giovedì 23 febbraio 2012

CRITICA
Traduzioni: a che punto siamo oggi?


Il problema del tradurre ricompare a sprazzi nei discorsi che si vanno facendo sul blog o nella mailing list dei moltinpoesia. Se ne è parlato  di recente a proposito di una poesia di Wislawa Szymborska e adesso nella segnalazione del poeta Weldon Kees. In passato in un post, stranamente  a zero commenti, erano apparse le traduzioni di Marcella Corsi dai "Poems" di Katherine Mansfield (qui). Sarebbe ora di ripensare l'arte del tradurre e del tradurre poesia affrontando  il senso che hanno tali operazioni oggi, quando culture varie s’intersecano, si sovrappongono o confliggono nel dramma di una globalizzazione caotica. Per dare una spinta alla riflessione pubblico  due testi: il primo di testimonianza diretta, quella di Francesca Diano, traduttrice di professione (Cfr. sua nota biobibliografica qui ), "L'arte del tradurre"  tratto dal blog "Il Ramo di Corallo" (qui); il secondo (di inquadramento  della storia della traduzione poetica nell’Italia del Novecento) è un intervento di Luca Lenzini del Centro F. Fortini di Siena in occasione della presentazione del libro «Lezioni sulla traduzione di Fortini» curato da Maria Vittoria Tirinato (qui).


Francesca Diano, L'arte del tradurre

Tradurre, è un’arte o una scienza?


Per chi è convinto del secondo caso, in italiano è ormai in uso il termine, che io trovo orribile, di “traduttologia”, esso stesso traduzione del francese “traductologie”. Meglio, molto meglio, se è questo il modo in cui la si intende,  ”teoria della traduzione”, che si apre a campi molto più vasti del freddo traduttologia, che tanto mi suona come tuttologia e che relega in una sorta di obitorio livido le competenze e le qualità letterarie che un traduttore deve avere.
Siamo sommersi da studi, saggi, convegni sulla traduzione, ci sono dipartimenti universitari ad essa dedicati eppure, e so di suonare blasfema, di essere una voce fuori dal coro, di scandalizzare gli “esperti” arroccati nella loro accademia, sono convinta che tutto questo a poco serva.
Come a nulla servono le Scuole e i Corsi di scrittura, a parte insegnare delle tecniche. Che però non sono sufficienti per produrre degli scrittori o dei poeti. Di sicuro potranno migliorare lo stile, grammatica e sintassi, la capacità di costruire una frase o un periodo. Di far comprendere meglio a questi allievi profumatamente paganti l’opera di scrittori e poeti (che è quanto fa un buon corso di letteratura, per inciso). Ma non produrranno alcuno scrittore o alcun poeta. A meno che tra di loro non ce ne sia già uno, che comunque, per esere tale, dovrà, come è sempre accaduto, dimenticare TUTTO quello che gli hanno insegnato e scoprire da sè la sua lingua e il suo stile.
Milioni di opere letterarie nei secoli sono nate senza scuole di scrittura. Opere assai migliori di quelle che oggi si producono, a dispetto dei tanti che insegnano e imparano a scrivere.


L’arte non è una catena di montaggio. Non è un prodotto che si confeziona in fabbriche di scrittori. Come ci hanno insegnato gli americani e come abbiamo imparato a scimmiottare noi.  Se i loro “prodotti” ben confezionati vendono come hamburger, perché non adottare le loro formulette? Certo, qui si parla di quei fabbricanti di best sellers  a cui tanti autori de noantri guardano con invidia e soffocato rancore e non di gente come Foster Wallace, Franzen, Palahinuk, ma anche il tanto bistrattato (dai critici) e adorato da milioni di lettori adoranti, ora riconosciuto come un o dei maggiori e più originali scrittori americani, che è Stephen King. Questa recentissima consacrazione infatti è stata immediatamente registrata anche da noi, affidando la traduzione dell’ultimo suo geniale romanzo, 22/11/63, a Wu Ming1.


Uno scrittore però  si forma, con immensa fatica, a parte rarissime e felici eccezioni, su Maestri, che sono gli altri scrittori. E sulla propria capacità di vivere la vita in ogni istante e senza risparmio.
Ma scrittori si nasce (e poi si diventa), così come artisti si nasce (e poi si diventa).


Preciso meglio: una scuola di traduzione forse serve moltissimo a chi affronta un testo scientifico, tecnico, ma non certo a chi affronti un testo letterario.
Ho osato dire una volta, ad un Convegno di traduttori (italiano) che per tradurre letteratura si dev’essere uno scrittore e per tradurre poesia un poeta… apriti cielo! Tutti i traduttori e le traduttrici presenti (tutti noti) mi si sono scagliati contro scandalizzati. Ma come!? Per tradurre un testo letterario è necessario conoscere la teoria della traduzione, seguire corsi (per inciso, al convegno erano presenti molti giovani allievi dei corsi tenuti da questi noti traduttori) fare pratica presso case editrici ecc. ecc. e basta fare esperienza. Ma quale scrittore, ma quale poeta! …Già, altrimenti la quasi totalità dei presenti sarebbe risultata obsoleta. Si sono sentiti minacciati. Bisognava zittirmi.


Ebbene, nella mia esperienza ormai quasi trentennale (ho iniziato nel 1981) di traduttrice di svariate decine di testi letterari e di saggistica, ho sperimentato che un buon traduttore letterario tanto giovane non può essere, perché la capacità di tradurre un testo simile è l’insieme di doti letterarie (o poetiche), che sono innate ma vanno incessantemente affinate, pratica e pratica e pratica e ancora pratica, vasta cultura generale, profonda conoscenza di campi specifici (che sono quelli in cui sarebbe consigliabile muoversi nel tradurre) conoscenza APPROFONDITA dell’epoca, del mondo, della cultura e dell’autore dell’opera. E infine, ancora pratica. Esattamente le qualità che servono a uno scrittore.
Questo è il bagaglio scientifico necessario a un buon traduttore letterario.
Tradurre è inanzitutto conoscenza.
E non la si accumula se non in anni di studio e di pratica. Questo è il motivo per cui un esperto traduttore letterario, che spesso tra l’altro, ha anche il naso più degli editori stessi, per autori interessanti da proporre, va pagato e va pagato bene. Perché la competenza si paga.


Moltissime case editrici si avvalgono di giovani traduttori con poca conoscenza e poca esperienza, perché li sottopagano e poi si trovano traduzioni pietose, irte di errori e prive di qualunque valore letterario.
Io stessa mi sono trovata due volte e solo per particolarissime circostanze (ma mai più) a dover rifare daccapo delle simili traduzioni e mi sono chiesta con che coraggio questi signori avevano consegnato all’editore degli obbrobri simili, dato che non conoscevano nemmeno la materia che stavano traducendo, per non parlare della lingua originale, con gli svarioni di interpretazione immaginabili. Ma ci sono editori che prefersicono pagare poco piuttosto che pubblicare opere dignitose.


Non parliamo poi di certi dilettanti che accettano di essere sottopagati o addirittura non pagati, pur di vedere il proprio nome all’interno di un libro. Questa gente contribuisce a svilire la professionalità dei traduttori letterari. Perché, ormai è assodato, ben pochi sono gli editori che prestano attenzione al valore letterario di una traduzione.
Dunque, un buon traduttore letterario deve avere delle competenze vastissime, a volte persino maggiori dell’autore, (mi è capitato di dover correggere macroscopici errori di un autore, ovviamente vivente, di tipo storico e informativo, dunque di fare anche un lavoro di editing e parlo di un testo già pubblicato in lingua originale, che di conseguenza nelle edizioni successive è stato modificato in tal senso) e non può limitarsi a esercitare le sue capacità esclusivamente come traduttore, ma deve anche essere autore. Solo così infatti, si rende conto di cosa significhi costruire un testo letterario e dunque comprendere le difficoltà e le sottigliezze tecniche che richiede la struttura, l’architettura, di un’opera letteraria. Solo così può proporre un testo che sia letteratura anche nella propria lingua e non una semplice traduzione meccanica. Che comunque, in questo senso, non sarebbe una traduzione.


E’ cosa simpatica tenere seminari sulla tecnica della traduzione (ne ho fatti anche io, ma a mio modo), laboratori di traduzione, incontri sulla traduzione dei proverbi e sui modi di dire, convegni sulla filosofia e sulle tecniche e sulle teorie della traduzione e via dicendo. Ma tutto questo, i discorsi astratti, non servono poi quando ti trovi da solo col tuo autore e devi dargli una voce nella tua lingua.


Anzi, proprio coloro che più si danno da fare in questo senso sono poi i traduttori più mediocri.
Perché è questo che fa un traduttore letterario: dà una voce all’autore.
Il traduttore letterario è come un attore, come l’interprete di un testo musicale. La naturalezza è ciò che chiediamo a un attore, no? Un attore se vero e tale è, non deve “recitare”. Ma deve recitare facendoti dimenticare che sta recitando.
E tradurre un testo letterario significa far sì che non ci si possa render conto che di una traduzione si tratta.
Chi ti può insegnare a riprodurre un’atmosfera, uno stile, una sonorità? Ma del resto, mediocri traduttori vanno bene per mediocri opere di narrativa.
In Italia si traduce tutto e molto di questo è mediocre. E allora, non importa se anche il traduttore non svetta. Anche questa è una forma di armonia.
Se poi l’autore è morto e non può aiutarti a risolvere i dubbi sul senso o la sfumatura che può avere una frase o una parola, se non può difendersi dai tuoi errori di interpretazione, allora ti può venire in aiuto solo la tua conoscenza, a volte devi fare un lavoro filologico, ti viene in aiuto l’intuizione, ti viene in aiuto la voce dell’autore come ha parlato nel resto delle sue opere che tu non stai traducendo, ma che devi conoscere.
A quel punto non ci sarà “traduttologia” che tenga. Ci sei tu e c’è l’autore e c’è questo dialogo intimo e profondo che ci lega. Devi lasciare che ti parli. Devi ascoltare quella lingua che non è fatta di parole in nessuna lingua. Solo così puoi filtrarla nella tua.
Ed è per questo che uno dei punti essenziali del tradurre letteratura è il massimo rispetto per il testo.
Non lo puoi “riscrivere”. Non puoi mettere ai personaggi di Shakesperare le divise naziste… certo, lo si fa, ma…. grazie a dio ci sono autori che sopportano qualunque obbrobrio, anche se ne escono acciaccati e pieni di lividi.


Molto s’è detto anche sul fatto che le traduzioni invecchiano.
Io dico di no. Una bella traduzione non invecchia affatto. Come non invecchia la lingua di un grande scrittore, non invecchia affatto la lingua di un grande traduttore. Se poi parliamo di una traduzione così così….beh, certo, quella invecchia, perché non era letteratura nemmeno all’inizio.
La traduzione che Foscolo ha fatto del “Viaggio sentimentale” di Sterne, non è invecchiata, ma è limpida e smaltata come allora.
Un traduttore deve “sentire” lo stile del suo autore e cercare di ricrearlo nella sua traduzione.
Dunque deve sapere cos’è lo stile, cos’è la forma letteraria. Come traduci letteratura altrimenti? La puoi solo appiattire e falsare.
Non è poi il caso di dire che si debba conoscere a perfezione sia la lingua (e la cultura) d’origine che la propria. Altrimenti si finsice per produrre delle frittatone illeggibili come quellla traduzione, zeppa d’errori e pesantissima, in cui la lingua meravigliosa e aerea del grande autore americano è morta e sepolta, perché la tanto osannata traduttrice era in realtà una mediocrissima traduttrice, che è quello che tutti pensano ma non osano dire.


E tradurre poesia?
Questo, in una prossima nota.



(C) 2012 Francesca Diano RIPRODUZIONE RISERVATA


 

 

