sabato 31 dicembre 2011

Marcella Corsi
L'anima, dirne in poesia


non che non si possa ma ora come ora (ruberie
giochi perversi fiscali evasioni furberie) mi ruberebbe
quasi l’anima un bell’ all'anima de' li mortacci tua
(e de' tu' nonno)
e seguitando

sarei disposta a vendere l’anima al diavolo per poche
parole nette dirette precise che cercano e offrono
che non si fanno scudo né per sé strumento
che in danno anzi di sé siano capaci di dire e pre-
sentire (all'anima
delle parole
potrebbe dire l’autore

dei troppi versi dove si mostrano animelle pietose
del tutto o quasi di sé prese che non riescono a bucare)


Moltinpoesia
Dialetto terra del rimorso?

Sul dialetto in poesia oggi
Una discussione del 2009 con un inserto del 2004

Il dialetto - questa è la mia ipotesi - è forse la nostra terra del rimorso, come diceva Ernesto De Martino del mondo contadino che in Italia  verso gli anni Cinquanta si stava avviando alla sua apocalisse (quella indotta dalla modernizzazione industriale). Il post di Giorgio Linguaglossa «Lingua delle maschere» (o lingua delle nacchere?)[qui] ha riproposto la controversa questione della funzione del dialetto nella poesia contemporanea. Ed ha suscitato una vivace discussione. Segno che l’argomento  ha ancora risonanze profonde in quanti  sono legati al dialetto sia da questioni biografiche e storiche e sia da un investimento che potrebbe dirsi mitico. A riprova di quest’attenzione pubblico i documenti di precedenti riflessioni  del 2009 e del 2004. Le faccio precedere da questi due video trovati su You Tube.  Con le loro immagini  in b/n, pulite e drammatiche,  restituiscono una piccola sensazione dello spessore arcaico che si cela  in alcune  pieghe della nostra discussione oscillante tra  nostalgia e  realismo. [E.A.]





venerdì 30 dicembre 2011

Giorgio Linguaglossa
La grande casa
immersa tra gli aranci


G. Zannini

La grande casa immersa tra gli aranci.
U
n vento freddo la percorre a ritroso.
Nel cofanetto, i gioielli di mia madre, il bocchino d'avorio,
le lettere avvolte in un nastro azzurro, il quaderno viola dove è scritto
                                                                                           
[ il destino.
Sullo stipite del tempo, l'algida immortalità dell'angelo:
"Vivete in casa e la casa non crollerà."

Alberto Accorsi
Orfica



Ogni  parola è una pala 
che scava: 

Barciuldin 
Filos 
Cicin 

E io mi avvicino timido 
con il mio rametto 
in mano 

Victor Cavallo (Vittorio Vitolo)
Ce n'ho abbastanza



ce n'ho abbastanza per comprarmi una bottiglia di vodka
un chilo di arance un amburg il pane tondo una birra
un pacchetto di marlboro.
E poi mangio l'amburg col pane tondo tostato e
bevo la birra e fumo la marlboro e poi spremo due
arance con la vodka.
E poi esco e incontro la più grande figa della mia
vita con gli occhi verdi e le ciglia nere e la bocca
rossa e le mani nervose e decidiamo cazzo di non
fare nessun film di non scrivere nessuna stronzata di non recitare
nessuna cagata e di non andare in campagna
e di non occuparci della casa né della merda né dei
capelli né dei comunisti.

giovedì 29 dicembre 2011

Segnalazione
Sul sito de "L'OSPITE INGRATO"

27 dicembre 2011
Brodskij legge Miłosz: “Figlio d'Europa” (1946). 
Quattro versioni a confronto 

Sara Martinelli, Magdalena Rasmus

scrittura/lettura

CLICCA QUI

I versi di Miłosz, nati dalle ceneri disperse di una civiltà, non cantano tanto l’offesa e il dolore, ma ci sussurrano «il senso di colpa di coloro che sono rimasti tra i vivi», e in virtù della loro poesia, ci insegnano «a porci in relazione con questa colpa». Una colpa avvertita, pare, da Brodskij stesso, e che si rivela ancora nelle parole pronunciate nell’atto di ricevere il Nobel, quando il poeta ricorda tutti coloro ai quali quell’onore non è spettato, con riferimento ai nomi della letteratura russa (Mandel’štam, Pasternak, Cvetaeva, Achmatova) falcidiati – fisicamente o artisticamente – in un secolo “carnivoro” come è stato il XX. Lo stato d’animo del sopravvissuto traspare costantemente anche dai suoi versi, per esempio nella lunga ninnananna al figlio rimasto in patria, Kolybel’naja Treskogo Mysa (Ninnananna di Cape Cod), dove leggiamo: «cтранно думать, что выжил, но это случилось»14(È strano pensare che sono sopravvissuto. Ma questo è accaduto). Ma l’ingiustizia e l’orrore subìti non indulgono mai a un facile compianto né ad alcun tipo di autocommiserazione, secondo quella lezione impartita dall’arte che Brodskij e Miłosz apprendono dai loro predecessori classici, così

