. Alcuni avendo già letto il suo ultimo libro. Altri per ascoltarlo e farsene un’idea. Linguaglossa ha confermato di essere uno studioso militante (partigiano e controcorrente) della poesia del Novecento.  E di esserlo in modi radicali, forse per alcuni persino irritanti. Suggerirei, però, di  discutere la sua ricerca  come  quella di uno di “noi” o vicino a “noi” , senza bloccarsi di fronte alle  asperità del suo linguaggio, alla sua eterodossia  e neppure a certi suoi giudizi drastici o, secondo alcuni, “troppo distruttivi”.
Si tratta di ragionare e discutere - senza adesioni gregarie, ma senza  spocchia però! - la sua tesi (politico-estetica) sulla poesia italiana del Novecento.
Linguaglossa sostiene che  essa è stata dominata da un «paradigma moderato» impostosi  già con l’ermetismo e che si perpetua  tuttora nel «minimalismo romano-milanese», vivacchiante stancamente di rendita (quella anceschiana della Linea Lombarda).
Di un’«altra storia» possibile, da far emergere anche con studi più mirati e approfonditi, egli vede tracce nel Montale prima di «Satura», nelle resistenze di isolati come Fortini, Ripellino, Flaiano; o di “periferici” come De Palchi, Guidacci, Calogero, Merini; oppure nella rivolta, anch’essa poi rientrata, della neoavanguardia. 
Questa ricostruzione storico-teorica della poesia italiana dal 1945 al 2010 delinea un processo di “spappolamento” della forma poesia.  E in quella che parrebbe una “democratizazione” della poesia (la «nebulosa poetante», di cui anche noi moltinpoesia siamo parte) egli vede un  sintomo di epigonismo malaticcio e senza sbocchi di “guarigione”.
Gli  orfani della «poesia lirica», avendo smarrito ogni nozione della  forma-poesia, restano  impelagati in «discorsi poetici», giocherellando con gli scampoli delle tradizioni poetiche forti o sprecandosi in un fai-da-te senza bussola.
Linguaglossa parla di noi tutti, dunque? Forse.
E poiché da tempo la critica o si è azzittita (almeno dagli anni Settanta) o perlopiù, se torna a parlare, preferisce farlo dai pulpiti accademici di sempre, lavorando sui “valori certi”, cioè soprattutto sui poeti  canonizzati  - i “visibili” (grazie alla grande editoria )  -  e spesso solo per confermare gerarchie consolidate, aggiungendo magari alcune ultime (a volte dubbie) perle, la ricerca di Linguaglossa, che si spinge anche con molti azzardi in direzione di “un’altra storia” e tra le nebbie  dove operano gli «invisibili», ci dovrebbe stare a cuore. Linguaglossa  può essere uno dei pochi interlocutori validi con cui misurarci per sciogliere i nostri dilemmi. Apriamo, dunque, una discussione su questo suo libro.  Di seguito le note che ho utilizzato durante l’incontro alla Palazzina Liberty del 10 novembre 2011 [E.A.]


1.
Il libro di Giorgio Linguaglossa, Dalla lirica al discorso poetico. Storia della poesia italiana (1945-2010)  si pone sul piano della critica della poesia come istituzione, come res publica. Richiede pertanto la mobilitazione delle nostre energie intellettuali per essere seguito e valutato. Tra i due modi tipici  con cui ci siamo avvicinati alla poesia - quello “sentimentale” della prima scoperta dei testi dei Poeti nell’infanzia e nella giovinezza e quello “intellettuale” quando è intervenuta la mediazione di qualcuno “che ne sapeva di più”, il critico insomma - dobbiamo  dare la precedenza al secondo, anche se può apparire faticoso e persino noioso.
   
2.
Questo libro nel titolo stesso suggerisce una ipotesi di storia della poesia italiana.Va da un  inizio (novecentesco), caratterizzato  da una concezione della poesia soprattutto come lirica (e dunque  poesia giovane o legata all’infanzia e alla giovinezza) ad un presente (non si sa se tappa definitiva o temporanea), che Linguaglossa chiama del «discorso poetico» (o direi: dei discorsi poetici), e cioè  di una poesia adulta o persino senile, costretta a fare i conti con l’eclissi della «lirica» e ad aggirarsi inquieta sul suo destino.

3. Riassumo più analiticamente (e semplificandola) la tesi centrale del libro. Per Linguaglossa nel secondo Novecento abbiamo capito con chiarezza che la poesia italiana è stata sempre dominata da un «parametro moderato», a cominciare dall’ermetismo del primo Novecento. In altre parole: i “moderati” hanno orientato costantemente  la ricerca poetica italiana. Moderato fu l’ermetismo, «un fenomeno di singolare “retroguardia”, tipica risposta di chiusura, di autodifesa» (6) da parte di un’aristocratica «setta di iniziati» (6). Esso, importando tardivamente in Italia un simbolismo già declinante in Europa, impediva di collegarsi ai ben più importanti «movimenti d’avanguardia europei e, in particolare al surrealismo francese». Nulla contro tale «paradigma moderato» poté la poesia neorealista. Una breccia parve aprirsi negli anni Sessanta con la neoavanguardia, per breve tempo  «esplosione di benefica vitalità», ma incapace di una «riforma radicale» del linguaggio poetico; e, con l’ultimo Sanguineti, rassegnatasi a ripristinare  la «linea neocrepuscolare» (7). Così, nel secondo Novecento  si resta comunque nei dintorni del troppo ottocentesco Pascoli (10) e del «pascolismo». Una conferma, dunque, della lucida tesi di Giacomo De Benedetti:«la nostra poesia moderna è, per grandissima parte, post-pascoliana» (8). E, aggiunge Linguaglossa, Pascoli imperversa fino all’oggi (9) con il «minimalismo inconsapevole  del tardo Novecento romano-milanese» (9).

4.
Nulla allora di “antimoderato” negli ultimi 50-60 anni? Niente affatto. Linguaglossa fa i nomi dei poeti - pochi in verità -  che sfuggono al paradigma moderato: il Pavese di Lavorare stanca (9) Cattafi, Fortini, Ripellino, Flaiano, Busacca, Pedota, Maria Rosaria Madonna e Maria Marchesi (10), Amelia Rosselli, Calogero, De Palchi (11). Non vi sfugge, invece, la tanto esaltata e mitizzata Linea lombarda, che vi resta adiacente (10). Una possibile via d’uscita da quel paradigma - ecco l’altra storia della poesia italiana   rimasta però carsica e soffocata - poteva essere quella di una «poesia modernista» (il precedente di questo suo libro è intitolato appunto «La nuova poesia modernista italiana»), di cui Linguaglossa  vede gli inizi in  Montale, che si era mosso sia contro la tradizione sia contro i linguaggi del quotidiano e della comunicazione di massa (90). Tuttavia, dopo Satura,  Montale si arrende: «chiude il rubinetto alto borghese e si apre alle scritture piccolo-borghesi “irriflesse”» (88) e finisce per  prendere atto lui pure che la poesia non ha più un destinatario, cadendo nel “privatismo” (90).

5. Questa storia della poesia italiana 1945-2010  è dichiaratamente partigiana, militante. Egli nega, perciò,  valori ufficiali consolidati sia passati (l’ermetismo) che presenti (quelli della Linea lombarda e delle sue odierne derivazioni, canonizzate ad es. nell’antologia di Cucchi e Giovanardi). E dichiara precise preferenze e drastici rigetti. Le preferenze: - Montale,  considerato un vero scrittore europeo, collegato alla tradizione metafisica e ostile alla poesia degli “arretrati” ermetici, accusati di aver importato in Italia  un “rottame” europeo: il simbolismo  ormai in disgregazione; - il Pavese di Lavorare stanca , anch’egli estraneo all’ermetismo dominante; - le avanguardie del primo Novecento e il surrealismo,  in quanto fenomeni appunto europei e  di punta rispetto all’ermetismo (6); - la neoavanguardia, come segno parziale e incompiuto di rinnovamento (come già detto); - Palazzeschi e Campana, perché novecenteschi  rispetto al  Pascoli irrimediabilmente ottocentesco (10); - i crepuscolari di gran lunga preferiti a D’Annunzio; - Fortini, Ripellino, Flaiano; - i “periferici”: De Palchi, Guidacci, Calogero, Merini ed altri. Altrettanto chiari i rigetti: come già detto, l’ermetismo, il neorealismo (e la poesia d’impegno)  presto reperto da museo (6);  il minimalismo romano-milanese (7), filiazione del magistero di Anceschi, che teorizzando una Linea Lombarda, importò in ritardo, anche lui come Ungaretti, la poetica degli oggetti di Eliot, consacrando Sereni e la sua «poesia in re» (da non confondere con «poesia realista»(15).

5.
Avendo già analizzato di recente e  accuratamente il precedente libro di Linguaglossa, ««La nuova poesia modernista italiana»( Cfr. qui ), misurando vicinanze e distanze da lui, mi  limito  qui a riassumere le  ragioni del mio sostegno leale alla sua ricerca. E lo faccio  nei modi oggi del tutto in disuso di una critica dialogante su alcuni punti per me centrali.


5. 1. Su taglio militante del libro.

Per me è tutto aperto il problema di chi  potrebbe gestire (e come…) questo conflitto tra ““moderati” (visibili) e “invisibili” (vedi ultimi capitoli) in una situazione tutto sommato  in via di esaurimento e di stallo (Linguaglossa parla di «post-poesia») senza  che s’intravveda un progetto di nuova poesia o di “riforma non moderata” della poesia?
Quella di Linguaglossa è stata finora una guerriglia nei confronti dell’establishment degli addetti ai lavori della poesia. Da una posizione di esodante mi sento  abbastanza vicino alla sua critica. Bisogna non diventare cortigiani dei “Ministri” della Poesia istituzionale e però non stagnare nell’epigonismo. Eppure mi chiedo:  questa “linea riformista” (o «parametro moderato») quanto conta oggi davvero? Anzi quanto conta oggi in generale la poesia? (O, si potrebbe aggiungere, la cultura umanistica?). Porre l’accento polemico sulla  “privatizzazione” della poesia operata dal minimalismo o sul fatto che esso si  sia creato la sua nicchia nella grande editoria non è un attardarsi su una questione divenuta tutto sommato secondaria rispetto al tracollo generale di questo Paese (che dovrebbe preoccupare anche i poeti)?

5.2  Concetto di piccola borghesia.

Linguaglossa adotta ricorrentemente la categoria  della piccola borghesia. Piccolo borghesi sono gli ermetici, piccolo borghesi i neoavanguardisti, ecc.  Ma questa categoria o non più inseribile oggi nel contesto dell’analisi marxiana, in cui aveva  un senso ben preciso, finisce per essere assolutizzata, e può diventare una “categoria dello spirito” o una categoria  moralistica e astorica (come in Berardinelli, che in questi termini ne parlò attorno agli anni Ottanta in «Sulla piccola borghesia», ricalcando le posizioni di Enzensberger…). Perché la «piccola borghesia» classica, ottocentesca o primo novecentesca, non esiste più. Si è trasformata in un ceto medio indeterminato e in buona parte impoverito persino rispetto a quello degli anni Cinquanta. (Cfr. analisi di Sergio Bologna ma anche di Gianfranco La Grassa). Perciò sono più che convinto che la distanza tra il “noi” della «nuova poesia modernista», che Linguaglossa mi pare voglia costruire, e gli epigoni (quotidianisti, iperrealisti, minimalisti) della poesia “ufficiale” non sia così grande. Dobbiamo esplorare molto più a fondo questa nebulosa che designiamo ancora con vecchi termini (piccola borghesia, ceto medio, o moltinpoesia).

5.3 Progresso e arretratezza in poesia.

Fino a che punto è corretto dell’uso del termine ‘arretrato’ o ‘retrivo’ (13) in poesia o più in generale nell’arte? Ad es. la Linea lombarda viene giudicata  un regresso rispetto a Montale (17), una sorta di ripresa del crepuscolarismo. C’è allora una visione progressiva in poesia? Ci sono movimento arretrati e movimenti  d’avanguardia? L’uso di questa terminologia (arretrato, regresso) mi pare complicarsi per la  polemica  che Linguaglossa conduce contro il Moderno. Nell’accezione comune ‘moderno’ sta per innovativo, rivoluzionario, non conservatore. Linguaglossa tende a valorizzare tutto ciò che si oppone o resiste al Moderno. E la preferenza che egli accorda alla ‘poesia modernista’ introduce, secondo me, una sorta di equivoco tra quanti  sono meno addentro alle questioni dei movimenti, delle poetiche , degli - ismi. Perché «modernista»,  in realtà, non  è una poesia moderna,  ma è, invece, nell’accezione di Linguaglossa e dei maggiori rappresentati europei del modernismo,  quella poesia che mette in discussione il moderno, che ne svela i limiti. L’«altra storia della poesia italiana», allora, sembra essere quella che ha resistito consapevolmente o inconsapevolmente al moderno, alla modernizzazione, alle posizioni acquisite e autorevoli della critica e della poesia “accademica”, in nome di una genuinità, autenticità e persino arcaicità. E noto, infatti,  che tutti i “preferiti” da Linguaglossa: Maffia, Busacca, Toma, Pedota, (che «scrive in una lingua che abita una terra di nessuno, una specie di extralingua. È questo il segreto della sua forza»), Sicari (con la sua «irragione dell’idioma «privato», scisso da ogni legame con il «pubblico») sono naïf, privati, lirici, provinciali, estranei al tempo e all’ambiente urbano-metropolitano industriale. Ora, se, come egli sostiene, «tutte le opere di questi autori sono state opere «cieche», monadi condannate a restare «monadi», «vasi incomunicanti»,  possono anche essere viste come il segno di una «rivincita della provincia», che produrrebbe «i risultati più alti della poesia di questi anni», ma il dubbio sulla loro reale novità e consistenza, proprio per il limite di apertura storico-politica,  mi resta.  Ho delle riserve nei confronti di una “ammucchiata” contro il Moderno; e poco mi convince  l’esaltazione della “retroguardia” (33) o l’innamoramento per la genuinità, la perifericità, l’immobilità, l’estraneità alla moderna città  industriale e fagocitante. Anche i Calogero, le Merini potrebbero essere  classificati tra  gli “arretrati” come gli ermetici. E nel caso di Calogero poi, pare che la stessa  arretratezza economica del Sud diventi quasi un valore o uno scudo: proprio questa collocazione l’avrebbe preservato dalle cattive novità delle poetiche moderne (98). E, infatti, Linguaglossa dice: così evita di porsi il (falso) problema della «modernizzazione del linguaggio poetico» (99). Viene da chiedersi: ma non era il problema che s’era posto la neoavanguardia parzialmente apprezzata da Linguaglossa? E se una necessità di riforma poetica viene posta, pare evidente che essa  vada intesa come un “progresso”, a meno di non intenderla come un “eterno ritorno” a un’autenticità, che la modernità avrebbe soltanto rimosso o represso. Altro problema: se una poesia autentica, come quella di Calogero o della Merini, possono emergere «miracolisticamente», attingendo a un linguaggio «omogeneo» e «circolare» e svilupparsi come in un «mare chiuso»(99), non è contraddittorio definire la poesia di Calogero come la «poesia più all’avanguardia degli anni Sessanta» (99)? Né si capisce  perché parlare di ‘riforma’, termine che  indica semmai un progetto volontario e non un miracolo. O c’è uno sviluppo e allora Calogero vale più di altri poeti perché è andato “più avanti”. O non c’è (in poesia) nessun sviluppo; e allora avrebbe a questa sorta di “paradiso immobile” della poesia per miracolo («miracolisticamente») e quindi non perché sia più avanti rispetto ad altri.

5.4  Fortini.

Ha scritto Maffia su questo libro di Linguaglossa: «Si tratta di un metodo che spinge a una sorta di manicheismo, non sempre condivisibile, che non ammette repliche alle affermazioni frutto di convinzioni sorte da letture filosofiche e sociologiche e che semina molte perplessità a cominciare dalla centralità assegnata a Franco Fortini, ad Ennio Flaiano e ad Angelo Maria Ripellino individuati come il perno di un’officina che sa cogliere i mutamenti in atto e produrre istanze innovative di carattere universale non solo sul piano formale e stilistico». La grande importanza che Linguaglossa       qui dà alla figura di Fortini mi trova  del tutto concorde. Ho invece dei dubbi,  però da un altro versante. Linguaglossa sembra annettere Fortini al suo discorso attribuendogli la sua tesi: la crisi della poesia sarebbe dovuta alla «mancata riforma del linguaggio poetico»(94). E su questo non sono d’accordo. A me pare che Fortini, con oscillazioni nel tempo, abbia sempre mantenuto però sempre l'accento forte sul nesso inscindibile tra un'auspicata riforma del linguaggio in generale (e quindi anche di quello poetico) e modificazione dei rapporti sociali di produzione capitalistici. Basti pensare ai suoi numerosi richiami al Brecht del “Compagni, parliamo dei rapporti di produzione”. Il discorso su Fortini di Linguaglossa mi pare qui incerto e inesatto. Fortini  dice altra cosa, anzi il contrario: la poesia, essendo forma, si oppone al mutamento, è «conservatrice e conciliatrice» e perciò se ne dovrebbe dedurre che è irriformabile. Tuttavia, quando Linguaglossa, riprende ancora il discorso su questo autore in altro capitolo (p. 105) dice bene:«Per Fortini la soluzione di un problema estetico non può essere affidata solo al fatto poetico, visto sempre come soluzione provvisoria, parziale, di compromesso, se non viene accompagnata da un cambiamento reale dei rapporti di produzione del mondo produttivo» (106). (Un altro piccolo limite a proposito di Fortini mi  pare il fatto che Linguaglossa non  consideri l’ultimo Fortini, quello che va dal ’68 alla morte e che è ricchissimo di spunti e di ripensamenti a noi utili).

5. 5. La nebulosa degli “invisibili”.

Può uscire da qui una soluzione alla crisi (della sola poesia?), emergere un’alternativa a questo processo di decadenza o di stabile conformismo ( prima degli ermetici e poi della Linea Lombarda e ora del minimalismo lombardo-romano)? Questo è il punto più problematico (e forse anche debole) del libro. In tutta onesta riconosco che c’è uno scarto tra gli “invisibili” selezionati da Linguaglossa e i poeti che  da giovane ho vissuto come poeti. E mi chiedo perplesso:  cosa indica davvero questa “invisibilità”? È “invisibilità” di alcuni poeti rispetto ad altri o della poesia d’oggi in generale ( e rimando ancora alla crisi dei saperi umanstici)? Si può/ si deve uscire dalla “invisibilità”? E in quali modi? Linguaglossa pone  alla sua maniera un problema che è nell’aria e che angustia tutti noi. Vi hanno  accennato, anch’essi a modo loro, Majorino, ma in termini paternalistici nel suo «Poesia e realtà 1945-2000», quando accennò a un centinaio di poeti in attesa di “consacrazione”:  Cortellessa ed altri nella loro antologia «Parola plurale», ma in termini  da neoaccademia; ne parla ormai in termini impolitici e sprezzanti Berardinelli; e ci stiamo lavorando, credo, anche noi del Laboratorio Moltinpoesia. Secondo me, è tutto il fenomeno della scrittura di massa che, assieme  ad un nuovo ripensamento della Poesia e della Letteratura di Qualità, andrebbe fatto coraggiosamente riemergere e non guardato dal buco della serratura di una disciplina universitaria o semplicemente ignorato.  Non basta lucidare alcuni nuovi criteri di  critica dei testi. Non basta l'allargamento della corporazione poetica o una maggiore inclusione di meritevoli. La comprensione di come i moltinpoesia  potrebbero  organizzarsi (non una cooptazione-incursione nelle fortezze della Qualità Poetica) è un problema del tutto aperto. Tra l’altro anche Linguaglossa, come critico, è tra gli «invisibili». E torno al problema di come reagire in questa situazione, che ho sfiorato al punto 5.1. Il rischio è di  fare l’opposizione (inascoltata) della falsa (o stanca, o addormentata) opposizione. E di rimanere, dunque, lo stesso invisibili, ma per giunta subordinati e incapaci di pensare con audacia. Ci vorrebbe,  tra l’altro , un’indagine più ampia. Se parliamo di poesia italiana, dovremmo avere sott’occhio  tutta la produzione “poetica” (o che si pretende tale) a livello nazionale.  Forse è un’impresa impossibile  e velleitaria. Ma mi restano varie riserve sui nomi che Linguaglossa cita tra gli “invisibili”, anche se il suo lavoro di schedatura della produzione corrente è forse tra i più diligenti e attenti ai singoli. Però, se  confronto i nomi scelti da lui con quelli contenuti in «Parola plurale» (Sossella 2005),  noto che di quelli lì nominati  non c’è quasi traccia nel suo libro (e viceversa). E  torna il dubbio che  solo alcune zone di questo “mare magnum” vengano  esplorate. Il che rende più provvisorio e incerto il discorso che Linguaglossa fa sugli “invisibili”.

