mercoledì 21 marzo 2012

DISCUSSIONE
Ennio Abate
Sull’interpretazione
di una poesia di Wallace Stevens



Su Alfalibri supplemento al n.17 di alfabeta 2 ho letto la poesia di Stevens commentata da Guido Mazzoni. La ripropongo su questo blog, ma mi soffermo soprattutto sul commento. Per due motivi. Il primo: vi ho colto un cenno al discorso di Lukács che avevo  messo in bocca a Samizdat (qui): « Oggi il «volgo», dal punto di vista di Lukács, potrebbe essere il singolo imprigionato nella sua «individualità privata personale», con minime e falsate relazioni con gli altri e spesso solo di fronte alle «pure potenze astratte» che ci dominano. Pensa ai disoccupati, ai poveretti che se ne stanno chiusi in casa al computer a spedire curriculum a tutto spiano». Mazzoni, infatti, in modi simili scrive: «Lo stato di cose che rafforza la dipendenza oggettiva degli esseri particolari dai meccanismi alienati, incontrollabili dell’economia, della tecnica, della politica è lo stesso che spezza ogni legame fra gli individui». 
Il secondo: trovo inaccettabile la “rassegnazione all’americanizzazione”  o al «destino dell’uomo occidentale», di cui già parlò Romano Luperini in L’incontro e il caso (Laterza 2007) [Cfr. un mio commento qui]. Mazzoni correda la sua lettura di dotti richiami al nichilismo teorizzato da Nietzsche e alla freudiana «pulsione di morte», che sarebbero « componenti normalizzate della vita psichica collettiva», e di due frasette dai (per me) “novissimi qualunquisti” Carver e Houellebecq.  Nietzsche, Freud e i postmoderni: ecco  il contenuto della valigetta della generazione  accademica umanistica che oggi fa la spola tra Italia e USA e cura la formazione della massa studentesca precaria nelle nostre disfatte università; e tratta allo stesso modo - non è impertinente l'accostamento! - anche questioni politiche "locali" come quella della TAV (Cfr. qui) per non dire della "riforma del lavoro". 
Non vorrei implicare lo stesso Stevens in questa critica che rivolgo al commento di Mazzoni. E perciò  chiedo: sono gli occhiali postmoderni e disincantati di Mazzoni a produrre questa interpretazione del testo di Stevens, che invece potrebbe essere letto anche in altro modo? O è lo stesso testo qui esaminato che si presta e suggerisce solo tale interpretazione? Mi piacerebbe sentire la vostra opinione.  [E.A.].


The Course of a Particular
di Wallace Stevens


Today the leaves cry, hanging on branches swept by wind,
Yet the nothingness of winter becomes a little less.
It is still full of icy shades and shapen snow.
The leaves cry… One holds off and merely hears the cry.
It is a busy cry, concerning someone else.
And though one says that one is part of everything,
There is a conflict, there is a resistance involved;
And being part is an exertion that declines:
One feels the life of that which gives life as it is.
The leaves cry. It is not a cry of divine attention,
Nor the smoke-drift of puffed-out heroes, nor human cry.
It is the cry of leaves that do not transcend themselves,
In the absence of fantasia, without meaning more
Than they are in the final finding of the ear, in the thing
Itself, until, at last, the cry concerns no one at all.

Il corso di un particolare

Oggi le foglie gridano. Pendono dai rami che il vento agita.
Eppure il nulla dell’inverno si annulla leggermente.
È ancora pieno di ombre gelide e neve modellata.
Le foglie gridano. Ci si ritira, ci si limita a ascoltare.
È un grido assorto e riguarda qualcun altro.
Ma per quanto si dica che uno è parte di tutto
c’è un conflitto implicito, c’è una resistenza;
essere parte è uno sforzo che declina:
si sente la vita di ciò che dà la vita così com’è.
Le foglie gridano. Non è un grido
di attenzione divina, il fumo di eroi tronfi o un grido umano.
È il grido di foglie che non trascendono se stesse
In assenza di immaginazione, senza significare più di ciò che sono
nell’ultima percezione dell’udito, nella cosa stessa,
finché il grido, alla fine, non riguarda più nessuno.
  
Commento di Guido Mazzoni

The Course of a Particular appartiene all’ultima stagione della
poesia di Wallace Stevens, la più importante. Pubblicata sulla
«Hudson Review» nel 1951 ed esclusa per distrazione dai Collected
Poems del 1954, comparve in volume nell’Opus Posthumous
(1957), due anni dopo la morte dell’autore. Al verso 14
Stevens esitò fra air (nel dattiloscritto) e ear (nella «Hudson
Review»), che sembra essere la versione definitiva.
Il ciclo delle stagioni condanna al dolore e alla morte alcune
foglie appese ai rami scossi dal vento. Benché il nulla dell’inverno
stia diminuendo, alle foglie interessa solo la propria
sofferenza. Il passante si limita ad ascoltare il grido busy («impegnato
», «assorto», direi) di entità diverse da lui che provano
dolore o che perdono la vita. Ripete uno dei topoi cui le culture
umane ricorrono quando vogliono arginare l’angoscia per
il destino degli esseri particolari; dice a se stesso che l’uno è
parte del tutto. I vv. 6-10 contengono forse un riferimento a
Spinoza, exertion essendo una delle possibili traduzioni inglesi
del conatus, lo sforzo con cui, nel sistema dell’Etica, ogni cosa
tenta di perseverare nel proprio essere fino a quando non
viene distrutta da una causa esterna. Ma colui che prende la
parola in questa poesia non può condividere la serenità di chi,
come Spinoza, prende le parti dell’intero: fra l’uno e il tutto si
percepisce un attrito, una resistenza. Il grido delle foglie sofferenti
non è divino o eroico, e neppure umano. Le persone
possono trascendere se stesse attraverso la fantasia, l’immaginazione
simbolica; possono attribuire significati alle cose e costruire
ciò che Stevens chiamava «finzioni supreme», riuscendo
in questo modo a significare più di ciò che sono. Le foglie,
invece, rimangono esposte al proprio nulla: non potendo contare
su una rete di convenzioni, progetti, illusioni, desideri,
sogni condivisi che inscriva la loro esistenza singolare in un
ordine superiore, significano solo se stesse. Mentre il grido degli
esseri umani, in teoria, può essere tramandato e raccolto, il
grido delle foglie, alla fine, non riguarda più nessuno.
Oggi è molto difficile credere che la vita delle persone possa
essere raccolta, tramandata e affidata a una qualsiasi forma
di trascendenza. Lo era già nel 1951, quando Stevens scrive
questa poesia, o nel 1871, cioè negli anni in cui Nietzsche co
mincia a tradurre in discorso filosofico la crisi della cultura
platonico-cristiana. La differenza è che oggi il nichilismo e la
pulsione di morte sono componenti normalizzate della vita
psichica collettiva. Entrate stabilmente nei sistemi disciplinari
e negli apparati di dominio, si mostrano sotto forma di cinismo,
di inappartenenza, di coazione a consumare cose, persone,
esperienze finché si è in vita, nella convinzione inconscia
o dichiarata che, prima, dopo e intorno a questa vita, non
ci sia alcuna finzione suprema. D’altra parte nessuna cultura
ha mai attribuito alla dimensione della nuda particolarità un
peso paragonabile a quello che le ha attribuito la cultura occidentale
moderna, dalla Dichiarazione dei diritti dell’uomo e
del cittadino al narcisismo di massa contemporaneo. Questo
doppio movimento rende incomponibile la frattura fra gli
universali di qualsiasi tipo (Dio, il Dovere, la Politica, la Rivoluzione)
e gli esseri particolari che si credono portatori di un
diritto infinito. Lo stato di cose che rafforza la dipendenza oggettiva
degli esseri particolari dai meccanismi alienati, incontrollabili
dell’economia, della tecnica, della politica è lo stesso
che spezza ogni legame fra gli individui e le loro finzioni supreme,
nonché ogni solidarietà orizzontale fra le persone o fra
gruppi di persone che, oggettivamente, avrebbero gli stessi interessi.
«Due cose sono sicure: uno, ormai alla gente non importa
più niente di quello che succede all’altra gente; due, nulla
ha più davvero importanza ormai» (Carver, So Much Water
So Close to Home); «Bruno si accorse anche che non gliene fregava
più un cazzo: i colleghi, i seminari di riflessione, la formazione
umana degli adolescenti, le altre culture» (Houellebecq,
Les Particules élémentaires).

Note

Wallace Stevens (1879-1955) è uno dei maggiori poeti del modernismo americano.
Nacque in Pennsylvania, studiò a Harvard, lavorò per tutta la vita come dirigente di
una compagnia di assicurazioni a Hartford, nel Connecticut. Il suo primo libro di
poesia è Harmonium (1923). Scrisse gran parte delle sue opere principali negli ultimi
vent’anni di vita, fra il 1935 e il 1955: Ideas of Order (1936), Owl’s Clover (1936),
The Man With the Blue Guitar (1937), Notes Towards a Supreme Fiction (1942), Parts
of a World (1942), Transport to Summer (1947), The Auroras of Autumn (1950), The
Rock (in Collected Poems, 1954). Nel 1957 uscì l’Opus Posthumous (1957). Le edizioni
italiane di Stevens sono state curate da Renato Poggioli (Mattino domenicale e altre
poesie, Einaudi 1954), da Massimo Bacigalupo (Il mondo come meditazione, Guanda
1986, ultima edizione 2010; L’angelo necessario, Coliseum 1988; Harmonium
1915-1955, Einaudi 1994) e da Nadia Fusini (Note verso la finzione suprema, Arsenale
1987; Aurore d’autunno, Garzanti 1992). Tradotta da Bacigalupo in due versioni
differenti, Il corso di un particolare si può leggere in Il mondo come meditazione e in
Harmonium. Poesie 1915-1955.
  