Luca Lenzini, A margine delle Lezioni sulla traduzione di Fortini*


Quanto osserverò sul libro curato da Maria Vittoria Tirinato è destinato a deludere tanto gli studiosi di Fortini, quanto quelli che si occupano di traduzione. Per intervenire da critico (o almeno da lettore spassionato), sono troppo prossimo a questa pagine, che dal loro embrione originario nell’archivio ho seguito in tutto l’iter di pubblicazione, dalle carte A4 un po’ gualcite, a stampa, redatte nel Macintosh di Fortini – quello acquistato dopo aver vinto il premio Montale-Guggenheim, nel 1985 – e variamente annotate, sino alla confezione ultima, che in futuro potrebbe avere un seguito o accompagnamento su Internet. Come potrei dire qualcosa non dico di “scientifico” ma di soltanto neutrale, rispetto ad un libro confezionato con la mia complicità? Del resto, non sono un filologo – su questi aspetti mi fido completamente del giudizio di Stefano Carrai, Giuseppe Nava e Pier Vincenzo Mengaldo, che hanno seguito l’edizione –, e quel che avevo da osservare l’ho scritto nella Premessa, a cui rinvio.
La mancanza di distanza è, dunque, una prima ragione dell’incompletezza e approssimazione dei miei appunti; ma ce n’è un’altra, concomitante, che riguarda l’argomento stesso del libro, ed il suo taglio critico-saggistico. Infatti sul finire degli anni ’70, quando Fortini mi assegnò la tesi nell’ambito della cattedra di Storia della critica letteraria, l’argomento – che condividevo con altri laureandi - era per l’appunto la traduzione di poesia (precisamente, nel mio caso, le traduzioni italiane da T.S.Eliot.) Al riguardo vorrei dire che, nonostante in quegli anni vi fosse ancora un acceso dibattito sulla teoria (letteraria e non solo) e sul metodo, e anzi sullo status e sui fondamenti della letteratura e della critica, io come gli altri laureandi nell’affrontare il tema della traduzione ci basammo su un approccio molto empirico, che di fatto derivava dallo stesso Fortini e consisteva nel raffronto – metrico, lessicale, stilistico – dei vari testi fra loro: fra le diverse versioni, e non, come infatti sostenuto anche nel corso delle Lezioni, con gli originali. Le tesi erano in primo luogo concepite come capitoli di una storia della ricezione degli autori prescelti; e debbo aggiungere che, allora, non erano poi molti i riferimenti teorici: leggemmo Mounin, Terracini e poco altro (il solito Croce), testi che fornivano al più uno sfondo teorico ma non quello che cercavamo, ovvero strumenti concreti con cui avvicinare i testi e collocarli entro una cornice storica. C’era bensì, dal 1975,After Babel di George Steiner: con la sua torre di Brueghel in copertina, nell’edizione Oxford University Press, quel saggio poteva in effetti costituire una bussola, ma era tuttavia fin troppo denso e fitto di riferimenti, delle più diverse lingue ed epoche e tanto aperto a culture lontane, quanto impegnativo sul piano filosofico: insomma, un tour de force vertiginoso, tale da lasciare senza fiato un povero laureando di provincia, come il sottoscritto.
Nella Bibliografia “selettiva” di Steiner le voci partivano dal 1813 (Schleiermacher) e l’ultimo paragrafo (1973) contava cinque voci, delle quali due francesi, Henri Menschonnic e Jacqueline Risset: in Francia, infatti, nell’area di «Tel quel», «Poétique» e dintorni, la situazione era diversa che da noi, per la più vivace riflessione di ambito linguistico e semiotico, nel quale le lezioni di Jakobson e di Barthes (e prima Benveniste) erano produttive di sviluppi anche sul versante della traduzione. Ma tornando a noi, a farla breve, le pagine critiche e teoriche che più ci aiutarono furono quelle che compongono la quarta sezione dei Saggi italiani (1974) di Fortini medesimo: pagine scritte tra il 1957 ed il 1973, che vanno sotto il titolo complessivo Sulla metrica e sulla traduzione e comprendono Traduzione e rifacimento, Cinque paragrafi sul tradurre, ma anche altri densissimi saggi strettamente legati al tema, come Metrica e libertà e Verso libero e metrica nuova. Accanto a queste aperture, non per caso ma seguendo la pista dei poeti-traduttori come lo stesso Fortini, scoprimmo per strada che quelli che più avevano la capacità di suggerirci spunti utili sul tradurre, erano appunto loro, i poeti e in genere gli scrittori, più dei critici: Raboni, per esempio, ma anche Montale, Solmi, Giudici, Bertolucci, Sereni, Valeri, Caproni – autori che affrontavano il tema con molta modestia, per così dire obliquamente, perlopiù in scritti dispersi o marginali, affidati ad appendici, prefazioni o noterelle sparse nei loro lavori.
Alcune veloci annotazioni, su quanto appena detto. Le Lezioni napoletane di Fortini sono dell’89, di un decennio prima, all’ingrosso, i seminari ed i corsi universitari, di trent’anni i primi saggi organici sul tradurre. Giustamente, poi, Maria Vittoria ricorda nel saggio introduttivo alle Lezioni che «Fortini si era occupato di traduzione letteraria già dalla fine degli anni Quaranta» (p. 13) e che un’importanza cruciale, poco dopo (1955), ha la prefazione alle poesie di Rilke tradotte da Giaime Pintor. Altrettanto rilevante, a mio avviso, è l’osservazione che tutte «le maggiori traduzioni poetiche fortiniane – da Eluard, Brecht, Goethe, Milton – sono introdotte da saggi che rendono conto della riflessione sempre accompagnata dall’autore alla prassi traduttoria»: ebbene, è fondamentale, per capire lo spessore delle Lezioni, questa inscindibilità della riflessione e della teoria, esplicitamente proposte in chiave “sperimentale”, dal concreto lavoro del traduttore. Sono pagine che, esattamente come i corsi ed i seminari universitari di Fortini, hanno un loro carattere specifico nell’essere intrise, starei per dire inzuppate nell’esperienza. Ed allora, si può anche aggiungere – in chiave generalissima – che, prima ancora del periodo ora chiamato in causa, sono due i momenti ed i luoghi che, in modo diverso, influiscono sull’interesse e l’atteggiamento di Fortini nei confronti della traduzione letteraria.
Il primo luogo, come ha ricordato Antonio Prete in altra occasione, è la Firenze della prima formazione di Fortini, che era notoriamente popolata di autori che al “genere” della versione d’autore erano molto sensibili: Luzi, Landolfi, Parronchi, Bo, Poggioli, per citarne solo alcuni. Ma è anche vero che, alla lunga, l’esempio più influente, per Fortini, fu quello del suo anomalo maestro Giacomo Noventa: esempio incompatibile (anche per i riferimenti intellettuali, letterari e linguistici) con la poetica in voga tra Ermetici e dintorni, ma, allo stesso tempo, esempio in grado di aprire percorsi di lunga durata, che contemplano Machado e Goethe.
L’altro momento, milanese, è quello del «Politecnico». Il ruolo cruciale di questa palestra, che dire solo “rivista” è limitativo, in cui si forma il Fortini che conosciamo, non va trascurato anche per quanto riguarda la traduzione; la rivista, infatti, è composta in buona parte di traduzioni, a tutto campo (autori americani, russi, cinesi, tedeschi…). Basta rileggere, da una parte, Dieci inverni (’57 e ’74), dall’altra la premessa all’edizione del 1967 a Foglio di via per capire l’importanza, e insieme l’ampiezza dell’orizzonte culturale, dell’esperienza del «Politecnico»: a cominciare da quei «fratelli maggiori» i cui nomi Fortini elenca nel ’67 (Prefazione a Foglio, p.9): Joszef, Machado, Brecht, Hernandez, Auden…. Si tratta – con gli equivoci e le ingenuità forse inevitabili del tempo – di un passaggio di rottura nei confronti del Novecento già canonizzato a quell’altezza, ma che per Fortini non manca di aspetti in linea di continuità con quanto gli era capitato di percepire e assorbire nella Svizzera del periodo della guerra (le avanguardie, i russi tacitati o sequestrati dal regime stalinista). La traduzione riceve, in questo passaggio, un’attenzione nuova: è contemporaneamente strumento dell’apertura dell’immediato dopoguerra – di un momento, cioè, in cui erano date ipotesi e possibilità politiche e culturali poi tramontate o rimosse – e campo di sperimentazione, in cui s’intersecano il livello ideologico e quello stilistico. Appaiono nella pagine del «Politecnico» nel ’45-46, per esempio, non solo Eluard, Aragon, Frenaud, ma anche Hölderlin, e quella Via dello Yenan, traduzione “apocrifa” o immaginaria dal cinese, che è un caso singolarissimo e sintomatico di un “genere” prossimo all’imitazione (già praticato in Foglio di via) ma, in quanto riferito a testo inesistente, per meglio dire virtuale, «possibile» dice Fortini. In effetti proprio alla «traduzione immaginaria», a quasi mezzo secolo di distanza da quell’esordio, è dedicato un intero capitolo delle Lezioni, che costituisce uno dei passaggi più stimolanti e originali del libro.
Un altro breve appunto riguarda i “poeti-traduttori”, alla cui lezione mi sono prima richiamato. Al 1982, sette anni prima delle Lezioni, risale Il ladro di ciliegie, il libro che raccoglie una scelta di versioni fortiniane la cui lettura, mi pare, dovrebbe accompagnare quella del libro “teorico” e postumo. Il titolo è un segnale di fedeltà a Brecht, ed in particolare al Brecht dell’esilio di Svendborg. Quanto al genere “quaderno di versioni”, occorre dire che se certo non è stato Fortini a inventarlo, è lui però che ha suggerito a più riprese a Einaudi di pubblicarne esemplari dei poeti più significativi (Sereni, Luzi, Giudici, Bertolucci), in qualche modo canonizzando il genere in sede editoriale, facendone oggetto di una serie che poi, a distanza, ha preso varie forme e trovato sedi diverse. Lui stesso, con il Kafka del 1986, si era poi esplicitamente collocato in questa dimensione d’autore, riflessa e nell’ordine del rifacimento.
Concludo con alcune domande. In coda alla Bibliografia di After Babel, Steiner consigliava lo studente di tener d’occhio alcuni periodici di letteratura comparata ed alcune riviste specificamente dedicate alla traduzione, avvertendo che questo genere di pubblicazioni stava – 1975 – aumentando rapidamente. Nel 1989 Fortini accennava en passant all’«ormai sterminata letteratura critica sulla traduzione letteraria» (p. 68). A che punto siamo, oggi?
Lascio ad altri la risposta. Non sono aggiornato, ma sicuramente il numero delle pubblicazioni sul tema, da quanto posso vedere, oggi è ancor più ampio, non più dominabile, rispetto a un quindicennio fa: né c’è da stupirsi, se la logica dello specialismo ha invaso ormai ogni campo del sapere. Non sottovaluto, voglio precisare, l’apporto dei contributi specialistici, siano essi di ordine linguistico o di altro genere; noto, però, che all’origine del libro di cui parliamo stasera c’è qualcosa di diverso, un movente di altro ordine. Né da parte del Centro Fortini, né da parte dell’editore, c’è stata, all’origine, una intenzione filologica e neanche la semplice volontà di recuperare testi di un autore novecentesco confinati in un archivio. L’attenzione filologica è subentrata in un secondo momento, necessariamente; ma la spinta iniziale è venuta dall’interesse dell’editore, richiamato sì dal lavoro di Maria Vittoria, ma sorto autonomamente, dal desiderio di offrire non solo agli studiosi ma ai traduttori uno strumento utile ad arricchire la loro competenza, a servire il “mestiere”. Di questa convergenza di interessi e di finalità sono particolarmente felice, personalmente; del resto, già a inizio di Millennio la rivista del Centro Fortini aveva dedicato un corposo fascicolo al tema della traduzione, con analogo intento. Non è un manuale per tutti, questo; può essere, tuttavia, un esempio.
Credo infatti che, al di là della ricchezza delle singole annotazioni, è importante, oggi, ripensare all’orizzonte, alla dimensione in cui, quanto al tradurre, si è mosso il pensiero di Fortini, e così la sua concreta azione nell’ambito letterario, saggistico e poetico. È una dimensione in cui contano le scelte (i sì, ma non meno i no), da una parte, dall’altra la consapevolezza del contesto storico-sociale, dei condizionamenti dell’industria culturale, delle mode non solo letterarie. L’ultima domanda, allora, è quella che si è posta Davide Dalmas, recensendo su «Alfabeta2» le Lezioni. Ha osservato Dalmas: «Difficile […], è porsi in una posizione tale da rispondere davvero alle domande più estreme dei libro. Cosa significa oggi pensare che “il grado di rapporto della traduzione con il sistema della o delle istituzioni letterarie dovrà essere visto come rapporto rivelatore, come indice privilegiato della qualità di relazioni, in un tempo e in una società data, fra le ideologie e le culture in conflitto”? Dice ancora Dalmas: «Di certo non si può dare una risposta individuale.»
Sono convinto che abbia ragione: la risposta non può essere solo individuale. Ricostruire quel rapporto, indagarne i nessi e le contraddizioni, significa aprire un dossier enorme, che nessuno ha voglia di sfiorare. Si tratta di una impresa, di una scommessa, che non riguarda solo i poeti, o i critici letterari. A ripensarci, forse quando trent’anni fa Fortini assegnava tesi in serie sulla traduzione, e formava gruppi di lavoro sui vari aspetti del tema, aveva in mente un lavoro di questo genere, di tipo collettivo. È rimasto in abbozzo, un tentativo. Non eravamo, forse, all’altezza. Ma cosa sono oggi le «istituzioni letterarie», e quali le culture «in conflitto»? E ancora, quali i soggetti di un agire e pensare collettivo? È difficile rispondere, certo; oggi come allora. Ma chi evita o rimuove queste domande, non è un intellettuale degno di questo nome, e probabilmente anche un pessimo traduttore.

Luca Lenzini

*Intervento all’Università per stranieri di Siena, 17 gennaio 2012 all’incontro per la presentazione di F.Fortini, Lezioni sulla traduzione, a cura di M.V. Tirinato, Macerata, Quodlibet, 2011; partecipanti Pietro Cataldi, Tiziana De Rogatis, Maria Vittoria Tirinato.


  


 

105 commenti:

Anonimo ha detto...

Mi piacerebbe leggere una poesia di T.S.Eliot con traduzione. Poi vorrei sentire i pareri di Marcella Corsi e Erminia Passananti sul post di Ennio, Sentiamo un po' io ho solo da imparare anche se il Post ha già detto molto. Emy

ha detto...

faccio prima e spreco meno spazio a dare il link pubblicato su mio blog: http://erodiade.blogspot.com/2012/02/recensione.html

Francesca Diano ha detto...

Cara Erminia, ho letto il link e ho commentato. Comunque, udire il nome di questo editore mi provoca sempre una brutta reazione allergica, vista l'esperienza che ne ho avuto.

ha detto...

Ciao Francesca, grazie della lettura, ma non vedo il tuo commento sotto il post. Ce l'hai ? lo Puoi rimandare? Io non posso pensare che pur di spacciare qualcosa come "inedito" si pecchi rispetto ai codici di correttezza della ricerca filologica. Se non riusciamo a vedere il commento, potresti mandarlo a erminia.passannanti@gmail.com please? lo inserisco a mano.

Francesca Diano ha detto...

Ciao Erminia. Ho inserito il commento direttamente sotto il post che hai linkato e mi si diceva che sarebbe stato visibile dopo l'approvazione, per cui penso sarà tra i commenti da approvare. Al tuo indirizzo email invece ti spiegherò cosa hanno fatto e capirai.

Francesca Diano ha detto...

Ho letto bellissime le traduzioni dalla Mansfield di Marcella Corsi e condivido totalmente tutte le sue posizioni rispetto a cosa si intende per traduzione

Unknown ha detto...

Esprimo a parole semplici, in parte decisamente volute, perchè mi è piaciuto molto leggere questo post.
Vi ho trovato due parole chiave a qualsiasi scrittura ,alfabeto, di una grammatica sensibile in quanto ampiamente "deontologica", a volte presente altre meno all' "interprete" , dal più elementare medium che ognuno è all'interno della stessa lingua madre, a quello piu complesso in cui occorre condurre,incamminare, far entrare, in un altro mondo parlante,musicante, poetante.

Occorre infatti quella "vicinanza" cosi appassionatamente metascientifica (ergo la tecnica, o la tecnica commerciale non è sufficiente) e sostenuta nel primo saggio appunto da F Diano, unita a quella "distanza" del secondo saggio, in cui la propria voce non basta per dare voce ad un altro, tanto piu se di due lingue-mondi-culture, madre padre , diverse.

Tanto come per avvicinarsi e farsi medium, occorre una sensibilità allenata con tanta fatica ,cultura, volontà, affetto, così corrisponde a questo movimento la giusta distanza da se stessi,vuoi in caso di complicità attrazioni fortissime con l'"entità" da riportare a lingua viva ,da un suono all'altro, tanto più se invece fossimo di fronte al contrario.Mi spiego...non conosco l'ambiente "professionale" ma immagino sia colpito dai fenomeni dei volumi /vendite /commerciali, tali da non consentire più che il traduttore possa scegliersi i suoi autori.. l'esempio sempre efficace che ha usato Diano nel parallelo teatrale, sta a dire come il traduttificio possa assegnare per questioni "tempi/metodi" fino al cottimo, a chi per prima/o possa garantire traduzioni velocissime, spaziando dai testi farmaceutici a quelli poetici, per semplici ragioni di marketing che impongono non tanto la risposta poetica, ma l'autore che nei consumi di moda, di morte, o di nobel, catturi il consumatore, mordi e fuggi.
Ne deriva pertanto ,almeno secondo me e senza togliere nulla alla importanza del secondo saggio di Lenzini, che il primo è quello che coincide meglio, anche per linguaggio immediato di F.Diano, a delineare la prima priorità su cui lavorare..come nel naturale percorso di costruzione vera, unica che può portare ricchezza dal singolo al plurale, e che può essere garantita da quegli strumenti che nel passo successivo vengono chiamati "collettivo"...una pluralità senza corporazioni o albi o caste o crusche che, non scendo nel tecnicistico, sia quella compagnia di poeti ( scrittori in senso ampio) che traducono dalla propria lingua alla propria lingua e a piu lingue.
Ritengo peraltro che in caso di poesia, maggiore sensibilita/deontologia/attenzione debba essere data alle chiavi di cui sopra rispetto alle pagine e pagine di un romanzo (parentesi, mi ha fatto molto piacere il riferimento a King, perchè da tempi non sospetti e modaioli come ora con l'ultimo, lo ritengo uno dei piu grandi romanzieri insieme a Hugo o Dodostoevskij..basta pensare a shining e poi kubrick, ma è solo un esempio)...come diceva Milosz e forse non solo lui:ha piu peso una strofa tornita,di numerose e laborirose pagine...
Concludo con un paradosso sgangherato. Omero è il piu grande poeta della fantascienza grazie al fatto che lo immagino tradotto in tutte le lingue del mondo, come suo fratello Orwell,quando ancora queste , da un estremo all'altro del tempo e dello spazio, non erano ancora state stravolte dal traduttificio.

Francesca Diano ha detto...

Cara Soffitta, è sempre bello scoprire che, nel deserto in cui si è abituati a vivere (deserto affollatissimo peraltro), che si trova ai margini di una megalopoli scintillante di palazzi, dentro i quali - se ci si entra - si trovano solo muri scrostati, scarafaggi e ragnatele, ci sono voci clamanti che rispondono alla tua. E di queste voci ce ne sono in realtà moltissime, solo che si mette loro la sordina. Il bello del web è proprio quello di togliere quella sordina, di popolare il deserto e di lasciare che la megalopoli crolli con i suoi sepolcri imbiancati.
Leggere le tue parole, come quelle di molti che Ennio Abate (che bello averlo incontrato!) ospita, è proprio una bella rinfrescata.
Da una vita mi scontro con editori a cui non interessa pubblicare opere grandissime, bellissime, di autori famosissimi ovunque ma non da noi, e che venderebbero anche bene, perché
a) a proporli non è un loro amico
b) sono a loro sconosciuti (cioè sono ignoranti)
c) mancano di naso
Avevo scritto un post intitolato Traduttificio Italia, proprio per questo, ma anche, sulla cecità di molti (tutti?) editori a questo link, in cui spiego cosa intendo

http://emiliashop.wordpress.com/2011/05/20/politica-editoriale-italiana-fiabe-e-leggende-sono-out/

Tu hai ragione. Un traduttore letterario dovrebbe potersi scegliere i suoi autori. Io ho avuto questa fortuna in tre casi, Thomas Crofton Croker, Sudhir Kakar, Anita Nair, che ho VOLUTO con tutta me stessa e che hanno venduto tutti moltissimo. Come si può leggere dal mio post però, questo non ha importanza per un editore. L'unic criterio di scelta è pagare poco il traduttore e meno lo paghi (dunque meno sa fare il suo mestiere) più sei contento.

L'accenno a King dovevo proprio farlo, perché fin dal primo libro che ho letto, alla fine degli anni 70, mi ha catturata per sempre. Io lo paragono a Dickens - e del resto lui dice che è uno dei suoi maestri - ma giustamente anche a Dostoevskij.

Una piccola nota: non mi metto più in contatto con un qualunque editore per proporre qualcosa, perché in Italia essere propositivi non funziona. Ti prendono per un questuante. Mi piange solo il cuore perché non riesco a pubblicare questo grandissimo poeta irlandese vivente, per me maggiore anche di Seamous Heaney (pessimamente tradotto in italiano per le ragioni di cui sopra. Ma pazienza, come per Croker, aspetterò....

Anonimo ha detto...

Francesca, Erminia, Marcella che bella vita la vostra . Scegliere di essere traduttori dei grandi! Magnifico vorrei dire che vi invidio ma mi limito a leggere ciò che mandate e mi sento un po' nel vostro mondo in cui cuori e teste si incontrano, si parlano ,cercano di capirsi e traducono anche i sentimenti, magari rinunciando ai propri per essere fedele ai doni che ognuno fa all'altro. Il fascino di tutto ciò è fantastico direi magico e a me le magie piacciono molto.
Sicuramente sarà anche molto faticoso ma tanto anche appagante.

Tradurre.

Ti parlo come vorrei parlarti
lo faccio e ruota nella testa
il tuo pianto, la tua volontà
ma se il cuore non s'offendesse
farei di te un padre, un fratello
una madre, una sorella
il mio amante.
Il mio cruccio sarà solo mio
non voglio darti più
di ciò che tu vuoi darmi
aiutami a capirti.

Emy

Francesca Diano ha detto...

