venerdì 9 marzo 2012

Ennio Abate
Il poeta e la morte.
Omaggio a Elio Pagliarani


Muoiono i poeti. Come tutti gli altri. Gli amici più stretti esibiscono  aneddoti e ricordi di loro incontri con il defunto, si pubblica qualche loro poesia, si dicono le solite cose. Di Pagliarani ho riletto attentamente  questa sua poesia, che non conoscevo. E' intitolata Oggetti e argomenti per una disperazione (da Lezione di fisica del 1964) e si trova  su vari siti (l'ho ripresa da Le parole e le cose).  Me la sono letta attentamente e  ho aggiunto  un commento e, in appendice, un giudizio di Fortini su Pagliarani. E' il mio omaggio a un poeta visto in due occasioni a Milano ( a un funerale e a un reading), ma di cui mi piacque,  subito, alla prima lettura, La ragazza Carla, su cui vanamente, quando insegnavo, tentai di attirare l'attenzione dei miei studenti . [E.A.]



Oggetti e argomenti per una disperazione
ad Alfredo Giuliani

Che sappiamo noi oggi della morte
nostra, privata, poeta?
                                          Poeta è una parola che non uso
di solito, ma occorre questa volta perché
respinti tutti i tipi di preti a consolarci non è ai poeti che tocca dichiararsi
sulla nostra morte, ora, della morte illuminarci?

                                                                                                 Tu
corrispondesti quando dissi con dei versi
che ho sofferto e avuto vertigine orgogliosa, temendo adolescente
di non poter morire. O credendo.
                                                                  Faccio una pausa
rileggo questo inizio non è male mi frego le mani
dove c’è un po’ di reumatismo stagionale, sollevo gli occhiali
mi guardo l’occhio allo specchio. Non lo capisco, non so giudicare
ma so che i medici mi spiano gli occhi, io non so se il mio
è torbido o dilatato o sporgente, che cosa può rivelare: so che mi tirano ora
le corde del collo che scrivere questa notte
mi terrà eccitato parecchio che direi ne vale la pena sapessi
che fra tre notti riprendo un ritmo di sonno.
                                                                                   Alfredo e chiedo
in giro agli amici com’è la mia faccia, il colore.
                                                                                          Anche tu
quello stesso pensiero adolescente, anche tu
sbianchi alle volte d’improvviso dopo un pasto.
Immortali per le stradi non ce n’è
ci avevano detto che gli uomini, non un uomo, sopravvivono
che a noi tocca la stessa immortalità come alle belve
nell’amore che genera, e sapessi o no che era
il solo atto consentito oltre il limite di uno
l’ossequio necessario alle consuetudini della specie
anch’io mi sono sentito in gran ritmo naturale
sopra una donna e ci guardava un mare
come avessimo avuto un senso, o guardavamo un mare
come avesse avuto un senso.
Ma ciò che distingue l’uomo è la scommessa
ecco una frase inventata dalle élites, in ogni modo è vero che qualcuno
scommette di non morire.
…………………… ……………….Ci vuole orgoglio: credere
che il proprio lavoro la pena non se stessi ma il proprio modello sia utile
agli altri; fiducia: che la storia
paghi il sabato; eccetera: e il bello è che di questa scommessa
l’unico a non avere le prove se l’opera gli sopravviva
magari di una sola luna
è chi ha scommesso, chi muore.
                                                                Le dissi: lo stesso anno
che conobbi gli stimoli del sesso tradussi un sonetto di Shakespeare
male, “Shall I compare thee to a summer’s day?”
tra il trentanove e il quaranta, col finale
“il mio verso vivrà finché gli uomini
sapranno respirare e tu con quello.”
                                                                    E tu con quello
volto di donna, sei ormai finale?
                                                          E’ ora conchiudendosi
il respiro che la clausola s’adempia
risolutiva?
                        Ho fumato duecento sigarette
per non amarla, in dodici ore accanto
il volto nel calore
le si apriva in dolcezza lievitata
ma da me è travasata soltanto
la malafede degli intestini
                                       in bile e escremento
e il panico poi, e l’attrazione della clinica.
E il fisico con il cancro nel ginocchio, col ginocchio di vaccina
che urli, picchia lì avrebbe detto al fascista, picchialo nel ginocchio che c’ha il cancro.
Quanti alibi ormai per non amare
                                                                 e lei insiste al telefono
se è questo di me che ti interessa, ti aggiungo che è a Bologna
che ormai gli amputeranno la gamba.
                                                                   Da tempo io non mi esalto
più delle avventure dello spirito, da tempo ciò che brucia
mi devasta soltanto e non posso continuare
a far versi sulla mia pelle, a sublimare
le mie sconfitte, a presumere significativi
me e lei le penultime esplosioni
                                                          a trarre una morale
di morte universale a consolarci della nostra.
Ma se avessi soltanto bestemmiato
allora Brecht ai vostri figli ha già lasciato detto
perdonateci a noi per il nostro tempo.


Commento.