Guido Mazzoni (1967) ha studiato alla Scuola Normale Superiore di Pisa. È stato borsista all’École Normale Supérieure di Parigi (1994-1995), Lecturer alloUniversity College di Londra (1995-96), Fulbright Visiting Scholar alla University of Chicago (2003-04), Italian Affiliated Fellow for the Arts all’American Academy di Roma (2007), Professeur invité all’École Normale Supérieure di Parigi (2010), Visiting professor alla University of Chicago (2011). 
Ha scritto i libri di poesia La scomparsa del respiro dopo la caduta (in Poesia contemporanea. Terzo quaderno italiano, Guerini, 1992) e I mondi (Donzelli, 2010), e i saggi Forma e solitudine (Marcos y Marcos, 2002), Sulla poesia moderna (Il Mulino, 2005), Teoria del romanzo (Il Mulino, 2011). 
Coordina, per la Mondadori, l’edizione commentata delle poesie di Eugenio Montale (2003- ). Ha diretto, con Alberto Casadei, la collana di poesia «Arte poetica» (Luca Sossella editore, 2007-2009); fa parte del comitato di lettura della collana «Nuova poetica» (Transeuropa). E’ fra i fondatori del premio letterario Stephen Dedalus (2009- ) e del sito letterario «Le parole e le cose» www.leparoleelecose.it (2011- ). Fa parte del comitato direttivo della rivista di teoria e critica letteraria «Allegoria», del comitato direttivo e scientifico del Centro Studi Franco Fortini e della rivista «L’Ospite ingrato» .


58 commenti:

giorgio linguaglossa ha detto...

W. Stevens è uno dei maggiori poeti del Novecento, purtroppo è un poeta poco studiato in Italia, la sua è una poesia di difficile lettura e di difficile recezione. Ma qui vorrei attirare l'attenzione su un tipo di poesia che mette a fuoco l'oggetto, il reale, mediante l'impiego della parabola, del concetto, o meglio dell'idea del concetto, e quindi dell'idea della cosa. L'asprezza e il grande realismo della poesia di Strevens riposa tutto su questo punto: l'idea della "cosa" che sta in un campo aperto di possibilità; compito del discorso poetico è indicare (attraverso la gamma delle retorizzazioni) il campo di possibilità che sono date al linguaggio poetico. Insomma, Stevens sposta il periscopio della sua procedura dai linguaggi poetici al "metodo" del discorso poetico. C'è sempre una tensione che governa i rapporti tra le parole del discorso poetico... ecco, Stevens porta all'estremo le tensioni che si sviluppano all'interno del campo di forze (anche simboliche, non solo certo semantiche) della forma-poesia.
È un poeta che purtroppo ha avuto pochi seguaci in Italia.

Anonimo ha detto...

Sarà l'eccesso della descrizione, così frequente nella poesia americana (beninteso il mio è il parere di un lettore che legge da traduzione e potrei sbagliarmi), che mi fa capire ancor meglio alcune differenze sostanziali tra quella poesia e la nostra europea: quante parole per un'immagine così asciutta!
Detto questo mi sembra che il commento di Mazzoni riduca l'indifferenza ad un problema degenerante di costumi e moralità. Non si mette nella condizione in cui "le foglie gridano"… "finché il grido, alla fine, non riguarda più nessuno".
Infatti così scrive Mazzoni: "alle foglie interessa solo la propria sofferenza."
Bisogna essere in quella condizione per capire che anche il pessimismo a volte, è da ritenersi un lusso.
mayoor

Anonimo ha detto...

L'urlo delle foglie è per chi ancora non sa com'è il soffrire il morire, l'urlo sarà anche di questi che ora passano in vita senza sentire il grido d'aiuto , di certo, anch'essi quando sarà il momento avranno imparato ad urlare. Niente di più , purtroppo. Emy

Annamaria ha detto...

Ancora un giorno ancora un'ora...
raggi glaciali che mi accartocciate
intiepidite
lasciate al vento di accarezzarmi la rugosa trama
un tempo verde chioma
sono tazza a una famiglia di formiche
nel mio ventre accoccolata
l'inverno l'ha sorpresa e ibernata
se sino al tramonto vivrò
il passerotto intirizzito rivedrò
sfileranno le nubi su di me
tintinnerò di gioia.
Come gridano di dolore le sorelle...
Le sentite almeno?
L'albero fratello
ha perso le sue mani ad una ad una

Oggi sono passata da piazza Duomo
un uomo mi offriva rosse e bianche rose
mi ha detto "Ho fame ho fame..."
frettolosa mi sono imbucata nel metro
s o t t o t e r r a
Come posso raccogliere la supplica di una foglia?
Solo l'uomo manca di immaginazione

Annamaria

Anonimo ha detto...

Non mi stacco per pietà
lasciatemi qui a tremare
non so più
a che albero appartengo
ma la mia vita è finita
sento i vostri passi
avanzano come allora
sul selciato freddo
attenti lenti ora
la paura riduce il pensiero
foglie urlanti assottigliano
la boriosa indifferenza.
E' tardi per capire
ferite e legami.

emilia

Moltinpoesia ha detto...

Ennio Abate:

Che strano effetto!
Io chiedo:"sono gli occhiali postmoderni e disincantati di Mazzoni a produrre questa interpretazione del testo di Stevens, che invece potrebbe essere letto anche in altro modo? O è lo stesso testo qui esaminato che si presta e suggerisce solo tale interpretazione? " e mi sento rispondere:
Ok Stevens! Adesso ti facciamo vedere noi cosa gridano delle vere foglie (magari femministe)!

Anonimo ha detto...

NIENTE FEMMINISMO!!!! emy

Anonimo ha detto...

Mi arriva da una amica americana questa traduzione, secondo lei più adeguata della poesia di Stevens.
-Il senso di gran parte della sua opera è propriamente una ricerca epistemologica, cioè meditazione sulla possibilità dell'uomo di capire il mondo non umano.E' un compito interpretativo e filosofico più vicino alla filosofia della scienza che alla filosofia sociale.
un autore difficile anche per chi non ha pregiudizi razisti contro l'America.

Oggi, le foglie gridano,sui rami spazzati dal vento
eppure è un poco diminuito il nulla dell'inverno.
Pieno d'ombre ghiacciate ancora e di forme di neve.
Le foglie gridano...Non si infierisce il grido si sente appena.
E' un grido intento, che riguarda altri.
E sebbene si dice che l'uno è parte del tutto,
c'è un conflitto, è coinvolta una resistenza;
ed esser parte è uno sforzo che vien meno:
si sente la vita di ciò che dà la vita così com'è.
Le foglie gridano. Non è un grido d'attenzione divina,
nè il vortice di fumo di eroi spenti dal vento, nè grido umano.
E' il grido delle foglie che non sono altro che se stesse,
senza fantasticherie, senza significare di più
di quel che sono in ciò che alla fine troval'orecchio,nella cosa
in sè, finchè alla fine, il grido non interessa a nessuno.

Ciao a tutti Emy

Moltinpoesia ha detto...

Ennio Abate:


Premettendo che conosco poco l’inglese (e l’americano) e attenendomi solo alle mie conoscenze d’italiano, faccio le seguenti osservazioni sulla traduzione dell’amica americana di Emy:

1. «Non si infierisce» al posto di «Ci si ritira»?
Ma su chi o cosa non si infierisce?

2. «il grido si sente appena» al posto di «ci si limita ad ascoltare»?
La qualità (fievole) del grido viene sostituita dalla percezione (limitata) di chi l’ascolta?

3. «E’ un grido intento» (= intenzionato, mirato a qualcosa) mi pare cosa diversa da «E’ un grido assorto» (= chiuso in sé, ripiegato su di sé).

4. «E sebbene si dice», anche se nell’italiano odierno l’indicativo va sostituendo il congiuntivo, mi pare scorretto o meno corretto rispetto a « Ma per quanto si dica», che il congiuntivo lo rispetta.

5. « il vortice di fumo di eroi spenti dal vento» mi pare tutt’altra cosa rispetto a « il fumo di eroi tronfi».

6. « senza fantasticherie» mi pare più capriccioso e meno filosofico di « In assenza di immaginazione».

Anonimo ha detto...

A Ennio:Mi sarà difficile rintracciarla ma se ci riuscirò, le chiederò di risponderti. Emy

Francesca Diano ha detto...

Ma quant'è brutta questa traduzione, sia per la trascuratezza dell'italiano che per la poca comprensione del testo e quanta parte è inventata rispetto al testo. In certi punti pare fatta col traduttore automatico.
Comunque:
1) Nel primo verso si inventa un punto che non esiste. Esiste una virgola e in un testo poetico la punteggiatura è altrettanto essenziale quanto ogni parola. "hanging" è un present continuous, cioè un presente progressivo e indica un'azione che viene compiuta "durante". Dunque le foglie gridano "mentre" sono attaccate ai rami (orribile il "pendono dai") e l'azione del gridare è profondamente collegata al loro essere attaccate ai rami e allo stesso tempo "sospinte dal vento" (assai meglio del "che il vento agita). Eliminare questa sfumatura significa ammazzare il senso profondo del verso.

2) Nothingness è vero che significa "nulla" ma anche "insignificanza". E tradurre con "il nulla dell'inverno" è una traduzione grossolana e priva di significato. Assai meglio e più aderente al senso "l'insignificanza dell'inverno", anche perché tutta la poesia è giocata sul significato o meno del dolore e sull'indifferenza di fronte ad esso. Ma al traduttore sarà sembrato molto raffinato affiancare "il nulla dell'inverno" a "si annulla leggermente". Si annulla leggermente???? O si annulla o non si annulla. Non esistono sfumature nell'annullarsi. Strano che il traduttore non lo sappia. In realtà, "becomes a little less" significa "diminuisce un poco".