[…] ciò che il poeta enuncia è una versione spaventosamente asciutta dello stoicismo, che non ignora la realtà, per quanto assurda e orribile possa essere, ma la accetta come una nuova regola che la persona deve assumere senza rinunciare ad alcuno dei suoi valori, già ampiamente compromessi.

mercoledì 28 dicembre 2011

Felice Accame
Nuovi fatturanti e vecchie libidini

Olindo Guerrini, noto con gli pseudonimi di «Lorenzo Stecchetti», «Argia Sbolenfi», «Marco Balossardi»,«Giovanni Dareni», «Pulinera», «Bepi» e «Mercutio» (1845 - 1916)

Oggi sono stato alla Libreria Odadrek di Milano,  vero e quasi unico covo carbonaro contro il mercantilismo culturale nella città della  Grande Finanza trionfante su Tremonti e Monti vari, e Felice Accame, che insieme a Carlo Oliva conduce quasi tutte le domeniche  a Radio popolare la trasmissione La caccia. Caccia all'ideologico quotidiano (informazioni qui), mi ha segnalato questo suo dotto e irriverente testo. Bersaglia soprattutto  gli psicanalisti, ma anche  una certa tipologia di poeti. E, perciò, lo riprendo su questo blog anche per il preciso riferimento alla notizia polemicamente commentata mesi fa in Miss Poesia e Miss Pecunia (qui). (Tra parentesi. Pare che la Casa della Cultura - o Cucchi stesso?-  abbia rinunciato all'incestuoso matrimonio tra le due miss). [E.A.]


Rifugiatosi a Bruxelles, il rivoluzionario Giuseppe Ferrari scrisse I filosofi salariati, un’opera in cui accusa i filosofi francesi in particolare e i filosofi in genere di essere pronti a cambiare filosofia a seconda di chi sale al potere. Anni dopo, il poeta Olindo Guerrini, in arte Lorenzo Stecchetti, gli dedicò una poesia:

 

 

I FILOSOFI SALARIATI

 

Or non più tra le rabbie e le contese

Povera e nuda va filosofia,

Ma fa la ruota a scuola e per la via,

Tira la paga e noi facciam le spese.

 

Se regnano la forca e il crimenlese

Di San Tomaso fa l’apologia,

Se torna in alto la democrazia

Inneggia alla repubblica francese.

 

Ah, panciuta camorra di ruffiani

Che della verità strame vi fate.

Ogni giorno che splende ha il suo domani

 

A rivederci, maschere pagate,

A rivederci, illustri mangiapani,

A rivederci sulle barricate!

Gianmario Lucini
Buon anno con fantasia sovversiva



  
Fosse per me, li farei scoppiare
in un sol botto - e dove dico io -
quei petardi che le cagnare
umane corrotte dal sentire

intruppato del ventennio deflagrano
già ora nel silenzio della notte:
tutti insieme e con un solo schianto
a spazzare gli avanzi di promesse,

sorrisi cattivi a trentadue denti
dei parassiti in giacca e cravatta,
insieme ai ladri, ai servi cretini,
e alle prostitute di regime.

Passato il buonismo erga omnes, dovere alla memoria di chi ci insegnò ad amare anche i nemici, io torno al vecchio peccato della satira amara, che mi cresce dentro cattive fantasie, che confesso pur senza invocare assoluzione.

Un Buon Anno e ogni bene a tutte le eccezioni.

Gianmario

martedì 27 dicembre 2011

Enzo Giarmoleo
"Scatti" di Leonard Freed
e Parole di Lawrence Ferlinghetti



Il pittore, lo scultore … c’è anche il poeta che, pur non potendo cambiare il paesaggio, l’andatura delle persone, delle cose, delle architetture, ha più tempo per osservare, ha sicuramente qualche minuto in più di un semplice scatto.  Il tempo gli permette di speculare sulle immagini che può rivedere in momenti successivi, anche se non sono mai le stesse ma è “avvantaggiato” rispetto al fotografo.  Può cambiare gli “scatti” delle parole a tavolino o anche in movimento su un bloc note.  Nella poesia “I vecchi italiani morenti” di Lawrence Ferlinghetti, le parole diventano immagini fluide, frutto di attente osservazioni: i dettagli somatici, gli atteggiamenti dei personaggi in azione, addirittura le forme, l’antropologia delle mani, la foggia degli indumenti, la forma degli orologi – quasi si sente il suono della campana, l’andatura pesante dei piccioni, sembra di vederli.  La parola che descrive diventa immagine senza soluzione di continuità tra fotografia e poesia. 

Quella cosa in Lombardia
(Fortini-Carpi)


lunedì 26 dicembre 2011

Critica
Alessandro Ettore Cimò
La poesia, ahimè, non è morta!