Cara Emy, io non so per le altre, ma per me diventare traduttrice è stato un caso - se mai caso esiste. Ho iniziato a farmi le ossa quando a 16 anni mio padre mi diede un piccolo preziosissimo libro nella sua traduzione francese, Il libro del Tè di Kakuzo Okakura, e mi disse: traduci! Io il francese lo mastico molto male, non l'ho mai veramente studiato e gli dissi che era impossibile. Mi rispose che niente è impossibile se lo vogliamo col cuore. Così mi ci misi e la cosa strana era che...capivo.
Poi ho davvero iniziato nel modo più duro che si potesse immaginare, quando ho tradotto dal tedesco, lingua che invece ho studiata, uno dei testi più difficili che ci si possa trovare in mano, un testo di un grandissimo critico d'arte viennese dei primi del 900. Iniziai la traduzione per la mia tesi su quel libro e la seguitai anche dopo. Ci misi due anni. Questo perché nel frattempo facevo altre cose e perché il tedesco di questo autore è il più difficile e specialistico che ci sia. In seguito ho tradotto un libro meraviglioso, quello che ha cambiato la mia vita. Un libro antico di leggende irlandesi. All'inizio lo tradussi per i miei bambini, solo in seguito cercai un editore. Da quel libro è iniziata una collaborazione costante anche come consulente editoriale con un grande editore, per il quale costruii gli inizi di una collana di autori indiani, molti dei quali ho tradotto, tra cui Anita Nair che allora era giovane e sconosciuta. Ma nel numero dei molti autori tradotti, solo i tre che ho citato sono grandi autori, gli altri, non solo indiani, erano autori appunto di quelli da cassetta. Come valore letterario nullo.
In realtà ora mi dedico di più alla mia scrittura e al momento seguo comunque Anita Nair, di cui seguito a tradurre le opere.
Ho sempre considerato la traduzione un compito importante che unisce epoche, culture e popoli e in questo sono molto, ma molto lontana da tutte le querelles che ammorbano l'attuale panorama di molti dei traduttori italiani e delle loro cammarille.
Ho visto veri e propri orrori di incapaci a cui vengono affidate traduzioni di grandi autori, poeti e scrittori, che massacrano e distruggono.
Ho deciso di tradurre perciò me stessa o di scrivere direttamente in inglese, che nelle poesie mi viene molto naturale.

Anonimo ha detto...

Cara Francesca, la mia meraviglia continua e mi rende ancora più desiderosa di conoscerti. Mandaci una tua poesia in inglese e se non chiedo troppo con la traduzione. Grazie per aver voluto raccontarti in maniera così chiara e disponibile. Che bello! Ciao Emy

Unknown ha detto...

cara Francesca,
molto molto intenso per me(la prima volta che mi capita via web) il clima, aromi, bosco, che traduci/emani dal tuo scrivere. E' da quel Labirinto che ti ascolto come nel bosco, solo che in questo post, forse grazie anche al passaggio che hai dato nell'altro sul sacro, più alcune letture che sto facendo sul tuo corallo, "dovevo" salutare questa bella barbagianni che sei , splendida davvero.. è per via della dimensione mito, favola,da mille e una notte e non solo.
Rappresenti la congiunzione possibile luce/ombra, che è gia tradurre l'una all'altra e ritorno. Devo sicuramente leggerti nella Strega Bianca, perchè sei anima e sei politica, alchimia magica.Emani la secolarita,il suo immobile fiume, traducendone il suo movimento.

ti/vu lascio con una cosa che ho riletto ultimamente e che rimane in tema, è così tuttora , ma non solo per il traduttificio come hai descritto tu, in genereale di clientelopoli-familiopoli italia. E credo che Bianciardi non fosse proprio il padre di Brunetta (vedi ad esempio lo scandalo della sua traduzione dei tropici di miller ei guai che gli fecero passare)

un abbraccio e a presto


"Branciardi viene licenziato dalla Feltrinelli 'per scarso rendimento': "mi licenziarono soltanto per via di questo fatto che strascico i piedi, mi muovo piano, mi guardo intorno anche quando non è indispensabile."
Feltrinelli gli garantisce però che continuerà ad affidargli lavori di traduzione, e in fondo per Bianciardi è una liberazione:niente orari da rispettare, e soprattutto niente ipocrisie inutili.
" la verità è che le case editrici ( ndr non solo quelle) sono piene di fannulloni frenetici:gente che non combina una madonna dalla mattina alla sera, e riesce, non so come, a dare l'impressione, fallace, di star lavorando. Si prendono persino l'esaurimento nervoso!"
1957-1959, dalla prefazione della Vita Agra,Luciano Bianciardi

Anonimo ha detto...

Cara Emy,
credo che tu abbia ragione: l'alchimia della traduzione letteraria consiste proprio nella faticosa ma esaltante relazione con l'autore del testo, nel tentativo di capire quello che intende dire e portarlo per mano nella tua lingua. Di tuo cerchi di aggiungere solo quello che basta a rendere le sue parole al meglio comprensibili e godibili per il lettore. E davvero certe volte ti sorprendi a chiedergli di aiutarti a capirlo.
Io però non sono un traduttore di professione. Il mio con i "Poems" di Katherine Mansfield è stato un incontro, casuale sebbene di grande intensità, determinato dalla fascinazione che su di me, poeta, hanno provocato alcune delle sue poesie, lette aprendo a caso da Feltrinelli un libretto edito anni prima da Einaudi. Una 'simpatia' nel senso etimologico del termine, giacchè ho sentito allora quei versi risuonare in me profondamente. E sono partita alla scoperta di lei e della sua poesia. L'avventura è durata parecchi anni e mi ha preso molto, anche troppo forse. Ma forse ha dato i suoi frutti in termini di resa dei suoi versi (naturalmente mi fa piacere che Francesca abbia apprezzato). Nel volume è incluso un mio commento alla traduzione, di cui, se volete, posso mandare il file a Ennio, per inserirlo come link in questo blog. E' forse un pò lungo ma se a qualcuno interessa...
Oggi certo è ancora più importante riuscire a tradurre in modo adeguato. E credo che le competenze del traduttore di professione debbano includere, e includano, in modo abbastanza ampio conoscenza della cultura di cui fa parte la lingua da cui si traduce. Un buon traduttore è in fondo anche un pò antropologo culturale...
un caro saluto a tutti
Marcella

Anonimo ha detto...

Grazie anche a te Marcella anche per aver preso in considerazioni i miei versi. Attendiamo il tuo link. Emy

Larry Massino ha detto...

Penso che finché esisterà l'editoria come fatto industriale, ci sarà poco da fare: si pubblicherà per fare soldi, fregandosene abbastanza dei valori dell'arte (figuriamoci dell'arte della traduzione). Salvo gli editori che occupano il segmento qualitativo della filiera industriale, che pare abbiano clienti un tantino più esigenti. Ecco, bisognerebbe che questa avanguardia commerciale, i clienti esigenti, si organizzassero e lo diventassero sempre di più, crescessero in esigenza a un tasso almeno del 3% all'anno, per avere in cambio valore aggiunto in termini di soggettività. In parole trite, bisognerebbe che questa fascia di clienti (in genere appartenente a fasce sociali medio alte, non nascondiamocelo, anche in termini di reddito e ricchezza) si facessi disposta a spendere di più, molto in più... Che andasse dai pezzenti di editori a dirglielo...

In termini iconografici, tutti noi sappiamo che un qualunque scenografo del cinema metterà nella libreria dell'architetto in crisi esistenziale, di cui narra il film autoriale per cui sta lavorando, i libri Adelphi. Bisognerebbe che i clienti esigenti esigessero una sorta di collana Super Adelphi, rilegata coi fili d'oro o che (ma anche coi fili coi quali si chiudono i sacchi della spazzatura, tanto ci sarà sempre un critico disposto a scrivere centinaia di pagine sul sublime gesto di arte povera...), i cui volumi costassero migliaia, decine, centinaia di migliaia di euro (in fondo sono stati pagati così orologi di plastica di serie particolare, perché no i libri?). Se no rimane tutto com'è, affidato al caso, e a qualche rara iniziativa degli editori più importanti, che affideranno le traduzioni a scrittori e poeti invece che a guide turistiche abbisognanti di far quadrare il bilancio familiare.

Boh. In fondo volevo dire soltanto che finché i traduttori verranno pagati poco, ci sarà da aspettarsi poco. Spero di averlo detto in maniera più simpatica, non approfittando della vostra preziosa attenzione.

Ciao, Ennio: potevo fa' meglio, ma so che sei comprensivo e capace di accontentarti anche dei miei strampalati contributi...

giorgio linguaglossa ha detto...

È molto semplice: si possono frequentare mille scuole di traduzioni e poi fare una traduzione mediocre, e non è vero neanche che solo i poeti possono tradurre poesia; o meglio, per tradurre poesia occorre avere NELL'ORECCHIO LA LINGUA, se il traduttore non ha orecchio (ovvero, è stonato) è inutile che perda tempo a tradurre, farà sempre traduzioni mediocri.
E poi l'industria culturale ha bisogno di traduzioni piatte, ciclostilate, in una lingua unidimensionale dimensionata alla statura dei pigmei che deve addomesticare. Non c'è da farsi illusioni per il futuro. Dal presente ci salvi Iddio e dal futuro si salvi chi può...

Francesca Diano ha detto...

Inizio dalla fine (un modo che a me piace sempre)
@Giorgio Linguaglossa
Pienamente d'accordo sulle scuole di traduzione e comunque sulle teorie della traduzione in genere, se non come interessantissima lettura. Arte è fare. Le teorie vengono a posteriori, come le grammatiche. Per quanto mi riguarda, mi considero un'operaia o un'artigiana della traduzione, proprio nel senso che ho iniziato con un lungo apprendistato e con la fortuna di aver imparato direttamente da un grande maestro.
In quanto all'orecchio, sono pienamente d'accordo. Dato che la poesia, anche quella senza apparenti regole metriche, è musica, se il traduttore non ha un orecchio musicale, né percepirà quella musica nell'originale, né sarà in grado di ricrearne una nella propria lingua. Ma è per questo motivo che dico che si deve essere poeti, cioè si deve essere in grado di trasporre in una forma poetica un teso poetico. E se uno non è poeta, se non conosce per natura e per frequentazione pratica la tecnica, come fa? Lo so purtroppo anche io che in Italia non c'è speranza.

@Larry Massino
L'Italia credo sia uno dei o il paese dove si traducono più libri stranieri e i motivi sono molti. Non certo perché da noi si pubblichino pochi autori. Ma salta agli occhi il fatto che quando si va in una libreria in Francia, in Inghilterra o negli USA, il reparto dei libri stranieri in traduzione è davvero esiguo rispetto al numero di quelli in inglese e francese. Quello che si pubblica in inglese poi ha un mercato immenso, dall'UK agli USA dall'India all'Australia e a molti altri paesi orientali, dove l'inglese è lingua franca. Si parla di un bacino di moltissime centinaia di milioni di possibili lettori. Dunque, anche se ovunque l'editoria tira meno, lì gli editori hanno meno problemi dei nostri, per non dire che la distribuzione non è così esosa e quindi ciò che viene tradotto è in genere ciò che si ritiene abbia qualche valore e chi traduce tende ad essere specializzato, gode di maggiore rispetto e viene pagato meglio. Da noi si traduce tutto e l'enorme diffusione dell'inglese, oltre alla sua apparente facilità, dà l'idea errata che basti conoscerlo un po'. Con le conseguenze del caso.

Francesca Diano ha detto...

@Marcella
Sì ho davvero apprezzato quelle tue traduzioni, fatte con competenza e cuore. Come dici tu, senza una conoscenza approfondita della cultura che ha prodotto quel testo,hai voglia a tradurre...
Mi viene in mente una delle due volte che ho accettato di rivedere una traduzione altrui. Si trattava di una scrittrice cinese americana, di quel filone minimalista. Niente di importante, ma raccontini graziosi. Il primo racconto era la narrazione in prima persona di una donna cinese trapiantata negli USA e del suo modo di vedere la vita americana. L'inglese era smozzicato e bizzarro, come di chi non sia riuscito ad adattarsi e anche dopo molti anni non sia padrone della lingua, con "errori" che diventavano giochi di parole molto divertenti. L'incapace traduttore a cui era stato affidato il testo non aveva capito quasi nulla, né lo stile riproduceva l'intento e il sapore dell'originale. Così sono andata in un ristorante cinese e ho parlato più volte con la moglie del proprietario, che pur non anziana, aveva una certa età e parlava italiano male. Mi sono fatta l'orecchio e ho riprodotto nella traduzione quella modalità. Ero pure riuscita a ricreare dei giochi di parole nati da errori. Che fa l'editore? (con cui lavoravo da 7 anni) dice che no, non si può....perché è poco corretto... ma così era nell'originale! I bravi editor hanno appiattito tutto in una lingua banale e il racconto ha perso ogni senso.

@Emy
che dire? grazie perché fa bene al cuore quello che scrivi e rende più leggera la fatica. Dopo questo commento-fiume, posto un commento con una poesia in inglese.

@Soffitta
E anche a te, che dire? La meraviglia è mia nel trovare tanta consonanza e comprensione. E poi, vuoi mettere? Ma "bella barbagianni" non me lo aveva mai detto nessuno! Trovo un bellissimo complimento. E ti ringrazio per la pazienza di leggere sul "corallo". Se vuoi, sulla homepage trovi il link alla mia Strega Bianca e ci puoi leggere una trentina di pagine.

Bianciardi? so, so per esperienza quasi analoga cosa significa. Gufi, civette, barbagianni possono dar fastidio agli avvoltoi.
GRAZIE

Francesca Diano ha detto...

Per Emy
tieni conto che la poesia è nata in inglese poi l'ho tradotta, per questo motivo il testo in italiano è in parte diverso da quello in inglese, perché ho seguito la musicalità che mi dettava l'italiano e poi si sono aggiunte delle immagini. In particolare l'ultima strofa nella versione italiana si è presentata di suo. Come potevo chiuderle la porta?


COBH


Green like dawn among the oaks
green I am - and my throat
thick with moss and heather –
opens to the flush of greenish words.
Green is my smile and leaf-like is my skin
my fingers green grass leaves.
My eyes – a wave - lost in translucent waters
melt into currents and wriggling sands -
travel beyond the bay – flooded with stars –
Flatland –where long rows of preying seagulls
keep time beyond the line of time.
The time that fills me, that fills up the banks
of twin skies – reflecting a blue shyness –
bringing together – interlaced fingers – moon and tide.
Around me dripping of archaic waters
ebullient flashing words.
In their rolling – the clouds – melting the hills
burst with green froth of rhyming waves.
Ogham signs carved into the stone of heaven.
High is the sky and higher still
When I set on my quest – searching the limit
For its primeval sign.
The well of my new path –
gleaming already in its triple spiral.
Listening – open-eyed – to the song of the light
to the lightning that sets rainbows on fire.
The green sacred Isle that is buried inside –
Sphere of desire.
Nothing will win you back
If not a running – melting sky.

Cork 1997


COBH

Verde come l’aurora tra le querce
Verde io sono e la mia gola
Folta di muschi ed erica
Si apre dilagando parole come antere.
Verde è il mio riso e foglia la mia pelle
Le dita trasmutanti in fili d’erba verde.
Trasparente lo sguardo che si perde nell’acqua
Si fa onda e corrente e guizzo e sabbia –
Perso oltre la baia allagata di stelle
Piatta dove filari di gabbiani
Segnano il tempo.
Il tempo che mi allaga, che riempie le secche
Riportando la luna e la marea a intrecciare le dita.

Grondo di acque arcaiche
Di parole lucenti. Rotola lungo i colli
Gonfi di spuma verde la rima delle nubi
Segni oghamici impressi sulla pietra celeste.
Alto è il cielo e più alto si fa
Quando ne cerco il limite, il segno primordiale.
Da lì mi viene l’alba del mio nuovo cammino
Già segnato nella sua triplice spirale.
Ascolto ad occhi aperti il canto della luce
La verde isola sacra che mi porto nel cuore
Sfera di desiderio – ascolto il tuo respiro
Modulato sul mio – ora non più straniero
Che sale dal profondo della terra
E segreti sussurra alle mie orecchie tese.

Sono venuta al mondo con gli occhi spalancati
Ho vestito me stessa di infiniti mantelli
Tutti li ho persi e nuda finalmente
Premo il piede sul suolo familiare
Non più in esilio – sola – ma accolta tra le braccia
Verdi e materne – morbide e segrete
Della Donna di Bheara

Cork 1997


(C)2012 Francesca Diano Riproduzione Riservata

Francesca Diano ha detto...

Questa invece è dedicata alle "keeners", le donne che in Irlanda recitavano il compianto funebre ritualizzato.
Mi perdoni se non l'ho ancora tradotta?

KEENERS

The woman of tears, that cries from distant darkness
Is your lonely companion – and yet she bears no loneliness.
You dug deeply into the bog of souls
Into the misty eyes of subtle whispers
Whispering storms – linked together – shape your path –
Like pebbles thrown into the water.
Wide circles trembling over the skin of time
Delicacy - white skin of singing echoes.
Silence thrust into sound – rings of glowing distress –
Hidden amid the stony route – a single sign –
Cobweb-like trace of hidden gods – now only energies.
Dappled green – dappled brown – intertwined in a cloak
Strips of grey hair set loose to reach the wind.
The ancient mothers knew.
They wore their sorrow like a golden lace
Around their throats and spoke so silently
To the ones who had set on the journey
Reaching for distant shores – across the sea of tears
Beyond reach – beyond space – beyond delusion.
They chose you to give voice to, – you to disclose
Once again secret rites – that they be kept
– trapped into the chalice –
A secret token to the dormant ones.


Cork 1998

(C)2012 Francesca Diano Riproduzione Riservata

Anonimo ha detto...

A Francesca: ma come faccio a non perdonarti. La prima poesia ci proietta in un mondo in cui tutti vorrebbero arrivare per sognare in questa tua vita che pare tu abbia voluto spalancare ,come un invito alla gioia. Mancava da tempo questa sensazione. Per quanto riguarda l'inglese ...io cado molto in basso , poco ho dato a questa lingua...vorrei riprenderla spero presto. Grazie di tanta disponibilità. Emy

Francesca Diano ha detto...

Emy, sei davvero troppo buona... in quanto all'inglese, può essere una piccolissima spinta per riprenderlo?

Anonimo ha detto...

Oh yessss! Emy

Anonimo ha detto...