Francesca Diano ha detto...

3) "Shapen snow", neve che ha assunto delle forme. Modellata? Da chi?

4) "One holds off" tradotto con "ci si ritira" è risibile. "to hold off", significa "respingere, astenersi, evitare, tenersi alla larga". Dunque: "le foglie gridano.Si è indifferenti e si ode solo il grido" (In questo punto anche la seconda traduzione, di fatto migliore e più elegante di quella di Mazzoni, è errata). Cioè, nonostante le foglie gridino, chi le guarda rimane indifferente e il loro grido rimane solo un rumore che non tocca chi ascolta.

5)"busy" assorto??? è anzi l'opposto! busy in inglese significa "attivo, laborioso, impegnato, ricco di particolari", altro che assorto (errata anche la seconda traduzione, che lo rende con "intento"). Dunque, questo grido è ricco di echi, di particolari, di contenuti, ma riguarda qualcun altro e non chi lo ascolta. In questo sta l'indifferenza, nel non riconoscere nel dolore altrui anche il proprio.

6)"One" in inglese è usato per l'impersonale, dunque: "e anche se si dice che si è parte del tutto (e non "di tutto")" oppure " e pur dicendo che si è parte del tutto" NON "ma per quanto si dica che uno è parte di tutto". Che brutto...

7) "there is a conflict" significa: "c'è un conflitto" Da dove tira fuori "implicito"? A meno che questo traduttore non creda che "involved" significhi implicito! La traduzione corretta è: "C'è un conflitto, c'è una resistenza in questo". Cioè, prima si dice che siamo parte del tutto e poi si prendono le distanze dal dolore dell'altro. Le foglie sono ovviamente metafora degli esseri umani, ormai divenuti estranei l'un l'altro.

Ecc. ecc. Mi fermo qui perché mi sono stufata e il lavoro di revisione è troppo lungo.
Comunque dissento dall'interpretazione che Mazzoni dà del testo. Non "alle foglie interessa solo la propria sofferenza", ma è proprio la sofferenza delle foglie, una sofferenza che ci è estranea, a non interessare a nessuno, come dice l'ultimo verso. Il testo denuncia questa atomizzazione dell'uomo, questa sua estraneità a se stesso e agli altri e in fondo, al tutto.

Wallace Stevens è un poeta raffinatissimo e sottile, ma certo, da una traduzione così non si capisce molto di quello che intende. Ovvio che poi mayoor scriva quello che scrive, perché davvero la traduzione cancella la bellezza disperata dell'originale.

Francesca Diano ha detto...

Ennio, i tuoi dubbi sono tutti corretti. Ho scritto un commento più sotto in cui contesto punto per punto questa traduzione brutta e tirata via, con non pochi errori di traduzione. Non sono arrivata fino in fondo perché il lavoro di revisione era troppo lungo e casomai è compito di un editore serio (ma ne esistono ancora?) controllare che le traduzioni poetiche che pubblica siano di qualità e non criticabili a livelli addirittura di errori grossolani. Una svista può accadere a tutti. Una però.... e se di svista si tratta. Qui c'è ben altro.

Anonimo ha detto...

Grazie Francesca riferirò. Ciao Emy

giorgio linguaglossa ha detto...

i rilievi di Francesca Diano alla traduzione di Guido Mazzoni mi sembrano del tutto fondati... ma questo lo dico non per sovraccaricare Mazzoni degli errori di traduzioni e delle sviste della sua traduzione, quanto per ricordare a tutti quanto difficile è fare una traduzione di un testo e quanto rischiosa... certo, Stevens è un poeta che sotto una apparente semplicità nasconde enormi difficoltà di interpretazione e di resa in un'altra lingua. Quindi grazie a Guido Mazzoni per la sua fatica e grazie soprattutto a Francesca Diano per le sue acutissime notazioni...

Anonimo ha detto...

La sofferenza delle foglie: non interessa all'ego-intellettuale perché è solo un fenomeno naturale, un evento privo di significato che si esaurisce nell'accadimento. Per il poeta non è così, quel grido l'ha sentito bene. Altri avrebbero potuto dire che quel grido è anche il loro, ma Wallace Stevens non cerca di imitare interiormente l'evento, osserva e constata con amarezza... quel grido nel gelido inverno. Non falsifica reinterpretando, non fa psicologismo, non personalizza l'evento. E così facendo lo mantiene integro.
mayoor
ps. Grazie Francesca, ho riletto e ora mi sembra tutto più chiaro.

Anonimo ha detto...

Però è strano: che ci fanno delle foglie mosse dal vento in un paesaggio di neve? ...
"È ancora pieno di ombre gelide e neve modellata." (mi affido qui la prima traduzione).
"E' ancora..." quindi è tardo inverno, saran le poche foglie rimaste... e forse la neve non è dappertutto...
mayoor

Anonimo ha detto...

Fresco d'Inglese, mi sono permesso di ritradurre la poesia e proporre un ritmo che, abbandonando l'originale d'altre forme attraversato, traccia un ponte sonoro più attagliato alla forma italiana.

"Oggi le foglie gridano,
appese ai rami tremano di vento
e diventa un piccolo meno
il già nulla dell’inverno
Ancora affollato di ombre gelate e forme di neve
le foglie gridano…
qualcuno l’ignora e ne sente appena il grido
Grido lontano che riguarda qualcun altro
E sebbene si dica che ogni cosa è parte del tutto
c’é lotta
una resistenza che invita
il farne parte già sforzo che stanca:
si sente vita in ciò che porta la vita vera
Le foglie gridano e
non é attenzione divina
né quel vortice d'aria dove si spengono gli Eroi
né grido umano

E’ il grido delle foglie che non si liberano.

In assenza di creazione, senza un significato aggiunto
esse sono ferme al loro ultimo palpito,
a quel grido che alla fine non sente più nessuno

Giuseppe Beppe Provenzale

Anonimo ha detto...

Beppe è bellissima!!! Emy

Francesca Diano ha detto...

Grazie a te Emy per averla condivisa. In effetti la qualità sia interpretativa che stilistica è assai migliore di quella "ufficiale"

Francesca Diano ha detto...

Grazie Linguaglossa. In effetti questa è una dimostrazione di cosa implichi il tradurre; poesia o narrativa che sia, quando il testo è di un grande autore. Il rispetto passa dal riconoscimento della nostra ignoranza e dall'umiltà con cui è necessario affrontare il testo e il suo autore. Prima di poter portare a compimento una traduzione il lavoro è lungo.

Francesca Diano ha detto...

Acuta osservazione. Però ci sono alberi che nemmeno in inverno perdono le foglie e il freddo dell'inverno comincia a scemare. Comunque, per rispondere alla tua domanda, guarda questa foto della casa di Stevens ad Hartford...sembra fatta apposta. C'è la neve e gli alberi con le foglie!
http://en.wikipedia.org/wiki/File:Wallace_Stevens_House_-_Hartford,_CT.jpg

Francesca Diano ha detto...

Bravo Beppe, bella traduzione. Mi permetto solo qualche piccola osservazione:
"Sebbene si dica che ogni cosa è parte del tutto". Non è "ogni cosa", ma proprio riferito a un "noi" impersonale: one, one.
"Fantasia" non è "creazione", ma immaginazione e "without meaning more than they are etc." non è "senza un significato aggiunto esse sono ferme al loro ultimo palpito" ma "senza significare più di quel che sono, nel loro finale giungere all'orecchio,nella cosa in sé, finché, alla fine, quel grido non riguarda nessuno." (non "più nessuno", errore di traduzione anche si Mazzoni, altrimenti parrebbe che PRIMA riguardava qualcuno, mentre POI non riguarda più nessuno.)

Francesca Diano ha detto...

A questo punto propongo una mia traduzione, con un suggerimento: "To cry" significa sia piangere che gridare. Io scelgo di tradurlo con piangere. Lo trovo molto più significativo.

Oggi le foglie, appese ai rami, piangono sospinte dal vento,
Tuttavia l'insignificanza dell'inverno s'attenua un poco.
Ancora pieno d'ombre gelate e di forme nevose.
Le foglie piangono...si è indifferenti e solo si ode il pianto.
E' un pianto intenso, che riguarda altri.
E pur dicendo che si è parte del tutto
In questo vi è un conflitto, una resistenza;
Essere parte è un impegno che scema.
Si sente la vita di ciò che dà la vita come è
Le foglie piangono. Non un pianto degno di attenzione divina,
Né il vortice di fumo di eroi rigonfi, né pianto umano.
E' il pianto delle foglie che non trascendono se stesse,
In assenza d'immaginazione, senza significare più
Di quanto siano nel giungere all'udito, nella cosa
In sé, finché quel pianto, infine, non riguarda nessuno.

Anonimo ha detto...

Se il senso di gran parte dell' operadi Stevens è la meditazione sulla possibilità dell'uomo di capire il mondo non umano, le foglie non sono metafora degli esseri umani,per Stevens le foglie sono foglie e tutta la poesia sta nella distinzione,freddamente ironica, fra le foglie e gli uomini che attribuiscono scioccamente alle foglie i loro sentimenti. Così è e mi pare- Emy

Anonimo ha detto...