Davvero appartata, impersonale, quasi non rivolta neppure a se stesso o all’amico a cui la dedicò, la domanda che apre questa poesia di Pagliarani. E poi il titolo:  Oggetti e argomenti per una disperazione. La disperazione è già tutta nella domanda dei primi versi. Nessuno sa davvero qualcosa della propria morte, poeta o non poeta che sia. E perciò sento  un po’ artificioso quel volersi aggrappare  a una convenzione: perché i poeti (quasi fossero “ultimi preti”, celati e non più dichiarati) dovrebbero consolare, illuminare, dire qualcosa di decisivo sulla morte? (Tuttavia mi chiedo quanto sia convinta la richiesta, se appunto il titolo del testo è quello  che è; e ad esso darei più credito). Pagliarani parlava con un morto, con se stesso  da morto. Anche il ‘Tu’ rivolto ad Alfredo Giuliani, l’amico, il dedicatario di questi versi, è, credo, solo il fantasma a cui s'è appiccicata una comune,  lontanissima, onnipotenza adolescenziale, condivisa una volta con l’amico reale (Anche tu/ quello stesso pensiero adolescente). «Non poter morire»! Fa sorridere.  Quando Pagliarani  scrive queste parole, sa che quella idea-desiderio fu solo «vertigine orgogliosa», puerile credenza di eternità, un’illudersi; e qui subito smentito dall’accenno a certi pallori premonitori (anche tu/ sbianchi alle volte d’improvviso dopo un pasto). Eppure Pagliarani ancora finge di illudersi, rileggendo  i primi versi già scritti, fregandosi le mani di reumatico, togliendosi gli occhiali, spiando allo specchio i propri occhi, atteggiandosi vanamente a medico che vi cerca sintomi di un male che procede, eccitandosi ancora con la sua “droga” abituale: scrivere. (Che è poi altro modo, solipsistico, privato, di scrutarsi allo specchio e  nella sola banale speranza di trovare una pausa all’insonnia. Perché forse una dimensione pubblica è già svanita: per lui il pubblico è ridotto ad amici da interrogare per sapere, forse solo dagli sguardi, come si sta appesantendo la propria faccia, come si sta sbiancando.
Dopo questa parte così realistica, destruens, leopardiana, la seconda mi pare più letteraria, quasi scontata e un po' dottrinaria. L’unica immortalità possibile a uomini e belve sarebbe «nell’amore che genera»? Consolatorio materialismo (non dissimile da tanto asfissiante idealismo). Essendosi svelata la scommessa «di non morire» soltanto «una frase inventata», un «eccetera» di vaghezza,  che resta?  Pagliarani si rifugia nell’idillio di un amore giovanile sfiorato e non goduto per timore di amare e poi torna a quel suo realismo drammatico e basso. (Ci sono  in questa rievocazione riferimenti a una malattia di cancro, a una clinica, che mi restano oscuri). Per ribadire infine la sua visione materialista ( Da tempo io non mi esalto/ più delle avventure dello spirito) e richiamare la figura di Brecht;  e con lui e come lui chiedere (orgogliosamente) perdono di essere stato soltanto uomo nei limiti del proprio tempo storico. 

Appendice:

Un giudizio di F. Fortini su Pagliarani

Pagliarani

Dei molti autori di versi che hanno appartenuto al confuso 
ma importante gruppo dei cosiddetti «neorealisti», pochi so- 
no stati quelli che abbiano portate avanti le premesse morali 
e ideologiche dei loro versi senza flettere, in corrispondenza 
della grande crisi del 1956, verso forme metriche e ordini di 
linguaggio che avrebbero rivelato il fondo idillico di quei 
furori. Ora Pagliarani è uscito da quelle incertezze per una 
via èfìe non saprei indicarne di più pericolose; ma ne è uscito. 
La tonalità populista, o socialisteggiante, le inserzioni dialet- 
tali o cronistiche, l'amarezza e l'ironia della grande città, 
tutto questo poteva darei tutt'al più una gradevole ripresa di 
certi minori fine Ottocento, alla Pompeo Bettini. Mi pare che 
J>agliarani, con la sua Ragazza Carla.[1] si sia spinto assai più 
in là, e con grande serietà di intenti. E, in sostanza, la ripresa 
di quell'accento più moralistico che didascalico (e, malgrado 
le apparenzer più drammatico che narrativo) che è stato di 
Jahier, ma con le letture di Majakovskij o di Brecht. Vorrei si 
notasse come la griglia metrica di Pagliarani sia sempre o 
quasi sempre necessaria, lontana dalla sbadataggine alla qua- 
le troppi ci avevano abituati. Semmai quello che manca an- 
cora a Pagliarani è la sicurezza e la plausibilità narrativa: 
probabilmente perché lo schema narrativo è già slogato, già 
posto fuori del tempo cronologico, prima che gli inserti lirici 
provvedano alle transizioni; di qui la mancanza di ogni pro- 
gressione. La «storia» di Carla è molto meno vera della Mi- 
lano che le sta intorno; una Milano che è fatta veramente di 
parole, cioè di un tessuto sintattico studiato sul vero, che non 
scade mai a colore locale. E si vedano anche i toni alti - 
come gli endecasillabili del finale - o gli scatti espressionisti- 
ci. Pagliarani è un caso, rimasto isolato o quasi; ma il suo 
lavoro è in una direzione che gli può permettere di sviluppar- 
si liberamente.
.

