domenica 8 gennaio 2012

Paolo Pezzaglia
Forse Euridice

Edward Poynter, Orfeo ed Euridice


I

Dal pontile
parte l'ultimo caicco
per l
'isola greca.
Razionalità e prudenza
frenano ogni impulso
mentre il sole declina
tra nuvole sempre più grigie
e la tua bellezza,
pallida amica sera,
è immutabile,
come il malessere
della mia anima divisa,
che il traghetto
potrebbe dividere per sempre.

II

A commedia finita,
anche se forse
oggi è solo malattia,
credere, per teatro,
in un incontro
con una vita recitata altrove?
Di quella vita invidiando,
se tutto è stato altrove,
anche solo i vestiti smessi,
irrecuperabilmente
chiusi in stanze
e case non mie?
Niente, niente sia più mio.
Si ripetano pure
i consueti scenari
e sul mio palcoscenico
calino
sipari di solitudine
e quinte sempre più fitte
incrocino ombra su ombra.


III

Al mio pur smorto
ed afono vibrare
forse qualcosa risponde:
rinascono le magiche parole,
rinascono i colori dei fiori.
Nell'isola che fluttua,
riflessa e trasparente
nel mare Egeo del sogno,
ancora fiorisce la bougainville
.
Nell'ultima sera,
prima della partenza inevitabile
contro un nemico invincibile,
l'anello disperatamente
lanciato nel futuro,
per ritrovarti,
tu che vieni ora
dall'etere senza tempo, fu ricordare
il colore dei tuoi fiori,
Euridice.
Un appuntamento
vicino alle bougainville
di casa tua.


IV

Sorridendo,
forse Socrate,
forse una semplice
saggia ancella,
disse dell'eterna spirale,
del nostro riapparire
in altalena nei secoli:
un appuntamento nel futuro?
N on potresti sopportare
l'abisso del rimpianto.
Giusto è il fiume della morte
che tutto cancella.

Solo a pochi forse
è dato ancora un incontro.
Sarà allora
come un girasole di luce,
un'improvvisa magnetica tempesta;
il riaprirsi di una ferita
mai dimenticata.

v

Venivamo noi pochi
dall'isola madre
continente di acqua e fuoco,
ma destinati a perdersi
nell'affastellarsi fatale
dei secoli del ferro,
dei secoli del veleno.
E là nell'Egeo subito
si dovette partire:
dalle navi Ares guerriero
vibrava il suo bronzo
e agli angoli delle case
agitati insensibili eroi
già rampognavano
battendo alle porte
.


VI

Non temo la spada.
Allora come oggi
sento la mia fibra
mentre corro nel vento
gelido di quell'alba,
una bisaccia con olive e pane
e la spada amata.
Amata?
Batte il ferro
sul duro maschio fianco.
Nessuno e niente
farà mai paura a me,
semplice per scelta e sfida;
con duri, stupidi muscoli,
inutili intorno
all'oscuro umido
germogliare
di lacrime profonde,
che non devono ...
Perché non paura
ma grande inspiegabile luce,
indifendibile
di fronte a Gorgia
e agli altri, ispide barbe,
umani di prima nascita.


VII

Come sottrarsi?
Ma come non distruggere
gli stranieri che hanno sfiorato
gli scogli e le spiagge
e le donne
da noi abbandonate
al richiamo della caccia
nel giorno di festa.
Le trovammo che si stringevano
e piangevano senza parlare.
So solo che non feci più ritorno.


VIII

Qui, sul mio fiume lombardo,
come un mulino di ferro
rotola la gabbia del tempo
e già proietta l'ombra
delle sue sbarre.
Occorre districarsene
con infinita pazienza,
rinavigando con umiltà
piccoli canali, scivolare
nell'attesa di un'altra notte,
non morire.