Giorgio Mannacio

La discussione è estremamente interessante ma molto complessa e dunque occorrerebbe scriverci su un saggio. Mi limito ad alcune osservazioni di contorno.
Comincerei col fare alcune distinzioni tra utilità e legittimità della traduzione. Che essa sia utile, comunque,è indiscutibile. Banalizzo: meglio conoscere male che non conoscere affatto.
Per legittimità intendo il raggiungimento di una completa fedeltà al senso del testo.
E ancora una volta è necessario operare alcune distinzioni.
Nella letteratura scientifica i termini sono – in generale – univoci. Se parlo del II principio della termodinamica tutto il mondo scientifico sa di cosa si tratta e, se voglio farmi capire, devo utilizzare il linguaggio non equivoco della comunità scientifica. Insomma uso segni di significato consolidato perché oggettivamente determinati nel loro senso presso tale comunità. Gli scritti scientifici sono legittimamente traducibili.
Nel mondo letterario il discorso è più articolato.
Io credo che una certa dose di legittimità possa essere attribuito alla traduzione del romanzo, soprattutto se storico. Tale tipo di romanzo ha ad oggetto fatti determinati che trovano riscontro in una memoria collettiva consolidata. Qualche lettore può essere stato addirittura diretto testimone dei fatti stessi e questi, con ogni probabilità, sono circolati nella comunicazione di un dato periodo attraverso codici di comunicazione condivisi. La realtà ha una evidenzadi parola.Se si tratta di romanzi storici di fantasia la “ conoscenza “ di essi come “ veri” può essere data dalla tradizione .E’ caratteristica dei fatti storici una certa oggettiva verità cui corrisponde una comunicazione chiara e non equivoca ( quale che sia il giudizio sul fatto stesso )
[Continua]

Anonimo ha detto...

Giorgio Mannacio [continua]

Più ci si discosta dal “ racconto storico” più diventa difficile la traduzione legittima. Un indizio di ciò si può cogliere nei “ romanzi di educazione “. Cosa significa L’Uomo senza qualità? E’ noto che recentemente è stata messa in discussione la “ correttezza “ della traduzione in Montagna incantata del termine tedesco Der Zauberberg.
Le Metamorfosi di Apuleio, certamente forma/ romanzo,sono state sottoposte ad una “ revisione radicale” in senso esoterico dei propri contenuti, revisione che ha comportato una critica molto forte di alcune tradizionali traduzioni , giudicate assolutamente infedeli.
Nella poesia il rischio di infedeltà è enorme. Meno intenso , forse, nell’epica per ragioni che la accostano al romanzo storico. Anche nei “ classici” il rischio è minore e se ne può cogliere la ragione osservando che essi si sono inevitabilmente cristallizzati in un significato relativamente certo attraverso l’uso di termini relativamente stabili e non equivoci.
Man mano che ci si addentra nel “ presente”, nell’attualità dinamica di esso,nelle nuove sensibilità che non hanno ricevuto ( ancora ) un codice di comunicazione relativamente univoco,nelle esperienze individuali o di gruppi ristretti di persone, sfumano le condizioni di legittimità della traduzione. Nella comunicazione poetica i segni sono utilizzati non arbitrariamente ma con direzioni particolari che si alimentano nelle catene di associazioni, rimandi,codici particolari a luoghi e tempi non condivisi con altri. Alcuni termini attinenti alla intimissima sfera sessuale non hanno alcun senso al di fuori di ambiti più o meno ristretti e una nota in calce,certamente opportuna, spiegherà il significato ma non colmerà la ( eventuale ) forza evocativa che quel termine suggerisce immediatamente al lettore partecipe di quel contesto specifico in cui il termine è nato con quel significato. La parola poetica si volge ad “ altro “ attraverso collegamenti che attraversano diversi campi di esperienza e trovano in essi il loro nutrimento. Uno di questi collegamenti – l’antropologia è stata opportunamente richiamata daa qualche commento.

[Continua]

Anonimo ha detto...

Giorgio Mannacio [Continua]:

Le note di spiegazione – come quelle che frequentemente chiariscono i giochi di parole delle tragedie di Shakespeare –servono poco quando le parole si sono caricate di senso attraversando territori non esplorabili con il solo significato letterale. Se si esce dal calembour e si entra nel dramma personale, nel velo intenzionale e difensivo della parola ambigua ( Spitzer ha scoperto nelle lettere di prigionieri italiani in Austria tutti i segni significativi del “ fatto fame “ che non si voleva esternare alla censura militare )la nota in calce serve poco.
Il gatto nero è beneaugurante per gli Anglosassoni, segno di sventura per alcuni popoli latini. Ma detto questo, chi renderà giustizia all’alone che il colore e la presenza del felino, letti nel loro inestricabile insieme, daranno – se il poeta è veramente tale – al testo poetico nei suoi rimandi?

[Fine]

Francesca Diano ha detto...

L'analisi di Mannaccio è molto interessante, perché pone una questione di base: si deve (si può) o non si deve (non si può) tradurre? Molto interessante anche l'uso del termine "legittimo".
Qui vorrei dire che, partendo da questo punto di vista, perfino la lettura di un testo è un "tradurre", perché, come ben sa chi scrive, per quanto si lavori sul testo, perché la parola convogli "quel" preciso senso-segnale, nessuno potrà mai ricostruire tutto il percorso - e dunque il vero senso - che ha portato a quella scelta.
Anche leggere è tradurre. Dall'autore al lettore - tanto più se ciò che leggiamo appartiene a epoche da noi lontane - ciò che un lettore "comprende" non sarà mai quello che potrà comprendere un lettore contemporaneo all'autore e persino l'autore stesso. La medesima cosa è ben nota anche nel campo dell'arte.
Ciò su cui si può puntare è una sorta di "quintessenza" che il testo contiene e che, nel caso di grandi opere, attraversa i tempi, gli spazi e le culture.
Partendo dal linguaggio tecnico-scientifico: qui parrebbe che la questione non si ponga. In effetti non è del tutto così. Se prendiamo testi scientifici in cui si presentano ricerche in campi prima inesplorati, per i quali l'autore conia termini e concetti nuovi, chi traduce non ha referenti precedenti e dovrà coniare un neologismo che gli corrisponda nella propria lingua.

Francesca Diano ha detto...

In realtà la questione che Mannaccio pone, questione che si è posta fin dall'antichità (la necessità della traduzione si è posta molto presto, anche perché è proprio grazie alle traduzioni che si sono diffuse le idee, con tutto il loro carico di trasformazione - si pensi ai filosofi greci tradotti dagli arabi e così tornati in occidente) non ha sfumature di maggiore o minore legittimità o possibilità, man mano che dal linguaggio scientifico si procede verso quello letterario, narrativo e poetico.
La vera priorità, più che una competenza semplicemente antropologica, è l'analisi filologica del testo. E un'analisi filologica richiede competenze e conoscenze che non sono di tutti.
Dunque, la specializzazione del traduttore, che soprattutto per i classici o i grandi, non può essere il primo raccomandato o infilato.
Io posso portare la testimonianza di un grande maestro, che è stato anche grandissimo traduttore dei tragici greci, che attraverso un'analisi filologica, storica, filosofica - a volta perfino di una singola parola - ecc. di quei testi, ne ha rovesciato spesso il senso ormai passivamente acquisito.
Quanto alla poesia, valgono gli stessi principi, con in più la difficoltà di trovare una forma poetica. Certo, nessuna traduzione, per quanto meravigliosa, filologica, che diventa prima di tutto un atto di conoscenza per chi la fa, potrà ritrovare certe sottilissime ambiguità, allusività, sonorità dell'originale. Ma ci si prova e il lavoro è entusiasmante.
Figurarsi dunque cosa avviene quando si affidano a dei traduttori avventizi, che di grande hanno solo l'ignoranza, ma sono da noi acclamati come eccelsi, testi che richiedono studio di anni, amore e molta, molta umiltà.

ha detto...

francesca ciao, perfettamente ragione: dei poeti che ho tradotto, quando ho tradotto RS Thomas (Manni Editore, 2000)a metà strada mi sono resa conto che ci poetavo insieme, come seguendo un "la" che mi era entrato nell'orecchio e un "io" che mei era entrato nella mente e nel cuore. Consonanza totale,... eppure egli era maschio, prete, protestante, radicale, novantenne, agnostico rispetto alla fede! che significherà?... :).

Anonimo ha detto...

Cara Francesca, con qualche precisazione sono d'accordo sulle cose che dici. Per quanto riguarda il lavoro scinetifico il tuo rilievo è corretto. Ho estremizzato per distingure i concetti, operazione sempre necesasrtia. E' vero: anche la lettura èp una traduzione perchè deve appropruiarsi delk codice altrui e trasferuirlo nel proprio.Dubnque la traduzione in senso proprio è operazione bella, interessantissima e...titanica. Sfiora la nuova creazione. Per questo hoi utilizzato il termine " legittimità" quasi a sottolineare il pericolo di ..invasioni. Si cero la filologia è importantissima perchè ,alla fine, il vero filologo bussa alle porte delle origini del linguaggio ( vd la rivalutazione da parte di Cassirer del granbde filologo Usener ). Dunque buon lavoro e un cordiale saluto. Giorgio Mannacio

Moltinpoesia ha detto...

Ennio Abate:

Ho invitato con una mail vari amici/che a commentare questo post che, per l’importanza della questione, vorrei restasse in evidenza per un po’ di tempo. Ora vorrei però dire brevemente la mia, mettendo a confronto il pezzo di Francesca Diano e quello di Luca Lenzini, che a me paiono dare risposte antitetiche alla domanda fondamentale (Traduzioni: a che punto siamo oggi?) che ho scelto come titolo del post traendola da un passo dell’intervento di Lenzini.

1. Alla domanda Francesca Diano dà una risposta allarmante e drastica, che riassumo all’ingrosso: si fa un gran parlare di traduzione, di traduttologia, ci sono scuole e corsi d’ogni tipo, ma il panorama resta desolante. Francesca, convinta che l’arte in generale (e dunque anche l’arte del tradurre, come dice anche Larry Massino) non possa essere «una catena di montaggio» più o meno americanizzata, sostiene che uno scrittore (e dunque anche un traduttore) si debba formare sui Maestri (maiuscola d’obbligo). E perciò la sua regola aurea è:« per tradurre letteratura si dev’essere uno scrittore e per tradurre poesia un poeta». Professionalità, dunque! Che si acquisisce soltanto col tempo e con la pratica.
Eppure - mi chiedo - i giovani traduttori dovranno pur cominciare, pur farsi le ossa. Chi si occupa della loro formazione?
Se essi si buttano a fare i traduttori senza preparazione, senza i rudimenti del “mestiere” (e senza la guida di un Maestro o di un maestro), la colpa è solo della loro presunzione o voglia di apparire?
E le case editrici, che li prendono senza accertarsi delle loro competenze, perché gli conviene pagarli poco e perché dei difetti di traduzione il grosso pubblico neppure si avvede?
Ma, spostando il discorso dalla deontologia professionale alla “politica del tradurre”, se siamo di fronte a una domanda crescente di traduzioni e i traduttori esperti e bravi ( e da pagar bene) non fossero in grado di soddisfarla, che si fa? Non si traduce più?
Posso concedere che dei “dilettanti” ( o dei disoccupati o dei precari) allo sbaraglio finiscono per svilire la professionalità dei bravi traduttori, ma essi sono in grado di svolgere tutto il lavoro che c’è da fare?
Non so, il problema di buone scuole di traduttori non mi pare eludibile. A me pare che Francesca svilisca troppo i seminari, i laboratori, gli incontri sulla traduzione. Quelli esistenti saranno pessimo. Ma se lì si fanno solo «discorsi astratti» e a dirigere tali scuole sono proprio «i traduttori più mediocri», il compito sarebbe quello di riaggiustare tali cattive scuole, trovargli buoni insegnanti. In una situazione d’emergenza forse bisognerebbe sviluppare metodi più *cooperativi” in modo che i rapporti tra chi traduce meglio e chi traduce male o deve imparare a tradurre siano più fluidi e non si arrivi alla divaricazione tra un’élite di ottimo traduttori e una massa di traduttori-massa più o meno competenti, ma che servono all’industria culturale che mira al profitto e raggiungendolo anche con traduzioni approssimative lascia volentieri da parte le questioni di qualità.
E poi tradurre non significa proprio passare un sapere da chi lo ha a chi non l’ha o ne ha molto di meno?
Non dubito che, come dice Francesca, nel tradurre «ti trovi da solo col tuo autore», ma - mi permetto la battuta - non è mica un… rapporto esclusivo di coppia! Si traduce *anche* con l’occhio ai lettori, ai destinatari (o almeno non è irrilevante curare questa dimensione implicita nel tradurre, conoscere che tipo di pubblico avrà in mano la traduzione che vado facendo, mirare *anche* alla cosiddetta “traduzione di servizio”).
E mi pare fuori dalla storia sostenere che «una bella traduzione non invecchia mai». La traduzione che Foscolo fece del «Viaggio sentimentale» di Sterne non sarà invecchiata ed è tuttora «limpida e smaltata». Ma per chi?
[Continua]

Moltinpoesia ha detto...

Ennio Abate [continua]:


Per chi è cresciuto in una certa cultura letteraria o ne ha ancora salda memoria. Non lo è, invece, neppure per gli attuali studenti universitari (per non parlare di quelli delle superiori). E allora come se la cavano i bravi traduttori con i “nuovi barbari”. Li lasciano in balia di Baricco che se li coltiva imponendo le *sue” discutibili traduzioni? (C’è un articolo di Marco Gaetani sul n. 8 di Poliscritture leggibile al link:http://www.backupoli.altervista.org/IMG/Polis8_PDF_4_dic_2011.pdf
che affronta queste operazioni “di traduzione” alla Baricco…)


2. La testimonianza di Lenzini affronta proprio il tema del «tradurre poesia» solo accennato alla fine del suo commento da Francesca. E, pur richiamando un’epoca defunta, in cui ancora c’era « un acceso dibattito sulla teoria (letteraria e non solo) e sul metodo, e anzi sullo status e sui fondamenti della letteratura e della critica», mi pare si avvicini in un punto all’analisi di Francesca: malgrado quell’imponente dibattito teorico e critico, il laureando, l’”apprendista traduttore” di poesia, doveva basarsi «su un approccio molto empirico» (la praticaccia, insomma). Ma non alla cieca, però, bensì sotto la guida di un Maestro come Fortini, in grado di collocare lui quegli ambìti «strumenti concreti con cui avvicinare i testi […] entro una cornice storica»; e soprattutto poeta-traduttore egli stesso «già dalla fine degli anni Quaranta» (e a sua volta discepolo di un sia pur «anomalo maestro» della stazza di Giacomo Noventa).
Bei tempi, eh!
Lenzini, comunque, ci rammenta ancora un esempio di buona scuola (universitaria) condotta da un poeta-traduttore che, quando fa le sue lezioni, riflette e teorizza («inscindibilità della riflessione e della teoria, esplicitamente proposte in chiave “sperimentale”, dal concreto lavoro del traduttore»)!
E ricorda pure un altro esempio, purtroppo lontanissimo, di come si lavorava seriamente sulla traduzione anche in ambito extra-accademico (e cioè facendone uno strumento di apertura al mondo ma anche un « campo di sperimentazione, in cui s’intersecano il livello ideologico e quello stilistico»: quel mitico «Politecnico», «palestra, che dire solo “rivista” è limitativo» e che era una rivista « composta in buona parte di traduzioni, a tutto campo (autori americani, russi, cinesi, tedeschi…)», aggiunge giustamente Lenzini.
Ma «a che punto siamo, oggi?»
Alla domanda cruciale anche Lenzini non può rispondere.
Però, a me pare che la possibile risposta sia diversa da quella di Francesca:
«A ripensarci, forse quando trent’anni fa Fortini assegnava tesi in serie sulla traduzione, e formava gruppi di lavoro sui vari aspetti del tema, aveva in mente un lavoro di questo genere, di tipo collettivo». E viene ribadita anche riportando l’opinione di Dalmas: «Di certo non si può dare una risposta individuale.».
E allora? Empiria e/o teoria? Soluzione “individuale” o “collettiva”?
Hic Rodhus, hic salta.



[Fine]

Francesca Diano ha detto...

I molti temi posti da Ennio, come lo stesso tema di questo post, non si possono esaurire in modo troppo semplice. Sono problemi complessi. Però è giusto che io chiarisca un punto su cui forse non sono stata molto chiara.
Qui si sta parlando di traduzione letteraria. Cioè di letteratura vera, non di roba di cassetta. Dunque il mio discorso a quella si riferisce. Non ho assolutamente escluso i giovani traduttori che devono farsi le ossa. E ci mancherebbe altro! Dovranno pure imparare. Quello che intendevo è che chi commissiona una traduzione, DEVE capire a chi affidarla. Affidare un grande autore a un principiante solo perché si risparmia, o all'amico che non conosce l'autore e l'argomento, ma solo perché è l'amico è, oltre che stupido, controproducente. Ai principianti si potranno affidare testi - e gli editori italiani ne sfornano a bizzeffe - di autori magari di cassetta, ma mediocri scrittori. Così anche se il giovane principiante fa una mediocre traduzione, va bene lo stesso, non è n gran danno.
Affidare a chi ha conoscenza, esperienza e qualità un testo letterario (saggio, romanzo, poesia, poema ecc.) significa rispettare quel testo e il risultato non potrà essere che soddisfacente da ogni punto di vista.

Francesca Diano ha detto...