Non conosco di persona Alessandro Ettore Cimò, autore del saggio che qui pubblico.  Di lui , però, avevo letto su un sito di teoria politica «Ventiquattro tesi per un Conflitto Poetico Totale»  e, nel lontano gennaio 2011, gli avevo replicato con un dettagliato «Commento alle tesi di Alessandro Ettore Cimò». La nostra discussione riprende ora con questa messa a punto delle sue precedenti tesi, intitolata in modo significativo e paradossale, La poesia, ahimè, non è morta!  
Nel presentarla, avverto i moltinpoesia che si tratta di uno scritto teorico non di agevole lettura  e che tocca una questione - l’ambivalenza del rapporto tra poesia (o cultura) e potere - che oggi sembra per pochi, mentre fino agli anni Settanta è stato in primo piano nel dibattito culturale italiano in tutta l’area della «poesia critica» (Pasolini, Fortini, Leonetti, Volponi, Majorino, ecc.), più o meno influenzata da Marx. Chi vuole può benissimo saltare.  

domenica 25 dicembre 2011

Segnalazione
Questionario di poesia
a cura di Mario Fresa
sul sito de L'Arca felice

Tabea Nineo: Contesa (2011)

Sul sito de L'Arca Felice (qui) Mario Fresa (qui) sta pubblicando le risposte di vari poeti a dieci domande fisse da lui preparate. Queste sono le mie. Quelle degli altri si possono leggere scorrendo all'indietro e cliccando poi in basso a destra su 'post più vecchi' . [E.A.]

Mario Fresa


     Questionario di poesia (26)


Ennio Abate

Qual è il segreto progetto a cui tende la tua scrittura?


In una poesia del ’92-’93, quasi in tema, avevo dichiarato: «La mia scrittura scriptura / non è progettabile / interrompibile è pienamente / da voi dal freddo / da familiari e amici».[1] E perciò il pensiero che la mia scrittura (poetica) possa essere stata “a progetto”, segreto per giunta, mi ha fatto subito sorridere. Riflettendoci, però, devo dire che nelle raccolte pubblicate tardi e fortunosamente,[2] un progetto s’è delineato: narrare in  forme “lirico-epiche” la mia esperienza dentro l’immigratorio italiano; cioè dentro la vicenda storica dell’immigrazione, che mi ha spostato, assieme a tanti, dal Sud Italia contadino-artigianale al Nord metropolitano-industriale negli anni ’60-’70 del Novecento. In un primo momento prevedevo una ricomposizione di tre conglomerati di  episodi, luoghi e persone: una sorta di trilogia lineare, progressiva, ascendente, “simil-dantesca”. Ne pubblicai un’anticipazione nel 1989, intitolandola Salernitudine/Immigratorio/Samizdat. Successivamente, complesse ragioni, che sarebbe lungo spiegare, mi convinsero a spezzare quella linearità fin troppo ascensionale. Ho, quindi, trattato e pubblicato pezzo per pezzo ciascun blocco, riordinato la materia attorno a personaggi-maschere (Samizdat e/o prof Samizdat; Vulisse); e continuato, in parallelo, a scandagliarla, oltre che in poesia, anche in prosa e in forme grafico-pittoriche. Al momento (alla fine?) ho dato più risalto a Immigratorio[3], che non considero più sezione della primitiva “trilogia”, ma  simbolo riepilogativo della biografia e della storia “fondative” della mia scrittura.


sabato 24 dicembre 2011

Lucio Mayoor Tosi
Natale



Mario Mastrangelo mi ha inviato un ottimo commento critico per la poesia di Natale che vi ho letto ieri.Trovo interessante questa alleanza tra critica e poesia, e se possibile mi piacerebbe metterli entrambi sul blog come hai fatto per la poesia "I rapaci" di Flavio Villani. Grazie. Ancora tanti auguri.

A natale spuntano le margherite
le mucche svizzere suonano coi loro batacchi
come fa il cucchiaino su questa tazza.

Fuori c'è un sole che spacca, preparo la borsa
per la piscina scandinava, mi trucco
mi specchio e ascolto le parole del TG.

La voglia di morire non sta negli ospedali
viene prima, viene a vent'anni anche se oggi
si vive più a lungo,  più a lungo con la voglia
di morire. 