Giorgio Mannacio:


L’ignoranza dell’inglese mi impone di non entrare nel merito delle traduzioni. Di W S ho letto Il mondo come meditazione ( Guanda 1986, introduzione e traduzione di Bacigalupo ) e Mattino domenicale ( Einaudi 1988 , traduzione di Poggioli, nota critica di Carboni ). Apprendo dalle note critiche che W.S si riteneva, con una punta di autoironia, intraducibile. Aggiungo che si tratterebbe in ogni caso non di intraducibilità sintattica. Mi pare giusta l’osservazione di Carboni che
“ raramente W.S è sintatticamente stravagante “. Credo che le difficoltà nascano dalla natura stessa della sua esperienza poetica. Se il mondo è il “ prodotto “ di una meditazione ( ci può essere una meditazione che non siano individuale ? ) esso è difficilmente comunicabile.
E, poi, si aggiunga che l’atteggiamento di W.S rispetto al mondo è, a dir poco, ambiguo.
Dall’insieme delle sue poesie si ricava , con una certa sicurezza, una attenzione sulle cose che pare alludere ad una sorta di “ esistenza oggettiva “ di esse come “ mondo separato dalla meditazione “
Una sorta di esistenza noumenica ( raggiungibile/irraggiungibile ? ) dotato di una vita
( “ un grido di foglie che trascendono sé stesse “ ) contrapposta alla cultura ( meditazione ).
Bacigalupo parla di platonismo di W.S ma, se è così, si tratta di platonismo ben strano in quanto le essenze del suo paradiso non sono idee ma cose vive. W.S non mi pare abbia – nelle proprie armi retoriche - l’uso della metafora e dunque, penso, la foglie della poesia non sono uomini ma la
“ natura bruta e vivente “ ( parte per il tutto ). Poeta della crisi ? Si, ma dominata dal rigore della meditazione, appunto. Escluderei una lettura strettamente politica.

Anonimo ha detto...

Grazie dell'attenzione.
- Io preferisco tradurre to cry in "gridare" perché la sento azione rivolta a qualcuno e non il piangere ripiegato su se stessi.
- "One" impersonale funziona in inglese ma in italiano lo si può aggiungere di "totalità" e "ogni cosa", espressione che é migliore di uno fa, uno va, uno é... Qui la letteratura italiana é più ricca.
- Quel "prima" c'é e riguarda il godimento della natura primaverile delle foglie, fermate ora in una decadenza invernale che non interessa più.
- Fantasia in inglese non é "la fantasia" ma l'esatto momento della creazione staccata dalla realtà. "Fantasia" di W. Disney la dice lunga su questo significato.
Ciao
Giuseppe Beppe Provenzale

Francesca Diano ha detto...

Grazie a te Beppe della risposta. Dissento però dalla tua interpretazione del termine "fantasia" (che non ho mai detto significhi fantasia) come "creazione", che è creation ed è un termine molto preciso. Fantasia (come tu fai riferimento al film di Diseny) è un termine spesso usato in musica e significa un pout pourri di generi e fancies, interludi e immagini o a qualcosa di fantastico o irregolare. Ma è a quel pout pourri, a quel fantastico che fantasia si riferisce, non alla creazione musicale. A volte è usato come sinonimo di fancy o di fantasy. Ma come creazione mai.
In Stevens l'ultimo verso dice: the cry concerns no one at all. Sottolinea quel "no one" nessuno ma non c'è "anymore", che è aggiunto indebitamente. Né Stevens accenna a nature primaverili di sorta. La sua è una nuda constatazione di un "qui e ora". E Stevens, come la Dickinson misura ogni parola, ogni sfumatura, ogni allusione al milionesimo di millimetro.
Ribadisco anche che "one says that one is part of everything" non può essere tradotto con "ogni cosa". L'io impersonale che in tutta la poesia funge da osservatore e da voce, (e aggiungo che la scelta di questa impersonalità di un soggetto non specificato e anonimo è uno dei cardini del testo) si rispecchia in questo doppio "one - one", impersonale e anzi vi è qui una certa polemica con Walt Whitman e la sua visione unitaria del tutto. Dunque non lo si può trasformare in "ogni cosa", casomai in "tutti".
Ma tu stesso dici di essere fresco d'inglese, dunque il tuo è già uno sforzo lodevolissimo.

Anonimo ha detto...

E' insolitamente bella questa... gita: discutendo della traduzione si finisce con l'entrare meglio nella poesia... ed ora perfino a casa sua. Grazie
mayoor

Anonimo ha detto...

E io preciso.
Sai bene che la scrittura deve fermare nero su bianco ciò che "si sente". Ma non c'é una grammatica per i sentimenti e le parole possono non essere sufficienti. Da qui l'indeterminato nella poesia. L'analisi che fai si limita alle parole, e queste per quanto millimetriche, possono non essere appieno fedeli. Un uso più liberato dalla forma di comunicazione e più orientate alla percezione possono fornire una cross-section più vicina al pensiero dell'autore/tutti gli autori. Una poesia non é un articolo pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale e per fargli giustizia serve qualcosa di più di una traduzione letterale, anche se sintatticamente corretta.
Diceva (circa)il nostro ottimo Leonardo Terzo: "La traduzione é come una donna: se é fedele è brutta, se é bella é infedele". Senza snaturare.
"Fresco d'Inglese" vuol dire fresco di frequenti viaggi negli States, per conferenze e lezioni in Colleges americani, ad esempio.

Giuseppe Beppe Provenzale

Francesca Diano ha detto...

Evidentemente abbiamo due posizioni diverse su cosa si intenda per traduzione e per traduzione di un testo poetico. Ne ho parlato e scritto a lungo sia su questo blog che altrove. Purtroppo Leonardo Terzo afferma, come altri, una banalità, oltre a dimostrare un sessismo vecchio stampo da bar dello Sport. Stiamo ancora ai luoghi comuni della donna bella e traditrice e brutta e fedele? Suvvia, spero non ci crederai anche tu! L'esperienza dimostra l'opposto: spesso una donna bella è fedele, perché non deve dimostrare a se stessa il proprio fascino o soffocare le frustrazioni, mentre una brutta tende a fare l'opposto per le opposte ragioni. Ma mi rifiuto di fare queste generalizzazioni. Così è per una traduzione. Ho dato dimostrazione che una "bella" traduzione può essere anche fedele. Tutto dipende dalle capacità e dalle competenze del traduttore.
Un traduttore poi, se tale è, dovrebbe sapere che l'analisi filologica delle parole, oltre alla conoscenza profonda dell'autore, del tempo e della lingua, sono il solo mezzo per fare una traduzione degna di questo nome, perché per essere tradotto un testo va capito prima di tutto. Hai ragione, non c'è una grammatica per i sentimenti, ma una traduzione è un profondo processo ermeneutico. Se poi si ha piacere di interpretare il testo a proprio modo, ben venga. Basta che non la si chiami traduzione. Oltre 30 anni di traduzione letteraria, molti anni di vita all'estero tra Londra, Irlanda e in USA (io non ho fatto conferenze e lezioni in università straniere, ci ho proprio insegnato) e di molto altro credo mi permettano di sapere cosa si intenda per traduzione.
Non volevo certo sminuire la tua conoscenza dell'inglese, ci mancherebbe!
Ma, appunto, come era emerso da un post sulla traduzione con oltre 100 commenti, le posizioni dei traduttori sono varie. La mia è quella di rispettare l'autore quanto più sia possibile e, ovviamente, di renderlo in un linguaggio letterario e in uno stile che si avvicini il più possibile all'originale.

Anonimo ha detto...

Certo qui non stiamo a mostrare i nostri credits...
Approfondendo si sa quanto il pensare inglese e italiano siano diversi. A volte può essere riduttivo e penalizzante per l'originale cercare di forzare una forma dentro un'altra. Bisognerebbe confessare che certi versi sono decentemente intraducibili - a meno di non travisare il significato - e puntare decisi (senza ma e paletti) verso un'interpretazione di gradiente e valenza universali.
Giuseppe Beppe Provenzale

Anonimo ha detto...

Una lettura strettamente politica forse non può darsi, ma se si intende l'aggettivo in senso ampio, attinente ad una concezione del mondo che condiziona il progetto politico forse sì. Credo che le foglie in questa poesia, l'unica che conosco dell'autore, stiano a significare la natura vivente da quella vegetale a quella animale fino all'umanità discriminata o sfuttata, comunque in grave difficoltà.
Ennio mi ha mandato l'originale e le due traduzioni iniziali di questa poesia, invitandomi ad intervenire nella discussione in corso sul blog. Per motivi vari (non ultimo quello che una traduzione mi richiede comunque l'uso del vocabolario e un tempo di riflessione non proprio minimo) ci ho messo un pò ma ora sono in grado di contribuire al blog con una prima traduzione.
Mi ha fatto piacere vedere confermata da Francesca la mia interpretazione complessiva del testo, anche se su alcuni particolari della traduzione la mia scelta è differente. Concordo pienamente con lei sul fatto che si debba cercare di dare una traduzione fedele e bella. Si può anche trarre da un originale una libera versione molto più bella che fedele. Ma non si tratta di una traduzione.
Ecco il mio testo provvisorio e in almeno un punto ancora dubitativo.

(nella prossima finestra, perché non mi accetta tutto: oltre i 4096 caratteri. ciao. Marcella)

Anonimo ha detto...

Oggi le foglie urlano, appese a rami squassati dal vento,
eppure un poco si stempera il niente dell’inverno.
Ancora pieno di ombre di ghiaccio e forme innevate.
Le foglie urlano… Si aspetta e ci si limita ad ascoltare.
E’ un urlo carico di fatica, che riguarda qualcun altro.
E sebbene si dica che si è parte del tutto,
c’è una contraddizione, è coinvolta una resistenza,
ed esser parte è un esercizio che si pratica sempre meno:
si avverte la vita di quello che dà vita così com’è.
Le foglie urlano. Non è l’urlo d’attenzione di un dio,
né l’ondeggiare come fumo di eroi esausti, né urlo d’uomo.
E’ l’urlo di foglie che non trascendono se stesse,
in mancanza di immaginazione, senza significare più
di quel che sono nel responso finale dell’orecchio, nella cosa
in sé, finché alla fine l’urlo non riguarda più nessuno del tutto.