[Da Le rughe della luna Prometheus, Milano 1996]
                   
                   

                   
* Paolo Pezzaglia è nato a Milano nel 1938. Laureato in economia alla Bocconi,
 ha lavorato nell’azienda familiare, coltivando però  quasi in segreto 
e fin da giovane la sua vocazione di poeta. Appassionato sportivo 
(è stato campione nazionale di hockey su ghiaccio juniores e vincitore 
del trofeo Speranze azzurre nel 1954) è cultore di yoga, filosofie orientali 
e saperi esoterici. Ha pubblicato con la casa editrice Prometheus tre raccolte 
di poesia: L’imbuto rovesciato (1990), Le rughe della luna  (1996) 
e malincanto (2007).  Ha conosciuto Eugenio Montale e molti altri scrittori 
e critici. Nel 1960  è stato finalista al Settimo Premio "Lerici Pea". 
Di recente ha ottenuto il premio “Sicilia” per Le rughe della luna 
e il “Triuggio” per Il Malincanto. Vive a Monza.




5 commenti:

Anonimo ha detto...

“Solo a pochi forse è dato ancora un incontro”… “Occorre districarsene con infinita pazienza”
Quale incontro? Con la cultura? Una rassegnata disposizione all’attesa per capire se quella prigione è transitoria o definitiva? A chi si rivolge il poeta? Al suo popolo? Ad un popolo dall’identità incerta, dalla lingua imbastardita e volgarizzata, dall’ analfabetismo di massa di ritorno. Gli strumenti linguistici tradizionali sono a disposizione di tutti, ma pochi li usano e li coltivano. “Al mio pur smorto ed afono vibrare forse qualcosa risponde”. Chi coltiva il buono dei padri si sente in un “mulino di ferro”, è consapevole che occorre districarsene con “infinita pazienza”, prende atto di una nera notte di morte della cultura perché intorno a sé si parla e si scrive un idioma ibrido che consente una comunicazione minima di bassissimo livello. Il padre della cultura ha fatto il contrario di Orfeo, se n’è andato senza voltarsi per non perdere la sua Euridice. Sono i padri che dovranno di nuovo prevalere. In questi nostri giorni assistiamo alla moltiplicazione di tentativi letterari che vanno ognuno per conto proprio e che non ubbidiscono a nessuna logica generale. Perché? Perché non c’è tradizione. Il paese è sbrindellato e privo d’identità. Anche se alcuni sono bravi autori, sono incapaci di darsi un vero orientamento. Facciamolo questo sforzo per recuperare i padri. Cerchiamo di non “morire” nella più feroce delle globalizzazioni. Evitiamo che si diffonda l’ approssimazione perché l’approssimazione è il tratto distintivo dell’assenza di identità culturale. Ci porta a “scivolare nell'attesa di un'altra notte, non morire”.
Mi sembra l’Orfeo di Pavese dei “Dialoghi con Leucò”: “L’ Euridice che ho pianto era una stagione della vita….E si scende nell’Ade a strappare qualcosa, a violare un destino. Non si vince la notte e si perde la luce. Ci si dibatte come ossessi….Non parlare di giorno, di risveglio. Pochi uomini sanno…”
Mi piacerebbe leggere un commento dell'autore.
g.b.

Anonimo ha detto...

Gentile G.B.
ti ringrazio per i tuoi commenti: li ho apprezzati e trovati veri, anche se lontani dalle sensazioni e motivi che mi hanno spinto, anni fa, a scrivere (e riscrivere) “Forse Euridice”. Non li saprei identificare di nuovo con sicurezza. Che suscitino però pensieri diversi , come quelli da te espressi mi conforta molto, convinto come sono che quando la poesia raggiunge una certa armonia - lasciami dire magica (ho di queste debolezze) - poi funziona come uno strumento ben accordato: il lettore ne fruisce a modo suo, magari arricchendo il suo valore con nuovi significati, a volte altrettanto affascinanti.
In quella mia lunga poesia esprimo – in tempi e scene diverse - le mie ferme credenze in un mondo più spirituale che materiale, più tolemaico che copernicano, quindi più antiquato di quanto si possa immaginare. Lì tutto era, è, possibile; lì sta, secondo me, l’origine, mitica, della persa verità: eppure quella antica perdita è ancora qui a mordermi: mi fa sognare, soffrire e quindi scrivere.
Immagino tu non condivida, se non in parte, eppure - questo mi conforta - c’è comprensione…
Grazie ancora
Paolo Pezzaglia
Monza 9/1/12

Anonimo ha detto...