Flavio Villani
I Rapaci
con un commento
di Leonardo Terzo


I rapaci s’alzano in volo
Poco prima dell’alba
Silenziosi volteggiano
In alto
Oltre i cirri più ostili
In cerca di prede
Acuminati incidono il ghiaccio
Sottile
E mentre feriscono il cielo
Attendono il momento propizio
(Proprio il momento più giusto)
Per fare ciò che i rapaci
più amano al mondo

mercoledì 21 dicembre 2011

Laboratorio MOLTINPOESIA



« Cenai con un piccolo pezzo di focaccia,
ma bevvi avidamente un'anfora di vino;
ora l'amata cetra tocco con dolcezza
e canto amore alla mia tenera fanciulla. »


per un saluto e uno scambio di auguri
c
’incontriamo a Milano
venerdì 23 dicembre alle ore 17
nella sala Dopolavoro Ferroviario sottopasso via Tonale/Pergolesi Stazione Centrale 
(si consiglia di entrare nel sottopasso dalla parte di via Tonale  tenendo il lato sinistra)
Portate una poesia da leggere

[L’incontro-festicciola è aperto a tutti i simpatizzanti]

Di seguito qui sotto un'infornata di poesie natalizie  composte o suggerite da amici e amiche. Altre potete aggiungerne voi stessi negli spazi commenti.

martedì 20 dicembre 2011

domenica 18 dicembre 2011

COMUNICAZIONE DI SERVIZIO
PER I COMMENTATORI
DEL BLOG

Visto che in diversi lamentano la scomparsa del commento che era apparso pubblicato, sono andato a documentarmi, ponendo il problema su Google e ho trovato che qualcosa di simile accade anche in altri blog di BLOGGER.  Invito nuovamente a mantenere copia del commento in modo da poterlo nuovamente inserire, se scomparisse. E a tentare qualche tempo dopo il primo fallito tentativo. O in casi estremi a inviarmelo a:
 
Ecco il link  dove ho trovato la discussione:

Perché i commenti che lascio nei blog che seguo scompaionosubito ...

www.google.com › Forum di assistenzaBloggerAltro
23 risposte - 9 mag
Perché i commenti che lascio nei blog che seguo scompaiono subito ... che il commento è stato caricato correttamente poi in realtà sparisce nel nulla. ... correttamente il commento e compare la scritta che verrà pubblicato in ..

Essa  fa capire che il problema non dipende dall'amministratore  del blog, ma non dà la soluzione. Se ci fosse  qualche esperto che può dare suggerimenti, un grazie anticipato. [E.A.]

sabato 17 dicembre 2011

Giorgio Linguaglossa
«Lingua delle maschere»
(o lingua delle nacchere?)



 Ci salveranno i dialetti (e i dialettali)? Tra le varie strade tentate per  uscire dalla crisi (per chi l'ammette; poi ci sono quelli che, anche nella palude, sognano cieli sublimi alla Tiepolo) quella del "ritorno al dialetto" o del "recupero dei dialetti" (o delle "radici") sembra attirare molti; ed avere una sua patina persino "politica": i dialetti  sarebbere un argine, una forma di resistenza, ai linguaggi  commercializzati e all'anglo-americano globalizzato.  I dialetti? Quelli che oggi affondano le loro radici in comunità sempre più "provvisorie"o "di plastica" o "elettronificate"? Come  non vedere che l'autenticità (dei dialetti, delle comunità, del "popolo", dello stesso "io borghese") è un'invenzione di una tradizione (Hobsbawm) a fini consolatori o politici (si lensi alle "piccole patrie" leghiste)? 
Lo scetticismo  di questa nota di Linguaglossa, al di là dei giudizi sui singoli poeti su cui qualcuno dissentirà, mi pare condivisibile. Troppa mitologia ( o ideologia pseudo-resistenziale o solo nostagica) pesa sulle operazioni condotte almeno dai dialettali "programmatici" (voglio salvare  quelli "spontanei" o naif )  La discussione sul tema non è nuova. Ritorna  di tanto in tanto; ed è sintomo della crisi che "ci lavora", più che l'indicazione del varco da cui uscirne.  Lo dice uno che il "suo" dialetto non l'ha dimenticato. Ma conservare una reliquia cara non  significa resuscitare un mondo perduto. E non si può solo conservare. Si deve cercare. Abbiamo da affrontare una "malattia delle lingue", che colpisce contemporaneamente lingua nazionale e dialetti. Non si sa per quale miracolo questi ultimi ne sarebbero immuni. Insomma, in tempi di "sacrifici" non ci si venga a dire che dobbiamo accontentarci dei dialetti - i "meno abbienti" - o della "sublime lingua borghese" letteraria (Fortini). Esodanti e contrabbandieri, continuiamo a cercare...[E.A.]


Guardando per terra. Voci della poesia contemporanea in dialetto a cura di Piero Marelli LietoColle 2011 pp. 270 € 18,00
(Ivan Crico, Anna Maria Farabbi, Renzo Favaron, Fabio Franzin, Francesco Gabellini, Vincenzo Mastropirro, Maurizio Noris, Alfredo Panetta, Edoardo Zuccato)