6. Appunto finale. Andrebbe con più pazienza indagata e compresa la trasformazione non lineare, di un soggetto, che io intuisco scisso e ormai ibrido: una sorta di “io/noi”, che sta cambiando rispetto al passato anche recente, quando l’io aveva la possibilità di diventare autore, auctoritas, “traliccio”, come dice Lingiaglossa; e il noi facilmente si aggregava attorno a un leader per stilare manifesti, far sorgere gruppi o riviste. Non che oggi queste cose non si tentino o non ci siano. Ma sono più esasperate e confuse, anche per la  maggiore disponibilità di strumenti informatici, che possono allargare il campo di indagine, ma anche enfatizzare i preesistenti narcisismi, presenzialismi o gregarismi politici e culturali, quando non scatenarne di nuovi (Vedi certi blog letterari…). Sarebbe pure da capire meglio come questo soggetto ibrido viva in noi. Quando mi metto di più dalla parte dell’io, vedo i moltinpoesia come un “cattivo soggetto” del tutto incapace di sostituire i (mitici, però) soggetti forti, i «poeti traliccio» (Linguaglossa) o di criticare i «ministri della poesia», intellettuali dopotutto tradizionali per privilegi e prebende. Quando mi metto dalla parte del noi - questa «piccola borghesia», o «ceto medio» o moltinpoesia -, esso mi pare comunque l’unico serbatoio da cui – non so dopo quanti sforzi e fra quanto tempo – ci si può aspettare l’emergere di qualcosa di nuovo per affrontare i problemi della poesia in rapporto realistico col mondo della globalizzazione, della trasformazione dei lavori, dei revanscismi etnici, dei ritorni del sacro, delle guerre ecc. E, resistendo alla tentazione di una scelta drastica di un polo o dell’altro (un lavoro tutto da solo o l’adesione ad un gruppo o partito culturale già organizzato e solido), accanto alla ricerca come singolo mi sforzo di costruire e incoraggiare la costruzione di luoghi comuni (riviste, laboratori), dove questo io/noi possa farsi le ossa o cominciare a depurarsi dell’ “ideologia del poetese” ( ma anche del “politichese”) che l’affligge. Ma la strada è lunghissima.

11 novembre 2011

137 commenti:

Tito Truglia ha detto...

Il lavoro destruens di Linguaglossa è secondo me, un'ottima base per costruire qualcosa di nuovo a partire appunto da una visione, più o meno esaustiva, su quanto è apparso nel Novecento e nell’appendice attuale del nuovo Millennio... È chiaro che la sua interpretazione può essere in parte discutibile, parziale, da completare, integrare, ecc. Ma non c’è dubbio che in gran parte Linguaglossa coglie nel segno, e io personalmente sono d’accordo con lui su molte cose. Se vogliamo ridurre ad una tesi il lavoro di Linguaglossa possiamo dire che risulta anche tenero nei confronti del presente poetico istituzionalizzato; questo (secondo me) non avrebbe nemmeno la dignità del canone minimalista.
Del lavoro di Linguaglossa mi lascia perplesso la concentrazione eccessiva sui singoli, e sulle proposte “provinciali”, anche queste riferite ai singoli. Mi lascia perplesso l’interpretazione troppo “larga” dello sperimentalismo e del neo-sperimentalismo, mi lascia perplesso l’assenza di una considerazione sostanziale del rapporto poesia-realtà e quindi l’assenza di rilievi sul fronte dell’impegno e della poesia civile...
Direi, comunque, che per costruire (ed è questa la dimensione da porre decisamente sul tavolo oggi) bisogna riflettere e produrre insieme. Bisogna ripartire da sottozero, senza depressioni e senza catastrofismi... La questione della “bella poesia” (segnalata da alcuni interventi) è solo uno degli aspetti, importante in quanto qualunque produzione-discussione poetica deve anche riferirsi a ciò che si produce o che si dovrebbe produrre in termini di qualità, ma se questa considerazione non la affianchiamo con sostanziali riferimenti ai problemi estetici generali e complessi che necessariamente hanno a che fare con aspetti socio-culturali e/o di civiltà, banalizzeremmo il nostro approccio con l’arte poetica. Fare poesia significa anche porre in discussione il nostro essere nel mondo e soprattutto mettere in discussione il mondo così come è dato (in realtà... il mondo così come è gestito). Cordiali saluti e avanti tutta..
Tito Truglia

giorgio linguaglossa ha detto...

Caro Linguaglossa,
ho finito il tuo libro appena l'altro ieri. Benché l'esposizione sia assai chiara e precisa, esso impone per la sua densità una lettura molto lenta e concentrata, specie ad un autodidatta come me. Forse ricordi le note biografiche accluse alle mie raccolte: io sono un medico, in campo letterario non ho studiato approfonditamente ma giusto leggiucchiato disordinatamente qua e là, per cui di frequente, come appunto in questo caso, posso toccar con mano il mare magnum della mia ignoranza.
Ho dovuto quindi interrompere la lettura più volte, perché, pur conoscendo parecchi degli autori da te citati, e pur condividendo decisamente alcune tue simpatie (Busacca, Maffia, RIPELLINO, etc) e quasi tutti i tuoi fastidi, devo confessare che su alcuni nomi mi trovi del tutto impreparato: per fare due rapidi esempi, di Cucchi ho letto qualcosa ma non IL DISPERSO, e quanto a Bertoldo (e qui la cosa, a giudicare daglii splendidi frammenti che tu ne riporti, mi sembra piuttosto grave) ahimè, ammetto di non conoscerlo affatto. Mi riprometto però proprio grazie alle tue preziose indicazioni di colmare quanto prima certe imperdonabili lacune.
Hai compiuto davvero un'impresa non da poco, tirando le fila di una matassa così imbrogliata come la nostra poesia più recente, e riuscendo per di più a farlo in maniera così lucida e nello stesso tempo così appassionata. Inoltre ammiro moltissimo la tua franchezza: non hai certo peli sulla lingua nel denunciare le cricche editoriali e le meschine manovre per l'egemonia di visibilità. Su quest'ultimo punto persino io, che pure mi sono deciso a tirar fuori i miei versi dal proverbiale cassetto solo una dozzina di anni fa, ho già fatto in tempo ad imparare (amaramente) qualcosa ...
Per quanto invece riguarda il mio percorso personale, mi sembra coincida perfettamente con quello delineato da te: l'avanguardia, pur fascinosa, a lungo andare mi pareva ormai ridotta a un giochetto cerebrale, e a proposito poi del minimalismo, tutto quel grigio servito in uno stile se possibile più grigio ancora, con la più rozza sciatteria di metri e di ritmi ... non a lungo andare, questo, ma subito. mi ha annoiato e disgustato. Inevitabile a questo punto rifarsi alla tradizione e cercare di cominciare daccapo. Tanto, come diceva Verdi, ogni volta che si torna all'antico è sempre un bel passo avanti, e per quanto ci si possa strettamente modellare sugli autori del passato, come argutamente raccontava Borges con quel suo personaggio che riscrive al giorno d'oggi pari pari il Don Chisciotte di Cervantes, la copia non sarà mai identica, peché ne è passata troppa, da allora, di acqua sotto i ponti del significato!
Mi piacerebbe assistere il 23 alla presentazione del tuo libro a Roma, ma molto difficilmente sarà possibile, essendo una giornata infrasettimanale, comunque ci proverò. Mi propongo di procurami al più presto anche quello precedente, sulla nuova poesia modernista, sperando che il mio libraio questa volta sia più sollecito. Ti ringrazio per quanto mi hai chiarito e suggerito, ti ribadisco la mia riconoscenza per esserti nelle tue pagine ricordato di me, e ti mando il mio più cordiale saluto.
A presto, speriamo
Umberto Simone

Unknown ha detto...

innanzitutto grazie del "report" sull'incontro , perchè purtroppo per questioni lavorative non ho potuto aderire.

In realtà,ma devo leggere e rileggere, è più di un "verbale"(nel doppio senso di relazione e stile orazione), se ne aggiungono cioè altri, che sono verbali di ulteriorità dialogica,introspettiva e corale, di interrogativi di identità che terra terra ho recepito in domande quali: chi sono /chi siamo , cosa voglio/vogliamo fare da grande...mi scuso se brutalizzo,ma così ho vissuto la lettura, anche nella contraddizione " produttiva" che vado ad esporre solo come scheletro, perchè non addetta come voi ai lavori, né i ltema riducibile in un box.

Si parte dalla contrapposizione di un senti-mentale ad un intellettuale, cosa che fa pandan angelo/demone ad altre coppie sofferenti di forte bipolarità data dalal contemporaneità, quali visibili/invisibili, critici/poeti, masse/non masse,ceti medi/ceti liquidi etc etc..a mio avviso tutte derivano come eterna "malattia", acuita ancor piu dall'era tecnologica, di scontro rarissimamente incontro fra senti-mentale e mentale che viene contenuto dal primo ed invece strutture su strutture di pensiero ,civilizzazione su civilizzazione anche poetante ( in senso lato) hanno prodotto soprattutto nell'ultimo secolo, una distanza abissale fra sentimentale e mentale,sia in chi attivamente poeta ( sempre in senso lato di ogni lirica artistica e/o discorso artistico),sia in chi passivamente lettore della loro arte, ergo i molteplici separati dal loro legame, come se avessero separato le stagioni al tempo o al calendario, cosa che in realtà è un dato di fatto del mondo capovolto in cui ci hanno scaraventato mille e piu disegni ed eventi.

Inoltre nella lettura di questo post si fa riferimento all'uomo/poeta dell'era digitale, ma andrebbe piu approfondita la sofferenza ( distinguendo quella consapevole dall'altra inconsapevole) del carico " tecnologico" sulle spalle di un poeta e chi lo legge, e tanti altri aspetti che aumentano e/o diminuiscono la divaricazione fra sentimento e intelletto , o fra visibili e invisibili etc etc nonostante sia indubbio il dato di fatto positivo che anche questo media sia servito a diffondere/respirare tanti poeti,sia piu noti che meno

molti meccanismi- che nella contemporaneità e occidentalizzazione di ogni campo a pochi standard ammessi per cancellare la continua produttività che davano le minoranze, comprese quelle poetiche- mi sono stati ancor più chiari quando ho letto Kis(homo poeticus) e Kustiriza( libri e film) ..in tempi diversi ma entrambi acuti lettori della loro cultura di " minoranza" da far sparire e annegare come altre minoranze , assorbite irreparabilmente da sostanze e forme di maggioranza " occidentale" che non solo per noi è stata all'ammerikana e all'ammmmatriciana ...
i due autori si riferiscono a qualcosa che vale anche per noi , sia nei nomi piu visibili che invisibili fagocitati quest'ultimi dai primi , che per problemi di mercato che regolano ormai ogni aspetto ,e che danno una mano ulteriore a quel "semicolto" che deve avanzare, perche una societa orwelliana quale doveva essere e siamo diventati da decenni,la controlli quando l'ignoranza è la sua forza.

vi è poi un altro aspetto che vedo con grande pietas del carico sia di un poeta visibile che invisibile, d un critico o meno, di un semicolto o colto, laddove ognuno può interrogarsi come sicuramente il libro di Linguaglossa ( che non ho letto) o il verbale del vs incontro ,ergo sul chi siamo non siamo, dove stiamo o non stiamo andando...

Unknown ha detto...

...il confronto con " monumenti" di una bellezza accecante di questa o quella " antologia" visibile o invisibile, romantica o d'avanguardia,cartacea o digitale etc etc è di per sè atto immobilizzante, perchè è sempre valido il vecchio adagio " è stato già detto tutto"; ciò però non significa che sia morto l'artigiano(invisibile?) o addirittura l'artista(meno invisibile?) perchè equivarebbe altrimenti a dire che avendo già visto e rivisto la primavera o l'inverno, la rosa o il crisantemo,il dolore o la gioia, la rabbia o la grazia, etc etc posso fare a meno di viverli ancora.
il poeta è la stagione o un fiore o un bambino o un vecchio...possono per assurdo finire pure i molti o i pochi che sanno dipingere o musicare o poetare una balena o una sardina in quanto gli standard richiesti da sistema orwell mondo le hanno estinte, ma quelle continueranno a vivere al di là di forme o stili, visibili o invisibili, io o noi, scissioni sentimentali intellettuali, pochi o molti, mercati o non mercati, laboratori o oratori..
è su questo assurdo che quel "io/noi" potrebbe ricercare le sue vie di fuga nell'isola che c'è ?

Anonimo ha detto...

Parlandone con altri, che come me hanno già letto il libro di Linguaglossa, sembra proprio che sia diviso in due parti. La prima, storiografica e analitica, e la seconda che invece affronta le tante domande necessarie per meglio procedere. Domande a cui lo stesso Linguaglossa non tenta di rispondere, ma correttamente si affida a quanto hanno prodotto i poeti fin qui. Linguaglossa cede la parola ai poeti, ma li sfida, li provoca, li invita a riflettere. Non credo ci si possa aspettare di meglio dal contributo di un critico ( per altro militante e poeta anch'egli).
Nel racconto che ho postato sopra ( mi si perdoni l'ingenuità e lo sgarbo di non aver tentato commenti al libro ) ho cercato di restituire una visione più ampia, epocale, dove inserire l'approfondita analisi del critico Linguaglossa. Ne sentivo il bisogno, altrimenti (temevo) sarei potuto annegare in un discorso troppo contaminante per un aspirante poeta come me.
Non mi è piaciuta tanto la serata alla Palazzina. C'erano rappresentanti di varie riviste letterarie e ho quindi ritenuto di dover ascoltare, ma mi sarei aspettato più fervore partecipativo, meno scontatezza e più idee innovative. L'occasione era ghiotta ma è stata persa. Giorgio Linguaglossa non c'entra, alle varie domande ha risposto onestamente. S'è presentato il libro, obiettivo raggiunto.
Inoltre mi ha infastidito ( ma poco ) quella persona che, standosene un po' stravaccato in seconda fila, interveniva con brevi commenti e ammiccamenti mentre altri parlavano, e senza nemmeno presentarsi. Poi ho scoperto che si trattava del poeta Bertoldo, che avevo letto ma che non avevo mai visto di persona. Come dire "voi sapete certamente chi sono, quindi non mi presento". Comunque bene, in qualche modo s'è capito.

mayoor

Anonimo ha detto...

Provo ad abbozzare uno schemino per facilitare, innanzittutto a me stesso, la comprensione della posizione linguaglossiana nella considerazione del linguaggio poetico.
Dunque l’impressione , superficiale quanto si vuole, è che si tratti di un “neneismo” ossia che il critico si acconci non so quanto inconsciamente a un noto schema triadico: nè questo nè quello ma piuttosto...Nella fattispecie nè sperimentalismo, nè prosasticismo. E questa costituirebbe la pars destruens.
Meno chiara, molto meno, il piuttosto. Sarebbe la pars construens: qui non si indicano “ismi”ma si propongono personalità, Fortini, Ripellino, Flaiano e si valorizzano preziose ascendenze montaliane.
Vediamo se dalle premesse neneiste si potrebbero “loicamente” dedurre conseguenze costruttive.
Potrebbero essere poesie ispirate ad uno sperimentalismo che non sia implosione solipsistica di un idioma conosciuto solo dall’autore, ma che si ponga il problema dell’altro, dell’apertura verso altri mondi linguistici?
Potrebbero essere poesie che alla necesssità della comunicazione non sacrifichino quella peculiare carica energetica che solo un lavoro svolto sul linguaggio comune può conferire all’opera poetica?
I “salvati” da Linguaglossa sono ascrivibili a queste poetiche?
Sul piano dei referenti sociali il discorso è alquanto complesso ; Linguaglossa esprime un rammarico per la caduta di stile derivata dall’apertura alla massa piccolo borghese, evocando la litania di chi si lamenta dei danni derivati alla qualità della scuola, dalla democratizzazione sessantottesca.
Inoltre condanna il minimalismo romano- milanese senza, forse esercitare lo sforzo di una maggiore comprensione verso lo stile di vita possible mediamente nelle nostre medie città, essendo la vita effettiva fonte, nel bene o nel male, della sua messa in forma più o meno liberante. Così facendo non sembra tener per buono che, per essere onesta, e non scadere nella retorica idealistica, la visione poetica non può far altro che partire dai propri immediati dintorni.

Alberto Accorsi

ha detto...
Questo commento è stato eliminato dall'autore.
Moltinpoesia ha detto...

Ennio Abate:

Un augurio.
Spero che dopo le 'lenzuolate' vengano commenti puntuali e stringati sul libro di Linguaglossa.
Non divaghiamo.
Certi interventi "complessivi" vanno bene come post e non come commenti. Inviateli a me con un bel titolo preciso e li pubblico mano mano.
Altrimenti chi visita questo post si stanca e chiude la saracinesca invece di aprirla.
Grazie

Anonimo ha detto...

Faccio seguito alla richiesta di Ennio di evitare lungaggini per rimanere strettamente sul tema relativo al libro di Linguaglossa.
Quindi ho rimosso diligentemente il mio lungo intervento accogliendo l'obiezione che possa essere in questo luogo fuorviante.
In realtà l'avevo scritto proprio dopo essere stato alla Palazzina. Dal momento però che gli argomenti che ho postato sono comunque attinenti alle questioni sollevate quella sera, magari ne farò un post che manderò più avanti.
Resto comunque dell'idea che un blog come questo dei Molti abbia caratteristiche partecipative diverse da quelle più specializzate a cui siamo tutti già abituati.

Mayoor

Anonimo ha detto...

Ahi, ahi , ahi, manca l'emozione Ennio, il sangue non circola ,il ballo è aperto come quello delle statuine in un carillon. Emy

Moltinpoesia ha detto...

Ennio Abate:

Dai, Emy, fai emozionare tu questo carillon di statuine!

Anonimo ha detto...

Giorgio Mannacio (commento inserito da E.A.):


Caro Ennio, ho letto dell’incontro con Linguaglossa e la sintesi e note da te fatte con la solita chiarezza. Non conosco il libro e dunque non parlerò del suo contenuto ma di alcune distinzioni terminologiche di cui tu dai notizia e che- a mio giudizio – sono molto importanti.
In questo periodo mi occupo più di “ politica spicciola” che di poesia ma essa resta al centro dei miei interessi culturali e pertanto ti mando alcune osservazioni che – se vorrai ( e depurate dalla forma epistolare ) – potrai inserire come contributo al dibattito. Mi ritengo “ metaforicamente “ uno inserito ancora in Moltinpoesia.
Parto da un dato che mi riguarda: su l’ultimo numero de L’Almanacco dello Specchio sono uscite
cinque mie poesie monotematiche ( la IIa guerra mondale ) sotto il titolo unificante di Cartoline dal fronte. Ho collegato tale modesto evento personale nel quadro della terminologia “ poeti visibili” / “ poeti invisibili” suggerita dalla vostra discussione. Sto passando da una categoria all’altra? Neanche per sogno. Ho colto solo una felice occasione , il ricordo che un amico aveva di un mio precedente intervento poetico sulla stessa rivista nel nebuloso passato del 1977 !!
Sono sempre e sempre più sorpreso che le discussioni che si fanno sembrano prescindere da dati della vita reale e che si elaborino termini che prescindono dalle condizioni concrete in cui vive la poesia. Sotto certi aspetti la distinzione di Linguaglossa mi sembra corretta ma insufficiente . Visibili o invisibili , sta bene. Ma rispetto a “ quale osservatore “? La domanda mi sembra importante .
Il termine può essere usato in modo diretto ovvero metaforico, ma anche questa diversa accezione non è sufficiente a chiarirne la portata.
Se si parla di una visibilità sociale ( prendendo come parametro un certo contesto sufficientemente ampio e storicamente definito ) tutti i poeti sono relativamente invisibili. Il mio dirimpettaio Ingegnere ( ma ciò vale per varie categorie di professionisti ) ignora chi sia Montale.
L’osservazione è banale.
Come è banale il rilievo che non si può parlare di invisibilità assoluta. Se nessuno sa dell’esistenza di un certo poeta , costui “ semplicemente non esiste “
Parliamo di visibilità /invisibilità rispetto a qualche soggetto che si accorga dell’esistenza del poeta.
Parliamo, dunque, di visibilità nell’ambito della “ società letteraria “, ammesso – euristicamente – che essa esista. Dico così perché è lo stesso concetto di “ società letteraria “ che andrebbe definito per parlare con la dovuta concretezza di essa.
Se con tale termine alludiamo al reticolo inestricabile di circoli,riviste, conventicole, piccoli editori,
premi e sottopremi etc è quasi impossibile predicare l’invisibilità di qualcuno. Tutti noi possiamo rivendicare, se ciò è sufficiente, il nostro attimo più o meno fuggitivo di notorietà. Nella realtà nessuno cerca una invisibilità assoluta, nessuna si lagna di essa quanto piuttosto di non essere
“ visto da…” ( tale precisazione “ restituisce “ agli ipotetici supervisori un valore di detentori di un potere di valutazione oggettiva della visibilità )
Restringendo il campo delle definizioni ed avendo concreto riguardo all’attuale assetto socio-economico l’invisibilità riguarda piuttosto il mancato accesso o il difficilissimo accesso all’industria culturale e cioè all’editoria /comunicazione di massa. Ridotta a questi termini la questione , è insostenibile la tesi che vede come invisibili Fortini, Merini e tutti quelli che – loro valore a parte –
sono stati pubblicati da “ accreditati centri di informazione culturale “ con presentazioni più o meno encomiastiche.