Nella mia finestra del blog 5 volte l'ultima parola del verso finisce a capo, e non dev'essere così. Non riesco a correggere, non so perché ma non ci riesco. Spero che quando la leggerete non sia così, se invece lo fosse tenete conto di quanto ora detto.
Specifico alcune mie scelte e un dubbio.
Al verso 2 nothingness è situazione di non esistenza, credo anche non ancora vita, come quando la natura non si è ancora risvegliata dal letargo invernale. Credo si possa tradurre qui con niente o nulla, ho preferito niente a nulla: mi è sembrato più aderente al ‘temperamento’ di questi versi. Non credo che l'inverno possa essere insignificante per questo autore, per questo non condivido qui la scelta di Francesca.
Al verso 3 shapen snow: sono le case gli alberi le colline le auto e tutto quanto la neve copre, forme innevate, ma avevo preferito forme di neve per evitare la facile rima interna con ombre gelate (prima scelta traduttiva), incoerente con questa poesia. Poi ho cambiato in ombre di ghiaccio e ho potuto usare forme innevate. L'unica rima della poesia (con a caso thing al sesto e penultimo verso) l'ho riprodotta tra il sesto e l'ltimo verso.
Al verso 4 hear è sia udire, sentire che ascoltare, prestare attenzione. Avevo preferenza per la prima accezione riguardo al significato, ma sentire in italiano è ambiguo (può indicare anche una percezione con precisa partecipazione del sentimento) e va proprio nella direzione opposta a quella voluta, a mio parere, dall’autore. Dunque udire o ascoltare. Ho preferito il secondo per suggerimento del precedente One holds off, che indica proprio l’aver, magari solo per un attimo, prestato attenzione a quel che si è udito e avere magari pensato a... ma poi...
Il quinto è un verso che mi lascia ancora in dubbio. La prima interpretazione d’istinto è stata che si riferisse all’urlo nella percezione di chi lo ascolta (nella sua testa: sono molto occupato, non mi riguarda). Ripiegando senza piena convinzione sul riferirsi invece alle foglie(-universo vivente che comprende anche l’umanità discriminata), ho dovuto forzare il senso di busy traducendolo con carico di fatica e interpretare il concerning someone else come un riferimento per es. alla fatica del migrante che lavora per la famiglia rimasta in patria e altro di analogo. Ma continuo a sentire entrambe le interpretazioni un po’ forzate.
Voi che ne dite, è un dubbio infondato?

un saluto a tutti

marcella

Francesca Diano ha detto...

Cara Marcella, una bellissima traduzione davvero che, oltretutto, ha il pregio di essere stata meditata, in cui c'è uno scavo profondo del testo e, come tu stessa mostri, offrendo le tue note, una ricerca raffinata. Questa è una delle poesie più famose di Stevens e non a caso. E' davvero un poeta che pone questioni difficili, sia a un lettore che a un traduttore e lui ne era consapevole. Ma grande parte del suo fascino sta in questo voluto vortice di ambiguità interpretativa in cui ti trascina, con un uso lessicale e sintattico apparentemente semplice e in cui invece ogni parola diventa un crocicchio di vie, aperte sull'ignoto.
Dalle tue note questo è ancora più evidente. E' come uno di quei giochi in cui, se scegli una certa opzione, poi sei indirizzato a un'altra e un'altra, a cui non saresti arrivato se ne avessi scelta all'inizio una diversa. Questa è un po' l'idea di un universo guidato dal caso, indeterminato e ti ringrazio di avermi aiutata a dare questa ulteriore lettura.

Anonimo ha detto...

Anch'io devo ringraziare, soprattutto te, per il notevolissimo contributo dato a questo piccolo confronto su un testo, Emy per aver dato il via alla riflessione con la traduzione della sua amica ed Ennio che ha proposto questo post di riflessione sulla poetica di Stevens.
Ma dimmi: cosa pensi del mio dubbio sul quinto verso? è venuto anche a te? comunque ti sembra lecito? se sì, c'è qualche elemento nel testo o altrove che potrebbe far propendere per l'una o l'altra interpretazione?
un caro saluto
marcella

Francesca Diano ha detto...

Il "busy" del quinto verso ha, secondo me, lo scopo di creare un cortocircuito con il "someone else". Io l'ho inteso come un grido (o un pianto) affollato di significati, ma anche accorato (le foglie sono tutte prese dal loro gridare) e tuttavia, questo vivere il dolore delle foglie, non riguarda chi ascolta, ma appunto altri che non siamo noi che ascoltiamo. La contrapposizione tra il particolare (the particular del titolo) e la totalità. Il particolare, che non riguarda "the life of what gives life" e che attrae "the divine attention", diviene però un universo in sé, pur se separato. E da questo la contrapposizione, il conflitto, reso centrale dal settimo verso - il cuore e il fulcro del testo. Il senso di contrapposizione e di conflitto è sottolineato da avverbi come "yet, merely, though, e dalle numerosissime negazioni.
Per i dubbi cui accenni, io escluderei la prima interpretazione. E' the cry a essere busy, "busy cry", non chi ascolta. Però che sia tale, lo percepisce chi lo sente. La percezione che il grido sia tutto teso in se stesso, intenso ecc. non è delle foglie. Loro si limitano a emetterlo. It's a matter of fact, un dato di fatto. Perché quel "concerning someone else" è la riflessione proprio di chi lo sente.
E qui forse sta un senso più interno del testo. Tutto ciò che non siamo noi, il nostro universo umano, ci è estraneo. Noi riflettiamo, percepiamo, sentiamo, vediamo, ma non ne siamo coinvolti. La natura, il non umano (ma per metafora "l'altro") si limita a esistere, a essere se stesso. La Cosa in Sé. Lo iato, l'estraneità, sono qui.
Caro saluto anche a te e a tutti quelli che hanno contribuito a una bellissima discussione.

Anonimo ha detto...

Probabilmente questi miei versi sono stati superati dalla discussione.
Li mando perchè queste sono le riflessioni mi ha suscitato la lettura della poesia di Stevens,quando è apparsa sul Blog.
Foglie

Sono costretta a scegliere.
Una, una sola di quelle foglie,
raggiunta dal gelo,senza scampo.
Neppure la forza d accartocciarmi,
disidratata,sottile.
Sono costretta..Chi sceglierò?
Sono a posto quando fingo.
A una sola,a una sola al giorno
il mio superfluo.
Ho indagato è così tanto, così inutile.
Il pane gettato:
"non si butta il pane, è sacrilegio"..
E le scarpe sei paia alla stagione
certo non per ritrovare l'amore
che si è perduto.
Chissà se un giorno
le foglie morte,accartocciate, raggrinzite
rinverdiranno sotto la pioggia e per vendetta
tutte insieme grideranno.
M:Maddalena Monti

Anonimo ha detto...

Ah! Maddalena la tua forza va oltre molto oltre. Essere freddi e incorruttibili in poesia sarà importante ma per me impossibile e la tua poesia da Stevens a Stevens è molto bella , una risposta , un altro capitolo che si apre per noi . Ciao Emy

Anonimo ha detto...

Vorrei anche aggiungere che Stevens mentre cerca di essere incorruttibile, fa nascere in chi lo legge sentimenti forti,che rendono il senso delle cose ancor più fuori dall'uomo, sottolineandone la distinzione. Emy

Gabriel ha detto...

Alla Diano (che avrà certamente in mente le traduzioni di Montale): un poeta mica traduce letteralmente.. e neppure sente di dover rispettare il mondo dell'altro poeta da cui strappa le parole. Ma trasferisce nel proprio mondo le parole che traduce, per questo è sublime tradimento quando un poeta traduce un altro poeta. Per capire quella traduzione, quindi, bisogna aver letto I Mondi, di Guido Mazzoni. E anche un po' di Baumann e di Sennet, che pure poeti non sono ma...
Gabriel

Guido Mazzoni ha detto...

Ringrazio Ennio Abate e “Moltinpoesia” per la pubblicazione e per il dibattito, di cui colpevolmente mi accorgo solo adesso. Ho fatto uscire una nuova versione di questo articolo su “Le parole e le cose”; Ennio Abate è intervenuto per commentarla e mi ha segnalato questo post. Sono contento che la traduzione di "The Course of a Particular" abbia suscitato un dibattito così acceso e interessante. Ringrazio tutti coloro che sono intervenuti, in particolare Emy, Ennio Abate, Francesca Diano e Marcella per le loro osservazioni puntuali e Giuseppe Provenzale per la sua versione. Poiché in questa sede avete discusso della versione italiana più che del commento, vorrei rispondere ad alcuni dei vostri rilievi sul testo. Per il dibattito sul commento mi permetto di rimandare alla discussione in corso su “Le parole e le cose”:

http://www.leparoleelecose.it/?p=4333


Come si sa, la traduzione (e in particolare la traduzione di poesia) cerca di trasferire un certo testo in un sistema culturale diverso. A cambiare non è solo il lessico; sono anche la metrica, la sintassi, la memoria letteraria, le abitudini stilistiche cui il testo rinvia. In questo senso una traduzione troppo letterale, attenta soltanto a rendere il lessico con esattezza, è sempre sbagliata, perché non tiene conto di tutti gli elementi che mutano nel passaggio da un sistema all’altro. Di solito si paragona la traduzione letteraria alla pratica dell’esecuzione nella musica classica; ma secondo me il paragone artistico più interessante è con l’ambito della musica pop e rock: la traduzione è una cover. Come tutte le cover deve muoversi dentro dei limiti: dei limiti musicali oggettivi (la stecca, ovvero la svista del traduttore) e dei limiti estetici oltre i quali la cover diventa un rifacimento. Le frontiere vanno tracciate testo per testo; si tratta però di confini ampi, soprattutto per quanto riguarda la poesia. Nella discussione su Stevens, per esempio, Emy, Diano, Giuseppe Provenzale, Marcella hanno proposto delle traduzioni (delle cover); M. Maddalena Monti un rifacimento.