Mettere mano ad una antologia della poesia in dialetto significa preliminarmente fare i conti con alcune questioni di fondo, innanzitutto: dobbiamo credere veramente e ciecamente alla tesi zanzottiana del dialetto quale «lingua matria»? Quale linguaggio in grado di attingere una immediatezza più immediata di quanto sia possibile con la lingua maggiore? E che tale presunta immediatezza sia anche il precipitato di una autenticità altrimenti inattingibile? Dobbiamo credere che mediante il dialetto si possa raggiungere il porto sepolto del ritorno a casa? Che il dialetto permetta un rapporto «ingenuo», «inconsapevole» e magico con il «reale»? Dobbiamo ancora credere all’assioma della lingua irta ed asprigna di un Albino Pierro come quella vetta estetica irraggiungibile? Personalmente, ho dei dubbi: si tratta di una vulgata, di una mitologia che, come tutte le mitologie ha un inizio e una fine.
A tal fine citiamo le parole di una intervista di Zanzotto rilasciata a Renato Minore uscita in questi giorni per i tipi di Donzelli:*

Paolo Pezzaglia
Giunca giunchiglia


Vorrei che fosse “postato” questa mia poesia “giunca giunchiglia” - che in realtà parla di un tumble  weed – a commento del bell'articolo di Enzo Giarmoleo.
Grazie e statemi bene.



Vento di terra.

Un secco cespuglio
strappato alle radici.

Un vascello di paglia,
una giunca giunchiglia.

Ti porti al mare
il forte vento di terra.

Ormai sei paglia.

Anche il nome mio
via puoi portare.

venerdì 16 dicembre 2011

Enzo Giarmoleo
Addio George Withman !


                                                                                     
Parigi, luglio 1962

Lungo la Senna Jacopo a gambe levate, inseguito dai commessi di un supermercato del libro. Proiettato in avanti cercando di correre il più possibile, nelle sue tasche buona parte dell’esistenzialismo francese, Jean Paul Sartre, Camus, pocket book, edizioni economiche. I commessi segugi gli stanno alle calcagna, cercano di raggiungerlo. I bateaux mouches lenti tifano per lui, sta risalendo la Senna, suole di vento, direzione Notre Dame. L’unica via per salvarsi è tuffarsi nel labirinto del quartiere latino, uno dei luoghi non sventrati dall’urbanistica poliziesca di metà ottocento che favoriva la costruzione di vie rettilinee abolendo le vie strette e irregolari che favorivano focolai di insurrezione. Ancora uno slancio, ora è sul pavè di Quai de Tuileries. Se arriva a Pont Neuf è fatta! Rue Dauphine e poi un tuffo nei mille vicoli di Saint Germain des Près che conosce come le sue tasche. Scompare nell’atrio interno ad un palazzo, trafelatissimo, aspetta.

giovedì 15 dicembre 2011

Ennio Abate
Sulla gestione dellle "buone rovine"
di Franco Fortini



UNA PERSONALE, EXTRA-ACCADEMICA, OPINIONE.  

«…‘Vi consiglio di prendere le cose che ho detto e di buttarne via più della metà, ma la parte che resta tenetevela dentro e fatela vostra, trasformatela. Combattete!’ »
(Le rose dell’abisso. Dialoghi sui classici italiani,  Boringhieri, Torino, 2000)

1.

Nel dibattito dei moltinpoesia  ho, quando ho potuto,  richiamato l’attenzione su Franco Fortini (1917-1994). Su questo blog tra l’ottobre e il novembre 2010 ho dedicato vari post (si trovano facilmente scrivendo il suo nome in ‘cerca’)  per commentare una sua intervista del 1993 concessa alla RAI, «Che cos’è la poesia». È un esempio di discorso extra-accademico (non automaticamente antiaccademico) sui suoi scritti  e la sua figura, che per me ha una lunga storia alle spalle. Fortini ha influenzato  indirettamente la mia ricerca (qui), pur restando per me, anche quando ho avuto modo d’incontrarlo di persona, «maestro a distanza». Quel mio rapporto con lui fu tardivo e problematico, ma profondo; e ne ho dato un dettagliato rendiconto (qui).
Dopo la sua morte nel 1994, ho - prima in samizdat poi sul Web[1] - praticato, com’egli suggerì, un buon uso delle rovine: della tradizione culturale e politica del comunismo (usiamola questa parola, anche se sporcata, demonizzata e divenuta incomprensibile ai più); e, quindi, anche dei suoi libri, che alla storia di quel grande movimento, in modi sempre vigili e sofferti, si richiamarono senza i pentimenti o gli sbrigativi autodafé di tanti voltagabbana.

Anna Maria Moramarco
Sette dicembre...



All’inizio
fu un canto disteso.
Come di sentinella
che ha vegliato e sente l’alba
nel cielo ancora scuro di notte.

Poi fu alla fine.
La bara dentro la terra
i fiori a far da cornice,
mestizia.

Il canto si accese inatteso:
il passero era fratello del primo.
Se ne stava, su un albero gemello,
striminzito nel freddo della sera.
Se ne stava su una striscia di sole rosso cupo.