[Continua 1]

Anonimo ha detto...

Mannacio [Continua 2]:

Altra terminologia che vorrei meglio precisata è quella dei “ resistenti “ e dei “ corrivi “ ( il termine lo creo io per opposizione logica al primo ). Resistenti a che; corrivi a che ? L’entità cui costoro resistono spesso non si identifica affatto con la resistenza alla “ società letteraria “. Alcuni dei nomi che circolano nelle tue brillanti note presentano la singolare caratteristica di essere nomi di
“ resistenza politica “ e di “ corrività “ all’industria letteraria. Come la mettiamo ?
L’interrogativo non è polemico. Invita solo a maneggiare con prudenza termini e concetti.
Credo che i termini resistenti e corrivi alluda a qualcosa di più profondo e più “ intimamente politico” . Niente di male, anzi tutto di bene se si è chiari su questo punto e su altro punti connessi.
La resistenza ( da definire: a chi, a che cosa ) è criterio di valutazione estetica ?
Su questo punto la risposta deve essere chiara.
Prendo ora un altro rilievo di Linguaglossa via Abate. Spappolamento della poesia.
A mio giudizio è incontestabile. Linguaglossa parla – così è riferito – di fine della forma/poesia ed ha ragione. Basta guardarsi intorno. All’allarme sulla “ fine della poesia “ si accompagna, non tanto paradossalmente, la moltiplicazione ad infinitum degli autori/ poeti. I due dati si incrociano nel punto della “ mancanza di un criterio “ che definisca il primo termine ( forma/poesia ). Il numero dei poeti è, invece, determinato o determinabile statisticamente.
Che questo sia il risultato della scolarizzazione di massa e della “ nessuna resistenza della materia “
all’impulso di comunicazione mi sembra altrettanto incontestabile. Perché non ci sono tanti scultori, pittori, architetti quanti sono i poeti in circolazione? Difficoltà tecniche varie: anche il costo dei materiali. Una risma di carta costa pochi euro.
Resta da chiedersi - ed è una domanda cruciale ineludibile – perché fare poesia resti attività così suggestiva ed appetibile in assenza di ogni ritorno economico significativo.
Residua nella nostra società ( fino a quando ? ) l’idea che “ fare poesia “ sia attività nobile, dono delle Muse, privilegio di pochi ( o molti, non importa ) che occorre difendere dagli imbroglioni e dalle imitazioni. Se questo è vero, è legittima la istituzione di una “ autorità di controllo “. Ma si deve anche ipotizzare l’esistenza di false autorità o di errori di controllo.
In un certo senso questo è il versante “ politico” della critica letteraria, o sbaglio?
Si può anche pensare, radicalmente, che la Poesia ( = poesia/forma ) sia defunta e piangere tale evento come quello – deprecabile – della tigre del Bengala. In questo quadro desolato il poeta conserva la propria dignità come disinteressato autore di un prodotto inutile, conclusione che dovrebbe da un lato coinvolgere il “ mondo letterario” come mondo di fantasmi ( l’idea mi è stata suggerita da un ragazzo libraio ambulante col quale a volte discorro ) e dall’altro non costringerci a rincorse verso la Gloria e il successo o a piagnistei verso la critica che ci ignora.
La rassegnazione su tale tema è quasi impossibile come è ( quasi ) impossibile piegarsi sempre e comunque alle autorità politiche. Se la società è strutturata ( ancora ) secondo un modello che attribuisce un qualche infinitesimo valore alla Poesia ( =poesia/forma ) pretendere che le valutazioni vengano fatte in “ modo equo “ è quasi un diritto.
Su questo punto quasi nessuno ha le mani pulite. Sui valori si costruiscono gli interessi economici , politici, di casta.

[Continua]

Anonimo ha detto...

Mannacio [Continua 3]:

Non azzardo giudizi sommari. Anzi, come attenuante di molti giudizi “ militanti” ( altro termine che vorrei mi fosse chiarito ) , dirò che il critico, oggi, dovrebbe , per essere un vero Minosse terribilmente giusto, dominare tutta ma dico tutta la produzione poetica che si presenta al suo cospetto. Cosa impossibile. I più onesti lo ammettono e più o meno sommessamente dicono: guardate che oltre a queste anime che sto giudicando ce ne sono altre che non conosco.
Ci si può accontentare ( o illudersi ) di questa riserva oppure no.
Ma se non ci accontentiamo dobbiamo ricostruire ab imis i fondamenti della poesia/forma.
Partendo, forse, dalla costatazione di una realtà esistenziale: per pochi, per molti ( ancora una volta non importa ) la poesia è bella, importante, ineliminabile
E farlo in modo totalmente spregiudicato, anche riconoscendo espressamente che non c’è giudizio
che non contenga una certa dose di pregiudizi. Forse questi, e solo questi, vanno salvati difesi
e soprattutto rispettati. Un cordiale saluto. Giorgio.

[Fine]

* Se le "lenzuolate" appassionano, mi arrendo.
Mayoor, ristendi anche le tue! Non mi fate passare per censore. [E.A.]

Roberto Bertoldo ha detto...

E’ stata una bella serata quella voluta da Ennio e dal suo gruppo, con ottimi relatori e controrelatori. Linguaglossa ha potuto evidenziare in pieno le caratteristiche del suo libro, anche se purtroppo molte questioni non potevano essere trattate ampiamente come lui avrebbe voluto.
Mi scuso preliminarmente con Mayoor. La riunione, informale, tra amici di vecchia data, non credevo richiedesse presentazioni, e le sedie non erano delle migliori per chi soffre di artrosi. Se a questo si aggiunge che molti mi trovano a prima vista insopportabile e poi, a causa di quanto dico, mi trovano ancora più insopportabile, ecco tracciato l’identikit necessario a Mayoor, che per la cronaca non si è presentato neppure lui, per identificarmi (ma anch’io adesso ho scoperto, grazie ad internet, chi sei, e devo dire che hai un volto simpatico, beato te).
Penso tuttavia che in queste riunioni ci si prenda troppo sul serio, in quanto scrittori. E’ importante che quando si scrive, come quando si puliscono le strade o si coltivano i campi, ci si impegni a fondo nella propria attività e si creda totalmente alla propria vocazione e necessità, ma dopo, quando l’opera è finita, tornano le nostre artrosi, preludio di morte certa, come quella delle mosche noiose, noiose quanto me, e voler essere messi su un podio non ha alcun senso.
Ridotti al rango di mosche (la differenza è che noi possiamo scrivere poesie), discutere su chi è bravo, bello, giovane e vecchio, è cosa risibile e divertente (nel senso originario di divertere) e non vorrei che Linguaglossa, dopo aver fatto un ottimo lavoro di distruzione delle gerarchie, finisse per crearne una lui. Sarebbe dannoso per la vita della poesia, alla quale il suo gesto distruttore ha dato nuova linfa, perché ha annullato i poeti mettendoli tutti sullo stesso piano.
E’ anche per questo che il proprio nome non conta quando si parla tra uomini, conta il gesto leale e senza opportunismi, a volto scoperto.
Un caro saluto a tutti.
Roberto Bertoldo

Anonimo ha detto...

Ecco il sangue di Giorgio Mannacio che circola finalmente in tutte le vene "" La poesia è bella , importante, ineliminabile e farlo in modo totalmente spregiudicato..."" Il coraggio è ciò che conta in poesia, soprattutto quando diventa intraducibile...Linguaglossa sottolinea "intraducibile" Zanzotto insegna. Grazie Giorgio per averci aperto le vene e per averci mandato un grande insegnamento. Auguro a tutti i Minosse di poterti apprezzare. Emy

Unknown ha detto...

immigratorio ha detto...
Ennio Abate:

Un augurio.
Spero che dopo le 'lenzuolate' vengano commenti puntuali e stringati sul libro di Linguaglossa.
Non divaghiamo.
Certi interventi "complessivi" vanno bene come post e non come commenti. Inviateli a me con un bel titolo preciso e li pubblico mano mano.
Altrimenti chi visita questo post si stanca e chiude la saracinesca invece di aprirla.
Grazie
12 novembre 2011 13:57
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Ennio , finalmente per una volta non sono d'accordo con te ...hai lasciato un suggerimento che non condivido, non lo dico per " sindacalizzare" a un'ipotetica categoria di ibridi,o non addetti ai lavori,o altro ancora, ma per questioni logiche, etiche e semantiche.

logica
se spandi in mille e piu post,le eventuali federe o piumini o lenzuolate, sperderesti il corpo unico che ha questo tema, che è un tema così "alto" ma anche "basso" , da non appartenere a un solo nome, o un unsolo poeta , o un solo libro

etica
se partecipare a questo tema/libro può essere fatto solo da pochi ( in questo caso il parametro di selezione sarebbe molteplice) , meglio togliere "molti" e dire le cose come stavano e come continuano a stare. Certe piume non devono mescolarsi con altri che non le hanno e non possono fare finta di averle..valeva per gli attori, i poeti o filosofi, etc etc e da quando hanno voluto mescolarsi agli umani,sono nati una serie infinita di guai..solo i cantastorie, o il teatro viaggiante come i vari Moliere, oppure i poeti pazzi etc etc ci sono riusciti..perchè gli uni non hanno gli strumenti degli altri e gli ibridi sono dannati dagli uni e dagli altri.

semantica, ma anche etica
"lenzuolata" come altre parole tipicamente da web, pur non andando apparentemente a ferire chi l'ha cucita o ricamata o stesa, è qualcosa che non appartiene a un discorso antepoetico minimalissimo di rapporto fra persone, in luogo di per sè aperto come qualsiasi sito o blog a meno che blindato ai soli partecipanti autorizzati,o professionisti, o titolati,vedi intranet, o siti o blog "chiusi" e autoregolamentati a dterminati parametri.

Anonimo ha detto...

Altra spinta di Bertoldo le vene si gonfiano ! Su amici avanti così. Emy

Anonimo ha detto...

Dai Ros! Le tue lenzuola mi piacciono sono chiare, nuove, vive, che più bianco non sipuò. I "Molti" non devono continuare a stare ma devono continuare a vivere! Mayoooor suona più forte la tua tromba!!! Emy

Moltinpoesia ha detto...

Ennio a Ros:

Mi arrendo, mi sono già arreso! Non sono contro le lenzuolate né contro le lenzuola!
Ti dedico questa:

Io, Vulisse sconfitto, stendo ostinato il lenzuolo di parole ricalcate su storie vissute e sognate: un rettangolo di eventi e contorti filamenti di commenti. L’ho tessuto negli anni tra uno scaffale di libri e un altro, una stanza di pensione e una in affitto, un ufficio e un’aula di scuola. Con la biro, la Olivetti e poi il PC. Ospite e ostaggio – io e la mia opera. Intruso ragno mossosi dal Sud al Nord, imbambolato nel Boom, alle bombe e alle tecnologiche pulizie sopravvissuto; e diventato sordo ai nuovi Comandamenti del Presente.
Nessuno m’incaricò della tessitura. Neppure a tempo perso. Né, ammesso che ci riuscissi, mi suggerì di fondere il mio ripiegato, quasi privato (e deprivato), vulisse con l’immigratorio italiano di plebi rammodernate. Ma ora il lenzuolo è qua.
Pubblico deambulante e sovrappensiero, ti prego (di certo, se non t’avvertissi, lo travolgeresti!) di passarvi sotto o accanto, abbassandoti cauto, come facevamo da bambini con le lenzuola stese dalle madri nostre sulle terrazze del Sud.
Ammiratene la tessitura!

Ciao
E

Anonimo ha detto...

Simpatia accordata. Del resto anche il mio appunto aveva un che di capriccioso.
Alla serata ci sono andato con aspettative che io stesso non sapevo decifrare. Avevo finito di leggere il libro di Linguaglossa da poco e mi aveva emozionato parecchio. Temendo le contaminazioni, ma detestando l'eremitaggio, puoi immaginare in che stato d'allerta mi trovassi. Tanto che non m'è venuto da dire qualcosa di sensato. Non mancheranno altre occasioni. Ciao

mayoor

Anonimo ha detto...

Ammirata la tessitura, nessuno potrà resistere al passarvi sotto è bellissimo. Emy

ha detto...
Questo commento è stato eliminato dall'autore.
ha detto...

Chi è "Emy"?

Anonimo ha detto...

Ciao Erminia sono emy ...Emilia Banfi quella che riconosce l'autorità solo nella poesia. Linguaglossa non me ne voglia.

Unknown ha detto...

ros a ENNIO

In pratica con questa tua dedica hai tessuto e ricamato il legno fino al suo profumo, combinato in una cassapanca con i suoi lini e fiandre in cui sei stato fasciato , sfasciato e rifasciato dalla tua carne alla tua memoria .E sei pure riuscito a mettere il tutto , come nel tuo "immigratorio", facendoti bastare una tovaglietta da thè ...dio che bellezza!da pentirsi della brutalità della mia nuda cassapanca di prima.

ha detto...

:) ciao Emilia...

Lorenzo Pezzato ha detto...

L’unica possibile “riforma non-moderata” della poesia (e del discorso poetico) passa dalla revisione del linguaggio e si concentra nella traslazione dal dire al comunicare.
Nella musica assistiamo al fenomeno della forma (le note e le loro possibili combinazioni) che scricchiola sotto il peso delle continue ripetizioni, di grammi su grammi di variazione innovativa che mai potrà dirsi radicale, al massimo uno di quei grammi potrà fregiarsi del titolo di goccia che ha fatto traboccare il vaso.
Così nella poesia. Non entrano più monetine nel salvadanaio novecentesco, temo sia inutile sforzarsi e insistere. Meglio romperlo, recuperare il valore che custodisce e ricominciare con un nuovo salvadanaio.
Il lavoro di Linguaglossa riporta un intervallo temporale di analisi (1945-2010) che è anche simbolico, come se rotondamente la chiusura del primo decennio del nuovo secolo-millennio coincidesse con la chiusura del Novecento, strascichi compresi. La recente dolorosa scomparsa di Andrea Zanzotto, poi, è il secondo evento simbolico in tal senso.
Quindi eccoci affacciati ad una nuova finestra, da cui si ammira un paesaggio intonso, forse con alcuni dettagli tratteggiati ma sostanzialmente candido. E sul retro della casa delle arti, da un’altra finestra, assistiamo al declino dei “rapporti sociali di produzione capitalistici” così come li abbiamo conosciuti e intesi dall’inizio della rivoluzione industriale a ieri. La crisi della borghesia e l’avvento del singolo, la destrutturazione delle architetture piramidali in sistemi internodali, di rete. Eventi di cui bisogna tener conto.
Siamo nell’era della “Long Tail”, delle nicchie vincenti e della possibilità di intercettare anche i gusti delle cosiddette minoranze attraverso un’offerta ultrapercellizzata (ultratargettizzata, per dirla con altri termini). Nel complesso vendono di più tutti i poeti che hanno dieci lettori ciascuno rispetto a quanto facciano tutti i poeti di nome (e pubblicati dai grandi nomi) messi assieme. Una riflessione su questo va fatta, necessariamente, perché è comprensibile a tutti che si leggeva d’Annunzio (o Montale) anche perché era tra i pochi prodotti letterari in circolazione.
Se l’unica macelleria del paese propone quasi esclusivamente carne di manzo, i clienti si troveranno a “preferire” la carne di manzo e a farla diventare un punto fermo della cucina tradizionale, scavando il solco entro il quale si muoveranno le successive innovazioni. Le frattaglie, prima di diventare una delicatezza per buongustai, sono state l’espressione di un’esigenza concreta dovuta alla fame. E con fame, si sa, ogni piatto diventa sublime.

Lorenzo Pezzato ha detto...

Ecco perché i poeti di transizione – “in attesa di consacrazione”- rimarranno consacrandi, ed ecco perché alcuni abboccano al miraggio del vuoto che si sarebbe formato dopo le avanguardie e gli sperimentalismi da antologia. Esiste una sorta di frizione, siamo nel punto di contatto/confine tra ieri e oggi dove lo ieri tanta di rimanere aggrappato con le unghie al nuovo giorno, l’oggi fa di tutto per scrollarselo di dosso e prendere il proprio posto. Qualche turbolenza è ammissibile, qualche incomprensione anche, il fatto che non si può negare è che debba emergere qualcosa di nuovo, ma non ci si trova in un periodo di avvento, solo bisogna avere l’onestà intellettuale di guardare alla contemporaneità (a quel che già c’è) con occhi diversi, non con gli occhiali usurati.
Come ogni periodo storico anche questo ha i propri linguaggi, le proprie tematiche e non esiste una sola ragione per cui debba essergli negato il diritto ad esprimerle, nessuna forma che possa imbrigliare la voglia di sé e di comunicare sé agli altri. Un altri che grazie alle nuove tecnologie può voler dire milioni di altri. Chi vorrebbe lasciarsi sfuggire un’occasione simile?
Non c’è nulla di scandaloso, non più di quanto potessero apparire scandalose ai coevi poetici le opere dei futuri successori. E non c’è nulla di scandaloso nemmeno nell’affermare che se esiste un “prodotto” letterario a sembrare creato su misura per la diffusione via web è proprio la poesia.
Il mondo è cambiato, tanto per usare un’espressione grondante banalità, e continua a cambiare velocemente. La poesia è forma perciò irriformabile è un teorema fuori tempo, fuori tono e fuori dalla realtà. Naturalmente è opinione personalissima.
E con il mondo è decisamente cambiato il rapporto io-noi, gli Io che propongono se stessi nella grande vetrina della comunicazione è cresciuto esponenzialmente, ma non credo questo possa centrare molto con la capacità potenziale dell’occhio critico di intuire dopo cinque righe (magari di componimenti diversi) se tra le stesse si annida del valore o meno.
Forse arriveremo alla poesia che non può essere pubblicata, che è fisicamente incomprimibile tra le pagine di un libro, che conquista lo spazio comunicativo del ventunesimo secolo divorando gli intermediari, magari seguiremo in diretta via webcam il poeta preferito nei suoi intimi percorsi creativi (a quanti non piacerebbe?).
Quello che è certo è che la forma e i contenuti della poesia continueranno a cambiare perché i poeti si trovano ad attingere suoni, parole, visioni e concetti dall’ambiente circostante (comprendente l’immaginazione creativa), sempre unico. Ammesso si riesca ad uscire dallo schema dato delle sette note imperanti in un certo periodo (e contesto) sociale, politico e culturale.
A giudicare dalle varie “Primavere” nel mondo arabo e nel continente africano, guardando alla crisi dell’Occidente, si sente spirare una brezza di novità. Per ora soltanto una brezza, ma c’è l’opportunità di suonare con nuove note.
L’augurio è che la poesia –e con lei la critica- non perda quell’opportunità.

Anonimo ha detto...

Et VOILA' ! Trasformo Vulisse ragno in un PRINCIPE! Emy

ha detto...
Questo commento è stato eliminato dall'autore.
Unknown ha detto...

Mi colpisce molto l'ultimo intervento di Erminia : racchiude aspetti presenti in tutti gli altri interventi, compreso quello che sembra meno poetico e di sola sfumatura, ma che lo è forse di più ..è un altro scheletro, naturalmente "malato", della cui sciatica poetica ( nel suo caso artrosi) si occupa sicuramente il libro di Linguaglossa che non ho letto, di cui non so nello specifico , ma all'insegna dell'amare/conoscere pasoliniano, seguendo i vostri discorsi, emerge o percepisco come una doppia diagnosi di un paziente morente eppure molto vivo , quasi di specchio dunque alla persona e societa che c'hanno fatto diventare.. ovviamente è uno scheletro incompiuto come tutti siamo senza distinzione di genere, artistico o meno.

Quetsa incompiutezza e malattia, diversa di periodo in periodo, fasi o secolo in secolo,è aumentat,a come il commento di Erminia cidice, perchè il mondo " immagine" ha gioco/forza aumentato il gioco degli specchi per confondere la realtà delle cose, della vita, già di suo parecchio predisposta a farsi e stafarsi di illusioni, quindi ammalare/contagiare di pseudoartrosi , vuoto e non senso di ogni tipo.