(continua)
Ribadisco ancora che le scuole di traduzione e le teorie possono essere utili in modo molto generale, ma non fanno necessariamente un buon traduttore. Per quello ci vuole pratica ed esperienza - fermo restando che anche per fare i traduttori ci vuole una predisposizione. Credo che ascoltare le esperienze e gli errori che tutti i traduttori esperti hanno fatto non possa che far bene, ma poi ciascuno si deve fare gli errori suoi.
L'unica pratica utile può essere l'analisi testuale e sul testo le motivazioni del perché si scelga di tradurre in un modo piuttosto che in un altro. Ma non è teoria, è pratica.
Tim Parks, uno dei più noti traduttori, che tiene corsi di traduzione letteraria allo IULM, nel suo libro "Tradurre l'inglese", in realtà non fornisce alcuna teoria sulla traduzione, ma prende famosi testi letterari in inglese e esamina (cioè fa le bucce a) con molta attenzione le varie traduzioni italiane che ne sono state fatte (ad esempio Virginia Woolf, D H Lawrence). Sono piene di errori, fraintendimenti, anche molto grossolani, stile mediocre. Non teorizza, ma indica punto per punto gli errori e li corregge. Detto tra parentesi, io fossi uno di quei traduttori o traduttrici andrei a nascondermi.
Esiste una traduzione de The Dubliners, fatta da una signora che ha tradotto varie cose, che è illegibile tanto saltano all'occhio gli errori, per non dire dello stile. Non è giovane, ma non sa tradurre. Il che significa che pratica ed esperienza non bastano.
Quando ho velocemente riassunto il mio percorso, ho specificato che ho avuto un grande Maestro, mio padre. Non perché si metteva a teorizzare come si traduce, ma perché osservavo come traduceva lui. Non tutti hanno questa fortuna, ovvio. E io stessa ho imparato - e ancora non ho finito di imparare - solo con gli anni. Io stessa non mi sentirei di tradurre tutto, come molti fanno. A parte cose non molto importanti, so di poter tradurre solo quello di cui almeno ho conoscenza. Poi qualcosa ci si inventa. Una volta dovevo tradurre un testo di un autore indiano in cui si parlava di rugby. Io non so nulla del rugby, così sono andata a vedermi una partita e ho messo l'allenatore in un angolo finché non mi ha spiegato le regole e i termini.

Francesca Diano ha detto...

@erodiade
Erminia ciao. Sì è così, non è un'identificazione, ma un calarsi dentro e "sentire". Un abbraccio.
@Giorgio Mannacio
Ecco, diciamo che la scuola filologica a cui mi riferisco, discende direttamente da filologi come Usener e Giorgio Pasquali e i loro allievi. Io non sono una filologa classica ovviamente, ma anche se ho una testaccia dura, qualcosa forse di quel rigore mi è entrato nel cervello. O così spero. Grazie davvero per gli auguri che ricambio.

Unknown ha detto...

Cara Francesca e cari tutti,
provo a tradurre l'intervento del padrone di casa, facendo finta, ma forse anche no, che io sia un' "interprete" delle varie e vari che ha il mio paese.Pianeta molto molto lontano dal pianeta terra, ma altrettanto "molto ma molto" interessato a capire la vostra lingua anche perchè, detto in tutta umiltà e sincerità (nelle due parole che di te mi hanno colpito,perchè le pratichi sul serio) noi, nel nostro paese, non abbiamo ancora capito la nostra, pardon LE nostre.
Siamo come Epifànio ed Epifània,e l'orbita in cui vagamente si pone il nostro quasi rombo, si chiama Epifanìa..non siamo tondi come voi.
Sono a metà strada da voi con altri umili e sinceri..stiamo raccogliendo tutto il materiale che dai primi graffiti alle ultime clip, dalle lamine d'oro alla carta, avete espresso a riguardo..c'è un fatto sperimentale che ti proporremmo per capire se abbiamo capito dove il collo e chi è il colosso. Speriamo la traduzione ti arrivi senza tunnel e marceindietro perché Gelmini è suono sconosciuto alla nostra velocità, Esopo invece ce l'abbiamo anche noi, si chiama in un altro modo, è tuttora vivente, ed è un eroe stellare più di Rambo o Barrico, che abbiamo fatto molta fatica a riprodurre, mentre con Om, Sono, Ero, e pure Omero, non abbiamo mai avuto problemi.

Dunque la faccenda è quasi difficile, ma proviamoci.Facciamo finta che noi siamo i passanti con voi tutti, che siamo tutti a Rodi per raggiungere i nostri amici che stanno mettendo e rimettendo in croce. Non c'è alcun sbruffone, nè sbruffona fra noi , stiamo facendo solo due salti ma non al tegame. Danzando ( che suono!).. e la cosa è stata moltopiacevole, tranne per quei soliti, che ci sono anche da noi, che vuoi per piccole o grandi invidie, vuoi per altri problemi ancora, potrebbero sentirsi offuscati da tante danze ,ombre e luce.

Anche noi non abbiamo ancora capito certi vostri alfabeti, che intervengono a scarso riconoscimento dell'altro, insoddisfatti sempre di qualcosa, anche quando ci sarebbe invece da fare festa.Di fronte alle tue movenze, da quel Minotauro a quella donna di Bheara, non è certo tua responsabilità se è mancato e manca qualcuno , qualcun altro e quancunaltro ancora. Detto questo a me piacerebbe sentire gli Alfabeti Lenzini ed altri eventuali... Aumenterebbero la nostra documentazione e spunti per le nostre orchestre, interpreti dei vari suoni dalle galassie.Ma se non compaiono , mi gusto la tua danza, anche perché posso assicurarti che qui da noi, prima di fare ensemble o plurale, prima di dire e fare di praticarlo, strutturarlo,organizzarlo, occorrono singoli formati alle prove dellle virtù " bianche" come le tue streghe, altrimenti crollerebbe ogni connettività con gli elementi di fuoco del nostro trasporto da un bosco all'altro: aria e legno.

Pippi ha detto...

francesca, ciao: stavo pensando che forse forse il termine giusto per questo genere di ''traduzioni-trasporto'' attiene all'ambito della drammaturgia come "monologo drammatico": :)))) l'abbraccio è ricambiato...
erminia

Pippi ha detto...

Francesca, per ritornare sul lutto, povero Seamus Heaney!
;)

Pippi ha detto...

ci sono due modi: o ti chiama l'editore e ti propone un autore da tradurre (mi è capitato con le Bronte), ri-tradurre, da salvare, etc, o tu chiami l'editore, come cultore della materia, fan, amante di un dato autore che si voglia...perché TU ardi per promuoverne l'opera, farlo conoscere (mi è capitato con RS Thomas, ed altri...).


tra le due modalità,... c'è l'abisso che descrive così bene francesca.

Pippi ha detto...

The so called "intellectual property" is such a delicate matter, Francesca, my dear, that scares me to death - after all that we have said to each other - the fact that you are now opening your mind and ideas to a blog's "general" audience of potential vampires. ;)

Pippi ha detto...

NB: in un blog che si dice davvero frequentato dai "molti" non ci dovrebbe nemmeno lontanamente essere il concetto di "padrone di casa", che è odioso concetto e ruolo borghese.
e nessuna interferenza...o pressione da parte di nessun presunto "padrone".

:)

Unknown ha detto...

Le nostre s-onde registrarono tale suono..

Peraltro contiene qualcosa che stiamo studiando per altri aspetti della Compagnia degli Uomini..è con nostro orrore che ne viviamo il telecomando, visto il modo particolarmente raffinato per massacrarvi a distanza col drone.
...

La cosa buffa invece di questa situazione , è come si possano porre le questioni quasi in pratica dicendo a chi habla , che è colpa sua di chi non habla

Non abbiamo però ancora capito moltissimo di tutta questa strana cosa degli umani.. della loro incomunicabilità ed infelicità..tanto piu quando invece si appalesano condizioni diverse,che ne ribaltano i lacci..della decadenza lamentandosi che manca l'uomo a destra e a manca(sotto e sopra, e la sinistra) e poi quando ne incontrano una per strada, che ha qualche vago tessuto che lo rimembra, devono metterla subito in riga, o contrapporlo, o piu semplicmente sparire, non volerlo vivere, non danzare né suonare insieme.
mah!

Unknown ha detto...

ps
:-)

Pippi ha detto...

senza il sorriso del post-scriptum sarebbe stato manicomiale! :)

Pippi ha detto...

io sto pensando di pre-pa-rare diversi panini e tramezzini e bruschette con burro e marmellata (inglese)...

Pippi ha detto...
Questo commento è stato eliminato dall'autore.
Francesca Diano ha detto...

(dalla fine, come al solito)
@ erminia
I know, I know, vampires are always there, ready to suck up your blood...never mind, let's be generous just for this time.
Giusto, come tu dici, le due modalità. Ma la seconda è ormai raramente praticabile, almeno nella mia recente esperienza. Fino a 10 - 15 anni fa era un po' diverso.

@Soffitta
Senti, scrivi proprio bene! Uno stile un po' da vertigine, che ti cattura come il cuore di una spirale.
Detto questo, spero di aver capito la tua osservazione, e così non fosse ti chiedo scusa e magari correggimi. Quando dici "Anche noi non abbiamo ancora capito certi vostri alfabeti, che intervengono a scarso riconoscimento dell'altro, insoddisfatti sempre di qualcosa, anche quando ci sarebbe invece da fare festa", ti riferisci forse a quanto ho detto sia nel post che nei commenti? Pensavo di aver espresso il mio punto di vista in modo chiaro e ovviamente in base alla mia lunghissima esperienza, tanto come traduttrice che come frequentatrice di molte case editrici. Parlo da un punto di vista pragmatico, non teorico. Molto terra terra. Non ho alcuna teoria sulla traduzione, solo la mia esperienza.

Francesca Diano ha detto...

(segue)
Se non ho commentato il testo di Lenzini, - e speravo che qualcuno lo facesse oltre a Ennio - è perché mi pare che l'idea che Fortini aveva della traduzione, non si discosta molto dalla mia. Mi sarebbe molto piaciuto poter ascoltare quelle lezioni, di cui non so quanto nell'operazione della Quodlibet resti, ma è lo stesso Fortini a sostenere che chi teorizza sulla traduzione non è necessariamente un buon traduttore e un buon traduttore può aver difficoltà a spiegare le proprie scelte.
Voglio fare un esempio in base una realtà di cui ho diretta conoscenza. (credo sempre alla potenza dell'esempio pratico) Nella musica indiana, il metodo che si usa da centinaia di anni a tutt'oggi si chiama guru-shisha parampara, che significa "apprendimento diretto pratico dal maestro all'allievo". In genere si inizia fin dalla prima infanzia, mettendosi a seguire la pratica (pratica!) di un maestro che non ti impartisce alcuna lezione teorica. Nemmeno per sogno. Ti metti lì a guardare e ripeti esattamente quello che fa lui. E ripeti, ripeti, ripeti, per anni e anni. Il maestro non ti spiega nulla. Nulla! Mostra solo e ti mette a fare. In India si parla di un "giovane musicista" di uno o una verso i 40 anni. Tanto lunga è la pratica che si richiede. Altro esempio: nelle botteghe degli artisti del passato, si entrava ragazzini e si iniziava a spazzare il pavimento, a pulire a mettere in ordine. Questo permetteva di conoscere intanto gli strumenti del mestiere, di prendere contatto, Dopo alcuni anni si potevano pestare i colori, fare le mestiche ecc. Poi, solo poi si iniziava a dipingere e solo dei particolari. Rarissimi sono gli esempi di geni che iniziarono a fare capolavori molto giovani. Cioè a qualunque pratica creativa ci si avvicina con rispetto, pazienza e pratica.
Ovvio che molti non saranno d'accordo oggi. Oggi le idee sono molto diverse. E ben venga. Ognuno deve trovarsi la via che più risuona con ciò che si è.
Io, ripeto ancora, non sono una teorica e non ho nulla da insegnare a nessuno, se non raccontare ciò che ho imparato io e quel poco che ho capito. Se per via c'è chi lo condivide ne sono felice, perché ci si trova tra compagni a fare un pezzo di strada insieme, se invece non lo condivide va bene lo stesso. La mia non è insoddisfazione, ma constatazione. Mi dispiace solo che poi molti capolavori vengano lasciati intradotti (si può usare questo termine?) per la cecità, stupidità e ignoranza di molti editori.
Non so se ti ho risposto. Ma mi entusiasma la ricchezza di questo dibattito.

Pippi ha detto...

@ "Se non ho commentato il testo di Lenzini, - e speravo che qualcuno lo facesse oltre a Ennio - è perché mi pare che l'idea che Fortini aveva della traduzione, non si discosta molto dalla mia."


absolutely correct.

Pippi ha detto...

Da questo concetto che tu condividi, Francesca,il titolo della raccolta di poesia in traduzione, di Fortini, "Il LADRO di ciliegie" e chi volesse leggere il mio commento, ne sarei felice.
:)

Francesca Diano ha detto...

E che, solo Heaney?.... ma del resto, pare ci sia chi sappia tradurre tutto, sia esperto di tutto. Io gli affiderei al nostro amico una bella traduzione del Ching Pin Mei. Ovviamente dal cinese mandarino, con commento e note.

Francesca Diano ha detto...

Oh, mi fa piacere che lo si sia capito! Grazie stellina!

Francesca Diano ha detto...

Mi metti il link per favore?

Pippi ha detto...

@ francesca

"mi sarebbe molto piaciuto poter ascoltare quelle lezioni, di cui non so quanto nell'operazione della quodlibet resti, ma è lo stesso fortini a sostenere che chi teorizza sulla traduzione non è necessariamente un buon traduttore e un buon traduttore può aver difficoltà a spiegare le proprie scelte. "

ero borsista nel 1989 a questo corso e responsabile della trasCrizione su carta delle registrazioni delle lezioni dell'istituto di studi filosofici.
ho pubbliCato nel 2004 il testo integrale senza nessuna modifica di queste 9 cassette che il tecnico registrò: il volumetto è dal 2004 depositato presso il Senate house, la biblioteca delle tesi di dottorato, di cui il testo di fortini era alla mia appendice.
poi ho anche depositato le cassette e la trascrizione presso l'archivio fortini, nel 2004.
dunque dal 2004 esiste ampia accademica documentazione fedee di queste trascrizioni.
risultato delle lezioni? solo il poeta puo' davvero davvero tradurre il poeta.come dici tu. le altrsono traduzioni "servili", di servizio, didascaliche e quant'altro. nella mia tesi phd c'è il terzo capitolo che è commentario dettagliato a quello che disse fortini nelle lezioni sulla traduzione tenutesi a napoli, le ultime prima delle sua morte. la trascrizione da cassetta delle cose che fortini disse a voce al pubblico e agli studenti, delle cose che insegnò, è l'unica cosa affidabile. il resto è rimaneggiamento su carta da carta, fortini morto e defunto, incapacitato a ribellarsi o a correggere.
fortini sapeva che l’istituto avrebbe ricavato un atto del seminario napoletano, ed io lo visitai a casa a milano per risentire la sua opinione a proposito prima di iniziare il mio dottorato su queste se teorie della traduzione poetica. anche in quell’occasione, egli non cambiò opinione: la traduzione autoriale è la deputata al servizio della traduzione: da ‘’poeta a poeta’’….

soprattutto interessanti sono le sue critiche (da traduttore bitchy contro altri traduttori) che fece in quell’occasione (1989) e che sono tutte registrate e nel volume da me edito nel 2004 delle lezioni integrali delle lezioni napoletane dal titolo identico e fedele al titolo del seminario come fu stabilito da Fortini molto eloquentemente: realtà e PARADOSSO della traduzione poetica.

che Quodlibet ridicolmente definisca “inedite” le lezioni napoletane depositate ufficialmente nel 2004 a Senate House, UCL library, da me e professor David Forgacs, e pubblicate in volume nel 2004 da Brindin press per l’Istituto di Studi filosofici non è una truffa, perché in epoca postmoderna non è dato di definire una truffa nessuna operazione editoriale a menare “mazzate” alla cecata allo scopo di fare soldi. Ma le lezioni napoletane sono quelle registrate su cassette e trascritte, e enon i foglietti che sono andati a recuperare a casa degli eredi 15 anni dopo le lezioni, con Fortini morto. Fortini, e ne sono io testimone insieme ad altri 4 borsisti, nemmeno mise mano durante le lezioni napoletane sulla traduzione a quelle 4 carte per le sue lezioni a braccio, del seminario napoletano durato 4 mesi dal 1989 al 1990 che si basava su lunghe disquisizioni e divagazioni e contraddizioni e paradossi che solo possono essere trovati rileggendo la trascrizione da me fatta di quelle 9 cassette.

il resto è filologia da ragnatele falsificante perché quelle erano carte che Fortini aveva accantonato, riprese postume dai presunti filologi da un cumulo di documenti che lui non aveva pubblicato in vita pure avendo dal 1989 al 2004 anno della sua morte molti anni (15) per farlo. E se non le aveva pubblicate in vita lui, avendo aderito alla trascrizione dei testi delle lezioni come si presentarono nella versione orale e discorsiva, ma perché glieli hanno pubblicati loro, i filologi non bastava la trascrizione di quello che egli disse al corso seminario in piena coscienza delle sue parole e dei suoi pensili?
dunque fate tesoro di quanto vi dico. E regolatevi. non ho tempo di rileggere per correggere i typos, mi scuso, ;)

Pippi ha detto...

cara il link non ce l'ho: ho il libro.

Pippi ha detto...