Dall’alba al tramonto,
l’ultimo giorno che vidi il volto di mia madre.

mercoledì 14 dicembre 2011

Ennio Abate
Omaggio a
Gianfranco Ciabatti



Faccio circolare anche tra i moltinpoesia alcune  poesie di Gianfranco Ciabatti (1936-1994). Le prelevo dal «medaglione artigianale» curato da Roberto Bugliani a quindici anni dalla sua scomparsa su Nazione indiana (16 aprile 2009, qui), dove si trovano anche informazioni sulla sua vita, la sua militanza politica e un prezioso rimando al n. 34-35 della rivista Allegoria (gennaio-agosto 2000), che gli dedicò una sezione con interventi di Timpanaro, Luperini, Fortini, Cataldi, Commare.
Le riprendo perché Ciabatti, non intaccato né dalla sconfitta politica né dalla malattia, ha voluto e saputo parlare fino al momento della morte in «prima persona plurale», usando un «tu» collettivo e di classe o  il «noi» della storia ormai di un’altra epoca. Ha mantenuto, cioè, un rapporto conflittuale di fronte alla realtà sociale modellata dal Capitale. Non si è “dato pace” (neppure con il "piacere della lettura", aggiungo maliziosamente!).
Quel «noi», oggi, se siamo vecchi, è svanito dai nostri discorsi, tornati fin troppo  facilmente all’«io» o al massimo a un inquieto «io-noi». E, se giovani, non è quasi più pensato come possibile, anzi  è spesso deriso. Lo dico senza moralismo. Come presa d'atto di una realtà (ostile e da combattere per me).
Riporto l’attenzione a questa sua poesia per un’altra ragione. Ciabatti, pur scrivendo poesie (tra altre cose), adottò, come sottolinea Bugliani, «un lirismo rovesciato o negativo» e  mai abbandonò certi  temi “bassi” e “ignobili” alla Brecht. E fu consapevole - per dirla con Fortini - dei confini della poesia . E cioè? Lo spiega bene un commento di ng sotto lo stesso post di Nazione Indiana: «a differenza di tanti autori che pure mirano a politicizzare il segno, [Ciabatti] aveva ben presente la differenza (e la contraddizione) tra la prassi poetica e quella politico-ideologica; ben sapeva che l’azione nella parola, quand’anche condotta in opposizione, è ben poca cosa rispetto a quella nel reale, unica veramente capace di trasformare una situazione». Che, si deve aggiungere, ora che i tempi sono diventati ancora più bui, è ipotesi  più ardua, ma mai da abbandonare, anche se fossimo costretti per quel che ci resta da vivere soltanto a scrivere poesia. [E.A.]

Dal di dentro

Poiché dobbiamo viverci,
teniamo pulita la nostra prigione,
apriamo i vetri all’aria del mattino
zufolando immemori
che un giorno il sole ci accecherà
e la strada sarà troppo grande, per noi,
tremanti passi di convalescente
deboli sotto la madida pelle.
Noi dovremo allora richiamare
gesti antichi alla mente, ricusare
la pace che consente con la legge del silenzio,
tollerare la dura libertà
(aprile 1962)

martedì 13 dicembre 2011

Giorgio Linguaglossa
Sull'"Almanacco dello Specchio 2010-2011"



Partendo da un punto alto di riflessione di cui abbiamo perso memoria  - quello raggiunto agli inizi del Novecento dal poeta russo Osip Mandel’stam, convinto assertore di un’idea  mai mimetica della poesia, per cui essa « non è parte della natura[…] tanto meno un suo rispecchiamento», ma semmai la sua “recita” «con l'ausilio di quei mezzi detti comunemente immagini», Giorgio Linguaglossa può mostrare la gracilità della poesia che si va facendo, specie in Italia. Di certo,  salendo sulle spalle di un gigante come Mandel’stam,  i poeti d’oggi appaiono anche più nani di quello che sono e troppo severi parrebbero i giudizi sugli autori italiani scelti  nell’«Almanacco dello Specchio» 2010-2011. Eppure la questione che il critico romano pone non è trascurabile: se siamo a dopo la lirica,  il vuoto da essa lasciato può essere colmato da «una gigantesca massa prosastica grigia e informe»? L'impressione che nella produzione odierna «si vada un po’ alla rinfusa, per tentativi al buio, per privatissimi sperimentalismi» è difficile da smentire. Resta il fatto che, dichiarando un suo precisoparametro di giudizio, Linguaglossa assolve onestamente a un compito critico oggi fin troppo trascurato. [E.A.]