Fra le quali , come ogni media, anche quelle seminate nel web ,ma esclusi tutti i risvolti espressi da Lorenzo Pozzato di cui anche gli aspetti autoeditoriali indubbi.


Saper disvelare fatti, emozioni , pensiero , riflessioni di quell'autentica artrosi poetica- che sente l'incurvamento in ogni sua giuntura, dato dal peso delle finzioni/funzioni richieste alla propria senti-mentalità(idealità e intellettualità comprese) - è il coraggio richiesto al poeta perchè ha solo la parola per raccontarsi e raccontare tutte le frottole sulla sua malattia che è anche la nostra...molteplice saranno le malattie che riuscirà a sentire,tanto più "noi" deriverà...non avrà alcuna importanza se l'impero lo escluderà dal format richiesto per simulare poesia e pseudomalattie

Anonimo ha detto...

Ho semplici parole per dirvi che ogni poeta ha sulle spalle le sue esperienze, belle brutte , buone o cattive nessun individuo può scrivere senza aver fatto prima delle esperienze. Detto questo il critico che a sua volta avrà il suo bagaglio di esperienze giudicherà il lavoro del poeta e fin qui va bene fino a quando il critico che sa tutto della tecnica e non conosce a fondo il poeta darà il suo parere facendo in modo che la poesia in questione diventi quasi una sua creatura, come se lui l'avesse cresciuta, educata quasi plasmata. Del poeta rimane la paternità/maternità che solo alla fine della sua vita avrà la possibilità di urlare tutto il suo amore ed i suoi diritti attraverso la sua poesia. Ai critici rimarrà da rifare una grande ricerca che quasi mai viene fatta: conoscere a fondo l'animo del poeta. Nessuna poesia nasce il giorno in cui la scriviamo, nessuna poesia nasce il giorno in cui la leggiamo. La vera poesia nasce dal poeta e muore con il poeta. A noi non resta che capire il poeta e sarà poesia. Al critico lascio un gran da fare davvero molto molto impegnativo. Emilia Banfi

Moltinpoesia ha detto...

Ennio Abate:

QUADERNO DI DEVOZIONI BLOGGHISTE PER FLASH


@ Tito Truglia

No il carro davanti al bue che a te sta a cuore. Quello con il marchio “fronte dell’impegno e della poesia civile” non ha per ora prodotto qualcosa che sfugga alla crisi della poesia. Non partiamo mai né da zero né da sottozero, ma dalle “rovine” - recuperabili alcune, irrecuperabili altre - del Novecento o di secoli di cui ci resta memoria. Fare i nomi è indispensabile per non sparare su un generico fantasma (ad es. “il presente poetico istituzionalizzato”). E Linguaglossa li fa.

@ Umberto Simone

“Come diceva Verdi, ogni volta che si torna all'antico è sempre un bel passo avanti”.

Non si torna mai all’antico. Al massimo si impara qualcosa anche dagli antichi. Ma è tutto da dimostrare.

@ In soffitta (Ros)

“eterna "malattia", acuita ancor più dall'era tecnologica”; “carico " tecnologico" sulle spalle di un poeta e chi lo legge”; “occidentalizzazione di ogni campo a pochi standard ammessi per cancellare la continua produttività che davano le minoranze, comprese quelle poetiche”.

Non è la tecnologia in sé la causa dei nostri malanni o IL PROBLEMA. Senza un certo “carico tecnologico” (conoscenze tecniche) saremmo ancora più imbranati e dipendenti quella “distanza abissale fra sentimentale e mentale” (fra masse emotive ed élite calcolatrici, fra spinte emotive e spinte razionali nel singolo) aumenterebbe.

@ Alberto Accorsi

“la visione poetica non può far altro che partire dai propri immediati dintorni” (e cioè deve tener conto dell ‘ ” apertura alla massa piccolo borghese” e della “democratizzazione sessantottesca”

Partire sì, ma per arrivare dove? Tener conto, sì. Quando si capisce però che la democratizzazione è fasulla (una volta si diceva ‘formale’) e che in nome della democrazia si fanno le guerre “umanitarie” o ci governa un ceto politico democratizzato che manda in rovina questo Paese, il dubbio anche al poeta dovrebbe venire.

@ Erminia Passannanti

“Non sono, personalmente, 'apertamente' infastidita dalla proliferazione dei poeti e dei loro linguaggi”.

Fosse davvero una proliferazione di poeti (e poetesse)! Se, come sostiene Linguaglossa (e non solo lui) c’è stato uno “spappolamento della forma poesia”, è come se una massa di persone (i moltinpoesia) fosse penetrata in un bellissimo castello e trovasse tutto a soqquadro. Che si fa? Ci si organizza per mettere ordine o si arraffa quel che capita e ci si condanna a un “fai-da-te senza bussola”? Questo è il dilemma in cui si dibattono gli odierni “scriventi”. Da qui l’oscillazione tra fai-da-te del singolo, del gruppo-rivista, del gruppo editoriale, del gruppo-blog: una proliferazione di tentativi. Possiamo solo sperare che man mano si capirà se quanto stiamo scrivendo e cercando di rendere “visibile”: a) potrà essere ancora definito poesia; b) è altra cosa (migliore? peggiore?) dalla poesia che abbiamo avuto in Italia da Dante fino agli anni Settanta all’incirca; c) siamo di fronte a una moda autoconsolatoria a buon mercato, ma insensata e forse inefficace, sulla quale “i furbetti del quartiere” azzuppan’ o ppane. Se fossimo certi che sta avanzando la democrazia anche in poesia o una nuova forma-poesia ci sarebbe da gioire.

Il termine ‘post-poesia’, per come l’usa Linguaglossa, mi pare riferibile alla suddetta situazione di crisi e d’incertezza; e ricalca altri termini altrettanto approssimativi (post-moderno, post-comunismo, post-berlusconismo, ecc.)

[Continua 1]

Moltinpoesia ha detto...

Ennio Abate [Continua]:

@ Giorgio Mannacio

“Sotto certi aspetti la distinzione di Linguaglossa mi sembra corretta ma insufficiente . Visibili o invisibili , sta bene. Ma rispetto a “ quale osservatore “? La domanda mi sembra importante “; “Restringendo il campo delle definizioni ed avendo concreto riguardo all’attuale assetto socio-economico l’invisibilità riguarda piuttosto il mancato accesso o il difficilissimo accesso all’industria culturale e cioè all’editoria /comunicazione di massa”;
“Alcuni dei nomi che circolano nelle tue brillanti note presentano la singolare caratteristica di essere nomi di “ resistenza politica “ e di “ corrività “ all’industria letteraria. Come la mettiamo? “

Ti devo rimandare alla polemica (istruttiva, anche se un po’ noiosa) sul blog LE PAROLE E LE COSE nel post ….Con un’avvertenza. Se si è convinti che questi problemi non interessino, che sono battaglie in un bicchier d’acqua per un potere (poetico) irrisorio; e che uno può coltivare la poesia per conto proprio da solitario, da quasi eremita (mettiamo: come la Dickinson), ogni discussione su visibili e invisibili, moderati e antimoderati, moderni, antimoderni e regrediti, apparirà sciocca o capziosa o basata sul risentimento. Sono presenti in mezzo a noi sia posizioni parareligiose, ascetiche, francescane, che puntano ad un rapporto diretto, ineffabile, segreto tra io e Poesia, simile a quello di certi mistici che, fuori da ogni chiesa e persino convento, lo cercavano direttamente con Dio; e sia posizioni più politiche che vedono la Poesia come una Istituzione sociale, che ha una sua storia ed è percorsa da spinte conservatrici o innovative, elitarie o democratizzanti, includenti o escludenti nella dialettica «gruppo chiuso-gruppo aperto» di Elvio Fachinelli che ho qui ricordato. Essendo io più convinto che, invece dell’io-io, siamo ad un io-noi alle prese sia con spinte di monachesimo poetico sia di politicità poetica, sostengo criticamente la “militanza” di Linguaglossa a favore della visibilità degli “invisibili”, con tutti i chiarimenti necessari su chi essi siano e cosa facciano di valido.

@ Roberto Bertoldo

“non vorrei che Linguaglossa, dopo aver fatto un ottimo lavoro di distruzione delle gerarchie, finisse per crearne una lui”.

Rosa Luxemburg o Lenin? Il rompicapo dei “servi” irrisolto da quasi un secolo. E irrisolto anche nella tua “Pergamena dei ribelli” (ultima raccolta poetica di Bertoldo)!

@ Lorenzo Pezzato

“Quindi eccoci affacciati ad una nuova finestra, da cui si ammira un paesaggio intonso, forse con alcuni dettagli tratteggiati ma sostanzialmente candido. E sul retro della casa delle arti, da un’altra finestra, assistiamo al declino dei “rapporti sociali di produzione capitalistici” così come li abbiamo conosciuti e intesi dall’inizio della rivoluzione industriale a ieri”.

Caro Lorenzo, fossimo a questa nuova alba della storia! Nuova finestra? Nuove celle! Paesaggio intonso e candido? Ma se Zanzotto s’è affacciato dietro il paesaggio e ha cominciato a balbettare! Declino dei rapporti sociali di produzione capitalistici? E le guerre umanitarie, le crisi finanziarie, i Monti lagrime e sangue in arrivo al posto del signor B.? Studiamo la storia, amici…


[Fine]

ha detto...

Il castello è in soqquadro? Da che esiste la letteratura scritta, questi movimenti di rivoluzione si realizzano soprattutto in un modo: ci si mette insieme, si concepisce ed accorda su un progetto di poetica e di movimento, si redige un manifesto, si fa una serata di lancio del manifesto, e poi serate anche per due o tre anni, di letture e performance, si organizza un volume, più volumi, delle mostre, si invitano e coinvolgono critici e giornalisti, si titillano gli editori a mostre e fiere a farsi i conti sui possibili profitti e si lanciano nuove raccolte e opere critiche su quel dato movimento, sia come evento singolare (per ogni aderente al movimento del manifesto programmatico), sia collettivo.

Anonimo ha detto...

Quanto hai scritto ora, Erminia, a me suona come musica. Se penso alla Casa della poesia, al tanto buono che si dice ed al nulla che si fa...

mayoor

ha detto...

grazie,Mayoor: questo tipo di azione-manifesto è ciò che Habermas definiva nel 1962 la 'sfera pubblica borghese', che consisterebbe in spazi organizzati dinamicamente, all'interno dei quali gli individui-cittadini (in questo caso, i poeti) si riuniscono per discutere i loro interessi pubblici e culturali "comuni", contro quelli arbitrari ed oppressivi delle forme di potere pubblico e sociale.

La poesia può molto, quando decide di mobilitare le sue forze in questa sfera borghese, nell'accezione positiva del termine, equivalente a "cittadino dentro la sua tradizione ed il suo spazio civico".

Lorenzo Pezzato ha detto...

Caro Ennio,
spesso studiare la Storia fa perdere il contatto con la contemporaneità e tende a comprimere gli accadimenti dell'oggi negli schemi dello ieri.
Le generazioni post-novecento non balbettano davanti ai paesaggi, e direi che è arrivato il momento di lasciar andare Zanzotto...altrimenti qualcuno dica definitivamente che è stato ed è la vetta massima raggiungibile, così ci mettiamo tutti l'animo in pace. Al contrario, bisogna ammettere ci sia una nuova forma di poesia, di linguaggio e discorso poetico che caratterizza il XXI° secolo, per forza logica di cose.
Le lacrime e il sangue, gli eventi internazionali cui assistiamo dal mio punto di vista sono proprio il segnale evidente che siamo sulla soglia di qualcosa di nuovo...in minima parte per volontà, per la restante grazie al caso che continuamente rimescola il divenire e genera opportunità impreviste. I colpi di coda sono tipici fenomeni che preludono la fine, e il fatto che si cerchi di salvare il vecchio sistema non garantisce che il tramonto di un secolo sordo ai bisogni del soggetto sia evitabile.
E' garantito invece che andremo oltre Zanzotto, così come siamo andati oltre il romanticismo, il futurismo, lo sperimentalismo et cetera. E questo sorpasso è gia avvenuto, la linea del tempo muove in una sola direzione.
Sentirsi "in cella", imprigionati, è una sensazione naturale quando si rimane ancorati ad un periodo che si è chiuso, chiuso tra le quattro mura della storicizzazione, non più dinamico, possibilitato a muoversi solo entro i confini della foto che lo ritrae.
Personalmente non mi sento affatto recluso, anzi, respiro finalmente all'aria aperta. E se per uscire definitivamente dal novecento serve la crisi più grave che l'uomo ricordi, allora venga pure e sarà la benvenuta.
I poeti, dalla sommità del cumulo di macerie, continueranno a guardare il paesaggio e, in avanti, al futuro.

Moltinpoesia ha detto...

Ennio Abate:

Caro Lorenzo,
che dirti…non posso che stupirmi (non te la prendere per la battuta…) per questa tua erezione niccian-futurista. Ho lavorato per quasi cinque anni a un manuale di storia (ho curato il Novecento: dalla Prima mondiale allo stagno berlusconiano) e proprio non credo di aver perso il contatto con la “contemporaneità” (quella ovviamente che riesco a percepire dalla mia condizione, andando oltre il fumo dell’ideologia della “fine delle ideologie). Dovrei ammettere che esiste già « una nuova forma di poesia, di linguaggio e discorso poetico che caratterizza il XXI° secolo». Ma io non la vedo. Se potessi dire - non a me, che forse sono mezzo accecato, ma ad altri e magari agli appartenenti (per anagrafe, non per merito) alle «generazioni post-novecento» - in quali autori essa s’incarni, descriverla un po’ più oggettivamente al di là del tuo sentire soggettivo, mostrare in cosa si distingua dai balbettamenti zanzottiani o dal minestrone babelico della poesia fai-da-te, faresti opera meritoria e pionieristica.
Io non ho questa tua fiducia nella «forza logica» delle cose. E proprio studiando la storia ho imparato che non «è garantito … che andremo oltre Zanzotto, così come siamo andati oltre il romanticismo, il futurismo, lo sperimentalismo et cetera». Proprio perché il meglio della cultura del Novecento s’è accorta che il Progresso non c’è, che il capitalismo non è questo «sorpasso» che tu credi e che « la linea del tempo muove in una sola direzione », come avevano pensato Dante e i Padri della Chiesa, i borghesi positivisti dell’Ottocento, i socialisti del Sol dell’Avvenire e i comunisti dell’Urss. Non sono un profeta. Non credo che gli eventi internazionali ci stiano portando «sulla soglia di qualcosa di nuovo». Non vedo «colpi di coda» ma , con le parole di un «ragazza del secolo scorso», RossanaRossanda, che mi è capitato di leggere ieri (qui: http://www.ilmanifesto.it/dossier/la-rotta-deuropa/larticolo-di-rossana-rossanda/) vedo che:
:

« L’esplicitazione del conflitto sociale aveva fatto dell’Europa alla fine degli anni ’70 la regione del mondo meno squilibrata fra ricchi e poveri, il prodotto lordo ripartendosi per quasi tre quarti al lavoro e per un quarto a profitti e rendite. Nel 2000 la quota dei salari era scesa di dieci punti percentuali, al 65%, e da allora non si è ripresa. La crescita del reddito si è concentrata sempre più nelle mani del 10% più ricco e, tra i ricchi, nell’1% dei ricchissimi. Le classi medie si sono impoverite e sono aumentate le aree di povertà assoluta. Cui fanno sempre meno fronte le politiche dello stato, costretto a ridurre il sostegno ai non abbienti e ogni forma di welfare, e imporre una maggiore tassazione dei redditi bassi e medi, nella propensione di classe a non colpire i grandi redditi, travestita da speranza che essi si risolvano a reinvestirli nella produzione.».

Se questo è il “nuovo” che sta avanzando, mi viene da piangere. Stare in cella non è una mia sensazione soggettiva. In celle e in simil-celle ( cosa sono i CPT?) ci stanno uomini e donne reali e non credo che ci stiano perché «ancorati ad un periodo che si è chiuso», ma perché altri a questa condizione li costringono per paura di perdere quel tanto o poco che hanno a volte conquistato con duro lavoro ma spesso arraffando alle spalle di chi lavorava. Ti lascio malvolentieri ( e spero con pochi poeti) a respirare «all’aria aperta», sulla «sommità del cumulo di macerie» a guardare «in avanti, al futuro». Se per caso un giorno i vostri occhi dovessero abbassarsi e guardare più terra terra o magari all’altezza degli occhi degli uomini e delle donne in carne ed ossa che lavorano o sono disoccupati o immigrati in fuga da miseria e guerra, capirete a chi giova il vostro futurismo.

Moltinpoesia ha detto...

Ennio Abate
CORRIGE:

e che « la linea del tempo [NON] muove in una sola direzione », come avevano

tito truglia ha detto...

L'ultima parte del libro di Linguaglossa è deludente. Secondo me è troppo tenero (a parte le parzialità)... è troppo tenero con chi negli ultimi 20-30 anni ha partecipato al piccolo magna-magna poetico. Linguaglossa, riprenda a randellare! Ci sono 2-3 generazioni da mandare a zappare! Le ultime 100 pagine sono zeppe di nomi che meriterebbero di andare in campagna! In comunità. San Poetrignano!!
saluti
tito

Lorenzo Pezzato ha detto...

Caro Ennio, naturalmente non mi permetto di rivolgere a te il commento riguardante "la perdita di contatto". Era un discorso di carattere generale.
Già altrove ho scritto che un poeta lavora con quello che c'è, deve farlo, e se quello che c'è è il quasi-nulla allora con quello si lavora.
Rifiuto il concetto di vuoto che proponi. Il Progresso non c'è, se ne sono già accorti i migliori di fine Novecento...e quindi? Tutto finito? Solo a pensarlo è abbastanza improbabile, se c'è una cosa che la Storia insegna è che comunque si va avanti, nonostante i periodi bui e le grandi catastrofi.
Rifiuto anche di amalgamare così prepotentemente la poesia con la cronaca socio-finanziaria del momento, non credo sia questo l'orizzonte giusto...altrimenti conviene farla finita con il gas (gas poetico, s'intende).
Senza dimenticare che "il meglio della cultura del Novecento" , da un punto di vista di qualche generazione dopo, ha partecipato a consegnarci le macerie su cui oggi sediamo.
Cosa dovremmo fare? Rassegnarci a godere del bel lascito?
Una certa dose di futurismo -come lo definisci- è il simbolo della voglia di guardare oltre. Una volta le chiamavano avanguardie.

Anonimo ha detto...

A Ennio da Emy:
Nessuno può impedirci di guardare al futuro, sarebbe davvero gravissimo, un uomo che non guarda al futuro è un uomo morto. E' il nostro sè che deve ritornare a capire cosa significa vivere onestamente e altruisticamente, questo è difficile da insegnare a noi figuriamoci ai nostri figli/nipoti (quest'ultimi pacchi postali).
La poesia non si ferma, non si è mai fermata , certo non lo farà adesso. Le guerre, i massacri, le persecuzioni, le malattie, la disoccupazione, ci sono sempre stati, la poesia non è mai morta, anzi, rifioriva. Che dire sarò un'illusa la poesia è del poeta che la scrive ed oggi non sono pochi, casomai, sono pochi coloro che la leggono, ma è sempre stato così.
Ora ad Ennio chiedo: -Vuoi smettere di fare poesia?- Me lo fai pensare, se così fosse vorrà dire che ti sei arreso a tutto ciò che fino ads ora hai combattuto. Emilia Banfi

Moltinpoesia ha detto...