Un viaggio meditabondo, tutto metaforico, fuori dal nostro tempo (uso il plurale volutamente). Paolo Pezzaglia prende le distanze, o chiude gli occhi, sulle parole e i pensieri altrui, per rifugiarsi nel clima trasparente e chiaro di un passato idilliaco tanto più luminoso se pensato in contrasto con quello lombardo. Ma si perde, secondo me, in quella luce ideale (scandisce in sovrabbondanza le metafore luminose rispetto al presente che stenta a descrivere), tanto da finire in un soliloquio condivisibile solo per chi guardi al passato con altrettante speranze. O per trovarvi rifugio.
La chiarezza del paesaggio però è notevole ( ma basta con le bouganville!), e corrisponde certamente ad una sua qualità interiore che non avrebbe bisogno di spade ( qui più narrate che adoperate) per combattere la sua battaglia quotidiana.

Per il resto a me son bastate le parole del commento di g.b.:
"Sono i padri che dovranno di nuovo prevalere. In questi nostri giorni assistiamo alla moltiplicazione di tentativi letterari che vanno ognuno per conto proprio e che non ubbidiscono a nessuna logica generale. Perché? Perché non c’è tradizione."
Appunto, non c'è. Trovo più realistico che se ne prenda atto. Ora toccherebbe ai padri di oggi.

mayoor

Anonimo ha detto...

Maria Maddalena Monti:


Forse Euridice

Questa lunga poesia è scritta in un linguaggio limpido e luminoso,anche se i significati espressi metaforicamente sono un continuo rimando ad altro, a volte difficile da interpretare.
Il mito in :” forse Euridice” è lo strumento per un ritorno all’”isola madre”,al fine, però, di ritrovare un legame con il presente.
Il richiamo alla bellezza e all’armonia ,che spesso percorre questi versi, non è statico e puramente simbolico, ma si vena d’inquietudine:”..la tua bellezza/pallida amica sera,/è immutabile,/come il malessere/ della mia anima divisa.
L’ombra ,il buio del mito di Orfeo e Euridice avvolge anche il poeta:”..sipari di solitudine/e quinte sempre più fitte/incrocino ombra su ombra/.”
Non è intatta e sicura la voce della poesia,sembra giungere da luoghi remoti. Tuttavia:”..al mio pur smorto/ed afono vibrare/forse qualcosa risponde/:rinascono le magiche parole,/rinascono i colori dei fiori.La contemplazione di luoghi dalla bellezza incontaminata non è intessuta solamente di nostalgia,perché “l’incontro”, quello che forse non potrà più avvenire è anche:::”magnetica tempesta” e ancor più:drammaticamente:”il riaprirsi di una ferita mai dimenticata”.
Dalle lontananze”dell’isola madre”,dal mare azzurro,solcato da guerrieri e lacerato da lotte,l’approdo..:” sul mio fiume lombardo”,dove: come un mulino di ferro rotola la gabbia del tempo”…”rinavigando con umiltà/ piccoli canali,scivolare..non morire.”
Una dichiarazione di poetica e ,insieme di coraggioso impegno per vivere il presente..

Anonimo ha detto...

Caro Paolo,
le tue parole sono così dense di musica e di te che fanno festa alla vera poesia. La vita difficile e faticosa ma piena di attese.
Davvero scivoliamo nell'attesa di un'altra notte ed io aggiungo: ed è sempre ancora giorno. Grazie Paolo ci hai fatto un grande regalo! Emilia Banfi