Pubblico qui una poesia di Armando Tagliavento, che ho conosciuto come bidello-scrittore all'ITIS Molinari di Milano dove ho insegnato fino al 1998. Tutti i miei tentativi di farlo conoscere negli ambienti dei letterati o di trovare qualche laureando che mi affiancasse nella sistemazione dei suoi numerosi e fluviali scritti sono falliti. Ora che ha superato gli ottanta anni, a mo' di omaggio, tardivo e parziale, per farlo conoscere meglio almeno alla cerchia dei frequentatori di questo blog, aggiungo anche una mia riflessione del 2006 sulla sua scrittura, già pubblicata sul sito POLISCRITTURE. [E.A.]
La Notte di Natale (1982)
E' la notte di Natale.
Va un tale
ad accattare in un bare un cartoccio di sale
per la sua zucca astrale.
Egli s'insacca nella sua mantellina sbrindellata
e ingerisce di volata
i diciassette piani del palazzo in cima al quale
tana. Egli è povero, non ha un cavolo.
Inoltre è detentore di un lercio ceffo sul quale
affiorano rimarcabili caratteristiche da farlo
da tutti reputare un rospo cornuto.
Ebbene, questo figlio di cagna, tutto impettito,
tronfio d'ignoranza e arrotolato in un palltò crivellato
di mozzichi d'incinte mignatte, squarciando lo smog
entra nella fumigosa mescita summentovata.
Egli è avvolto nelle pene nere
del mondo le più megere.
Tiene gli occhi bruciati di pianto
e s'alluma un mozzone di sigarro raccattato
perterra fuori dal bare
ai piedi della soglia di pietra di Trani.
E' la notte di Natale
e sotto i suoi fracichi, sporadici denti,
da vetusto tempo costui non mascica un tubo.