Ennio Abate @ Lorenzo Pezzato

Affermare che il Progresso non c’è può essere un atto responsabilizzante e non nichilista. Equivale al “Dio non c’è” di Nietzsche. Alcuni lo interpretarono come un lasciapassare per far ciò che si vuole, quindi anche ammazzare gratuitamente solo per mostrare di saperlo fare (Raskolnikov, la vecchietta, Dostoevskij). Altri, Sartre ad es., come possibilità di libertà.«“Se Dio non esiste – scrive Sartre – non troviamo davanti a noi dei valori o degli ordini in grado di legittimare la nostra condotta. Così non abbiamo … delle giustificazioni o delle scuse. Siamo soli, senza scuse. E’ ciò che esprimerò con le parole che l’uomo è condannato ad essere libero». Ma quale libertà? Una libertà vuota? Una libertà di farsi gli affari propri (fosse anche scrivere poesie) senza guardare in faccia a nessuno? Una libertà in futuro?
Se, tolta un’Illusione, subito ce ne creiamo un’ altra, il Futuro, a me pare che vengano sprecate le reali possibilità di libertà, che per me - abbreviando - si costruiscono con altri/e su progetti che non possono ridursi, però, alla propria soggettività o ad un eccesso di essa.
Ed è questo che ti rimproveravo nel precedente intervento parlando di “erezione niccian-futurista”. Mai rinunciare alla propria soggettività, ma se ci riduciamo solo a quella? E la realtà chi l'affronta? Se non la conosciamo (compresa la "cronaca socio-finanziaria del momento"), come possiamo trovare davvero una via a libertà non illusorie? Parlavi di «una nuova forma di poesia, di linguaggio e discorso poetico che caratterizza il XXI° secolo». Benissimo. Ma fuori le prove, i nomi, le descrizioni. Se no, è una tua fede, rispettabile. Ma incomunicabile ad altri. O che chiede anche ad altri un atto di fede. Ed alcuni, come me, non sono disposti a lasciar correre. Vogliono vedere. Aggiungo che Althusser dava un’immagine della storia per me molto più libera e meno deterministica ( anche se non rassicurante) di quella che tu dai («la Storia insegna è che comunque si va avanti, nonostante i periodi bui e le grandi catastrofi»). Diceva che la storia era come un treno, su cui noi si troviamo e che non si sa da dove arriva e dove andrà a finire. E nel suo percorso - aggiungerei - ci sono fermate e magari anche regressi. Ma il discorso si farebbe lungo e complicato. Chiudo dicendo che anche io ho «voglia di guardare oltre» (ma anche sotto, a chi soffre più di me; e sopra, a chi comanda e fa scelte dannose per tutti ben più di quelle che sono permesse a me o a te). Ma senza futurismo, che è solo un’ideologia, una voglia di andar oltre che non guarda in faccia a nessuno e pur di andare oltre diventa anche complice degli assassini e dei potenti (e i futuristi italiani in questo modo sciocco esaltarono la Prima guerra mondiale). Infine, vedi che le macerie su cui oggi sediamo non te l’ha lasciato in eredità il «meglio della cultura del Novecento», ma il peggio.

Moltinpoesia ha detto...

Ennio Abate @ Emy

« Nessuno può impedirci di guardare al futuro, sarebbe davvero gravissimo, un uomo che non guarda al futuro è un uomo morto».
Bene, non te lo impedisco. Ma dimmi quale futuro vedi. Dimmi qual è la via da seguire per « ritornare a capire cosa significa vivere onestamente e altruisticamente». È un po’ semplice sorvolare su guerre, massacri, persecuzioni, malattie, disoccupazione (presenti, reali) per confermarsi in una fede: «La poesia non si ferma, non si è mai fermata , certo non lo farà adesso». Come ho chiesto a Pezzato, chiedo anche a te: Prove, cara mia! Se non le hai, la tua è una fede come la sua. Mi chiedi se voglio smettere di fare poesia? Ma il problema di cui stiamo discutendo è se è possibile ancora fare poesia e quale poesia; e se quella che stiamo facendo è ancora poesia o non siamo in una situazione di incertezza e disordine tale per cui né lo «sciopero dei poeti» di Mayoor né l’azione habermasiana nella “sfera pubblica” proposta da Erminia funzionano. Bisogna interrogarsi senza aver già la risposta pronta. Certo se «la poesia è del poeta che la scrive», come tu dici, o « la poesia (del poeta) è la sua stessa autorità», come dice Erminia, io resto deluso. Se, consapevoli o meno, affermate che il soggettivismo (il fai-da-te) in poesia è l’unico Canone (non dichiarato) da seguire, diventa un disturbatore dei poeti chiunque pone problemi come: ma che peso ha la poesia nella società? perché è ridotta a un ruolo di Cenerentola? quale poesia andrebbe fatta per misurare il peso delle nostre parole e vedere se davvero colgono questa realtà o i bisogni umani o il futuro dell’umanità o quel che volete e che per voi ha un valore? Se il valore sta solo nel fatto che facciamo comunque poesia e non siamo in grado di dimostrarlo e di rispondere a queste obiezioni... buon lavoro, ma non ci sto.

giorgio linguaglossa ha detto...

Tito Truglia ha ragione a scrivere che «l'ultima parte del libro è deludente»; in effetti il saggio conclusivo del libro è un "saggio cornice", ovvero, un tipo di scrittura critica di «accompagnamento» dei testi. Una volta inquadrato il post-contemporaneo, cioè il periodo storico che va dalla fine del Novecento agli inizi degli Anni Dieci, il periodo della caduta delle Grandi Narrazioni, non mi restava (come critico del contemporaneo) che accompagnare gli autori (e i testi) lungo le direzioni che i testi mi indicavano. Vero è che molto di frequente ho inserito dei distinguo e delle prese di distanza da certe direzioni che, a mio avviso, portano ad un vicolo cieco; saggiamente ho però lasciato le porte aperte alla storicizzazione e ad una interpretazione più approfondita (e ragionata) su alcuni autori verso i quali nutro forti dubbi, cioè che a mio avviso mostrano di non avere i polmoni resistenti per una lunghissima e faticosissima maratona. Resistere (poeticametne parlando) nei decenni futuri non sarà uno scherzo. E qui il problema va visto con quello delle «macerie» e delle «rovine» stilistiche che le peotiche egemoni ci hanno lasciato in eredità. Fare i conti con la poesia di Zanzotto significa essere capaci di scavalcare il suo registro stilistico per approdare ad una nuova terra; fare i conti con i primi libri di Cucchi «Il disperso» del 1976 e «Somiglianze» di Milo De Angelis del 1980 sifnifica fare i conti con un tipo di scrittura poetica che non «apriva la strada» ad ulteriori sviluppi stilistici, ma che anzi li chiudeva, e li precludeva agli stessi autori. E qui ecco spiegato il perché dopo la loro opera prima né Cucchi né De Angelis riusciranno a dire qualcosa di nuovo che non era già detto nelle loro opere prime. Ormai è un fatto che l'esistenzialismo milanese non ha più frecce nel proprio arco (stilistico). È un dato di fatto che il minimalismo romano milanese sia finito nel turismo poetico di un Franco Buffoni e di un Marcoaldi. Dobbiamo esserne consapevoli e prenderne atto. Non so quali e quanti altri critici hanno oggi e avranno domani l'onestà intellettuale di dire le cose come stanno, nude e crude, di indicare i vicoli ciechi e i vicoli aperti...
Dunque, l'ultimo capitolo del mio libro «Dalla lirica al discorso poetico. Storia della poesia italiana 1945-2010)», dovrà essere necessariamente riscritto e ripensato, è insomma un work in progress, e questo lo dico non per dimidiare le mie responsabilità ma, appunto, per assumermele in toto, esso è il primo indizio di una riflessione che porterò avanti in diretta tramite lo strumento di internet e dei siti che vorrano collaborare alla riflessione critica collettiva.
Certo, la «riforma moderata», il «parametrooderato» che ha occupato il proscenio della poesia della seconda metà del Novecento non è stato affatto infirmato o detronizzato, anzi, se gettiamo uno sguardo ai rapporti di potere istituzionali e agli equilibri di visibilità instauratisi tra personaggi e clientele varie, la prima impressione è che la situazione della crisi poetica sembra essersi degenerata e aggravata... noto che le diramazioni del conformismo si stanno moltiplicando e generalizzando, addirittura, i miei scritti incontrano l'aperta ostilità e censura da parte di molti siti come leparoleelecose, la Nazione Indiana, la poesia e lo spirito etc.... c'è una formidabile fame di conformismo e di omologismo. Questo è quanto. Senza contare la resistenza vischiosa e sabbiosa dei cattedratici i quali hanno tutto l'interesse ad opporre il silenzio dall'alto dei loro piccoli centri di potere...

Unknown ha detto...

Mi ripeto , ritornando nel post sorgente.

Se durante la grande mutazione, della seconda parte del secolo scorso, chi controllava il paese aveva come primo obiettivo la distruzione della coscienza critica (MINIMA),capillare tanto all'alto quanto al basso, il risultato è stato raggiunto tanto per i Poeti, quanto per i non Poeti, cosi come tutti gli esempi che potremmo farci.
Sostanzialmente LA PAROLA che almeno per me , rappresenta meglio sia il singolo che il plurale, sia i pochi che i molti, è TRA-DIRE.

Il tradimento di se stessi, come quello più istituzionale o di potere che lo ha determinato ( con tantissimi altri " risultati" utili per altri bilance e antologie) , non poteva che portare ANCHE per POESIA , ergo i suoi tra-miti, conrtraddizioni su contraddizioni sia in chi ora si chiede chi siano i Poeti in questo momento, sia in chi vuole continuare a sentirsi dalla loro parte.

E' l'eterno conflitto fra ragione e sentimento? fra intellettualità e sentimentalità? e sprattutto fra strutture intellettuali rigorosissime ma che finiscono per essere eccessivamente elitarie, rispetto a chi umilmente "resiste" al bisogno di poesia?

come ho gia detto in altre parole e in altro intervento, quando è la realtà che manca totalmente di poesia, ci si deve chinare alla terra come quando la si lavora per piante o per verdure.. il vero poeta e tutti coloro che di lei/lui lro si occupano( per primo i critici) deve avere a cuore la nuda e cruda realtà; se non ha occhi interiori per volerla vedere e quindi cantare , nè ha inteznione di farsi sè molteplice di tutti gli altri sè immersi nello stesso deserto, avrà l'illusione come tanti altri generi simili o dissimili, di essere qualcosa che non è ..tanto però come se pur di essere un poeta coi controcaxxi rivoluzionari o meno, si perde , non vede , non ascolta ogni poesia nascosta nel deserto della parola o fuori dalla parola stessa.

purtroppo " le persone " ridotte ad atomi quanto i poeti e pure di piu(sia i poeti di un tipo che quelli dell'altro o dell'altro ancora), rimangono doppiamente cornute e mazziate .. penalizzate , come sempre e di più, di qualcosa che si dibatte in questo modo proficuo solo per chi ha gia la testa che pensa di pensare ...e quel tradimento, voluto cosi come è avvenuto, diventa sempre piu cronico affidandole sempre più al deserto della super-omologazione, dove se va bene ( cioè malissimo) ti citano come grandi poeti Baricco, roba da preferire quelli che non hanno mai letto nemmeno una pagina tranne quella del calendario.

credo che sia molto importante il discorso di Emy da una parte, Lucio dall'altra e Pezzato dall'altra ancora..sono meno cerebrali , piu concreti sul legame contadino tradito, e sicuramente possono essere accolti dalla capacità politica-intellettuale di chi si domanda da pochi a molti, per generare sviluppi singolo/plurale molto interessanti

Anonimo ha detto...

Emy ad Ennio,
No No No , non si tratta solo di soggettivismo ma di soggettivismo coraggioso. Chi ti dice che quelli che la pensano come me, non riflettano su guerre, sfruttamenti, malattie, mafia ecc. . La poesia che scaturisce dal poeta ha sempre la forza del poeta stesso in qualunque condizione essa venga scritta . Una volta uno di noi , non ricordo più chi, scrisse:" se l'unico bellissimo albero che Emy vede dalla sua finestra ,che cambia colore ad ogni stagione, improvvisamente un mattino una ruspa viene a sradicarlo e se lo porta via , Emy vedrà oltre al suo dolore ,l'ingiustizia e scriverà con queste impressioni, giudizi anche politici , ma scriverà dell'albero e dell'ingiustizia come meglio sa fare. sarà vera poesia? >La chiave di questa porta mi sembra che ancora nessuno l'abbia trovata. Nessuno è mai stato per me disturbatore nel momento in cui mi ha chiesto cosa può fare la poesia per questo mondo di ideali confusi , sballati . Noi viviamo in questo mondo e la poesia deve interessare chi la legge entrando negli animi come poesia e non come dicorso magari in apparenza poetico ma che nulla ha di poesia.Cambiare i nostri modi di vivere cambierà la poesia. Perchè se così fosse, caro Ennio , io non ci sto. Emilia Banfi

Moltinpoesia ha detto...

Ennio Abate a In soffitta:

Cara Ros,
scusami, mi dispiace contraddirti, ma ritengo che i discorsi di Emy, di Lucio e di Pezzato siano "cerebrali" quanto i miei e i tuoi. E però
una differenza c'è tra la vostra cerebralità ammantata di fede e sentimenti e la mia apparentemente a-sentimentale: io voglio prove, fatti, nomi, che sarebbero utili per misurarsi in concreto e DIALOGARE a botta e risposta, cercando assieme con chiarezza dei punti su cui CONCORDARE.
Altrimenti anche in questo blog come in tanti altri dominerà la CHIACCHIERA. Ed io la responsabilità di alimentarla proprio non me la prendo.
Parliamo di cose, di fatti, di persone precise ( noi compresi), non di Astrazioni indeterminate come la Poesia, il Nuovo Millennio, eccetera.
Stiamo terra terra, che fa bene ai poeti seri.

Lorenzo Pezzato ha detto...

Io tenderei a parlare di me, forse la persona che conosco meglio e il cui punto di vista sulle questioni sollevate in questo stimolante dibattito mi appare più chiaro.

Però sarebbe eccessivo, e per evitarmi l'imbarazzo posso al massimo -visto che anche lui è parte in causa nella discussione- lasciarvi il link della prefazione di Giorgio Linguaglossa al mio ultimo lavoro, dove trovo rappresentato il mio punto di vista.

Con la speranza che anche questo non vada oltre le regole di cortesia...ma ognuno rimane libero di non cliccare (vantaggio offerto dalla rete): http://www.lorenzopezzato.it/?p=2297

Vi abbraccio e vi ringrazio dell'ospitalità e dell'opportunità di confronto.

Moltinpoesia ha detto...

Ennio Abate a Lorenzo Pezzato:

Ogni link è benvenuto, perché permette di vedere cosa ciascuno fa anche in proprio. Meno capisco interrompere il confronto.

Moltinpoesia ha detto...

Ennio a Emilia Banfi:

«sarà vera poesia? >La chiave di questa porta mi sembra che ancora nessuno l'abbia trovata».
Appunto per questo non si capisce come la poesia, che oggi non si sa bene cosa sia, possa “entrare negli animi” (e perché no nei cervelli? Perché mettete sempre gli animi più in alto dei cervelli?) e come fai a distinguere il «discorso magari in apparenza poetico ma che nulla ha di poesia»?

Unknown ha detto...

Ciao Ennio ...vuoi un nome ? tutti quelli che lascio fra un tergicrsitallo o una panchina della metro, o un muoro non posso elencarteli , ma sono un bel noi..se ne vuoi appena consciuto grazie a queste non chiacchiere , è Fausto...un bambino , forse Pezzato lo conosce.Io l'ho conosciuto con un banalissimo, come si suol dire, clic sul suo nome ,iconcina, quella di Lorenzo...rispetto ad alcuni/e che ho letto o visto dal vivo, gli da milioni di punti di distacco, perchè riempe luoghi(censibili) dove la poesia l'hanno tolta prima che i poeti(altra astrazione incensibile) si martelassero i cojoni se lo erano o meno, o chi lo fosse e chi non lo fosse, come esserlo o ri-esserlo di nuovo .cosa che serve e di gran valore, ma non vorrei bloccante.i rischi di stoppare le persone sono anche in cio che tu vuoi vedere, succede a tutti, "la parola " di sè fa solo io ,oppure a volte raramente qualcosa di diverso...e se io non dico di nessuna di queste parole che leggo che sono chiacchiere, gradirei per uno che mi 7ci parla di coscienza critica o politica, chenon lo dicesse nemmeno dell'ultimo ignoranze zotico di questa terra.

Anonimo ha detto...

a Ennio


NON SONO POETA SERIO SE POETA SONO.La serietà è la piena consapevolezza dei propri doveri e dei propri obblighi, io non considero ne dovere ne obbligo il fare poesia , ma bensi capacità, potenza creativa, magìa ed infine arte. Forse, anzi sicuramente, per te che sei serio e così anche per altri non sarò mai un poeta serio e perciò non sarò poeta, ma questo non mi tocca. Emilia

Unknown ha detto...

ps
non ci sarebbe nessuna differenza con le noti stragi fallaciane

Anonimo ha detto...

A Ennio serio:
per rispondere a come faccio a distinguere un discorso poetico da un discorso che nulla ha di poesi? Semplice la risposta te l'ho data Nel NON SON POETA SERIO SE POETA SONO. vedi sopra.Emy

P.s.: le tue opere sono così belle e pensa, non ho mai pensato che fossero anche serie.Ora non dirmi che dovevo pensarlo perchè non ci stò.

Moltinpoesia ha detto...

Ennio Abate:

@ In soffitta
Ros, le chiacchiere ( parole che non arrivano al segno, che girano nell'aria senza mai posarsi , definirsi, smuovere animi e cervelli) le fanno tutti, non solo gli ultimi ignoranti zotici di questa terra, ma anche i primi della classe politica o intellettuale o poetica.
Per me il problema di ridurle e di sostituire con pensieri-parole controllabili e con vantaggio di tutti resta.

@ Emilia
A te piace giocare con le parole. "NON SONO POETA SERIO SE POETA SONO" per me significa
che, accertato che io sia poeta ( cosa che non dici come si fa), sono al di sopra del bene o del male, della serietà o della non serietà.
Così, per me, si aumenta la chiacchiera.

Anonimo ha detto...

AAAHHH bene! Io dovrei dirti come si fa ad essere poeti? Io scrivo poesia, cos'è la poesia? Nessuno è riuscito mai a spiegarlo davvero . Io ci ho provato quando ti ho detto la mia. Se a te non basta , mettila pure nella cestino delle chiacchiere perchè io continuerò a chiacchierare con qualcunaltro. Ricordati però che "io poeta" non sono al di sopra del bene e del male , io posso essere il bene e il male, anzi lo sono come lo sei tu. Tutta la letteratura insegna , perchè non dovrebbe farlo anche la nostra? L'audacia delle idee resta sempre la strada da percorrere. La conoscenza la migliore amica del poeta . Leggiamo sempre tutto. Emy

Unknown ha detto...

Ennio, porca di una miseria, lo vedi che sei tu che istighi al sentimento che diresti da bandire?
La tua grande capoccia e la tua grande anima Poeta in conflitto fra se stesse, bipolarmente incazzute e io ( e pure Emy in questo caso da quanto leggo) a dovertele ricucire insieme. Ci fai sempre fare le donne che ricamano,cacchio! sei imperdonabile ( scherzo Ennio,spero sia chiaro il modo).
:-)

Anonimo ha detto...

Cara Ros,
Ennio di letteratura ne sa molto ma molto più di me . Quando la grande conoscenza è al servizio della libertà altrui ma soprattutto della nostra da frutti maturi, succulenti , enormi ,diversamente è solo una cosa seria molto seria talmente seria, da morire... . Emy

Unknown ha detto...

Cara Emy da vivere , ti rubo un tuo suono, "chiacchierevolmente " la tua magia mi veste di due stivaletti gialli , uno è quello di Fausto l'altro quello di Ennio.
tua ro

Unknown ha detto...

ciao a tutti, ri-scatto questa foto che :
1
i molti mancano al dibattito. In quel pomeriggio di una settimana fa , sembra siano stati presenti solo quelli intervenuti , che si contano bastando solo due mani?
eravate solo in dieci? e il minimo di domanda che mi pongo è come faccio a dire la parola degli assenti

2
se si vogliono evitare "le chiacchiere", pur essendo dialoghi fra profughi di mille radici e foglie, si ripete la storia di padre, figlio e spirito santo ...una santissima trinità priva di qualsiasi sacralità speculare a quella dei banchieri di dio al governo, divisa in tre post destrutturando di per sè la forza della parola( che non può stare nella zona di nessuno,sottratta sia a un distruggere che a un costruire per costruire).
3
si nota a proposto di Goya (che forse citava Lucio) la ricerca non della piena individualità , ma la contraddizione e condanna , tranne per chi vi si oppone, a una sola triste radice, per poeti e non poeti, giovani o vecchi, critici o non critici,intellettuali o zotici, di coscienza politica o no et cetera et cetera :l'individualismo dna italiano ,di (dis)egonomia persino all'unità minima di un noi, molti o pochi, chiamato io.

tito truglia ha detto...

Grazie a Giorgio Linguaglossa per la risposta. D'accordo con te anche sui rilievi fatti circa la bloggosfera poetica. E meritoria sarebbe l'iniziativa "critica collettiva", a cui parteciperei pur non essendo un critico. Visto che ci sono ti posso chiedere un'opinione sul progetto romano di "Calpestare l'oblio", anche se ormai sembra essere caduto, appunto, anch'esso nell'oblio... dei vari protagonismi personalistici? cari saluti.