@ francesca

"mi sarebbe molto piaciuto poter ascoltare quelle lezioni, di cui non so quanto nell'operazione della quodlibet resti, ma è lo stesso fortini a sostenere che chi teorizza sulla traduzione non è necessariamente un buon traduttore e un buon traduttore può aver difficoltà a spiegare le proprie scelte. "

ero borsista nel 1989 a questo corso e responsabile della trasCrizione su carta delle registrazioni delle lezioni dell'istituto di studi filosofici.
ho pubbliCato nel 2004 il testo integrale senza nessuna modifica di queste 9 cassette che il tecnico registrò: il volumetto è dal 2004 depositato presso il Senate house, la biblioteca delle tesi di dottorato, di cui il testo di fortini era alla mia appendice.
poi ho anche depositato le cassette e la trascrizione presso l'archivio fortini, nel 2004.
dunque dal 2004 esiste ampia accademica documentazione fedee di queste trascrizioni.
risultato delle lezioni? solo il poeta puo' davvero davvero tradurre il poeta.come dici tu. le altrsono traduzioni "servili", di servizio, didascaliche e quant'altro. nella mia tesi phd c'è il terzo capitolo che è commentario dettagliato a quello che disse fortini nelle lezioni sulla traduzione tenutesi a napoli, le ultime prima delle sua morte. la trascrizione da cassetta delle cose che fortini disse a voce al pubblico e agli studenti, delle cose che insegnò, è l'unica cosa affidabile. il resto è rimaneggiamento su carta da carta, fortini morto e defunto, incapacitato a ribellarsi o a correggere.
fortini sapeva che l’istituto avrebbe ricavato un atto del seminario napoletano, ed io lo visitai a casa a milano per risentire la sua opinione a proposito prima di iniziare il mio dottorato su queste se teorie della traduzione poetica. anche in quell’occasione, egli non cambiò opinione: la traduzione autoriale è la deputata al servizio della traduzione: da ‘’poeta a poeta’’….

soprattutto interessanti sono le sue critiche (da traduttore bitchy contro altri traduttori) che fece in quell’occasione (1989) e che sono tutte registrate e nel volume da me edito nel 2004 delle lezioni integrali delle lezioni napoletane dal titolo identico e fedele al titolo del seminario come fu stabilito da Fortini molto eloquentemente: realtà e PARADOSSO della traduzione poetica.

che Quodlibet ridicolmente definisca “inedite” le lezioni napoletane depositate ufficialmente nel 2004 a Senate House, UCL library, da me e professor David Forgacs, e pubblicate in volume nel 2004 da Brindin press per l’Istituto di Studi filosofici non è una truffa, perché in epoca postmoderna non è dato di definire una truffa nessuna operazione editoriale a menare “mazzate” alla cecata allo scopo di fare soldi. Ma le lezioni napoletane sono quelle registrate su cassette e trascritte, e enon i foglietti che sono andati a recuperare a casa degli eredi 15 anni dopo le lezioni, con Fortini morto. Fortini, e ne sono io testimone insieme ad altri 4 borsisti, nemmeno mise mano durante le lezioni napoletane sulla traduzione a quelle 4 carte per le sue lezioni a braccio, del seminario napoletano durato 4 mesi dal 1989 al 1990 che si basava su lunghe disquisizioni e divagazioni e contraddizioni e paradossi che solo possono essere trovati rileggendo la trascrizione da me fatta di quelle 9 cassette.

il resto è filologia da ragnatele falsificante perché quelle erano carte che Fortini aveva accantonato, riprese postume dai presunti filologi da un cumulo di documenti che lui non aveva pubblicato in vita pure avendo dal 1989 al 2004 anno della sua morte molti anni (15) per farlo. E se non le aveva pubblicate in vita lui, avendo aderito alla trascrizione dei testi delle lezioni come si presentarono nella versione orale e discorsiva, ma perché glieli hanno pubblicati loro, i filologi non bastava la trascrizione di quello che egli disse al corso seminario in piena coscienza delle sue parole e dei suoi pensili?
dunque fate tesoro di quanto vi dico. E regolatevi. non ho tempo di rileggere per correggere i typos, mi scuso, ;)

Pippi ha detto...
Questo commento è stato eliminato dall'autore.
Francesca Diano ha detto...

Già... è questa la tipologia di Maestro a cui mi riferivo.
devo proprio leggerlo questo libro, grazie Erminia.

Moltinpoesia ha detto...

Ennio Abate:

Davvero antipaticissima questa polemica della Passannanti.
E ancora più antipatico riproporla dopo che ha scritto qualche commento fa:

erodiade.poesia e dissidenzaFeb 23, 2012 04:17 AM:
"faccio prima e spreco meno spazio a dare il link pubblicato su mio blog: http://erodiade.blogspot.com/2012/02/recensione.html".

Non bastava quel link, in modo che chi vuole s'informi e magari commenti come crede su quel blog?
Perché venire a pestare nuovamente i piedi qui su questo argomento?
Perché deviare la discussione dal tema generale a una questione di primogenitura o di valutazione di chi ha più meriti per parlare di Fortini traduttore?
Rinnovo pazientemente l'invito a discutere nel merito delle questioni.
Passannanti protesti direttamente con la Quodlibet o con chi vuole, ma non intralci questa discussione.

Pippi ha detto...

ok, cancello.

Unknown ha detto...

Francesca DianoFeb 25, 2012 11:13 AM
Franceca carissima, innanzittuo ti ringrazio per la spirale di certe valvole che dici di me fino alle mie mani,
Sgombriamo però da inutile fraintesi , anche se non ce n'è alcun bisogno perché Hermione ti ha appena detto.
Il mio parlare di prima ha cercato di essere a diretto, ma velato,forte ma delicato per non rientrare , 'natra vota, in aperto scontro con l'intervento del "padrone di casa" e la processione prevedibile a sua difesa...intuile ripercorrere strade che hanno portato a ben poco.

Era abbastanza chiaro a chi riferissi quelle contrapposizioni inutili che sono state fatte fra il tuo saggio e quello di Lenzini.. cosi come altre mie considerazioni

------
Dopo la solita consueta tecnica di invito che sembra aperto a due e più (e poi invece solo a uno,

dopo 'sto niente popodimenoche di post e commenti,

dopo che PER ORA l'unica presente al confronto GENEROSO, sei stata tu,

ecco che E.A., che vorrebbe "i molti"(che credo siano da praticare in ogni situazione, compresi per primi i due invitati dentro il suo post) conclude Ennio, HIC, prima del salto al colosso nella battuta perentoria non si sa bene a quale sbruffoni( tu? altri? chi?):
"Soluzione “individuale” o “collettiva”?"

-----
O????

---
se siamo ancora a dover evidenziare l'importanza delle congiunzioni, buonanotte ai sonatori! anche perchè al di la delle tue ulteirori considerazioni sulel responsabilita degli editori, non si vede bene perchè qualcuno , E.A. di turno, possa da parte sua invece parteggiare per un'interpretazione di Fortini, o una maggore validita delo scritto di Lentini, quasi facendo sentire in colpa premendo perentoriamente congiunzioni fra traduttori del tuo spessore e quelli che dovrebbero farsi le ossa, ma stanno cosi bene ad altre ossa ( della dittatura di mercato) da accettare di tutto e di piu a cottimo, per ottimizzare i ricavi degli stessi editori che a te e persone come te, tolgono l'arte, di conseguenza al lettore.

La tua soluzione individuale E collettiva, è pertanto quella per ora piu coerente e adesiva a quel poco di pensiero che conosco di Fortini. Sarei cieca a dire il contrario vista la tua generosa, a piene mani, PRESENZA.

Unknown ha detto...

ps
mi scuso per la velocità con cui ho scritto,spero perdoni i refusi e intuisci le correzioni.

Unknown ha detto...

erminiaFeb 25, 2012 11:02 AM

"io sto pensando di pre-pa-rare diversi panini e tramezzini e bruschette con burro e marmellata (inglese)"

in efftti abbiamo tutta la notte per pre - pa- rare, infornare , sfornare un po' di torte..

:-)))

Pippi ha detto...

ma io non ho nessun interesse a chiarire con Quodilibet: per me non esistono. Io parlo solo ai lettori. Non ai commercianti. I commercianti parlino ai commercianti e gli intellettuali ai lettori.

Unknown ha detto...

Grazie da una lettrice a nome di altri...quelli del pianeta a rombo di prima

:-)

ps stessa cosa vale per Francesca

Anonimo ha detto...

:)

Francesca Diano ha detto...

Infatti. Chiarire cosa? E poi devo dire che proprio questo riferimento nei tuoi commenti mi ha permesso di trovare una bellissima compagna di strada.

Francesca Diano ha detto...

Ti ringrazio, avevo capito male allora! Questo bel pianeta da cui vieni mi ricorda molto Flatlandia.
Fortini teneva un vero e proprio laboratorio, ed è così che io concepisco l'unico possibile metodo di insegnamento della traduzione. Ma è comunque un lavoro solitario.
Non mi sento certo in colpa di nulla, ci mancherebbe! Solo che ci tengo sempre ad essere capita e se Ennio Abate magari aveva dei dubbi, li ho voluti chiarire.
In fondo, dato il numero dei commenti, che spero si arricchiscano di altri interventi, è già di per sé un piccolo seminario sulla traduzione, no?

Francesca Diano ha detto...

Vorrei comunque precisare che tutto quello che ho scritto qui è già stato detto e pubblicato altrove, sia in interviste che sul mio blog che in atti.

Francesca Diano ha detto...

Un'altra osservazione, che non vuole essere polemica, ma solo pratica. Non so se chi non ha alcuna pratica o esperienza di traduzione possa contestare su questo terreno chi invece ne ha. Altrimenti si rimane sempre nel campo della teoria e non si arriva a nulla.

Moltinpoesia ha detto...

Ennio Abate:

AL DI LA' DELLE POLEMICHETTE
E PER CONTINUARE LA DISCUSSIONE


Franco Fortini,Finale
(pagg.183-184 scannerizzate
da "Lezioni sulla traduzione", Quodlibet, Macerata 2011)

Ma la conclusione di questi esempi tratti da una espe-
rienza di traduttore vorrebbe non essere autobiografica.
Se si crede verisimile che la traduzione possa essere con-
siderata come situata nella serie multicolore delle scrittu-
re che si chiamano interpretazioni ermeneutico-critiche,
parafrasi esplicative, translitterazioni, imitazioni, paro-
die, rifacimenti e così via; ossia come atto a un tempo
let-terario e metaletterario; e se non si dimentica - come le
statistiche ci dimostrano - che di fatto la rilevanza ideo-
logico-politica e quindi socioeconomica delle traduzioni
è determinante per ogni comunità culturale e politica, ne
verrà che il grado di rapporto della traduzione con il
sistema della o delle istituzioni letterarie dovrà essere
visto come rapporto rivelatore, come indice privilegiato
della qualità di relazioni, in un tempo e in una società
data, fra le ideologie e le culture in conflitto.
Indice privilegiato rispetto ad altre formazioni testuali.
Non a caso il sapiente realismo politico di Brecht gli
aveva fatto consigliare che nei paesi di rivoluzione
socialista lo scrittore, per vivere, si dedicasse al lavoro
di traduttore.
Vorrei essere prudente ma non credo di poter fare a
meno di dirvi che considerando la vicenda delle versio-
ni nella letteratura italiana del nostro secolo sembra di
poter dire che la produzione di traduzioni poetiche di
più alta qualità coincida cronologicamente con i perio-
di di maggiore oppressione o conservazione ideologica
mentre ai periodi di maggiore movimento e conflittua-
lità politico-sociale corrisponde una vivace produzione
di versioni prevalentemente saggistiche, narrative o,
come si dice, di servizio. Ma questa mi pare una affer-
mazione insostenibile. Si dica piuttosto che la tendenza
alla traduzione mirata, alla traduzione d'autore corri-
sponde, nei singoli autori o nei gruppi letterari ad una
accettazione preliminare di una società circostante e del-
le istituzioni culturali; come se la traduzione fosse una
attività che fortifica e sostiene i gruppi. Credo proprio
che questo nesso fra traduzione e scuole letterarie
dovrebb'essere considerato attentamente.
La traduzione privata o d'autore è il segno di una
separatezza. Per quanto è soprattutto dei maggiori clas-
sici credo - contro me stesso, contro quel che pure ho
fatto - che si debba perseguire il minimo di soggettivi-
tà e di invenzione poetica a favore del massimo del rigo-
re filologico e storico. Al limite, fornire (con la storia
critica delle versioni del testo considerato) la possibili-
tà del do-it-yourself, del "fai-da te", com'è delle edizio-
ni interlineari e scolastiche. "Soprattutto non troppo
genio"! è la formula che mi sento di lasciarvi. Grazie di
avermi voluto ascoltare.

Moltinpoesia ha detto...

Ennio Abate:

L'ho già segnalata nella mailing list dei "moltinpoesia", ma credo sia utile metterla a disposizione di quanti stanno seguendo questa discussione, la riflessione sul suo lavoro di traduzione dei "Poems" di K. Mansfield fatta da Marcella Corsi.
E' intitolata "PERCHÉ LE POESIE DI KATHERINE MANSFIELD?"
e si legge a questo link:

http://www.poliscritture.it/index.php?option=com_content&view=article&id=249:marcella-corsi-perche-le-poesie-di-katherine-mansfield&catid=7:arte&Itemid=24

Anonimo ha detto...

... sì, il paragrafo intitolato "La traduzione come incontro e fecondo tradimento" è proprio in tema. Mi fa piacere che Ennio abbia rinunciato all'idea di aspettare fino al 27 (presentazione del libro a Milano) per linkarlo.
Che la traduzione di poesia sia la più impegnativa (e affascinante) lo dimostra un laboratorio tenuto su Biblit da Piero Pozzi, traduttore di grande sensibilità ed esperienza (e, sospetto, poeta in proprio, ancorché non conclamato) che invita i traduttori di professione a misurarsi di volta in volta con un testo in versi da tradurre in italiano (solo una volta finora si è partiti da un testo in italiano). Vengono poi messe a confronto le diverse versioni e ci si confronta sulle differenze di traduzione. Io non riesco a seguirlo che in modo assolutamente episodico ma lo trovo molto interessante. Forse potrebbe essere di qualche interesse anche per Francesca ed Erminia... (Biblit è il sito dei traduttori professionisti)
ciao
Marcella

Anonimo ha detto...

Dopo aver letto gli interventi, alcuni così densi da rendere difficile una loro costrizione in poche righe di commento, desideravo sottolineare alcuni punti anche perché si agganciano ai discorsi fatti sul post del sacro e la poesia.
Il mio sarà un commento lungo proprio perché prende due post.
Schematizzando, e quindi circoscrivendo il campo con tutti i ‘sacrifici’ che questa delimitazione comporta, isolerei, rispetto al concetto di ‘traduzione’: a) il suo senso, o contenuto; b) la sua forma, o contenitore e, c) il messaggio che da questo rapporto emerge, ovvero la sua funzione.
Prendo il discorso alla larga. Da dove arriva la ‘necessità’, chiamiamola così, di tra-durre, di portare ‘da…’ ‘…a’. Perché traduciamo? Per chi traduciamo? Per noi? Per gli altri?
In primis, per una ragione interna. Perché abbiamo bisogno di passare attraverso due registri: il somatopsichico – che non è sufficiente ad autorappresentarsi (nel Mito: il passaggio dalla legge Dionisiaca a quella Apollinea) -, e il mentale che non è adeguato a funzionare da solo nel fare esperienza, senza il supporto di un elemento esterno, una relazione. Tant’è che abbiamo sempre bisogno di ricorrere al “senso comune”, alla con-sensualità, alla condivisione ecc. ecc.
In secundis, il tradurre esprime, oltreché il bisogno, il desiderio di comunicare, di comunicare esperienze, comunicare con un esterno sconosciuto a noi, a nostra volta sconosciuti a noi stessi. Ampliare dunque il campo della conoscenza per noi e per gli altri.
La parola rappresentò lo strumento principe di questa comunicazione.
Ma la Dea Parola, temuta dagli Dei perché il suo dominio, in alleanza con gli umani, poteva portare al loro declino, [vista la cosa con lo sguardo di oggi, mica avevano sbagliato di molto!], fu da essi punita a non essere ‘piena’, bensì mancante, parziale, confusa nel presentarsi agli uomini e quindi non creduta.
La parola, così condannata, non potrà mai rispecchiare la sacralità divina, la sua ‘totalità’ e ‘innominabilità’ e, pertanto, ci sarà bisogno di un alone rituale perché la parola abbia nuovamente accesso al sacro, a ciò che non è ancora entrato nella sfera dello spazio-tempo, della finitezza e del senso.
D’altronde, sulla nominabilità abbiamo tutta una storia-narrata (mitica) circa la pericolosità per l’umano di dare un nome alla divinità, che veniva chiamata per perifrasi (= vedi anche il precetto del ‘non nominare dio invano’). Anche lo stesso nome di Jahvè non si poteva chiamare per intero (consonante più vocale) bensì de-privato delle vocali. La de-privazione indicava il processo di de-sacralizzazione, la profanazione dell’intero.
Questo scenario del rapporto drammatico, tragico in quanto sacrificale, tra il linguaggio e la divinità, fu ripreso nel Mito successivo della Torre di Babele che portò alla cosiddetta confusione delle lingue.
A parte questo riferimento mitologico – su cui molto ci sarebbe da discutere - e passando all’esperienza concreta, per ciò che concerne la traduttibilità in parola dell’esperienza intima – e sociale, in quanto passa comunque per l’intimo - chi è bi(o pluri)lingue, pur potendo accedere all’oggetto sperimentato in ognuno dei linguaggi conosciuti, sente che, per ogni specifica situazione, ce ne è uno in particolare che ha il potere di farlo entrare in contatto con il suo sentire profondo. In quel legame, l’intimità del sentire fa tutt’uno con l’essenza intima (la ‘quintessenza’, per dirla con Francesca) del linguaggio usato per esprimerla.
E’ anche ciò che racconta la commentatrice del Blog Erodiade quando afferma “mi sono resa conto che ci poetavo insieme, come seguendo un "la" che mi era entrato nell'orecchio e un "io" che mi era entrato nella mente e nel cuore. Consonanza totale... eppure egli era maschio, prete, protestante, radicale, novantenne, agnostico rispetto alla fede! che significherà?..”.