Le critiche maggiori alla versione che ho proposto provengono da Francesca Diano; risponderò soprattutto a lei. Nei suoi interventi trovo una commistione di giudizi oggettivi e di giudizi di gusto che per me è ingiustificata. Se i giudizi di gusto sono sempre legittimi (è del tutto legittimo che Diano trovi la mia traduzione “brutta e tirata via”; in questo campo ogni parere può andar bene), i giudizi oggettivi hanno uno statuto di realtà diverso. Diano invece sovrappone i due livelli in un modo che a me pare sbagliato. Certo: quando si parla di correttezza grammaticale di una traduzione poetica si deve presupporre una banda di oscillazione molto ampia. Tutti sanno che, alla lettera, il primo verso di questa poesia si traduce “Oggi le foglie gridano, [foglie] che pendono [o stanno appese] dai rami spazzati dal vento”: tutto quello che ecceda questa resa è, in un’ottica rigida e miope di correttezza letterale, illegittimo. E tuttavia a partire da questo piano si apre una serie possibilità che, nella pratica della traduzione letteraria, sono considerate credibili, anzi desiderabili, perché cercano di rispondere al compito del traduttore: riscrivere il testo in un sistema linguistico e culturale diverso. Francesca Diano lo sa benissimo, tant’è vero che nella sua versione si prende tutte le libertà del buon traduttore. Quando però si tratta di giudicare la mia versione il suo metro di giudizio cambia: ogni allontanamento dalla mera lettera del testo diventa un “errore grossolano” o “risibile”.

Guido Mazzoni ha detto...

Prendiamo il primo verso, che io traduco “Oggi le foglie gridano. Pendono dai rami che il vento agita”, cambiando la sintassi. Diano critica questa soluzione con argomenti che si richiamano alla correttezza letterale (so bene che in quel punto, come in molti altri, la mia traduzione non è né vuole essere letterale), e con il tono di chi sembra dire “questo verso è oggettivamente sbagliato”. Il problema è che poi, nella sua traduzione, Diano scrive “Oggi le foglie, appese ai rami, piangono sospinte dal vento”. Ora: se si applicasse lo stesso metro di giudizio e lo stesso tono, si dovrebbe dire che “sospinte dal vento” è sbagliato: Stevens scrive “swept”; l’unica traduzione letterale ammissibile è “spazzate”; tutto il resto, se si accetta questa logica, è solo un allontanamento indebito. E forse si dovrebbe criticare anche la scelta di rendere “cry” con “piangere”: lessicalmente possibile ma improbabile per chi conosce l’opera di Stevens. Beninteso: a me pare legittimo che Diano traduca “sospinte” o “piangono”; posso non essere d’accordo sul piano del giudizio di gusto, ma non presenterei il mio dissenso con i toni pseudoggettivi e ultimativi che Diano usa.

Continuiamo col secondo verso. Ancora una volta, la mia traduzione non è né vuole essere letterale. Diano sembra presupporre che io non lo sappia e critica la scelta di tradurre “becomes a little less” con “si annulla leggermente”. In questo caso il suo argomento è l’uso lessicale italiano: “si annulla leggermente?”, scrive Diano, “o si annulla o non si annulla. Non esistono sfumature nell’annullarsi”. Ora: a parte il fatto che questa affermazione è lessicalmente contestabile, se si dovesse adottare un simile metro di giudizio la poesia italiana verrebbe rasa al suolo: Vittorio Sereni non avrebbe mai potuto scrivere “nulla nessuno in nessun luogo mai” perché “nulla” e “nessuno” non possono stare in un luogo, e dunque “nulla nessuno in nessun luogo mai” è un assurdo logico, e la poesia italiana del XX secolo perderebbe il suo endecasillabo più bello.

Terzo verso. “Shapen snow”: “neve modellata”. Sono particolarmente fiero di questa resa: si parla normalmente di “neve modellata” (dal vento, dagli spazzaneve, ecc.); per come la vedo io, la mia traduzione riattiva una frase di senso comune. Ma Diano si chiede “modellata da chi?”. Dovrebbe chiederlo a Stevens, non a me.

Guido Mazzoni ha detto...

Potrei continuare verso per verso fino alla fine se non temessi di abusare della pazienza del lettore. In sintesi dico questo: non mi pare che nella mia traduzione ci siano “errori grossolani di traduzione”. Può essere, ma non mi pare. Anzi: se ne trovate segnalatemeli, così mi aiutate a migliorare la mia versione. E’ legittimo giudicare questo tentativo “brutto”, “tirato via” o “fatto col traduttore automatico”; è illegittimo giudicarlo pieno di errori grossolani. La versione dell’articolo che ho pubblicato su LPLC è diversa da quella apparsa su “Alfabeta2” per quanto riguarda il commento, che non mi pareva del tutto a fuoco, mentre la traduzione è rimasta quasi la stessa perché mi pareva buona. C’è solo un punto sul quale mi sono ricreduto, cioè il v. 4. All’inizio avevo tradotto: “ci si ritira, ci si limita ad ascoltare”. “Hold off” vuol dire letteralmente “rimanere a distanza”, ma anche “aspettare” (“hold off for a minute”). “Hold off” è però anche il contrario di “hold on” (“tener duro”, “resistere”, ma anche “aggrapparsi”, “restare attaccato a”). Mi pareva che “ritirarsi” potesse stare nel campo semantico aperto da queste possibilità, e mi piaceva lo schema metrico - - - + - - - + - - - + - che in questo modo si veniva a creare: tredici sillabe leggibili come un endecasillabo di 2-6-10 preceduto da due sillabe atone iniziali; un verso ritmicamente scandito, con una forte simmetria interna, che dava ordine e suonava bene. Poi, rileggendo l’articolo a distanza di settimane, ho pensato che la mia interpretazione tendeva il testo oltre i limiti della sua elasticità e rischiava di suonare esagerata: la prima versione cui avevo pensato “si rimane a distanza, ci si limita a ascoltare” era più letterale e non suonava male, essendo un verso doppio 7+8, leggibile come un doppio settenario alla cui seconda parte sia stata aggiunta una sillaba atona iniziale; uno schema metrico frequente in Montale (il primo esempio che mi viene in mente è “Poi come su uno schermo, s’accamperanno di gitto”).

Insomma: ogni traduzione è precaria, mutevole e potenzialmente infinita. Proprio per questo bisognerebbe parlarne con toni dialogici e fallibili. Ciò detto, ringrazio di nuovo coloro che sono intervenuti. Alcune delle soluzioni che avete proposto mi stanno facendo riflettere e può darsi che mi inducano in futuro a cambiare questa versione.

Anonimo ha detto...

Il corso di un particolare

Oggi le foglie gridano, sospese ai rami battuti dal vento,
eppure il nulla dell’inverno un poco si assottiglia.
E’ ancora pieno di ombre gelate e forme di neve.

Le foglie gridano… A distanza, si sente solo il grido.
E’ un grido indaffarato, che riguarda qualche altro.
E sebbene si dica che si è parte del tutto,

c’è un conflitto, una resistenza implicata;
l’essere parte è un impulso che declina:
si sente la vita di ciò che dà vita com’è.

Le foglie gridano. Non è grido di pietà divina,
né l’alito estremo di eroi senza fiato, né grido umano.
E’ il grido di foglie immanenti a se stesse,

vuote di fantasia, che non significano più di quello che sono
all’orecchio di chi finalmente le accolga, è la cosa
stessa, finché in ultimo il grido non riguarda nessuno.

(La traduzione è di Nadia Fusini)

fm

Anonimo ha detto...

Mazzoni, il suo commento alla lirica di Stevens è sicuramente all'altezza, una riflessione che tiene, almeno per quel che mi riguarda. Così come, sempre per quel che mi riguarda, la sua traduzione è pessima (anche esteticamente brutta), fa acqua in parecchi punti.

E quando lei dice alla Diano di chiedere lumi a Stevens, rende un gran brutto servizio alla sua intelligenza di studioso: dal quale ci si aspetta sempre che conosca a fondo la poetica dell'autore che traduce. Ebbene, alcuni passaggi e alcune soluzioni da lei scelti nella versione sono abbastanza lontani dall'universo del poeta americano.

Niente di che, anche gli esercizi servono ad affinare gli strumenti.

Saluti.

fm

Guido Mazzoni ha detto...

Chiederei a fm di uscire dalla petizione di principio e di dirmi perché, secondo lui, la traduzione è pessima. Così potremmo discuterne.

Ho chiesto a Francesca Diano di domandare lumi a Stevens in un punto nel quale la mia traduzione era assolutamente letterale; nel commento ho spiegato perché. Si trattava ovviamente di un’osservazione ironica; spero che nessuno se la sia presa a male per così poco.

Anonimo ha detto...

Lei ha ragione, Mazzoni, a proposito di “petizione di principio” – e me ne scuso.
Purtroppo, per problemi legati alla vista, accentuati oltretutto dai caratteri del colonnino commenti del blog, faccio fatica non solo a leggere ma anche a scrivere.