PS per Ennio: non penso di aver detto in precedenza cose eccessivamente denigratorie, e quindi il post di Susy mi sembra davvero come minimo fuori luogo. Non sono mai stato favorevole alla censura, ma quel post è brutto e offensivo e senza ragione. sarebbe da togliere, non aggiungo altro perché non mi sembra necessario. saluti cari, anche a Susy.
A proposito: INVITO TUTTI STASERA AL CIRCOLO ARCI MARTIRI DI TURRO. ERESIE PASSIONI POESIA / PASOLINI OGGI con Ennio, Tito, Natascia, Enzo. alle 21 in via ROvetta a MI.
tito trugllia

Moltinpoesia ha detto...

Ennio Abate @ Susy:

Non so chi lei sia. In effetti affibbiare a Tito quell'epiteto offensivo e non argomentare per nulla la sua eventuale critica non va.
Se non interviene più e non ritira
lo 'stupido' che ha usato,cancello il commento.

giorgio linguaglossa ha detto...

Caro Tito Truglia,
in merito alla antologia "Calpestare l'oblio", così, di primo acchito, debbo dire,in tutta sincerità e in via preliminare, che non condivido le "ammucchiate" di 100 autori con una poesia ciascuno per due ordini di motivi:
a) che è impossibile esprimere un parere sui singoli;
b) che si poteva fare una antologia con 1000 autori con una poesia ciascuno, e la cosa non sarebbe cambiata.
Certo, c'è dislivello (di professionalità) tra gli autori, ci sono le poesie turistiche di Franco Buffoni (ma così si possono scrivere mille poesie l'anno!), c'è una enorme congerie di banalismi e di talqualismi...(qua e là, ma molto di rado, c'è qualcosa di buono!) insomma, in quel minestrone non mi ci raccapezzo, non c'è ragione di stare come la carota in quel minestrone... così si dà una spinta ulteriore verso l'abisso al calpestio dell'oblio che tanto paventate... ma della questione dell'oblio dell'essere aveva già parlato qualcuno negli anni Trenta, no? - qui mi sembra che la cosa che si oblia è proprio la "poesia", con questo andazzo generalista e vittimista ritengo non si vada da nessuna parte... e intorno agli autori che godono di "visibilità" che hanno partecipato all'ammucchiata, non ho nulla da dire se non recitare un peana nei loro confronti, è triste assistere all'ammucchiata demagogica di tutto di più e del "volemose bene"... è uno spettacolo triste... di questo passo non resta che mettere dei "tecnici" al "governo" della poesia italiana visto il fallimento dei poeti. In realtà, io vedo un fortino assediato da una moltitudine di scriventi che tentano l'assalto al fortino con il coltello tra i denti, e vedo dei difensori dietro gli spalti che si dividono le spanne...

Moltinpoesia ha detto...

Ennio Abate a Giorgio Linguaglossa:

Tito già conosce la mia posizione su quell'antologia. Con te non non ho mai avuto occasione di parlarne, ma, concordo con il giudizio negativo.
Non per esibizione, ma il mio lo puoi trovare sul sito di POLISCRITTURE qui:
CRITICA Ennio Abate - Sull'antologia
"Calpestare l'oblio"
http://www.poliscritture.it/index.php?option=com_content&view=article&id=145:critica-ennio-abate-sullantologia-qcalpestare-loblioq&catid=3:arte&Itemid=14

Lorenzo Pezzato ha detto...

Raccolgo la divertente provocazione di Giorgio e mi chiedo quali potrebbero essere i tecnici che governerebbero la poesia nell’eventuale default della stessa provocato dall’incapacità dei poeti. Quali caratteristiche dovrebbe avere il presidente del Consiglio nominato? Quali i ministri? Temo –e allo stesso tempo ne sono sollevato- che la poesia possa essere governata solo dai poeti, che sono sicuramente la sua peggiore forma di governo fatta eccezione per tutte le altre. Anche se mi pare che la poesia contemporanea sia già commissariata dalla propria incapacità (questa sì) di comunicare ai viventi.
Personalmente, perché non ho delega a parlare per alcuno al di fuori di me, preferisco proseguire la strada e non battagliare digrignando i denti contro il freddo acciaio di una lama, disinteressandomi completamente di quello che succede tra le mura del fortino e utilizzando le energie per capire –o cercare di farlo- il mio tempo.
In fondo scrivo versi per comunicare qualcosa agli altri, e i mezzi oggi non mancano checché possa fare o dire il signore del castello fortificato. Certo il poeta deve spogliarsi di qualunque altra velleità al di fuori di quella, cosa non facile.
Poi i talenti emergono, comunque, basta abbiano un canale per esprimersi e venire a contatto con l’opportunità.

ha detto...

d'accordissimo.

Anonimo ha detto...

D'accordo. Un'inconsapevole

Anonimo ha detto...

Buon Dio, questa idea del fortino mi fa un po' paura. Ennio si da un gran da fare su ammettiamolo, Non so chi di noi sarebbe in grado o meglio avrebbe desiderio di fare ciò che lui quotidianamente fa. Poi le lame, la guerra,gli assalti,l'assedio, il castello e che è una storia medioevale?!? Comunicare sì, questo è quello che si deve fare, confrontarsi e soprattutto non offendersi. Gli ottusi cedono presto. La strada è aperta e spero che alla fine non ci sia un fortino e neanche un castello , ma un posto per ritrovarci e se qualcuno vorrà scontrarsi lo faccia apertamente e sempre davanti a tutti. Rmy

Moltinpoesia ha detto...

Ennio Abate a Pezzato, Passannanti, Emy(?) e anonimo:

Le lame, la guerra,gli assalti,l'assedio, il castello, la fortezza? Troppe le metafore in cui i poeti, anche quando dovrebbero semplicemente ragionare sul che fare, si avvolgono come in una coperta di Linus!
Non sono d'accordo.
Quando ragioniamo di poesia, meno metafore per favore. Bisogna uscire da questa oscillazione tra due modi diversi di parlare di poesia, distinguerli e non confonderli. Il primo è mitico-sentimentale, il secondo intellettuale-razionale.
Il primo s’è costruito quando, a cominciare dall’infanzia, siamo stati indirizzati da genitori e maestri alla lettura e ci siamo imbattuti in parole ordinate in versi. Il secondo s’è affiancato al primo man mano, forse fin da subito quando abbiamo incontrato i primi ostacoli nel decifrare il significato di una parola e abbiamo dovuto ricorrere a un adulto o al dizionario. O quando certe immagini, trasmesse dai versi, ci turbavano, tanto confliggevano con nostre aspettative o con le conoscenze convalidate dall’autorità degli adulti, interrompendo così l’esperienza fusionale, quasi un tu per tu, con l’autore di quei versi. La presenza del “mediatore” ( il genitore, il maestro, l’amico che ne sapeva di più fino poi al critico) ha preso un rilievo crescente. E ci ha fatto capire che la “poesia” non era soltanto esperienza “privato-familiare”, ma anche (e forse soprattutto) discorso pubblico-istituzionale. Questi due modi di sperimentare la poesia hanno entrambi vantaggi e svantaggi. Ma bisogna scegliere.
Pezzato, quando scrive: «preferisco proseguire la strada e non battagliare digrignando i denti contro il freddo acciaio di una lama, disinteressandomi completamente di quello che succede tra le mura del fortino e utilizzando le energie per capire –o cercare di farlo- il mio tempo», esalta il modo monacale-contemplativo-individualistico di pensarsi come poeta e di pensare alla poesia. Da qui la svalutazione della critica e del poeta-critico, che ciascuno di noi, secondo me, dovrebbe essere. Dall'ottica di Pezzato (parlo di una tipologia, non di lui come persona) ogni impegno mondano-politico appare uno sporcarsi l’ Anima in intrighi, favoritismi, congiure, ecc. E il critico ( e lo spirito critico che ciascuno ha) viene castigato o malvisto. Chi me lo fa fare a passare per un rompicoglione, uno che è aggressivo di suo e senza motivo, a cui prudono le mani, che vuole fare sempre a cazzotti? E così, proprio come in politica, si lascia fare ad altri, spesso i peggiori.Sono essi che preparano il terreno futuro alle nuove generazioni di poeti, che stabiliscono con i loro criteri spesso miopi e arbitrari o di corporazione o di cordata cos’è poesia e cosa non lo è, chi dev’essere in un determinato periodo visibile e chi no, chi dev’essere cooptato e che escluso dalle patrtie lettere o dalla comunità di quelli che contano, quali linguaggi poetici devono essere "naturali", "attuali", "nuovi". Sarebbe ancora l’ora ( forse è sempre l’ora, se si avessero le idee chiare e si uscisse da ambivalenze pericolose, perché poi anche i monaci fanno i loro compromessi senza darlo a vedere..) di sanare questa scissione tra monachesimo poetico e Chiesa (o Casa) della Poesia. Ma per sanarla bisogna uscire dal romanticismo…

Anonimo ha detto...

Bene, Ennio. Bando al romanticismo, fuori le poesie e fuori i critici e che nessuno si offenda, Vediamo un po'cosa succede, cosa aspettiamo?. Ciao a tutti Emy

Anonimo ha detto...

ennio, cosa si fa se uno si sente, come me, così battagliero da scendere in campo solo per uccidere?

cordiali saluti dalla cella. fra cristoforo.

Lorenzo Pezzato ha detto...

Caro Ennio, cari tutti
continuo a trovare questa discussione di ordine fondamentale, sono gli argomenti di cui amo ragionare quando si tratta di poesia e tra gli unici che ritengo degni di essere considerati. Il resto sono storielle accademiche che ormai hanno esaurito l’apporto di contenuto, ma -come al solito- è un’opinione personale.
Non esalto il modo monacale-contemplativo-individualistico di pensarsi poeta, in verità era un ragionamento molto più concreto che tutto sommato discende dalla semplice osservazione delle cose anche in altri contesti. Ad esempio ci si chiede come mai “le migliori teste” –quasi sempre giovani- non si impegnino in politica. La risposta è abbastanza banale: il criterio di selezione della classe dirigente viene applicato dalla classe dirigente in carica che plasma i nuovi componenti a propria immagine e somiglianza, naturalmente con l’obiettivo di perpetrare se stessa e i propri valori (oltre che mezzi, tempi e metodi della loro applicazione e diffusione). Non collimare con quell’immagine significa semplicemente non accedere alla selezione, conseguenza logica. Un seminario cattolico non ha tra gli iscritti atei e anticlericali.
L’ambiente letterario (ma, ripeto, anche qualunque altro) funziona allo stesso modo. Chi detiene il criterio di selezione è l’editore, che si serve di un esperto (o più) per scandagliare il panorama e selezionare le opere da pubblicare. L’esperto, soprattutto in poesia, è il critico. Il critico ha una propria visione legittima, come ognuno di noi, magari opinabile ma legittima. Se vogliamo fare un parallelo pop diciamo che il critico si trova nelle stesse condizione del Ct della nazionale di calcio. A parità di rosa disponibile, cambiando Ct cambierà la squadra in campo e i nomi dei titolari rispecchieranno la visione che il mister ha del gioco.
Ritengo che poi si sia diffusa una prassi che ha determinato un incremento esponenziale delle pubblicazioni poetiche di valore nullo, ed è quella per cui si scrivono versi, si trova un amico che butti giù qualche riga di prefazione grondante elogi, si investono dei denari su se stessi e si pubblica. Dopo, solo dopo, si inviano copie a critici ed esperti.
Personalmente ho seguito il percorso opposto, quello tradizionale diciamo. Ho spedito i miei versi a critici ed esperti che mi hanno dato indicazioni preziosissime, tra gli altri anche Linguaglossa (con cui non avevamo mai avuto occasione di scambiare nemmeno un saluto via mail) che mi ha contattato dicendomi che a suo parere il lavoro andava pubblicato, offrendosi di scriverne la prefazione e di “accompagnarmi” fino alla pubblicazione. Così è andata. Dubito che, se non avessi trovato ottimi riscontri a quelle spedizioni, avrei comunque pubblicato (come invece ho fatto altre volte, più giovane).
Lo dico subito per sgombrare il campo da ipocrisie: c’è stato anche chi –voci degne di essere ascoltate per autorevolezza e per fortuna assolutamente minoritarie- mi ha solennemente consigliato di lasciar perdere e di dedicarmi agli ortaggi. Con queste persone si è aperta una discussione che dura tutt’ora e che mi arricchisce enormemente. D’altronde solo un cretino si può augurare di non avere detrattori autorevoli.

Lorenzo Pezzato ha detto...

Quindi non mi pare di aver tenuto un atteggiamento monacale, al contrario, mi sono messo in piazza con la mia faccia e il mio lavoro, senza cercare di evitare i critici e la critica. Senza contare che in qualche modo nella pubblica piazza c’ero già prima, diciamo almeno da quando ho un blog. Capisco che pubblicare i versi su un blog è come pubblicarli su carta senza aver chiesto l’opinione di nessuno, ma è anche vero che il blog è uno strumento che ha ancora una dimensione più privatistica, meno pubblica di quanto si possa pensare ( e, nel mio caso almeno, quello che è stato pubblicato su carta non è stato pubblicato sul blog se non in minima parte…anche per questioni contrattuali, ma questo sarebbe altro lunghissimo discorso).
Per concludere, non sono avvezzo ad evitare i “rompicoglioni” e i loro “cazzotti”, ho le mie opinioni e amo esprimerle con trasparenza. Confermo di essere un individualista, nel senso che credo nell’individuo e nella sua piena assunzione di responsabilità (poetica e non) senza concessioni allo schermarsi dietro un noi che fin troppo spesso è giustificativo.
E per quello che riguarda la concretezza, credo che scrivere e mettere in piazza la propria poesia sia l’atto più concreto che ad un poeta si possa chiedere.
Stiamo facendo una fatica immane ad uscire dal Novecento, non torniamo addirittura con i piedi nel romanticismo.
(Scusate se devo sempre dividere gli interventi in più parti…forse dovrei essere più sintetico, ma la discussione mi interessa molto e così…).

Moltinpoesia ha detto...

Abate Ennio a Fra Cristoforo:

Ecchè, la Critica adesso viene equiparata all' omicidio?
Se pensi che per criticare bisogna costituire una setta di Poeti Assassini, meglio che resti nella cella di monaco in cui (metaforicamente!) sei...
Tu estremizzi il mio discorso per non prenderne la parte drammaticamente seria.

Unknown ha detto...

ciao Emy :-) , perchè continui a sollevare il problema " che nessuno si offenda" ?

giusto per capire meglio nèh, non per farti le pulci, puoi spiegarmi piu dettagliatamente?

---
per Ennio , ciao:-)
anche nel riferirlo in analisi transazionali bambino/adulto/gentiroe, non ho i tuoi strumenti ma non vedo questo duale da te esposto,, come sentiero per riuscire a sviluppare coscienza critica-storica in spazio Poeti.

La solitudine singolo/plurale è sia in spazi ad alta densita di consapevolezza sulla farsapaese nella farsa mondo, sia in spazi a bassa definizione della farsa stessa.

Condivido il discorso di Lorenzo nel momento in cui rigetta totalmente tutto un modo/mondo "violento", compreso quello dei poeti o critici tanto come quelli degli idraulici o degli impiegati, del tutto o quasi assorbito dal sistema feroce delal farsa stessa sia sul piano antropologico che culturale che senti-mentale.
Occorreva spezzatre il corpo e renderlo ancora piu accidente occidente, codici bianri inclusi, e ci sono riusciti alla grande gli stessi poteri e contropoteri a cui ti opponi.

Che se ne sia consapevoli o inconsapevoli, è parametro del tutto indifferente su cui infatti i poteri forti hanno puntato alla precisione per dividere meglio tutti gli atomi uno contro l'altro o facendo finta di esserne alcuni piu a fianco di altri. ottenendo pertanto e comunqueil risultato atteso.

il vero rivoluzionario è colui che pezzo a pezzo, da qualsiasi lato ponga il suo sguardo, rifiuti e pratichi un modello di vita distante dalal ferocia della lotta in cui hanno gettato per primo l'uomo,che poi sia poeta o idraulico, intellettuale o camionista, artista o impiegato, è qualcosa che viene dopo.Se sta interrotto al primo livello, che è quello su cui la societa violenta ha interrotto tutti indistintamente ( vittime e carnefici compresi) , lo sarà a ogni livello laterale(arte o mestiere) su cui punta lo sguardo che sempre quel primo livello rimane.

Moltinpoesia ha detto...

Abate Ennio a Pezzato:

"Confermo di essere un individualista, nel senso che credo nell’individuo e nella sua piena assunzione di responsabilità (poetica e non) senza concessioni allo schermarsi dietro un noi che fin troppo spesso è giustificativo" (Pezzato)

Ecco il punto che, secondo me, non fa avanzare il discorso - pubblico, politico - che (insisto) il poeta-critico dovrebbe assumersi.
Tu l'assumi, certamente, ma appunto nela forma individualistica, che pure ha una sua dignità.
Invece bisognerebbe mettere in campo un io-noi problematico, capace di critica sia nei confronti di se stesso (l'io, sempre a rischio di gonfiarsi o di "solipsizzarsi") sia nei confronti del noi (gruppo, laboratorio, associazione), a cui non deve SOTTOMETTERSI gregariamente, ma dal quale non deve neppure soltanto PRETENDERE le soluzioni. Per cui, se non vengono, si girano itacchi e si va per conto proprio.
Un io-noi, insomma, responsabile sia verso se stesso che verso il noi. Da intendersi entrambi IN COSTRUZIONE e quindi in progress, in continuo confronto-scontro.
Fosse un blog, un laboratorio come questo dei moltinposia, chi ci mette piede deve chiedersi non solo cosa ci ricavo per me e la "mia" poesia, ma anche cosa do alla costruzione del momento pubblico/comune/istituzionale.

Anonimo ha detto...

A Ro in soffitta:
sono stata molto chiara , le critiche spiacevoli, feriscono, ma insegnano. Per quanto riguarda l'offendersi, se lo dico è perchè succede ed è successo. Niente di più, niente di meno. Trovo giusto esporsi fare esperimenti, il discorso (quest'ultimo), di Lorenzo Pezzato l'ho trovato pieno di aspettative e di grande intelligenza.Osiamo, facciamo in modo che le novità escano dal limbo e come lui dice , non facciamoci perpetrare. Non è facile ma è entusiasmante. Siccome siamo tra poeti e non fra psicologi nessuno pretenda di analizzare l'altro casomai lo ignori, altrimenti sai quanti di noi scapperebbero!!! Ciao Emy

Unknown ha detto...

..dunque dunque Emy , forse mi è piiu chiaro , ma vediamo se ho capito bene.

la cosa è cosi "facile" che diventa "difficile", come qualsiasi cosa semplice/complessa.

I complessi e le maschere prendono il sopravvento in un riflesso di specchi che per una serie di "induzioni" o "proiezioni" di sè all'altro da sè, partorisce come risultato proprio ciò in cui il poeta ,eremita o meno di suo, come qualsiasi altro uomo, non dovrebbe alcun desiderio di abitare :il deserto.Invece sempre ci si ritrova.

Non credo c'entri l'analisi psicologica, anche se può averti tratto in inganno e me ne scuso, il riferimento ad un frasario psicologico.
C'entra solo la capacita di introspezione , grazie alla quale, smontandosi trappola per autotrappola, si raggiunge un'essenza PL.ACIDA che riguarda come la tua ultima sassi a fiume, tutti fino all'oceano.

tutto l'io ma anche il noi fallisce(logica alla catalano di avanti tutta)se questo fluire viene interrotto per complessi, sovrastrutture, paure, illusioni, autoinganni,o biografie singolo e plurale scarsamente desiderose di moltiplicarsi, aggiungersi, suonare insieme, domandarsi senso/non senso, chi sono, chi non sono, etc etc
tale fenomenologia riguarda anche i poeti,ancor piu in un dna, paese, eccessivamente predisposto all'individualismo per cui io e l'altro se ne va sistematicamente a affangulo, sia in chi lo canterebbe sia in chi non l'ha mai cantato.

infine, per un altro dato che riguarda l'intera societa italiana, sempre quindi dato genetico, pur essendo ed essendo stati dei grandi artisti e creativi, ingengneri o poeti, et cetera et cetera, hanno rilevato tutta la loro inettitudine cromosomica, sul piano organizzativo ...infatti anche qui, quando è stata sfiorato il dibattito sul come strutturarsi, siamo rimasti io e Lucio col cerino in mano.
Vi è anche da dire che il lato vagabondo ed errante del poeta,è sicuramente da tener presente e rispettare , produce nella liberta della sua destrutturazione la sua parola arte fuori da qualsiasi aspetto roganizzativo, però è meglio dirlo così che fingendo a se stessi.

Unknown ha detto...

per Ennio
cio che intende Lorenzo , da quanto io ( quindi limitatissimo e relativissimo) ho percepito è quel sano centro di INDIVIDUALITA' , ben lontana dall'individualismo di cui al mio precedente commento, su cui puntava anche il discorso di Lucio in altro post.
E il GOYA ESSERE PENSARE

Moltinpoesia ha detto...