[continua]

Anonimo ha detto...

[segue]
Ennio, sotto l’egida della battuta, cerca di smorzarne l’impatto legato a quel ‘mistero’ quando afferma: “Non dubito che, come dice Francesca, nel tradurre «ti trovi da solo col tuo autore», ma - mi permetto la battuta - non è mica un… rapporto esclusivo di coppia!”.
Con buona pace di Ennio, invece è così. E’ proprio così. Provare per credere.
Aggiungerei, anche, “Purtroppo è così”. Ovvero quando il rapporto esclusivo diventa un rapporto escludente.
Perché può capitare, come in ogni rapporto di coppia, che la coppia creda di bastare a se stessa e quindi si chiude nel suo Olimpo. Non comunica con gli ‘umani’.
E, a quel punto, possiamo recuperare la considerazione di Ennio “Si traduce *anche* con l’occhio ai lettori, ai destinatari (o almeno non è irrilevante curare questa dimensione implicita nel tradurre).

Ma “anche leggere è tradurre”, sostiene F. Diano.
E anche ciò fa parte del nostro esperire individuale. Ad esempio ciò capita quando ‘traduciamo’, attraverso il linguaggio di qualcun altro, qualche cosa che appartiene invece al *nostro* mondo, alla *nostra* cultura, alla *nostra* storia individuale più o meno consapevole. Andiamo a cercare ciò che vogliamo trovare.
Ci fermiamo così al fatto che la parola “convogli[a] ‘quel’ preciso senso-segnale” (F. Diano) per cui facciamo nostro *tutto* un processo,* tutto* il (presunto) percorso che l’autore ha compiuto senza, di fatto, saperne niente.
Diventando indifferenti a ciò che ha motivato l’autore a quella scelta, il rischio che si corre è quello di trovare, narcisisticamente, più un accordo con se stessi che con l’autore del testo. Non si tratta più di ‘traduzione’ viva, frutto di una tormentosa ed eccitante relazione, ma di trasferimento meccanico, automatico da un contesto ad un altro. Pedissequo, si potrebbe dire.
Si crea un ‘campo’ di condivisione surrettizia dove il parlare non è più un comunicare bensì uno stare dentro un ‘luogo comune’.
Giorgio Mannacio fa una interessante compartimentazione rispetto ai luoghi della traduzione, alla sua utilità e, soprattutto, alla sua legittimità: “gli scritti scientifici sono legittimamente traducibili” in quanto “nella letteratura scientifica i termini sono – in generale – univoci…. Insomma uso segni di significato consolidato perché oggettivamente determinati nel loro senso presso tale comunità”.

Detta legittimità spesso si affianca all’esigenza di ‘completa fedeltà’, non equivocità, e pertanto di scientificità. Questa ‘legge’ seguirebbe più il principio di una stretta adesione del nome alla cosa nominata, espungendo ogni possibilità di intervento soggettivo. Rischiando di espungere anche, oltre alla variabile soggettiva, la temporalità e la storicità. Gli astri che noi contempliamo sono sempre quelli che contemplava Galileo, pur tuttavia non sono gli stessi in quanto è cambiato il nostro modo di relazionarci ad essi. Se i fatti, visti in quanto fatti e non eventi, non mutano, anche i termini che li definiscono rischiano questo destino di non mutare.
Di converso, l’immutabilità condensata nel linguaggio non ‘traduce’ più nessuna realtà in movimento, ma la replica soltanto nella sua staticità. (L’osservazione della realtà odierna ne dà ampia prova).
Una visione esclusiva di tipo ‘fattuale’ delimiterebbe il perimetro entro cui la traduzione può legittimarsi. Dove anche un testo, a questo punto, potrebbe essere letto come un dato di fatto, non mutuato quindi né dalla storia personale e sociale dello scrittore né da quella del lettore.
Ma se tutto ciò rimane all’interno della letteratura scientifica, che ha necessità di tenere sotto controllo le variabili intervenienti (anche se sappiamo quanto di ideologico sia implicito in questo), potrebbe anche esserci una logica comprensibile. Diventa meno accettabile “quando entriamo nel mondo letterario, dove il discorso si fa più articolato”. (G. Mannacio).

[continua]

Anonimo ha detto...

[segue]
“Io credo che una certa dose di legittimità possa essere attribuito alla traduzione del romanzo, soprattutto se storico. Tale tipo di romanzo ha ad oggetto fatti determinati che trovano riscontro in una memoria collettiva consolidata.” … Più ci si discosta dal “ racconto storico” più diventa difficile la traduzione legittima” (G. Mannacio).
Nel caso della letteratura, più che con fatti, saremmo quindi in contatto con eventi poiché “…..la parola poetica si volge ad “ altro “ attraverso collegamenti che attraversano diversi campi di esperienza e trovano in essi il loro nutrimento” (G. Mannacio).
E - “tanto più se ciò che leggiamo appartiene a epoche da noi lontane - ciò che un lettore "comprende" non sarà mai quello che potrà comprendere un lettore contemporaneo all'autore e persino l'autore stesso” (F. Diano).

Veniamo dunque a riprendere il filo che lega l’opera, il traduttore ed il pubblico. E, di conseguenza il tema della qualità della traduzione, sapendo che “nessuna traduzione, per quanto meravigliosa, filologica, che diventa prima di tutto un atto di conoscenza per chi la fa, potrà ritrovare certe sottilissime ambiguità, allusività, sonorità dell'originale” (F. Diano).
Allora si deve “mirare *anche* alla cosiddetta “traduzione di servizio” ? (Ennio) Oppure, come sostiene Mannacio “ Banalizzo: meglio conoscere male che non conoscere affatto” (Su questo concorderei di primo acchito soprattutto rispetto a coloro che sostengono che un film, se doppiato, è meglio non vederlo).
Ma come si fa a salvaguardare la qualità? Come si fa ad evitare che la ‘moneta cattiva scacci quella buona’ come, lungimirantemente, sosteneva Marx? Già è difficile di per sé, senza chiamare in causa il problema della traduzione…
Come si fa a far convivere il fatto che una ‘buona’ traduzione è *anche* una buona opera in sé, autonoma rispetto al suo creatore? La qualità non inerisce soltanto a quanto un figlio assomigli al genitore ma a quanto un figlio è in grado di assomigliare a se stesso.
In un lavoro che verteva sulle diverse modalità di traduzione di particolari eventi psichici, utilizzando la rappresentazione cinematografica, avevo utilizzato, sconfinando nel ‘pascolo’ della poesia, le traduzioni (presenti numerose nel mercato editoriale) del multi strapazzato (ahimè) sonetto 66 di Shakespeare.
Sulla resa del contenuto, tutti erano per lo più d’accordo, rispetto alla validità delle traduzioni.
Sul rapporto forma-contenuto si sperimentavano le prime difficoltà: c’era chi si aggrappava al testo come ad una scialuppa di salvataggio, c’era chi sottolineava la utile presenza dei nomi in maiuscolo onde enfatizzare la loro importanza (= effetti speciali nei film), Altri invece si afferravano alla soddisfatta corrispondenza delle rime. Solo due si soffermarono sulla musicalità interna di una traduzione che si avvicinava di più alla musicalità interna (e quindi non soltanto della rima) del testo.

F. Diano riporta in un suo commento “Nella musica indiana, il metodo che si usa da centinaia di anni a tutt'oggi si chiama guru-shisha parampara, che significa "apprendimento diretto pratico dal maestro all'allievo". In genere si inizia fin dalla prima infanzia, mettendosi a seguire la pratica (pratica!) di un maestro che non ti impartisce alcuna lezione teorica. Nemmeno per sogno. Ti metti lì a guardare e ripeti esattamente quello che fa lui. E ripeti, ripeti, ripeti, per anni e anni”.
Ecco. Forse non possiamo arrivare a questo. Sarebbe una traduzione ‘automatica’.
Ma tradurre questa esperienza in un’altra altrettanto significativa per poter accedere alla qualità, che è sempre espressione di soggettività e di individualità e non di ripetizione, credo che sia possibile. O, almeno, me lo auguro.

[Fine]
Rita Simonitto

Francesca Diano ha detto...

Grazie Marcella, ho infatti apprezzato moltissimo le tue traduzioni. In quanto a Biblit, li conosco. Era organizzato da loro il convegno a cui tutti gridarono allo scandalo quando dissi che per tradurre poesia bisogna essere dei poeti e per tradurre letteratura scrittori.

Francesca Diano ha detto...

Un bellissimo intervento, ricco, articolato, che in un certo senso riassume e puntualizza quanto s'è detto e quindi utilissimo. Non so quanta esperienza di traduzione Rita abbia, e dunque se il suo discorso sia teorico o no, ma non credo di dover tornare sull'argomento, perché appunto, io sono in questo molto pragmatica e posso parlare solo della mia esperienza ultratrentennale, ma che ha le radici fin nella mia infanzia.
Iniziare a porsi la questione del perché si traduca è, a mio avviso, una questione di lana caprina, pura perdita di tempo, non ha senso. Si traduce da sempre. Perché? Perché l'uomo vuole sapere quello che l'altro dice, vuole ascoltare storie venute da lontano. Pascal diceva che se la gente se ne stesse a casa sua invece di uscire di casa, la storia del mondo sarebbe diversa. Ma la gente esce di casa ed è curiosa. Con le traduzioni si sono cambiate intere culture.
Quando riportavo l'esempio del guru-shishya parampara,(tecnica di apprendimento che in India si estende a ogni campo del sapere) mi pareva evidente che l'apprendimento non è affatto meccanico, ma al contrario, mette in condizione l'allievo di sperimentare ogni possibile sfumatura della tecnica e della conoscenza per poter poi essere libero di interpretare la disciplina mettendoci del suo. La teoria è inclusa nella pratica e, come chiunque insegni sa, la dimostrazione è la miglior maestra. La conoscenza della tecnica, che si acquisisce con la pratica e l'esperienza, rende liberi. Chi padroneggia la tecnica è finalmente in grado di "iniziare a fare". Tutto tranne che meccanico.

Francesca Diano ha detto...

Se qualcuno è curioso di sapere cosa intendo per tradurre poesia, questo è il link alla mia traduzione de Il Corvo, di Poe, che feci su richiesta di un noto editore che mi aveva commissionato la traduzione delle poesie di Poe ma poi pretendeva di pagare un simile lavoro a cartella, tariffa tal quale i romanzetti che pubblica, invece che a royalties, come un'opera dell'ingegno, qual è una traduzione poetica, richiede. La mia conoscenza dell'opera di Poe è molto antica e non c'è nulla che abbia scritto e che io non abbia letto in lingua originale, oltre a molti saggi sulla sua opera (di autori inglesi e americani)dunque nel tradurre ho tenuto conto di tutto questo, per coerenza con ciò che sostengo.

http://emiliashop.wordpress.com/2011/08/24/il-corvo-di-edgar-a-poe-tradotto-da-francesca-diano/

Moltinpoesia ha detto...

Ennio Abate:

Anch’io ritengo bello e profondo l’intervento di Rita Simonitto. È una dimostrazione che pure un blog può essere utilizzato per ragionare e approfondire certi temi e non solo per produrre chiacchiera, come i maligni insinuano.
Voglio però replicare sia a Rita, ma soprattutto a Francesca Diano per incoraggiare il dialogo. E metterò a fuoco il dilemma « Empiria e/o teoria?», a cui avevo accennato in un precedente commento.
Si sarà capito che sono, anche nel campo della traduzione, un difensore (non accecato e dunque consapevole dei suoi limiti) della teoria. La preferisco, comunque, al pragmatismo e all’empiria, che pure hanno i loro meriti (e difetti, se assolutizzati come metodo; errore a cui, come testimonia Lenzini, Fortini sfuggiva).
Perciò, cara Francesca, non penso che il discorso “alla larga” e le domande di Rita («Da dove arriva la ‘necessità’, chiamiamola così, di tra-durre, di portare ‘da…’ ‘…a’. Perché traduciamo? Per chi traduciamo? Per noi? Per gli altri?») debbano essere eluse.
Rita indica, appunto, un terreno teorico su cui dovremmo inoltrarci (certo non ora, non su un blog, etc.). Lo fa quando parla del corporeo (o «somatopsichico»), che ha bisogno di “tradursi” in mentale; e dice pure che quest’ultimo necessità di un esterno a cui relazionarsi.
Poi, alludendo anche al post precedente su sacro e poesia (http://moltinpoesia.blogspot.com/2012/02/ennio-abate-rileggendo-un-post-su.html), si aggira nel campo del mito, accenna ai limiti della Parola nel suo «rapporto drammatico, tragico in quanto sacrificale» con le sfere del sacro e del divino e ai problemi della «traduttibilità» (o traducibilità) in parola dell’esperienza intima. Aggiunge anche che si traduce ( ma si può dire anche ‘si legge’, accogliendo l’equiparazione che tu fai: «anche leggere è tradurre») perché si ha il desiderio di comunicare ad altri. Meglio se sconosciuti, così si conosce anche lo “sconosciuto” che è in ciascuno di noi.
Su tale terreno vedo una confluenza dei vostri discorsi.
Certo, «si traduce da sempre. Perché? Perché l'uomo vuole sapere quello che l'altro dice, vuole ascoltare storie venute da lontano». E Rita concorda con te anche perché privilegia , ritenendolo inevitabile, il rapporto traduttore/autore da tradurre, rispetto al rapporto traduttore/lettori destinatari, che io tentavo di non accantonare. (Anche se accenna ad alcuni rischi: i traduttori che si trovano « narcisisticamente, più un accordo con se stessi che con l’autore del testo »).
Tu mi sembri la più decisa nel sostenere che tradurre è un coinvolgersi in un corpo a corpo (eroico, amoroso, persino simbiotico “da poeta a poeta”) con l’Autore. Un’operazione (o missione?) condizionata in qualche misura soltanto dalle differenze strutturali delle due lingue messe a confronto. E sembri dire (interpretazione maliziosa mia!): E i lettori? Beh, i lettori/destinatari guardino e imparino…
Tutte le vostre affermazioni mi paiono ben fondate *antropologicamente* e rispettabili.
I miei dubbi crescono, invece, quando Francesca fa l’apologia (se posso calcare la mano) del pragmatismo. A questo punto mi pare che si *salti* o si tenga meno in conto (di quanto io vorrei) della “maledetta” storia, della “prosaica” contingenza storica. E si dia per scontato che, sì, va così da secoli, si è fatto sempre in questo modo (l'esempio del guru-shishya parampara) e non c’è da perdere tempo a rimenarsela con questioni di lana caprina (insomma a criticare, che è poi far teoria…).

[Continua]

Moltinpoesia ha detto...

Ennio Abate (continua):

Dissento. Quale il rischio che vedo nel pragmatismo (anche traduttorio)? Accenno ad alcune ragioni. Innanzitutto di delimitare il campo a quanti hanno esperienza (professionale) di traduzione, ai traduttori di professione. Non ci sto. Tutti traduciamo (se prendiamo sul serio, ad es., l’equiparazione leggere=tradurre); e in qualche misura sappiamo di cosa si sta discutendo qui e possiamo dire la nostra. Certo non tutti traduciamo da professionisti, con la frequenza e l’abilità traduttoria acquisita in anni di attività da uno specialista. E quindi sono d’accordo che la mia opinione di traduttore “metaforico” e non professionista vada vagliata con più cautela rispetto a quella dei traduttori di professione del Biblit ammirati da Marcella, i quali però non è detto che non abbiano i loro pregiudizi e le loro cecità.
Perché la lapalissiana evidenza dell’affermazione di Francesca («Si traduce da sempre. Perché? Perché l'uomo vuole sapere quello che l'altro dice, vuole ascoltare storie venute da lontano») non mi soddisfa?
Perché, pur accettando la curiosità come molla del tradurre e riconoscendo che «con le traduzioni si sono cambiate intere culture», sono convinto che abbiamo da sottoporre a verifica critica (per me politica!) questa curiosità e questi effettivi cambiamenti di intere culture.
E qui non si scappa: dobbiamo distinguere epoca per epoca e motivazione per motivazione. Una cosa è la curiosità di Marco Polo, altra quella dei conquistadores spagnoli, altra quella dei missionari alla Bartolomé de las Casas, altra ancora quella dei geografi ed esploratori positivisti dell’Ottocento; e poi dei colonizzatori armati e portatori della “civiltà” e ora dei tifosi delle «guerre umanitarie» e delle «primavere arabe», ecc.
E qui ci sarebbero da fare tanti approfondimenti e vagliare le ideologie di partenza, sì, dei traduttori. Che so: l’esotismo, l’eurocentrismo, l’orientalismo che sono alla base della *curiosità* molla del tradurre. (Cosa fatta egregiamente da Tzvetan Todorov ed Edward Said ad es…).
Quanto ai cambiamenti avvenuti nei paesi - diciamo - che abbiamo “tradotto” (spesso si è trattato purtroppo di *traduzione* nel senso di ‘trasporto di detenuti’ - si pensi agli schiavi dall’Africa nelle Americhe o nel senso di depreda mento di risorse) e se siano stati mutamenti progressivi o veri e propri genocidi, ne avremmo da discutere e magari litigare…
Francesca dice pure:«La teoria è inclusa nella pratica e, come chiunque insegni sa, la dimostrazione è la miglior maestra.». Eppure, dico ancora io, non tutta la teoria viene inclusa nella pratica. Perché le pratiche hanno una loro rigidità. Avvengono entro rapporti sociali consolidati che le fanno apparire “naturali”. Tanto per dire, si traduce di più dalle lingue centrali alle lingue periferiche, perché esistono rapporti di dominio tra determinati Stati e altri. E quindi anche tra lingue degli Stati dominanti (e - solo per questo! - “universali” o “più universali”… ricordarsi di Gramsci…) e gli Stati periferici. E queste traduzioni significano anche diffusione delle culture dominanti ed effetti “coca cola” sulle culture dominate.
Non ho un quadro della situazione, ma sarebbe interessante sapere quante traduzioni si fanno dall’anglo-americano nelle altre lingue rispetto alle traduzioni dal cinese, dal russo, dall’arabo, etc.
Questo solo per ricordare che, mentre traduciamo, partecipiamo anche ad operazioni di egemonia culturale a vantaggio di certe culture e a scapito di altre o viceversa. E allora il noto andante traduttore-traditore assume una connotazione più concreta e meno psicologica.