Almanacco dello Specchio 2010-2011 a cura di Maurizio Cucchi e Antonio Riccardi, Mondadori, Milano, 2011 pp. 260 € 16.00

In un famoso articolo sulla poesia di Dante Alighieri degli anni Venti del Novecento il poeta russo Osip Mandel’stam parlava, a proposito della poesia del suo tempo (ed è la prima volta, a mio avviso, che viene impiegata questa terminologia), di «discorso poetico». A lui la parola:

«Il discorso poetico è un processo incrociato e si genera da due risonanze la prima delle quali, da noi udibile e percepibile, è la metamorfosi dei mezzi propri del discorso poetico che emergono via via nel suo erompere; la seconda è il discorso vero proprio, cioè il lavoro tonale e fonetico che risulta grazie a quei mezzi.

lunedì 12 dicembre 2011

SEGNALAZIONE
A Milano: Poesia della vita,
Una vita di poesia

Centro Puecher
 Spazio del Sole e della Luna
(ex Casa della Pace)

Via U. Dini 7 – 20141 Milano
(tram 3 e 15; MM2-capolinea piazza Abbiategrasso)

Venerdì 16 dicembre 2011
Ore 20.45

POESIA DELLA VITA,
UNA VITA DI POESIA
Presentazione dell’opera poetica di
 Laura Cantelmo, 
Eugenio Grandinetti
Attilio Mangano
Carla Spinella

                                       con la partecipazione straordinaria di
Benny (Baroukh Maurice) Assael

Modera
Giuseppe Deiana, presidente dell’Associazione Centro Comunitario Puecher

Intervengono gli autori che leggono le loro poesie:
Laura Cantelmo, docente di Lingua e letteratura inglese
Eugenio Grandinetti, docente di Lettere
Attilio Mangano, docente di Lettere
Carla Spinella, docente di Lettere
Benny Assael, medico, musicista, letterato

Un critico letterario:
Pasqualina Deriu, poetessa, docente di Lettere

Dibattito


STUDENTI E CITTADINI SONO INVITATI
Agli studenti verrà rilasciato un attestato di partecipazione

Giorgio Mannacio
Sulle poesie di Emilia Banfi

  
Questa puntuale nota critica di Giorgio Mannacio è un esempio di come  dar senso alla formula I MOLTINPOESIA UNO PER UNO: un lettore-critico, partecipante "da lontano" al Laboratorio Moltinpoesia, ha riflettuto sulle poesie di un'altra partecipante al Laboratorio, Emilia Banfi, e dichiarato onestamente quel che ne pensa.  Altri/e, tra cui la stessa Emilia, potranno ora commentare e ampliare la risonanza di questa nota. In Appendice si trovano le poesie della Banfi a cui Mannacio si è riferito. Altre poesie di Emilia Banfi si leggono in questo blog, scrivendo in 'cerca' il suo cognome. [E.A.]

1.
Il percorso poetico di E.B si snoda tra la lingua e il dialetto ( lombardo ). Di fronte a manifestazioni di tale tipo si è tentati , oggi, ad attribuire l’adozione del secondo modulo ad una volontà di “esperimento “. Si pensa che tale adozione sia il tentativo di trovare una sorta di “ via di fuga “ o di “ uscita di sicurezza “ da una lingua che sta consumando e banalizzando sempre di più il proprio patrimonio di senso. Ma vi è anche un’altra direzione o tentazione di indagine , a cavallo di discipline incerte, come l’antropologia e la psicanalisi . Tale indagine pretende di ricondurre i due differenti momenti di espressione ad istanze o istinti più profondi e originari: dialetto come linguaggio naturale o materno; lingua come idioma culturale o paterno. C’ è qualcosa di arbitrario e insieme di fondante in questo tipo di indagine dato che nell’esperienza poetica non c’è mai qualcosa che sia solo istintivo e naturale ovvero solo culturale. Ma la distinzione può servire a misurare l’esistenza e il peso delle influenze e la loro concreta incidenza sui risultati del lavoro poetico.

domenica 11 dicembre 2011

Attilio Mangano
Cattolica cultura anni Cinquanta



Cattolica cultura anni cinquanta.
L'anno santo svelava i suoi misteri
di quella jungla che i tigrotti di Mompracem
violavano giocando al dottore.

Scuola privata "Santa Caterina
da Siena", i maschi col grembiule nero
e le bambine col grembiule bianco,
il segno della croce ogni mattina.
Famiglia patriarcale, il padre in testa
Mamma con il tailleur proprio elegante
poi sette figli tutti in fila indiana
che indossano il vestito della festa.

sabato 10 dicembre 2011

SEGNALAZIONE
I moltinpoesia uno per uno

 Martedì 13 dicembre 2011
ore 18
alla Palazzina Liberty, P.zza Marinai d’Italia 1
Milano
Luca Ferrieri e Donato Salzarulo
parlano di
IMMIGRATORIO
di
Ennio Abate

«Di qui, non serve dirlo, il titolo forte e attualissimo dell’opera. Questo libro non è però la storia di una migrazione interna, né solo l’allegorizzazione, per mezzo di quella, dei grandi movimenti migratori di oggi: è soprattutto la ricostruzione di una condizione stabile della civiltà moderna, e del modo in cui il soggetto ha trasformato in destino la scelta dell’emigrazione»
(dalla prefazione di Pietro Cataldi  edizioni CFR - ottobre 2011)
  *
Oh, quando l’evidente tornò nel disordine! Come in sospensione: rimescolato il bestiario d’infanzia assieme ai busti di padri dominatori o inetti del Novecento e alle fanciulle alle prese con la storia di Carlo V e Lutero.
Oh, quanta brutta, indigesta metafisica nell’orcio dell’immigratorio d’improvviso buio! Interamente nella disciplina d’un duraturo purgatorio. O nelle sporche pause di quieta apparenza, senza code in paradiso. Assillati da notizie storte di lontani inferni, riattizzanti i vicini. All’opera nella storia i nostri coetanei delle sacrestie e delle sezioni. O i loro turgidi allievi da rissa.