Mettiamola così, allora.

In primo luogo, io vedo questo suo lavoro come una “versione” e non come una “traduzione”. Non mi chieda adesso di spiegarle la differenza tra i due termini, la conosce meglio di me. Proprio in quanto trattasi di “versione”, avrei preferito un cappello introduttivo al post su “Le Parole e le Cose” che lo specificasse e, perché no, desse conto di qualche ragione dell’operazione. Non avrei avuto niente da obiettare, in nessun caso, e forse avrei letto il tutto con maggiore attenzione, proprio perché so, per quella che è la mia formazione e per quello che posso conoscere in materia, che molto spesso le migliori idee nascono proprio da “esperimenti” sbagliati.

Lei, secondo me (e ribadisco la parzialità della mia osservazione) ha riscritto Stevens, adattandolo alle coordinate e al paradigma “poetico” che sviluppa ne “I mondi” (a proposito: un gran bel libro, con alcune pagine veramente splendide): niente di male, ma quello “non è” Stevens, o non lo è la più parte, nonostante lei si ostini a evidenziare (parlo dei suoi interventi) l’assoluta fedeltà letterale di alcune scelte traduttologiche. Ed ecco perché, nel mio intervento, notavo la “tenuta” del suo commento: che, in quel contesto, in ragione di quelle scelte, regge – e regge anche bene.

Se prendiamo invece la lirica nella sua cornice “naturale”, stevensiana, dove rappresenta un tassello assolutamente imprescindibile, come pochi altri, nell’esplicitazione delle ragioni profonde della poetica dell’autore, a partire dalle stesse opzioni teoriche alle quale fa (sempre) riferimento, vediamo che l’operazione inizia a traballare.

(continua...)

fm

Anonimo ha detto...

Un paio di inciampi (macroscopici, secondo me).

1) Lei sa benissimo quale valore, gnoseologico ed ermeneutico, prima ancora che poetico-espressivo, abbiano in Stevens le scelte “formali”: perché allora distruggere la sequenza salmodiante in terzine, che riporta ad un lento, metodico continuum della visione, fatto di passaggi e di concatenazioni che “ripetono” l’incedere di una riflessione ciclica (che può riprendere ad ogni istante, in ogni punto della “parabola discensionale” che riporta l’idea, il concetto, alla terrestrità “data” del suo fondamento), e rinchiuderla nella rigida ipostatizzazione in tre macro-fotogrammi (le sue tre strofe) che, così isolati, ne disperdono, insieme al ritmo, anche il senso? E proprio nel mentre “senso” e “ritmo” sono in Stevens manifestazioni della la stessa “res naturata” e della poesia che la dice?

2) L’inverno è topos figurale, anche a livello immaginale, della scrittura di Stevens: ha lo stesso valore, se mi consente, e date per scontate le debite distinzioni che il mio paragone sorvola, che il “bianco”, la “neve”, il “ghiaccio”, il “cristallo” hanno nella definizione dell’universo ideativi ed espressivo del Celan della maturità: perché renderlo un dato poco più che “atmosferico”, ambientale, stagionale?

Guardi: la prima terzina è fondamentale, gli attori sono tutti in scena: foglie, rami, vento, inverno, ombre, neve (esattamente gli stessi, e non è un caso, di un altro testo fondamentale di Stevens, “The Snowman”): tutte maschere mute, epifanie senza voce di quell’indicibile (“nothingness”) che l’occhio può solo registrare, nell’assoluta pietricata visione che s’imprime.
Quindi:

- spezzare il primo verso con un punto, è arbitrario, introduce un elemento “esterno” (un “sapere”) che la visione, nel suo moto di “pura registrazione” non contempla (la poesia può solo prendere atto della “perdita”, della “lontananza” dalla verità, non darne le ragioni, nell’illusione, magari, che il frammento osservato parli e “riveli”: sarebbe come possedere l’alfabeto con cui la natura “scrive” le sue forme, pretendere di decifrare la grammatica del grido: trascendenza, in ultima istanza: ma il trascendente, in Stevens, non è nient’altro che “oblio” dell’origine, non certamente logos che parla, che crea);
- il secondo verso è francamente brutto, in tutti i sensi: quel “nulla che si annulla leggermente” è tremendo, e il primo a ribellarsi è l’orecchio (almeno il mio);

- nel terzo (la vera chiave dello scrigno, di cui non tiene conto) lei traduce “shapen snow” con “neve modellata”, ineccepibile col vocabolario alla mano; ma il letterale, in questo caso, trascina l’intera composizione fuori dalla pelle stevensiana, la fa diventare “altro”, la fa “dire”. E infatti, la domanda che sorge spontanea è. “modellata da chi?” – che rimanda, inevitabilmente, a un intervento esterno, a una possibilità sia pure remota di “sapere”. Ma le “forme di neve”, come splendidamente traduce la Fusini sulla scorta di altre accezioni con cui Stevens utilizza spesso il verbo di riferimento, non solo in “Aurore d’autunno”, escludono la domanda, a priori: quelle “forme” sono proprio le concrezioni naturali di quell’alfabeto e di quella grammatica che l’occhio (la poesia) non sa s-piegare, può solo registrare il vuoto, il nulla che quelle epifanie transitorie gli rimandano – fino a diventare parte dello stesso paesaggio, dello stesso nulla.

Si potrebbe continuare a lungo, per quanti sono gli altri versi, ma mi fermo qui, ribadendo la natura estemporanea delle mie osservazioni: non senza averla prima ringraziata della possibilità che mi ha dato di parlare, di “rileggere” parlando, un poeta che amo molto.

Un saluto a tutti.

fm

p.s.

Chiedo scusa per lo “spezzatino”, ma non mi accetta l’intero commento.

Guido Mazzoni ha detto...

Ringrazio fm per il suo intervento. Le sue osservazioni mi permettono di precisare alcune cose.

- fm si sofferma sulla variante principale che la mia versione introduce rispetto al testo di Stevens: Stevens scrive in terzine (è uno dei suoi schemi preferiti); la traduzione che ho proposto divide la poesia in tre strofe. Le due partizioni strofiche coincidono con le due principali pause logiche del testo, quella fra il v. 5 e il v. 6 e fra il v. 9 v. 10. Seguendo la logica del discorso, e non il ritmo delle terzine, viene fuori una struttura perfettamente simmetrica: cinque versi-quattro versi-cinque versi. Se ho adottato questa partizione, è anche perché il testo la conteneva già in forma implicita. Ma la ragione principale è un’altra, e fm l’ha colta molto bene: se “The Course of a Particular” fosse stato un testo mio, lo avrei scandito in quel modo. Per come la vedo io, una buona traduzione deve essere una cover, non un’esecuzione.

- Il primo verso di questa poesia straordinaria è il meno straordinario di tutti. Contiene due accostamenti lessicali stereotipati: le foglie “hanging on branches” e i rami. “swept by wind” Ai miei occhi sono soluzioni deludenti, sicuramente non all’altezza di quello che viene dopo. Mi sono preso la responsabilità di muovere il verso per renderlo meno prevedibile. Può darsi benissimo che il rimedio sia peggiore del male, ma l’intento era consapevole. Se avessi avuto più coraggio avrei scritto: “Oggi le foglie gridano. Il vento agita i rami”. Forse è questa la soluzione migliore.

- Il secondo verso contiene la rima interna "nothingness": "less". Ho cercato di trasferire in italiano l’effetto iterativo della rima attraverso un doppio settenario e una ripetizione: “Il nulla dell’inverno si annulla leggermente”.

- “Shapen snow” è “neve modellata”, alla lettera o quasi. Non “shapes of snow” ma “shapen snow”. A me pare una soluzione molto bella, perché è vicina al linguaggio ordinario, perché è precisa senza esserlo troppo, perché non genera aloni semantici troppo facili - e Stevens, come tutti i grandi poeti, non ha bisogno di aloni. Non la ritoccherei. Per me “forme di neve” è una lectio facilior che rovina ciò che Stevens ha costruito.

Ringrazio di nuovo fm per la sua lettura e per le sue osservazioni. Mi rendo conto che, alla fine, fra di noi resta quel conflitto che la formula “de gustibus non est disputandum” riassume egregiamente. In ultima analisi quella frase è vera. Ma prima di arrivare all’ultima analisi, si apre uno spazio intermedio abitato dalla critica letteraria, cioè dal tentativo di discutere dei gusti. E’ quello che fm mi ha permesso di fare col suo intervento. Grazie ancora.

Francesca Diano ha detto...

Caro Gabriel, ti ringrazio di aver suggerito l'idea che io abbia in mente Montale. Tuttavia ti sbagli. Non ci ho pensato minimamente, anche perché è un poeta a me molto estraneo. In realtà, nel tradurre, non mi sono mai posta il problema di "avere in mente" nessuno. Mi chiedo però, sia in riferimento a quello che affermi qui, che a quello che viene detto più sotto, dove io mai abbia detto che una traduzione vada fatta alla lettera. Io parlo sempre e solo di "fedeltà", mai di letteralità, che sarebbe stupido. Inoltre dissento dalla tua affermazione "ma un poeta neppure sente di dover rispettare il mondo dell'altro poeta da cui strappa le parole". Ah no? E se non rispetta "il mondo" (cioè la visione, la poetica, il significato ecc. ) che deve rispettare? Che senso avrebbe tradurre? Una traduzione è una traduzione, una parafrasi è una parafrasi una versione è una versione.
Ognuno ha i suoi maestri, io ho uno dei maggiori traduttori dei tragici greci del 900. Da lì ho imparato. Sia per teoria ma soprattutto per pratica.

Francesca Diano ha detto...