( Da Saggi italiani I, p.116, Garzanti, Milano 1987)



[1] E. Pagliarani, La ragazza Carla, Torino 1960

6 commenti:

Anonimo ha detto...

Enzo:
E ci crediamo esenti da essa finchè non superiamo
la linea d'ombra dell'adolescenza
la morte quasi senso ontologico gaddiano
ci compete in associazioni freudiane dolore/piacere
illusioni di sopravvivenza
"ciò che brucia mi devasta"
impossibile sublimare
con la cappa nucleare
morte senza vie d'uscita forse neanche zen,
morte incombente sapore di Fukushima
"quanto tocca mutare in vita per esistere,.. Diamante sul vetro.."
Morte privata, sociale
vita come morte da dimenticare con un "sonnifero", vita sommersa,
ma "dobbiamo continuare come se non avesse senso pensare che s'appassisca il mare" .

Anonimo ha detto...

Il mare muore
mentre noi muoriamo
non si ripeterà l'errore
noi razze sì.

Emy

Anonimo ha detto...

@Ennio: non mi sembra che Pagliarani cerchi consolazione, neppure nella seconda parte della poesia che non è poi così "letteraria, quasi scontata e un po' dottrinaria". Il poeta esamina, disseziona: ogni ipotesi è confutata con la freddezza e la lucidità dei morituri. Non c'è lenimento alla disperazione: non nel materialismo, né nel consolante rimembrare.
Abbiamo solo bestemmiato? Trovo questa poesia di devastante potenza, anche nell'ipotesi della richiesta finale di perdono, mutuata dall'amato Brecht.

Moltinpoesia ha detto...

Ennio Abate a Anonimo:

Può darsi. A me, scontato che il testo di Pagliarani è intenso e potente, interessa però anche scavare e interpretare con qualche forzatura. E tenendo d'occhio altri lettori più portati a dolcificare ottimisticamente le cose. (Ad. es. su LE PAROLE E LE COSE Cortellessa nel post dedicato alla commemorazione di Pagliarani, "Ma dobbiamo continuare" (http://www.leparoleelecose.it/?p=3790)non solo diluisce la "devastante potenza" di questa poesia nei soliti ricami intertestuali e nell'aneddotica di chi la sa lunga su Pagliarani perché l'ha frequentato etc. ma va a ripescare in un altro testo, *La ballata di Rudy* proprio il verso che gli permette di finire in gloria e ottimisticamente:

"Ma nella clausola ultimissima, con un verso gradinato che si spinge sino all’estremo del paginabile, così Elio concludeva: «Ma dobbiamo continuare / come se / non avesse senso pensare / che s’appassisca il mare».
È quello che ci sforziamo di fare, Elio, come hai fatto tu sino alla fine. Anche se come te in fondo lo sappiamo bene, che così non è."

Il letterario della seconda parte a me è parso di vederlo soprattutto nel richiamo a Shakespeare. Il dottrinarismo
nel sottolineare in un amplesso amoroso "l’ossequio necessario alle consuetudini della specie". E, a parte Pagliarani, capita spesso che il materialismo venga usato ANCHE negli stessi modi consolatori e dogmatici dell'idealismo.
Comunque le mie sono ipotesi, mosse azzardate per interrogare un testo. Se mi convinco o mi convincessero che sono sbagliate, no ho esitazione a rivederle.

Anonimo ha detto...

Il mio saluto a Pagliarani, tra i pochi poeti italiani che riuscivo a leggere quand'ero ragazzo.
Mi colpisce ancora la sua poesia, perché è poesia del dire e non dello scrivere.
Che un poeta sappia scrivere è scontato, per chi ha talento vien da se', son le cose da dire quelle che si confondono perché la scrittura può distrarre. Pagliarani non ci casca, in tutte le poesie che ho letto Lui sa mantenersi in piedi. E' lì che vedo la sua fatica e la sua grandezza.
mayoor

Anonimo ha detto...

Un bellissimo titolo, per una bellissima poesia.
Come poeta, complessivamente, lo conosco troppo poco per dare qualsiasi tipo di giudizio (che naturalmente, in ogni caso, potrebbe essere sempre e soltanto soggettivo, e quindi personale), ma rileggendo ieri questo suo lungo componimento ho ritrovato la stessa intensa emozione provata quando la lessi per la prima volta, sull'antologia che possiedo degli anni settanta, curata da Antonio Porta.
Grazie dunque a Elio Pagliarani, e ad Ennio, che ne ha ricordato attreverso questo frammento il lavoro, e così la memoria.
Buon viaggio Elio.

Gabriele Gabbia