Ennio Abate a In soffitta:

Basta intendersi. Se in quel "sano centro di INDIVIDUALITA'" è compresa anche la responsabilità verso il "noi" (in costruzione, da costruire), siamo d'accordo.

Unknown ha detto...

Ennio
SI , parola per parola del tuo 12.10, SI
:-)

Anonimo ha detto...

Sostiene Ennio "la “poesia” non era soltanto esperienza “privato-familiare”, ma anche (e forse soprattutto) discorso pubblico-istituzionale. Questi due modi di sperimentare la poesia hanno entrambi vantaggi e svantaggi. Ma bisogna scegliere".
Sostiene Lorenzo " Non esalto il modo monacale-contemplativo-individualistico di pensarsi poeta, in verità era un ragionamento molto più concreto che tutto sommato discende dalla semplice osservazione delle cose anche in altri contesti. Ad esempio ci si chiede come mai “le migliori teste” –quasi sempre giovani- non si impegnino in politica. La risposta è abbastanza banale: il criterio di selezione della classe dirigente viene applicato dalla classe dirigente in carica che plasma i nuovi componenti a propria immagine e somiglianza, naturalmente con l’obiettivo di perpetrare se stessa e i propri valori (oltre che mezzi, tempi e metodi della loro applicazione e diffusione)".
Sostiene Rita: "fintantochè poniamo il problema in questi termini dicotomici, individuale/ pubblico, chi ci rimetterà sarà il terzo, ovvero la poesia che nasce dall'intimo e va verso il mondo (come può essere il destino di un figlio).Non dobbiamo poi dimenticare che ci sono anche gli aspetti caratteriali che conducono a certe scelte: di fronte al gruppo dominante che cerca di plasmare l'individuo, quest'ultimo può o ritirarsi nel privato, isolandosi nel suo castello narcisistico, o mettersi a battagliare per conto proprio e magari illudendosi di avercela fatta, o coinvolgere anche altri più che nella battaglia
di tipo personale, in una battaglia per preservare la vitalità della poesia stessa.
Quest'ultima opzione è la più difficile perchè implica delle rinunce alternate: a volte bisogna rinunciare al nostro io e a volte bisogna rinunciare al gruppo. E, soprattutto, capire meglio questo oggetto misterioso, la poesia, che si difende. E non sempre è chiaro questo panorama. Forse ci vuole un po' di fiducia e pazienza. Il cammino si fa andando, come diceva il poeta".
Io, da versificante, esprimo così il ritiro narcisistico:

Solo mia

Sentirò freddo quando in piedi là
parlerò di te ormai fredda perché
non più cantante, come nella mia mente
eri, ruscellando immagini sonore.

Scivolerà il gelo nella sala smarriti
i sorrisi in attesa che ti porti da loro
che ti possano guardare sentire toccare
e io che non riesco a lasciarti andare.

Solo mia, solo mia.
Poesia.

05.11 2011

Rita Simonitto

Moltinpoesia ha detto...

Ennio Abate a Simonitto:

Rita, vedi che io sostengo "un io-noi, insomma, responsabile sia verso se stesso che verso il noi. Da intendersi entrambi IN COSTRUZIONE e quindi in progress, in continuo confronto-scontro", proprio contro ogni contrapposizione dicotomica.
Tra l'altro da bambino ho avuto un periodo in cui ero strabico!

Anonimo ha detto...

A Ro ( e ad Ennio),
non sforzarti di capire il mio discorso oltre a quello che ho già scritto. Analizzare l'altro significa per me inserirsi nell'animo dell'altro e trarne conclusioni del tutto personali che solo male fanno. Parliamo di poesia, critica e qualche volta perchè no scherziamo, l'ironia deve essere una grande componente della personalità di uno scrittore,
L'io/noi spesso ne ha bisogno, Che bella questa discussione , quanto insegna... Ci voleva Linguaglossa? Emy

ha detto...

su quello che die ennio NON ci piove! chiaro. ci mancherebbe altro.

ha detto...

troppi typos dovuti alla tragica vista: riprovo a scrivere correttamente...
A Ennio...

La mia prima raccolta si chiamava Noi-altri, ennio, quella pub. nella nostra antologia scheiwiller. non posso che essere d'accordo: ero giovane e già pensavo al 'noi' del poeta impegnato, che si assume la responsabilità altrui (spesso anche la vetriloquamente agita voce). ma si può essere più 'sante' di così. e poi immolate ad una 'x-ignota' causa (che ancora non ho capito bene qual essa sia e dove essa mi/ci porti?!)

Unknown ha detto...

Emy 20 novembre 2011 13:39
se ti ho dato questa impressione come si dice giu : Buonanotte ai Sonatori ! .-)

il problema per quanto vivo io questo come qualsiasi altro "spazio" , non è scrutare l'altro, ma ricomporre, al netto di inutili dualismi "accidente occidente", ameno almeno le zone di incomunicabilità (emotiva affettiva intellettiva in un tuttuno) fin dalla parola.( qui di piu perche si usa solo questa espressione)

un bacione

Anonimo ha detto...

Ok Ro, Ok. Emy

Lorenzo Pezzato ha detto...

Io non mi sono mai chiesto (e non lo farò) cosa ci ricavi o meno, trovo che questo luogo e questa discussione meritino tempo e attenzione proprio perché partecipano alla costruzione del momento. E la condivisone è qualcosa di magico, è più che scambiare, ricevi idee senza dover cedere in cambio le tue. Spero di aver tolto ogni dubbio e dato merito a chi di dovere.

Per il resto, l'individuo consapevole e responsabile è già, per definizione, proiettato a un Noi sano, intellettualmente, socialmente e culturalmente. Il lavoro da fare è su se stessi non sul gruppo. Allo stesso tempo è assolutamente vero che nel rapporto tra Io e Noi si concentra il quasi tutto della nostra contemporaneità. I social networks ad esempio sono la trasposizione "ludica" (ma neanche poi tanto, ormai) del nuovo equilibrio in corso di costruzione tra privacy e condivisione, tra Io e Noi quindi.
E c'è differenza tra l'alzare i tacchi e andarsene (lasciando campo libero ai soliti) e creare una nuova nicchia dove far attecchire sementi diverse. Il disinteresse -se c'è- è nei confronti di quelli che nel podere fortificato continuano ad adulterare i prodotti (poetici) con fertilizzanti chimico-critici per continuare nella logica del raccolto che deve essere gradito al consumatore medio (la più grande nicchia esistente, ndr), in linea con gli standards medi, appunto.
La medietà è il freno del progresso, le avanguardie (mi scuserete se uso ancora questo termine vetusto) sono state delle nicchie all'interno della conformità da cui era possibile avere una visuale diversa, in cui era possibile sperimentare discorsi ed approcci diversi e non c'è stata avanguardia che non abbia attirato da subito il giudizio di difformità emanato dall'establishment il quale, goffo e pachidermico Golia, è sempre stato messo al tappeto dal sassolino scagliato dal Davide di turno.
La domanda allora nasce spontanea: c'è ancora spazio oggi per il concetto di avanguardia?
Se vi rispondete che c'è, allora siamo sulla strada giusta e i frutti non tarderanno ad arrivare.
Se vi rispondete che non c'è, allora Zanzotto Santo subito.

Moltinpoesia ha detto...

Ennio Abate a Pezzato:

«La domanda allora nasce spontanea: c'è ancora spazio oggi per il concetto di avanguardia?
Se vi rispondete che c'è, allora siamo sulla strada giusta e i frutti non tarderanno ad arrivare.
Se vi rispondete che non c'è, allora Zanzotto Santo subito» (Pezzato).

Rispondo subito no, senza bisogno di pensarci troppo e senza, per questo, sentirmi un devoto di Zanzotto. Rispondo no, perché certe esperienze storiche sono irripetibili. In Italia poi, dove si è tentato di ripeterle (Gruppo 63, Gruppo 93), abbiamo avuto anche la prova del loro fallimento. Le rivoluzioni (politiche o estetiche) non s’improvvisano, non avvengono soltanto per voglia di rivoluzione da parte di una minoranza fosse pure agguerrita e decisa. (E qui rientra dalla finestra la questione della soggettività o della iper-soggettività…). La grandezza reale delle avanguardie del Primo Novecento è inseparabile da quelle circostanze storiche (realtà), che condussero alla Prima Guerra mondiale a una VERA rivoluzione, quella del 1917, nella Russia allora zarista. Non a caso le avanguardie artistiche di allora si fusero o si affiancarono a quelle politiche (pur di segno politico opposto: il futurismo ebbe un’anima fascista marinettiana in Italia e una comunista majakowskiana nell’Urss appena sorta). La forza politico-teorica di un politico come Lenin si alimentò della forza estetico-teorica della avanguardie letterarie e artistiche. E viceversa. Invece il Gruppo ’63 al massimo ebbe la spinta del ’68. E si può dire maliziosamente che se ne spaventò tanto, che chiuse subito i battenti (la rivista «Quindici») e la sua “rivoluzione del linguaggio” l’andò a predicare negli ambienti più compìti e meno rischiosi dell’ editoria e dell’accademia universitaria. Il Gruppo 93 poi abortì quasi subito, perché di spinte alle spalle ebbe al massimo quella di letterati-massa ormai politicamente in via di pentimento che ripiegarono in una “mini-rivoluzione del linguaggio” giocherellona, carnevalesca (pseudo-bachtiniana).
Oggi mi dici tu, in Italia, una eventuale avanguardia su quali spinte si sosterrebbe? Se, come realisticamente e amaramente dice Linguaglossa, siamo in una situazione da epigoni - da una parte i poeti “visibili” che amministrano l’eredità del «paradigma moderato», dall’altra quelli “invisibili” ( al massimo potenziali figure di «un’altra storia possibile» della poesia italiana ) - è perché manca una visione chiara di come stanno le cose (la realtà economico-sociale, il capitalismo o i capitalismi, per intenderci, sempre arzilli malgrado le crisi) e le parole ( i saperi attraverso cui ci rappresentiamo il “mondo”). Insomma, lo stretto e caratteristico legame , tipico delle avanguardie dell’inizio del Novecento, tra arte e politica ( e quindi tra precise Teorie e Ideologie, parole che oggi ci spaventano) si è logorato o spezzato. Fotografiamoci: siamo al “post” (post-poesia, post-moderno, post-comunismo). Allora «Zanzotto santo subito»? No, ma per andare oltre, bisogna sapere dove andare. Se no, non sei avanguardia di nessuno, nemmeno di te stesso. E, infatti, non potendo essere avanguardia, preferisco qualificarmi semplicemente come un “esodante”, uno che ha abbandonato o perso un “mondo”, ha memoria di esso, si aggira tra le «rovine» del Novecento, cercando di farne fortinianamente «buon uso» almeno di alcune; e cerca a tentoni una meta nuova per ora non facile da definire.

Lorenzo Pezzato ha detto...

Analisi precisa.
Io però non facevo riferimento alle Avanguardie, ma all'avanguardia. Altrimenti torniamo sempre lì, al Novecento.
Individui capaci di vedere oltre domattina, questo siamo noi umani ed è questo che ci rende capaci di imprese straordinarie, capaci di coltivare senza stancarci sogni di miglioramento e di tendere a quel miglioramento, pur passando per periodi bui ed errori madornali.
Dopo un sisma devastante, quando ancora la polvere non si è posata e tanto meno può essere limpida la nuova meta, aggirarsi per le macerie e recuperare quello che è rimasto è un gesto emotivo che però non incide sulla ricostruzione o sulla rimozione di quelle macerie.
Una visione chiara di come stanno le cose penso ormai l'abbiano tutti, basta guardare fuori della finestra di casa per vedere che "i ristoranti non sono pieni così come i voli".
Le parole attraverso cui rappresentare questo mondo le abbiamo, necessariamente, essendo parte attiva in causa.
Il legame tra arte e politica si è spezzato dici. Dovrei rifletterci più approfonditamente, ma non mi pare un argomento che solletichi il mio interesse...e forse non è un dato così importante.
Per andare oltre bisogna andare. E se siamo al post, vuol dire che il passo oltre è già stato fatto.

Anonimo ha detto...

Ennio dice: "No, ma per andare oltre, bisogna sapere dove andare. Se no, non sei avanguardia di nessuno, nemmeno di te stesso. E, infatti, non potendo essere avanguardia, preferisco qualificarmi semplicemente come un “esodante”, uno che ha abbandonato o perso un “mondo”, ha memoria di esso, si aggira tra le «rovine» del Novecento, cercando di farne fortinianamente «buon uso» almeno di alcune; e cerca a tentoni una meta nuova per ora non facile da definire."
Lorenzo dice: "Io non mi sono mai chiesto (e non lo farò) cosa ci ricavi o meno, trovo che questo luogo e questa discussione meritino tempo e attenzione proprio perché partecipano alla costruzione del momento. E la condivisone è qualcosa di magico, è più che scambiare, ricevi idee senza dover cedere in cambio le tue"

Scusate se vi cito per nome e trascrivo pari pari vostri stralci.
Mi pare che il discorso di Lorenzo sia più 'aperto' mentre quello di Ennio *appare* più deterministico, o più bisognoso di una méta.
Io penso che per andare oltre non è saggio prefiggerci una méta altrimenti rischiamo di rimanere inchiodati a questa, che poi crea dei paraocchi e magari non vediamo ciò che sta cambiando intorno. Esperienza politica passata docet.
Il cogliere l'essenza del momento, dall'altro lato (versante Lorenzo), rischia, nel godimento della condivisione, di tagliare fuori l'aspetto di ricerca, più presente invece nella posizione di Ennio, nel suo 'esodare'; posizione senza dubbio più patita e più sofferta.
Forse le due posizioni potrebbero leggersi come passibili di integrazione, in una visione più complementare.
Oltretutto, l'avanguardia è quella che coglie ciò che bolle in pentola in quel determinato momento (quindi guarda più al contesto), e successivamente lo trascina verso mete in parte chiare e in parte no.
Cari saluti.

Rita Simonitto

Lorenzo Pezzato ha detto...

"L'aspetto di ricerca" qui sembra, per come lo percepisco, processo di storicizzazione e comprensione dell'accaduto. Mentre girovaghiamo per le macerie del "già stato", l'accadere accade...e quando avremo il tempo di considerare, allora, anche l'accadere?
Ha ragione Rita, l'avanguardia coglie ciò che bolle in pentola in quel determinato momento, non prevede il futuro. Sembra che lo faccia, ma è un'illusione dettata dal ritardo di comprensione dell'accadere di tutto il contesto circostante all'avanguardia. Un po' come la differenza tra diretta e differita. In questo senso l'avanguardia non è mai esistita, non esiste oggi e non esisterà domani.
Concordo ancora con Rita quando dice che entrambi gli approcci sono integrabili, e lo sono per forza. Occuparsi costantemente di ciò che accade non lascia spazio all'analisi storicizzata e viceversa.
Ripeto ancora una volta, ma più come mantra personale, che l'unico dato certo è che qualcosa di nuovo rispetto a quanto è accaduto nel Novecento c'è e non potrebbe essere altrimenti, diversamente saremmo defunti. Tutti.
Che sia ancora oscuro, nebuloso, fruibile da "occhio avanguardista" potrebbe come idea convincermi.

Anonimo ha detto...

Lorenzo,
per capire meglio questa tua idea che difendi mirabilmente con tanta forza, mandaci una poesia che tu ritieni d'avanguardia , affinchè il mantra diventi anche nostro non vorrei finire fra i defunti.Così, per capire meglio visto che parliamo di poesia. Grazie e complimenti per la tua visione così chiara ...a me vengono grandi e seri dubbi. Boh, sarà l'età- Grazie Emy

ha detto...
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ha detto...

poi, quando finalmente i critici se ne accorgono, quell'avanguardia - che in ritardo si riconosce come tale ...già è diventata maniera, accademia, l'istituzione letteraria.

l'avanguardia è un processo di ricerca, un farsi in itinere del nuovo: quando la si teorizza e/o la si dichiara, secondo me, è già passata.

:)

giorgio linguaglossa ha detto...

...un giorno circa di un anno fa un giovane poeta (Faraòn Meteosès) mi chiese se, a mio avviso, fosse possibile ripristinare una nuova avanguardia oggi. Risposi che, a mio avviso, era possibile proclamar una nuova avanguardia. Doveva essere un gruppetto di "arditi" i quali avrebbero dovuto diffondere all'Ansa e a tutti i mezzi di comunicazione che il giorno X alle ore 18,30 isotto l'Arco di trionfo di Costantino in Roma si sarebbe riunita l'avanguardia letteraria Z che avrebbe proclamato la propria nascita, e che alle ore 18,35 tutti i membri del Gruppo si sarebbero suicidati in pubblico, davanti ai turisti distratti e agli oziosi pedoni romani, in mezzo ai centurioni fasulli in cerca di turisti e ai fotografi abusivi...
Questa, dissi, è l'avanguardia che mi auguro possa sortire fuori dal tombino della nostra epoca mediatica. A mio avviso, gli dissi, l'avanguardia non può resistere più di cinque minuti perché verrà scavalcata dai potentissimi motori e rotori della civiltà mediatica e dalla velocità dei suoi mezzi di locomozione-informazione.
E allora, che cosa ci resta da fare? mi chiese Faraòn Meteosès... gli risposi che una vera avanguardia deve disporre liberamente la propria morte, deve programmarla ed attuarla in piena libertà, sotraendosi alla (falsa) libertà coscrittiva della comunicazione mediatica. Un atto eroico, dunque, perfettametne inutile e perfettamente superfluo.
E il Gruppo 93? mi chiese il poeta.
Beh, quella è un'altra cosa, si tratta di una faccenda di ufficiali giudiziari, di ufficiali dell'aviazione teorica e di pubblicitari della poesia... - risposi.

ha detto...

a Giorgio.

grazie...

:) non posso che essere più d'accordo di così!
;)

ora, per quanto terribile sia a dirsi, quel tale disoccupato incazzato che sequestrò il pullman di giapponesi (o erano cinesi?) compì una performance tragi-socio avanguardistica, insieme agli agenti di polizia e antiterrorismo.

egli l'aveva programmata ed annunciata.

e mentre faceva la sua performance, in diretta, del massacro, i media (TVs, RADIOs e internet channels) già gliela rendevano trashy, di maniera, e obsoleta.

Moltinpoesia ha detto...

Ennio Abate a Pezzato:

«Io però non facevo riferimento alle Avanguardie, ma all'avanguardia. Altrimenti torniamo sempre lì, al Novecento» (Pezzato).

Ma così l’avanguardia diventa come l’araba fenice! Avanguardia è tutto, è dappertutto. Il primo uomo primitivo che prese in mano un arbusto infuocato diventa ‘avanguardia’ (dei pompieri), Ulisse è l’avanguardia dei ricercatori d’ignoto, Cristo della fratellanza umana, eccetera eccetera.
Sfuggire alla storia, non capire che i concetti che usiamo (in questo caso ‘avanguardia’) non possono essere espansi come fossero elastici o gomme da masticare, ma sono carichi di significati precisi, che vengono da una storia precisa (in questo caso militare e poi politica e poi estetica) e, ignorandola, c’illudiamo di possedere un passepartout che ci apre le porte del NUOVO MILLENNIO o del FUTURO, mentre sguazziamo sempre lì, nello stagno del Novecento, raccontandoci la favola che siamo già “oltre il Novecento” (libro di Revelli, sempre più smentito dalle guerre in corso e in arrivo, dalla crisi in corso e perdurante).
Caro Lorenzo, a me piace la tua tenacia, ma sono allarmato dal tuo ottimismo di maniera che salta storia, politica («Il legame tra arte e politica si è spezzato dici. Dovrei rifletterci più approfonditamente, ma non mi pare un argomento che solletichi il mio interesse...e forse non è un dato così importante») e crede che davvero basti « guardare fuori della finestra di casa» per avere «una visione chiara di come stanno le cose».

Ennio a Rita (Simonitto):
Se mi qualifico come « un “esodante”, uno che ha abbandonato o perso un “mondo”, ha memoria di esso, si aggira tra le «rovine» del Novecento, cercando di farne fortinianamente «buon uso» almeno di alcune; e cerca a tentoni una meta nuova per ora non facile da definire», mi pare evidente che non me ne posso prefiggere alcuna.Per il momento almeno. Posso solo procedere per tentativi ed errori. E proprio perché condivido la tua definizione di ‘avanguardia’ («l'avanguardia è quella che coglie ciò che bolle in pentola»), mi pare elementare chiedere a Lorenzo, che sostiene la sua attualità e la sua esistenza, di mostrare almeno un dettaglio di «ciò che bolle in pentola». Se no, al paradossale appuntamento pedagogicamente architettato da Giorgio Linguaglossa, rischia di presentarsi da solo.