Caro Guido Mazzoni, prima di tutto grazie di aver riservato tanta attenzione alle mie note e di averlo fatto in modo così puntuale. Come avrà visto però, tutto quello che ho scritto l'ho giustificato e ho esposto i motivi, diciamo così, filologici, per cui lo dicevo. Non ho basato le mie osservazioni su semplici scelte stilistiche o, peggio, su un'ossessione per la "lettera". Non siamo travet della traduzione. Penso che una traduzione, in genere, come ho più volte detto, debba partire da un'indispensabile analisi filologica, storica, poetica e stilistica, tanto più se si tratta di un testo poetico. Lei scrive un commento bellissimo e profondo alla poesia, ma poi la sua traduzione rimane, per me, lontana dal testo al punto da stralunarlo e renderlo cosa del tutto estranea a Stevens.
Quando lei mi attribuisce la pretesa di una "correttezza letterale" in realtà non coglie quanto intendevo dire. Non ho mai parlato di traduzione "letterale", né mai ne parlerò, che sciocchezza direi, ma "fedele", che è altra cosa. Correttezza certo. Ci mancherebbe che una traduzione non fosse corretta. La fedeltà di una traduzione passa da quell'analisi cui accennavo più sopra, cioè dalla conoscenza. E poi, perché una traduzione non dovrebbe voler essere fedele, se di traduzione parliamo?
Riprendo alcune sue osservazioni.
Lei dice che "l'unica traduzione letterale possibile" di "swept", è: spazzate. No. Quello è solo uno dei significati di to sweep. Il verbo to sweep significa: spazzare,eliminare, distruggere, scorrere, sfiorare, sospingere, sballottare, trascinare, portar via, scandagliare, ecc. Dunque vede che c'è un'amplissima gamma di significati, anche letterali. Tutto sta nell'interpretazione e nel contesto.

Il "nulla, nessuno, in nessun luogo, mai" non è semanticamente paragonabile al "si annulla leggermente". Il verso di Sereni in "Intervista ad un suicida" rafforza, con una ripetizione polisemantica del concetto di vuoto, di negazione, la potenza di quel nulla che culmina nel suicidio.

"cosa può essere un uomo in un paese,
sotto il pennino dello scriba una pagina frusciante
e dopo
dentro una polvere di archivi
nulla nessuno in nessun luogo mai."

Cosa può essere un uomo? Nulla. Cosa può essere un uomo sotto il pennino dello scriba? Nessuno. Cosa può essere un uomo dentro una polvere di archivi? In nessun luogo. Mai. Non è una modulazione del nulla. All'opposto: è la negazione assoluta del cosa, del chi, del dove e del quando. Dunque questo verso conferma quanto dicevo. Nel nulla non ci sono sfumature.
Grazie ancora per la sua attenzione.
.

Francesca Diano ha detto...

Concordo con lei certamente che non esiste "la traduzione assoluta" e che ogni traduzione, anche la migliore, è passibile di miglioramenti e che un traduttore comunque deve avere molte orecchie e molti occhi.

Anonimo ha detto...

Che bella sorpresa leggere stasera le considerazioni di Guido Mazzoni e di fm (ma perché non firmarsi almeno con un nome di battesimo?)... grazie ad entrambi.
Vorrei aggiungerne solo un paio, la prima marginale e dubitativa, la seconda centrale e del tutto affermativa.
1. La traduzione di Fusini, anche per me assai bella, sembrerebbe dare conferma al mio dubbio sul busy.
2. La traduzione del titolo finora fornita non mi convince affatto. Cerco dunque di problematizzarlo.
The course of sth è the way sth develops or shoud develop (Oxford advanced Learner’s Dictionary), cioè il modo in cui qualcosa si modifica, cresce, si sviluppa, diventa importante, pesante o problematico, oppure si approfondisce (develop). Qui quel qualcosa è un particolare, un dettaglio.
Il titolo letteralmente significa dunque: il modo in cui un particolare (/ un dettaglio) si modifica, cresce, si sviluppa, diventa importante, pesante o problematico, oppure si approfondisce.
Cioè: Come cambia un particolare (a seconda della percezione) oppure Come un particolare può diventare importante (qui ci sarebbe nel titolo una sorta di negazione del testo, in cui il particolare invece diviene sempre più insignificante). Oppure, per individuare qualche possibile titolo, Sviluppo di un particolare, o Approfondire un dettaglio, oppure L’importanza di un particolare, o… (altri certo se ne troveranno).
Tutti più accettabili, a parer mio, di quello finora indicato (Il corso di un particolare), che nella mia percezione della lingua italiana non significa nulla.
E il titolo di una poesia non è particolare da nulla...
Un caro saluto
Marcella (Corsi)

Anonimo ha detto...

La ringrazio, Mazzoni, ma resto della mia convinzione nel merito dell’operazione da lei compiuta (io la chiamavo “versione”, lei la chiama “cover”, ma nella sostanza cambia poco): una convinzione (che non contiene nessun giudizio di valore) suffragata, oltretutto, dalla lettura attenta dei suoi stessi interventi qui e altrove, compreso quest’ultimo.

Non voglio aprire un discorso sulla traduzione, anche perché, purtroppo, per ragioni personali, i miei “tempi” non mi consentono, in questo particolare momento, di essere presente come un (eventuale) dibattito più serrato e ravvicinato richiederebbe. In un altro momento magari (e con estremo piacere, per quel che mi riguarda) - quando le opzioni teoriche alle quali attingiamo potranno essere più ampiamente discusse: tanto, in ogni caso, vedo improbabilissima anche solo l’ipotesi di poter dire qualcosa di nuovo e di diverso, in questo campo, rispetto a quanto il dibattito specifico dell’ultimo mezzo secolo non abbia già messo ampiamente in luce.

Converrà, comunque, che almeno l’esistenza di una metodica di riferimento, se non di una teorica vera e propria, è problema che non si può eludere. In caso contrario, stiamo facendo qualcosa d’altro – magari affascinante e “commovente”, ma siamo comunque fuori dall’orizzonte traduttologico o come altro lo si voglia chiamare. Allora, dato per scontato (almeno per me) che una traduzione *perfetta* non esiste e non potrà mai esistere, e che una traduzione *letterale* è sempre poca cosa, a voler essere buoni, quando non si risolve in una vera e propria aberrazione lessicale e sintattica, credo che il rigore filologico e l’interpretazione del testo in questione (operazioni che non possono in alcun modo fare a meno della conoscenza preventiva della poetica dell’autore – e non certo del traduttore, come chiosa un commentatore qua sopra) siano conditio sine qua di ogni possibile operazione. E’ solo sulla *resa* che si può esprimere il “giudizio di gusto”, quello sì soggettivo – e non potrebbe essere altrimenti: ma lì non c’è né metodica né teorica che tenga.

Vedo con piacere, comunque, leggendo il suo intervento ultimo su LPELC, che lei si guarda bene dal ritenere la sua “cover” qualcosa di compatibile con *strategie* per le quali/nelle quali il traduttore, poeta o meno che sia, “neppure sente di dover rispettare il mondo dell'altro poeta da cui strappa le parole” – così come suggerisce un suo ammiratore (e uso il termine senza nessuna intonazione retorica: anch’io sono un ammiratore, nel senso che “ammiro”, a seconda dei casi, persone, cose, libri…).

Mi consenta qualche ultima notazione (in totale o parziale disaccordo): 1) la “pausa logica implicita” (che pure c’è), in “quel” particolare testo mi suona come un argomento “debole” se penso all’autore in causa; “coerente” senz’altro, invece, rispetto all’operazione di cui lei dà ampio conto nei commenti; 2) gli “accostamenti lessicali stereotipati” del primo verso, così come, altrove, l’utilizzo di “situazioni” più che ordinarie o “banali”, sono parte cospicua dei “materiali” sui quali si esercita l’opera di scavo e di disincrostazione del “tipico” e dell’usuale che la poesia di Stevens mette in campo; 3) le “forme di neve” della Fusini non sono una “lectio facilior” che depotenzia il testo: lì c’è, invece, tutto Stevens (o, se vuole, trattasi di un “tradimento” accettabile da qualsiasi esegesi critica della sua opera); gli “eroi tronfi” proprio non ci sono in “quel” testo, in “quel” paesaggio: non li troverebbe mai, in quei termini, nemmeno nello Stevens “estivo” (o più “solare”).

La ringrazio di nuovo e la saluto cordialmente, è stato un vero piacere per me incrociarla.

fm

p.s.

@ Marcella

Sono contento che abbia trovato qualche spunto significativo in quanto ha letto, e la ringrazio.

Mi chiamo Francesco.

Anonimo ha detto...

Il "retorica" della "intonazione" del quarto capoverso sta per "ironica".

fm

Francesca Diano ha detto...

Sono contenta di trovarla d'accordo con me nei suoi commenti, in particolare qui:
"dato per scontato (almeno per me) che una traduzione *perfetta* non esiste e non potrà mai esistere, e che una traduzione *letterale* è sempre poca cosa, a voler essere buoni, quando non si risolve in una vera e propria aberrazione lessicale e sintattica, credo che il rigore filologico e l’interpretazione del testo in questione (operazioni che non possono in alcun modo fare a meno della conoscenza preventiva della poetica dell’autore – e non certo del traduttore, come chiosa un commentatore qua sopra) siano conditio sine qua di ogni possibile operazione ".
E che anche Fusini, nella bella traduzione che lei riporta, abbia tradotto "forme di neve" in modo molto simile alla mia "forme nevose".
Per quanto mi riguarda, l'unica teoria valida sulla traduzione è proprio quella che esige lo studio filologico ed ermeneutico del testo e la conoscenza profonda dell'autore.

Anonimo ha detto...

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