Luca Ferrieri
Sul piacere della lettura


Replica a Ennio Abate

Intervengo in ritardo, e mi scuso, in questa discussione di cui sono involontariamente parte in causa. Lo faccio in modo abbastanza schematico, per punti, disponibile eventualmente a approfondire se il discorso non fosse chiaro.
Le obiezioni di Ennio riguardano e ingigantiscono un solo punto dei tanti che Donato nel suo intervento e io nel mio libro abbiamo toccato, ossia quello del piacere della lettura. E stiamo pure  su questo, ma teniamo presente che l’ipertrofia del tema è dovuta più alla controanalisi di Ennio che all’originario approccio della discussione… Peraltro di questi argomenti con Ennio discutiamo da alcuni decenni ed è sempre un piacere (oops…) farlo nuovamente.
1.
Non c’è nessuna ideologia del piacere di leggere. Non c’è neanche in Roland Barthes, autore refrattario a tutte le ideologie, figuriamoci nelle nostre modeste chiose epigoniche o collaterali. Per ideologia infatti intendo una costruzione sistemica, chiusa, tendenzialmente organica organicistica e totalitaria, fondata sull’obbedienza a interessi e posizionamenti materiali, “rispecchiati” nella produzione intellettuale. Questa, almeno, è l’interpretazione di Marx, cui anch’io in questo caso mi attengo, perché mi sembra scientificamente molto più felice di quella di altri (pure marxisti come Althusser).

giovedì 8 dicembre 2011

Lorenzo Pezzato
Poesie da "Dipendenze, abbandoni
e strane forme di sopravvivenza"

La selezione di poesie che ho fatto dal libro di Lorenzo Pezzato dovrebbe dare un'idea dell'oscillazione, a mio parere  irrisolta, di un giovane poeta (Lorenzo è del 1973) tra modelli vagheggiati (le avanguardie artistiche del primo Novecento a cui nei suoi versi accenna) e volontà di stare in questo nostro tempo per ora di crisi piatta e senza sussulti, in cui anche a lui tocca crescere. "Scapigliato fogliame agitato/ da veloci venti futuristi" è, al presente, solo una pianta (il noce) evocata nei suoi versi, non la gioventù a lui coetanea. Le sue poesie mi  paiono la registrazione fredda degli umori, delle irritazioni e degli sgomenti (anche familiari) di un giovane alle prese, come tanti, con la gabbia (dorata? postmoderna? addirittura liquida?) e per ora senza uscite in cui tutti siamo. Rafforzata ancor più dall'uso capitalistico delle nuove tecnologie e dalle sue dinamiche imprenditoriali. Il poeta (fossile di altri tempi?), per il lavoro "non poetico" che gli tocca fare per vivere e che pur  lo porta in contatto quotidiano con "cento persone diverse", fronteggia l'insensatezza (una volta si diceva l'alienazione) della società (capitalistica) tenuta sotto controllo  da potenze sempre più innominate o indecifrabili. E Pezzato reagisce con gli strumenti di  pensiero e linguaggio di cui dispone, continuamente istigato dall'esterno a "riempire il vuoto con altro vuoto". Ne risente anche la sua poesia. Che non ha più Tradizione affidabile a cui ancorarsi (ci sono in questi versi solo alcuni echi distorti e dolenti e inerti di un immaginario religioso più o meno biblico e una volta potente: "maledirai la madre bestemmierai il padre per la croce". Ho aggiunto alla fine delle poesie due brani dell'introduzione di Giorgio Linguaglossa a questa raccolta. Il critico romano insiste sulla "marginalità linguistica e stilistica" della ricerca di Pezzato e di altri giovani.  Epigoni vecchi con lo sguardo volto al passato (il solito angelo di Benjamin...) noi? E smarriti, testardi, solitari esodanti  loro? Un problema spinoso da trattare a parte. [E.A.]


La parabola dei talenti

Scagliano versi con fionde rudimentali
come ciottoli da tavole di legge frantumate
nel passaggio al nuovo millennio,
i contemporanei poeti a corta gittata
stelle filanti
talenti in parabola discendente.

Odio l’estate

Odio l’estate la calura il frinire
la funesta eccitazione di cicale antropomorfe
e io formica non mi do pace travaglio immagazzino
prego perché presto giunga l’autunno
a riportar malinconia.