Anonimo ha detto...

Oh, Beh! allora usufruisco della vecchia battuta: -Preferisco vivere!- Emilia

ha detto...
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Anonimo ha detto...

Per non morire per avanguardia intendo! Emy

ha detto...

nessuno, nemmeno Lorenzo, ennio, è obbligato a fare e/o trovare con il lanternino un esempio tà-tà di avanguardia, al momento, se non la si vede.

mica se ne può inventare una, pur di dire: "eccoti quà un esempio!?"


inoltre, avanguardia, come mera opposizione allo status quo, è roba semplice. basta che uno vada contro corrente: l'avanguardia attuale potrebbe essere chi scrive con la penna ed il taccuino...

cerchiamo piuttosto di vedere se nel mondo (non qui, in occidente, che siamo in una totale marmellata teorica, ma nei terzi e quarti mondi)vi sia al momento qualche tipo di avanguardia.

o forse forse....non sempre l'avanguardia è progressista?

che ne dice Giorgio?

:)

giorgio linguaglossa ha detto...

Ennio, Abate, Lorenzo Pezzato, Roberto Bertoldo etc.

... quando, durante la guerra giudaica, gli ultimi ribelli giudei si ritirarono nella fortezza di Masada per tentare un'ultima disperata resistenza, i romani si trovarono di fronte ad un problema insolubile: come fare per superare le mura della fortezza? Allora, il generale Vespasiano (il futuro imperatore) fece costruire una piattaforma mobile alta 83 metri e larga 210 metri.
Quando i romani avvicinarono la mega costruzione alle mura, i ribelli, vistisi finiti, presero la decisione di suicidarsi tutti per non cadere vivi nelle mani del nemico.
Così, i romani entrarono nella fortezza di Masada senza perdere un soldato, ma trovarono soltanto cadaveri ammassati gli uni sugli altri.
Così è la situazione attuale della poesia, vale lapena di entrare nella cittadella turrita della Poesia? Vale la pena stringere un assedio? E anche se un ipotetico vincitore vincesse, che cosa troverebbe al suo interno? Citroverebbe soltanto cataste di morti.
Ritengo, quindi, inutile porre l'assedio alla cittadella turrita della Poesia perché il suo interno è una scatola vuota: non c'è nulla, solo silenzio, il silenzio del guardasigilli Caronte che traghetta le anime dei morti sull'altra sponda del fiume. In verità, sono tutti morti. Sono morti senza saperlo.
Cari amici, dobbiamo prendere atto che siamo diventati tutti EPIGONICI, l'epigonismo è la nostra condizione esistenziale, ontologica direi. Ecco perché è oggi impossibile una nuova avanguardia (e già il termine si è caricato di filisteismo e di doroteismo di sinistra dei rampolli della borghesia pariolina, quella stessa che vuole decretarmi l'«oblio»... adepti ed incauti inquisitori del giardino dei finzi contini).
Oggi, l'interminabile filiera di epigonismo esige una lunga, anzi, lunghissima attesa nelle sale d'aspetto della cittadella turrita della Poesia... un lungo, anzi, lunghissimo digiuno di idee e di azione del pensiero... un esercizio diuturno di ascetismo epigonico...

ha detto...

ecco come quando gli agenti della polizia fecero così in ritardo rispetto alle loro effettive capacità tecnologiche incursione nel pulman del tragi-social avanguardista licenziato, trovarono quasi tutti i turisti morti, uccisi dalla performance 'a vuoto' che quell'avanguardista stava compiendo, suo malgrado, dandosi già superato nel momento stesso in cui la tentava nel vuoto palazzo della disperazione mediatico-mondiale, dove non è più possibile poesia.

Anonimo ha detto...

Ad Ennio e ad Erminia: Ok, Erminia , allora come dice Ennio l'avanguardia vive sempre e dappertutto, nasce nel momento in cui la confrontiamo col passato che a sua volta era avanguardia.Diciamo che sicuramente è una voglia di uscire dalla conoscenza del passato inteso come qualcosa che ci ha privato della novità, un desiderio di vita nuova di evasione dalla noia , quasi mi viene da pensare all'attimo che precede la follia. Non mi pare che sia frutto di ricerca, di studio, ma di introspezione che può andare bene, impressiona e obbiettivamente rende diverso il nostro modo di ascoltare, di scrivere, di vedere . Tutto ciò è molto affascinante , ti fa venir voglia di provare(vorrei provarci). Se la parola è ciò che è quando scrivo posso trasmettere conoscenze ed emozioni peculiari mai scritte prima d'ora sarà grandioso ma sarà frutto della mia coscienza che si deve assolutamente staccare dalla conoscenza...e poi quanto durerà non ti deve assolutamente interessare . La letteratura, la scoprirà dopo una nuova avanguardia. Bel gioco ,davvero interessante , ma per me forse è troppo tardi.Emy

ha detto...
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Anonimo ha detto...

PER USCIRE DALL'EPIGONISMO:


Son morta alla nascita
mia madre santa donna
mi aveva nella spinta
proiettata nel futuro.
Ora che sono discarica
il futuro mi differenzia
il cervello fra la plastica
il cuore tra il vetro le lattine
tutto il resto è umido
Cerco di ricompormi
ma non so dove andare
non ho strade da percorrere
e dietro un gran fetore.

Emy

ha detto...

ergo: l'avanguardista di questa intera sequenza è rifatti mio marito, con la sua lettera in difesa del gesto non-consapevole della donna delle pulizie: egli, intervenendo sul piano teorico, e facendosi promotore di questa difesa, ha creato una questione. un manifesto, in qualche "zenzo", avanguardistico. ora non andatevene per questo nei musei di arte moderna a intervenire sulle opere d'arte altrui, mi raccomando.
:)

Anonimo ha detto...

Ennio Abate:

@ Erminia (Passannnati)

1. Sull’aspetto «progressista e progredente» dei nipotini nostrani delle Avanguardie storiche del primo Novecento - ripeto che voglio parlare storicamente e non metafisicamente - sarebbe bene che andassi a rileggere quanto ci scrisse in proposito Nonno Franco Fortini, a cui entrambi - credo - siamo ancora affezionati.

2. Lorenzo non è « obbligato a fare e/o trovare con il lanternino un esempio tà-tà di avanguardia, al momento, se non la si vede»? Ma allora di cosa parliamo? Di profezie? Eh, no! Se uno mi dice: Guarda c’è un asino che vola! Io voglio vederlo. Se no restiamo in discorsi di fede…gattolica!

3. Qualche tipo di avanguardia « nel mondo (non qui, in occidente, che siamo in una totale marmellata teorica, ma nei terzi e quarti mondi)»? Erminia vedi che i Terzi e Quarti mondi non ci sono più da un bel po’. C’è il BRIC (Brasile-India-Cina) . O c’è, per stare terra terra e non illudersi,
la situazione in Libia, creata anche dai bombardieri italiani-franco-inglesi. E c’è l’Egitto dei militari “progressisti” voluti da Obama contro il “dittatore” Mubarak, che ora sparano contro gli studenti.
Amici, amiche, “parliamo dei rapporti di produzione”, come diceva quel vecchiaccio di Brecht buonanima al Congresso degli scrittori del 1935, che anche lui di avanguardia se ne intendeva.

4. Se consideri « gesto avanguardistico, forse non del tutto inconsapevole» quello fatto dalla quello compiuto dalla signora delle pulizie, anche la Morte o il Tempo che tutto cancella è Avanguardia! Amen!


@ Giorgio (Linguaglossa)

Forse il tuo «ascetismo epigonico» ha un che di heideggeriano, ma è abbastanza vicino alla mia ipotesi di «poesia esodante». Sulla *pars destruens* siamo - credo - d’accordo quasi tutti/e. Ma c’è in giro troppa voglia di una Soluzione Positiva. E’ un rischio. Attenti a non improvvisare. Meglio l’onesto riassunto di Emy:

Cerco di ricompormi
ma non so dove andare
non ho strade da percorrere
e dietro un gran fetore.

ha detto...
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ha detto...

...per cui, oltre ad essere vagamente affezionata a fortini, sono diventata doctor of philosophy SU fortini. ovvero, ho uno specialismo critico sulla sua opera.

Anonimo ha detto...

Ueh, ragazzi! Ennio ueh! quel "sarebbe bene"..-Uhe! Va che Erminia non era mica là a smacchiare i leopardi nèèè. Emy

ha detto...

- appunto! poi i leopardi con tutte quelle macchie! cmq a me "sarebbe bene" non me lo dice nessuno: io sempre faccio quello che voglio, anche se va o fa male.

Lorenzo Pezzato ha detto...

Scusatemi, ma sono costretto a cedere alle "lusinghe" a questo punto.
Non è mia abitudine fare nomi, lo dicevo già altrove. Di solito, potendo, cito o indico solo me stesso per essere pienamente consapevole di quello di cui parlo.
Sono sicuro infatti che intorno al nome (solo uno) che vi propongo ci si dividerà, come accade di regola in situazioni simili. E ci si dividerà formulando opinioni anche antitetiche non tanto per la capacità o l'incapacità dell'autore, quanto perché in quella opinione ognuno di noi trasporrà i punti di vista poetici che ha già comunque espresso nel corso di questa edificante conversazione.
Il nome è Flavio Santi, l'opera è "Il ragazzo X" (Ed. Atelier 2004). Un lavoro datato quindi, comunque uno dei pochissimi che mi ha fatto accendere la lampadina nel senso dell'avanguardia, anche se sarebbe meglio dire della contemporaneità.
Ora che un nome è stato fatto (e altri se ne potrebbero fare) e che l'asino volante è visibile? Non credo che i termini dei nostri ragionamenti possano cambiare in funzione di questo, e anzi vorrei che tornassimo subito nell'anonimato per continuare a volare più in alto delle contingenze.
Un curioso esperimento: digitate su Google "poeti italiani contemporanei" e scorrete i risultati. Vedrete che, eccezion fatta per i siti di vari editori che reclamizzano come poeti contemporanei tutti quelli che pubblicano e non quelli pubblicati da altri, il feedback si focalizza sui grandi del Novecento. Questa lacuna d'indicizzazione la dice lunghissima sullo stato del panorama poetico contemporaneo in questo paese, frammentato, atomizzato fino al punto di essere invisibile, materia oscura rilevabile solo attraverso strumenti indiretti, solo quantitativamente a fine statistico o di marketing.
L'idea di Ennio di un governo tecnico anche per la poesia sarebbe la soluzione più facile, e basterebbe lasciare che le cose proseguano sui binari che hanno imboccato per traghettarsi letargici verso un improbabile futuro di riscossa, se così la vogliamo chiamare, o in una nuova età dell'oro.
Un periodo buio (o il prolungamento dell'attuale). Che ci sarebbe di drammatico, in fondo? Nella storia è successo parecchie volte.
E' vero, il punto è che nella storia non si era mai visto un momento in cui la voglia dell'individuo di esprimersi, comunicare, contare, partecipare e condividere fosse tanto pressante. Questa nuova variabile fa in modo che, per quanto mi riguarda, il letargo sia equiparato alla morte. D'altronde, diceva Deleuze (e lo cito volentieri) "l'unico peccato contro lo spirito è l'immobilità".
Il mio spirito non me lo perdonerebbe, perciò debbo continuare a muovermi. Aggirarmi (tra le macerie) non sarebbe sufficiente.

ha detto...

.... Pasolini però lo faceva: si aggirava sulla Tuscolana tra le rovine - sia in cerca di corpi ed attualità, sia della morta bellezza...(vedi sue poesie romane). dunque anche aggirarsi tra le rovine, o i ruderi della cultura e della civiltà, come per il fortini di Poesia delle rose, è movimento rigeneratore.

"Ma riconosci questo indizio. Da grotte, fontane
i contrari respirano immobili.
Dove si schiude una rosa decade una rosa
e uno è il tempo ma è di due verità."

Moltinpoesia ha detto...

Ennio Abate:

@ Erminia

E per il fatto che sei diventata «doctor of philosophy SU fortini» e hai « uno specialismo critico sulla sua opera», io non dovrei usare un impersonale e interlocutorio «sarebbe bene»?
Io, *non doctor of philosophy su Fortini*, ho alluso al giudizio di Fortini sulla neoavanguardia italiana degli anni ’60, sottintendendo che era impietosamente ostile proprio al progressismo o al rivoluzionarismo avanguardista che era la bandiera del Gruppo ’63. Non al problema se Fortini scriveva «parzialmente di suo» o no. Quello è il tema che ho posto. Puoi tu, «doctor», smentire quello che io sostengo? Dimostramelo!

@ Lorenzo

« L'idea di Ennio di un governo tecnico anche per la poesia sarebbe la soluzione più facile, e basterebbe lasciare che le cose proseguano sui binari che hanno imboccato per traghettarsi letargici verso un improbabile futuro di riscossa, se così la vogliamo chiamare, o in una nuova età dell'oro» (Pezzato).

Ma come fai ad attribuirmi un’idea (?) del genere? Scusa, ma leggi quello che scrivo?
Mi dichiaro esodante, dico che cerco a tentoni, etc. e tu mi presenti come un innamorato della “immobilità”? Non ci siamo proprio.

Lorenzo Pezzato ha detto...

Credo ci sia un equivoco, Ennio.
Io mi riferivo solo al discorso provocatorio del governo dei tecnici...non vorrei tu pensassi di essere in qualche modo "bersaglio" di quello che scrivo. Cerco di rivolgermi a tutti voi, anche se spesso prendo spunto dai tuoi interventi. Sei un interlocutore con cui mi piace scambiare opinioni, ma capisco che senza guardarsi negli occhi a volte è facile fraintendere il tono di certe argomentazioni...forse è questa la causa del tuo leggero irrigidimento, che non ci sarebbe stato (te lo garantisco) se fossimo uno di fronte all'altro (agli altri).

Rispetto (e leggo, ovviamente) le tue posizioni, permettimi di dire esplicitamente che non sono le mie senza per questo volerti attribuire alcuna idea (eccetto le tue olografe).
Poi ognuno si presenta da sé, mi pare...ed essendo l'ultimo arrivato, al limite, dovrei rivolgere questo noioso esercizio su me stesso.

Non sono interessato alla polemica, lo scrivo e lo sottoscrivo. Mi scuso se posso aver dato impressione contraria.

Anonimo ha detto...

Ennio Abate a Pezzato:

Benissimo. Non sono permaloso. Ma c'è scritto: "L'idea di Ennio di un governo tecnico anche per la poesia etc". E a me pare che in questa discussione non ne ho parlato affatto..

Lorenzo Pezzato ha detto...

Accidenti!
Può essere che abbia sbagliato e che l'abbia scritto qualcun altro in questa discussione...

ha detto...
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Moltinpoesia ha detto...

Ennio Abate a Erminia:

Nessuna preoccupazione, ma per scherzare mi sali in cattedra?
Comunque, fatte le precisazioni di cui sopra,
a una salernitana,poetessa, bella e ammalata in questi giorni di "salernitudine", perdono tutto.
Ora torniamo, se non abbiamo esaurito le nostre cartucce, ai discorsi seri.

ha detto...

ma io non ce l'ho il fucile...nemmeno metaforico...come posso avere esaurito le cartucce.
:)
poi, non sono MAI seria: questo è il dilemma.

ha detto...

...ovvero sì, sono seria, ma solo quando scherzo. :))))

Lorenzo Pezzato ha detto...

Giusto, torniamo ai discorsi seri...mi avete estorto un nome, ora nessuno dice nulla a proposito? :D

ha detto...
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Unknown ha detto...

A questo punto il deserto ha dimostrato il deserto, che goduria è?

non rivolgendo a qualcuno in particolare(Erminia o Ennio, Lorenzo o altri),sparo la mia alla superfracchia,scatto una foto ( ovviamente con la mia apparecchiatura o strumenti )

clic:
machissenefrega della parola avanguardia, dietroguardia e tutte le guardie o i guardiani.
ergo:
Se deve diventare un paletto di queste dimensioni per cui chissa che "robbba" dovrei essere e/o non essere, il paletto diventerebbe un palo in cui c'è da impiccarsi allegramente tutti insieme..e magari saremmo pure così allegri, perché possiamo farlo finalmente unici e speciali: con "ion" nn si impiccherebbero tutti i ladri di poesia..e finalmente liberi di essersi liberati di questo peso, felicemente stanno già scorribandando alla grande per tutto ilgrandefratellosystem.
E sento già il coro di un bel ion, pardon di quel noi:che bello abbiamo vinto..
di sottofondo un coretto, lo dicevamo che erano degli " sfigati"

Anonimo ha detto...

La sfiga è sempre d'avanguardia... penso davvero che non ci sia più niente da dire. Per me è stata una bella lezione, da approfondire ma che penso non approfondirò per via del fatto che l'avanguardia la sto già vivendo ogni volta che guardo negli occhi la gente , ma la guardo veramente e intensamente. Ciao Emy

ha detto...
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ha detto...
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Unknown ha detto...

"La sfiga" è la mia avanguardia ( emyparafrasando..of course)

(*_^)

Ps mi scuso per la brutalità adottata oltre il male e il bene, le ragioni e i sentimenti

ha detto...
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Anonimo ha detto...

Ennio Abate:

E parla! - come pare disse Michelangelo dopo aver fatto Mosè in una VIDEO-POESIA di marmo.

Anonimo ha detto...

Come fai a sapere, Ennio, che la Passannanti ha per certo la mail di Linguaglossa, scusa? Te lo deve avere detto lui. Bizzarra trasversalità. In sede legale potrebbe capitarci anche il tuo sito, che continua a mantenere online questo saggio, ben sapendo quale operazione è stata fatta su un libro ricevuto a Linguaglossa a casa sua perché ne facesse una recensione. Io mi sono adoperato a fare conoscere a quante più persone possibili cosa succede in questo tipo di sottobosco intellettuale dove si dà man forte a queste operazioni a dir poco equivoche per le quali un libro mandato a un x recensore (Linguaglossa) per ottenerne una recensione, viene invece usato ed abusato, appropriato e depredato, poi pubblicato su siti compiacenti. Basta qualificarsi e poi tutto è più semplice. Da cui, autori in ascolto, non mandate i vostri libri a Linguaglossa o a gente di questo tipo di sottobosco per ottenerne una recensione: sarebbe una ingenuità. Cosa vuole in pratica dimostrare il Linguaglossa con questo suo 'commento a commento' al saggio della Passannanti ancora qui nessuno lo ha minimamente capito. C'è qualcuno che sia in grado di farlo?

Tu, Ennio, che pensi che abbia voluto dirci, il Liunguaglossa, con questo 'commento al commento'? Hai tu una tua opinione, Ennio, avendo letto, immagino, sia il commento che hai postato sia il testo originale della Passannanti su Neve e Faine? Dove risiede secondo te il bisogno di scrivere un commento al commento. Voleva essere o meno una recensione, secondo te, Ennio,andata a male, vale a dire che mentre il Linguaglossa aveva davanti il libro e lo recensiva ha pensato bene di appropriarsene e non citare affatto il libro della Passananti,s sperando che nessuno se ne sarebbe accorto?Ha davvero il Linguaglossa ancora alla sua età bisogno di ricorrere a questi espedienti?

Se non ti sei offerto supinamente a pubblicare senza un giudizio sull'operazione del Linguaglossa, devi pure avere una tua opinione, Ennio. Vuoi espandere e commentarla per rispetto dei tuoi lettori? Cosa esattamente ha inteso fare il Linguaglossa con questo 'commento al commento', secondo te che sei addentro a queste questioni? Voleva il Linguaglossa spiegare che la Passannanti ha individuato nella poesia 'Neve e Faine' una matrice di poesia didattica di Fortini? Cosa avrà secondo te voluto aggiungere o dire di diverso o nuovo? E se non ha detto, come non ha detto,assolutamente nulla di nuovo, ma solo riciclato contenuti prelevati da quel saggio, perché il Linguaglossa non ha citato la Passannanti dicendo: "La Passannanti sostiene originalmente che la 'Poesia Neve e Faine', analizzata in un'opera del 2004 e ripubblicata su Ospite Ingrato sia un esempio di poesia didattica."

Faccio notare che il Linguaglossa ha talmente riciclato il saggio di non essersi nemmeno accorto che la poesia che ha citato, Neve e Faine, non era completa sicché nel suo contesto era citata solo in parte mentre il Linguaglossa, avendo solo il libro della Passannanti di fronte , e certo non il testo originale di Fortini, ha citato la poesia così trinca come era citata nel suo contesto dell'analisi testuale condotta. E questo fa davvero ridere se si pensa che il Linguaglossa ad un certo punto dice: "Guardiano adesso la poesia "Neve e faine", e dunque la cita tronca come era nel libro della Passannanti. Che figuraccia e che autogoal.

Stefano Grasso