[Fine]

Anonimo ha detto...

Ennio:"Questo solo per ricordare che, mentre traduciamo, partecipiamo anche ad operazioni di egemonia culturale a vantaggio di certe culture e a scapito di altre o viceversa. (...)E qui non si scappa: dobbiamo distinguere epoca per epoca e motivazione per motivazione. "

Che interessante! Tu Ennio da cosa traduci e quali autori traduci o hai tradotto? Quali libri di teoria della traduzione preferisci di quelli che hai letto e quali invece non consiglieresti?

Ti sarei molto grata di qualche indicazione, siccome ne sono a digiuno. Grazie e mi scuso per le domande, ma sono certa che vorrai essere così gentile da rispondermi e delucidarmi in questo panorama sconfinato di testi. Poi vorrei sapere per favore qualcosa sulla suddivisone delle epoche se non ti dispiace darmi qualche breve indicazione su come procedi tu in questo senso rispetto alle epoche e alle motivazioni. Che vuoi dire e come risolvi la questione?

Arrivederci e grazie anticipate.
Lucia Mazzei

Anonimo ha detto...

A Ennio: "Rita indica, appunto, un terreno teorico su cui dovremmo inoltrarci (certo non ora, non su un blog, etc.). Lo fa quando parla del corporeo (o «somatopsichico»), che ha bisogno di “tradursi” in mentale; e dice pure che quest’ultimo necessità di un esterno a cui relazionarsi. "

Io sono molto interessata, Ennio, a sentire tu come ti ci inoltri, davvero, in queste difficili questioni. Mi auguro tanto che o farai qui, su questo blog. E se non qui, dove lo farai? Ti vorrei seguire e seguire dove trasporterai queste idee qui raccolte.

Grazie ancora, Lucia.

Unknown ha detto...

questa discussione può essere distinta, per ora in tre fasi ...il cui "gioco" ho il forte dubbio a questo punto sia stato debitamente nascosto .

Riavvolgo all'inzio .
Vedo il post,leggo i due documenti. Non si legge siano in antitesi o antagonismo, al massimo si può intuire che ai due saggi se ne vogliano raccogliere altri per una questione continua , spero di approfondimento e nessunaltra strumentalizzazione, della vita di Fortini, in questo caso come traduttore e teoria e pratica della traduzione

In questa prima fase del dibattito , NON VI SONO POLEMICHETTE, peraltro scritte come dire DONNETTE, o CHIACCHIERE o ALTRE RIDUZIONI OFFENSIVE (altrimenti non si apre nemmeno un blog, ma soprattutto non si è nemmeno scrittori, perchè il primo "peccato" di un letterato o romanziere o poeta, sarebbe quello di prendere a mazzate i suoi lettori, sull'alibi che lo farebbe in nome della cultura,o della teoria et simili) .
In quella prima fase è scritto gia tutto, che poi però viene manipolato vuoi da E.A., vuoi riassemblato da Rita Simonitto anche sulla somatica del suono / parola, così pure sulla differenza segnalata non solo dalla sottoscritta,fin dal primo intervento, fra la traduzione di prosa rispetto a quella di verso.

Ma purtroppo dalla seconda fase - ed ora riconfermato nella terza, oltre che ricapolvegere i fatti dialogici,oltre che offendere il corpo della stessa lingua in cui abbiamo parlato/scritto, oltre che probabilmente pretendere che si rimanga muti a tale manipolazione- si fa evidente che tutto questo post è la solita trappola, per lanciare esche,raccogliere idee, cazziare per la solita logica del chi disprezza compra, portare avanti chi ha rifatto meglio il compitino, ma soprattutto la cosa più triste non esprimere né dare modo alla propria creativita, mettendoci del proprio, ALLA PARI di tutti gli altri senza contrapporli, o contrapprgli la teoria della teoria di un non si sa che cosa.

Aspettiamo di sapere da tutta 'sta commedia , che ricorda , è allegoria forse, o iperbole di quella "Biblit"che ha raccontato Francesca.
saluti
ro

Francesca Diano ha detto...

Io credevo solo di dover portare la mia testimonianza di traduttrice letteraria... e invece mi si chiede un trattato sulla traduzione! A molte di queste domande ho già risposto, ad altre implicitamente, ad altre ancora ho risposto in modo sparso in cose scritte in passato. Certo mi sento lusingata, perché significa che quanto s'è detto è stimolante e interessa. Però, caro Ennio, non credo che questo sia il luogo, né il momento (in particolare per me, che ho delle urgenze di lavoro da portare a termine), di tentare (ovvio tentare) di trattare questioni faraoniche come queste, - ab ovo - che riempiono biblioteche e che, per essere affrontate in modo non salottiero, all'italiana per intenderci, richiedono studio, spazio, tempo e riflessione. Capisco che un lettore che non abbia alcuna esperienza, o esperienza seria di traduzione, possa porsi queste domande, anche se la maggior parte dei lettori nemmeno si accorge degli orrori che legge, e quindi quello che dici mi stimola a scriverci sopra qualcosa, ma con i tempi e i modi adeguati. E di questo ti ringrazio.

Anonimo ha detto...

"Perché la lapalissiana evidenza dell’affermazione di Francesca («Si traduce da sempre. Perché? Perché l'uomo vuole sapere quello che l'altro dice, vuole ascoltare storie venute da lontano») non mi soddisfa?
Perché, pur accettando la curiosità come molla del tradurre e riconoscendo che «con le traduzioni si sono cambiate intere culture», sono convinto che abbiamo da sottoporre a verifica critica (per me politica!) questa curiosità e questi effettivi cambiamenti di intere culture.
E qui non si scappa: dobbiamo distinguere epoca per epoca e motivazione per motivazione. Una cosa è la curiosità di Marco Polo, altra quella dei conquistadores spagnoli, altra quella dei missionari alla Bartolomé de las Casas, altra ancora quella dei geografi ed esploratori positivisti dell’Ottocento; e poi dei colonizzatori armati e portatori della “civiltà” e ora dei tifosi delle «guerre umanitarie» e delle «primavere arabe», ecc. "

Non ti "soddisfa" l'affermaizone di Francesca'. Ho capito, ma ho dei dubbi. Tu che risposta daresti Ennio ai quesiti che poni in questo dialogo? A che tipo di verifica critica tu sei convinto che bisogna passare? In che consiste questa verifica?

L.

Moltinpoesia ha detto...

Ennio Abate:

Gentile Lucia Mazzei (se sei Lucia e se sei Mazzei),
io non faccio testo. Ho tradotto poco e occasionalmente. Dal francese: Dominique Schnapper, La democrazia provvidenziale; Michel Lacroix, Il culto dell'emozione. Ma i temi che ho posto mi paiono importanti e legittimi e sicuramente affrontati al meglio da Fortini proprio in queste "Lezioni sulla traduzione" di cui qui qualcosa si è detto. Quelle dunque indicherei. Ma altri testi potranno essere suggeriti da Diano, Passannanti e spero altri/e.
I libri di Tzevtan Todorov e di Edward Said, pur non parlando di teoria della traduzione, mi sembrano importantissimi e ben noti.
Se davvero vuoi "seguire", non hai che da inviarmi il tuo recapito a moltinpoesia@gmail.com e ti terrò informata direttamente.

Francesca Diano ha detto...

Pensavo che, se la cosa può farvi piacere, visto l'interesse, posso anche tenere uno o più seminari sulla traduzione alla Palazzina, che potrebbero interessare anche a Marcella e a Rita e dove portò mettere a disposizione la mia esperienza di una vita.

Anonimo ha detto...

lucia.mazzei.1985@libero.it

Anonimo ha detto...

A Francesca ."Pensavo che, se la cosa può farvi piacere, visto l'interesse, posso anche tenere uno o più seminari sulla traduzione alla Palazzina, che potrebbero interessare anche a Marcella e a Rita e dove portò mettere a disposizione la mia esperienza di una vita."

Questa sarebbe una iniziativa molto molto utile per tutti e anche per quelle persone, come me, non citate. Si dà il caso che io abiti a Milano e ci verrei di corsa a sentire le lezioni di Francesca Diano sulla traduzione poetica e letteraria. Ciao ciao. Lucia

Francesca Diano ha detto...

@Lucia
Cara Lucia, sei veramente gentile. Ho esperienza accademica di questo tipo di cose, avendo tenuto un seminario all'Alma Mater di Bologna e in numerose conferenze in Italia (tra cui una serie al British Council a Milano) e all'estero. Ed è sempre un argomento molto stimolante. Se poi si creerà l'occasione, sarò molto felice di incontrarti.

Moltinpoesia ha detto...

Ennio Abate:

Ringrazio Lucia Mazzei. Le scriverò all'indirizzo segnalato appena posso.

Concordo con Francesca Diano. Possiamo preparare un incontro a Milano alla Palazzina Liberty nei tempi e nei modi più adatti ai suoi impegni e all'importanza dell'argomento. Ne parlerò non solo con il Lab. Moltinpoesia ma anche con la Casa della Poesia (non sono la stessa cosa).

Anonimo ha detto...

Una precisazione e un contributo per Lucia.
Sono interessata a Biblit in realtà solo in relazione al laboratorio sulla traduzione di poesia promosso da Piero Pozzi, cui ho accennato in precedenza. Il mio interesse per la traduzione è partito e parte dalla poesia.
Per Lucia, forse un testo che potrebbe esserle utile leggere è "Teorie contemporanee della traduzione", a cura di Siri Nergaard, Bompiani 2002 (II ed.). E' una raccolta di saggi che consentono un panorama interessante degli orientamenti teorici (ma, confesso, io ho letto quasi solo quelli relativi al tradurre poesia). Ho trovato molto interessante, nella direzione di una delle problematiche sollevate da Ennio, di Valerio Ferme, "Tradurre è tradire. La traduzione come sovversione culturale sotto il Fascismo", Longo Editore, Ravenna 2002.
ciao
Marcella

Anonimo ha detto...

Salve Marcella,

Grazie mille per questa indicazione. Dovrò studiare intensamente questo argomento a breve e sto raccogliendo una vasta bibliografia senza la quale non ci si può permettere di parlare di un argomento così serio e complesso per cui mi taccio anche perché la parte pratica, che è di competenza di voi che traducete (da poetesse) è non solo rilevante : è centrale. Per cui chi come me non ha questa competenza come traduttrice se non da dilettante non sa e non può sapere di cosa si tratti fino a quando non lo vada a provare. E certo non basta un atto di volontà per un lavoro che si acquisisce con anni ed anni di pratica e talento come per Francesca e te stessa, un lavoro dinanzi al quale ogni teoria lascia il tempo che trova e può anche risultare discorso ozioso esterno alla cosa. Nel settore c'è gente certamente in grado di discutere a menadito almeno dieci diverse teorie e prospettive contemporaneamente perché le conosce a fondo e ne sa tutti i complicati risvolti e ne parla senza rischiare di apparire stupido, e questo è molto affascinante. Deve essere difficile dire qualcosa di nuovo ed originale a queste persone che non appaia una cosa sentita e risentita mille volte, trita e ritrita. E allora per me meglio ascoltare adesso e rendere le mie belle note.
Grazie ancora. Lucia.

Anonimo ha detto...

Ho imparato molto da tutti i blog. Dunque grazie.Le mie riserve volevano segnalaresolo delle " difficoltà" sulle quali costruire una discussione.NOn ho riserve sulla necessità delle traduzioni.Bisogna conoscersi " nonostante tutto"
Da " traduttore pro domo mea " trovo indispensabile il testo a fronte e qualche nota.
La traduzione esige, mi pare, alcuni principoi guida e poi tecnica e sensibilità.In fondo anche i poeti cercano l'indicibile diun senbso che si affida ed è tradito dalle parole.Il traduttore non è forse - absit iniuria verbis - un poeta di " secondo grado " ? Francesca, mi piacerebbe leggere il tuo Corvo, poesia dal ritmo fascinoso che sempre mi ha attratto. Come fare ?
Un cordiale saluto.Giorgio Mannacio

Moltinpoesia ha detto...

Ennio Abate a Lucia Mazzei:

Ho mandato mail a lucia.mazzei.1985@libero.it
ma la risposta è:

Remote MTA liberomx4.libero.it: SMTP diagnostic: 550 #5.1.0 Address rejected lucia.mazzei.1985@libero.it

E allora?

Francesca Diano ha detto...

@ Giorgio Mannacio
Caro Giorgio, avevo messo più sopra il link alla mia traduzione, che si trova sia sul mio blog, Il Ramo di Corallo, sia su un sito italiano dedicato a Poe. Ti riposto il link e ti ringrazio per i tuoi interventi e il tuo interesse.

http://emiliashop.wordpress.com/2011/08/24/il-corvo-di-edgar-a-poe-tradotto-da-francesca-diano/

Anonimo ha detto...

Molto gentile questa disponibilità di Francesca che mi piacerebbe davvero conoscere.
Se Ennio ci fa sapere per tempo le date dell'iniziativa posso organizzarmi con gli impegni in modo da esserci.
Un caro saluto a tutti.
Rita S.

Anonimo ha detto...

Cara Francesca, non è una provocazione ma il segno dell'interesse profondo sul tema della
" traduzione". Come rendere in altra lingua quel " provvidenziale monstrum"che è la rima? Io lo ritengo, per certi versi, essenziale al discorso poetico per quella sua ambigua possibilità di partecipare di due opposte nature( vd S.Agosti. Il Cigno di Mallarmè-Pratiche Editrice -Parma 1997,107 ). Dice,poi, Jakobson
( Saggi di linguistica generale,Milano, 2005,205 ):"...lo studioso di poetica difficilmente può sostenere l'idea che le rime abbiano soltanto una vaga funzione sematica."
Cara Francesca, hic sunt leones. Un carissimo saluto. Giorgio Mannacio.

Anonimo ha detto...

Ciao Giorgio, come lo spieghi tu questo concetto di Jakobson? Mi sarebbe molto utile sapere cosa ne pensi e come potrei io sintetizzarlo per la mia tesi.
Grazie anticipate da
Lucia

Anonimo ha detto...

Cara Francesca, quanto prima ti manderò un mio minisaggio(mini sia per lunghezza che per valore )sulla rima. Se mi dai qualche tempo cercherò di chiarire prima a me e poi, spero, a te quel che ho capito di Jakobson.Ne intuisco il valore nell'espereinza dello scrivere. Un caro saluto. Giorgio

Anonimo ha detto...

Cara Francesca ,mi puoi mandare il tuo e-mail?
Sono in grado di farti avere il minisaggio.Seguirà " la mia lettura" di Jacokbos.
Buona serata. Giorgio

Anonimo ha detto...

Grazie, Giorgio,lucia.mazzei.1985@libero.it, ma perchè non chiedi a Ennio di pubblicarlo qui a Moltinpoesia come post per il beneficio di tutti? Sono certa che così come Francesca ha detto la sua in merito, generosamente, ed è stata apprezzata anche tu saresti apprezzatissimo.
Grazie e a presto, Lucia

Moltinpoesia ha detto...

Ennio Abate ripete il messaggio a Lucia Mazzei:

Ho rimandato mail a lucia.mazzei.1985@libero.it
ma la risposta è ANCORA:

- These recipients of your message have been processed by the mail server:
lucia.mazzei.1985@libero.it; Failed; 5.1.1 (bad destination mailbox address)

Remote MTA liberomx4.libero.it: SMTP diagnostic: 550 #5.1.0 Address rejected lucia.mazzei.1985@libero.it

E ALLORA?
LA SEDICENTE LUCIA MAZZEI DICHIARI UN INDIRIZZO CHE FUNZIONI
SE I SUI COMMENTI VOGLIONO ESSERE PRESI SUL SERIO

Francesca Diano ha detto...

Caro Giorgio, scusa, vedo ora i tuoi commenti qui. Ho ricevuto il tuo scritto e, come ti ho risposto nella mail è certo molto interessante. Il fatto è che non ci sono principi a priori per tradurre poesia e ancor meno nel tradurre le rime. Come ti ho detto nella mia risposta, la cosa è ancora (ma non sempre) fattibile se ci si muove tra lingue sorelle (francese/italiano/spagnolo - inglese/tedesco/olandese) molto meno se si traduce da lingue appartenenti a gruppi linguistici diversi, dato che le sonorità e le assonanze sono assai diverse ed è quasi sempre difficile mantenere significante e significato. Dunque, per non tradire e non togliere o aggiungere, si deve cercare di trovare sinonimi che permettano di ricostruire una rima, o sostituirla con allitterazioni e assonanze o rime interne. Sempre fermo restando che tradurre poesia in prosa è da evitare a ogni costo. Almeno si impari la metrica italiana e la si usi! Cosa che molti traduttori anche noti di poesia non fanno oppure credono che le rime possano sostituire ritmo e metrica.