domenica 11 marzo 2012

Flavio Villani
I sommersi



La memoria umana è uno strumento
meraviglioso ma fallace.”

P. Levi

 “…ricercavamo procedimenti utili
a intrattenere i fantasmi…”

A. Giuliani

 1.
Certi fatti accadono all’improvviso, a volte,

spesso nulla più di un tonfo
insignificante a prima vista
e
tanto distante da non sembrare vero.
Tu allora pensi a cadute d’altro genere,
per lo più innocue (un libro, un attaccapanni,
uno scaffale, che altro, in fin dei conti?)
ma poi delle urla non ti dai ragione,
e lo sai
che non può essere altrimenti.

Così m’ha raccontato il mio amico
di quel tipo
che un giorno ha deciso di finirla 
saltando da un palazzo,
un anonimo palazzo 
che non sta al centro né alla periferia
della città.

Quel palazzo insignificante
a guardarlo nulla lascia
presagire,
tanto meno il volo,
la corsa per le scale a perdifiato
giù giù fino al selciato,
le parole sussurrate per lo spavento
al limite del giorno o appena oltre.

Il telefono ha squillato dall’altra parte
con insistenza:

è morto? ha chiesto una voce sconosciuta,
no, c’è respiro
sottile
sottile
(oh, com’è dolce quell’aggettivo!).

Non è atteso
che accada da un palazzo come quello,
moderno, funzionale, propriamente creato
per lavorare,
al giorno otto ore e niente più,

no, proprio no, non da quel palazzo.

Il mio amico dice che ne hanno parlato
anche i giornali.

Il mio amico dice: fra le notizie,
un giorno, c’era pure quella,
risaltava, ha detto, la notizia di quel fatto.

Il tonfo lui l’ha sentito distintamente,
(e lo risente ancora, a giorni di distanza)
poi la ragazza ha preso a correre e ad urlare,
lui l’ha fermata appoggiandole una mano
sulla spalla.
Ha detto: cosa?!
Lo sguardo, le pupille dilatate,
cosa passa per la testa in quel momento?

Poi il tempo s’è fermato, e ogni immagine
ha preceduto la seguente di un istante.

…………………………………………………

Succede così, più o meno, e quando succede è
all’improvviso,

è facile
si dice: è la follia.

Non te l’aspetti, e tu il volo non puoi fermarlo.

Non è dato farlo. No, nessuno può.

2.
Era già successo. L’avevo sentito che può accadere.
Nella tromba delle scale, hanno detto. Da lassù è perfetto.
Questione di misura,
e per questo un’occhiata basta, solo quella.

3.
Ricordo una vacanza al mare in una casa
sulla collina,
carica di tanta umidità da macchiarne i muri,
il giardino rigoglioso abbandonato
al vento di scirocco.

Al tempo non temevo la solitudine
e le notti buie,
e neppure il latrare disperato
dei randagi alla luna piena.
Lì ci potevo ancora stare,
anche se ogni notte speravo
nella luce obliqua del mattino.

Di lei l’ho appreso dai giornali,
poco dopo colazione,
ed era passato molto tempo, allora,
molto tempo da quella vacanza al mare.

Non ho idea del perché l’ha fatto,
a pensarci bene non la conoscevo affatto,
e neppure posso immaginare cosa provasse
ogni volta che le parlavo,
se mi guardasse in viso, di questo non sono
neppure certo.

Dico: era un’amica, e ora mi pare
di ricordarne il volto, bene o male
lo ricordo comunque più di molti altri,
e spesso ci ripenso,
penso a lei dopo tanti anni, penso
a quando è rimasta in quella casa umida
tutta l’estate
sola
credo a guardare il mare,
intravisto appena sull’orizzonte,
troppo
troppo distante dalla collina.

Per quanto mi sforzi il suo nome non lo ricordo.
Non lo ricordo più.
Forse per quello, sì, è passato troppo tempo.

4.
Confondo i tempi e i luoghi. Le stagioni.
Era inverno? Oppure estate?
Che differenza fa, tutto sommato?
Ero fuori dalla porta quando me l’hanno detto.
Fuori dalla porta, e non ricordo altro,
con chi fossi, che faccia avessi,
cosa ho sentito? cosa esattamente? in quell’istante.

Le lacrime, il bruciore del sale sulla faccia,
lo immagino
ma non riesco a ricordarlo.

Abbiamo camminato
un giorno insieme, un pomeriggio intero,
non eravamo troppo intimi,
eppure –
eppure i viali erano alberati,
i grandi platani ancora spogli,
il cielo del grigio di Milano.
È la stagione, questo si sa,
la luce arriverà, prima o poi,
mi ha detto sorridendo:

ho annuito a quelle parole, e sorriso
anch’io.

Allora era troppo presto per pensarlo.

Poi, troppo presto, signoriddio, per farlo.


5.
Dicono che per comunicare sia il mezzo
preferito dagli spettri.
Chi mai l’avrebbe detto?!

Credo che nel microfono
fosse sua la voce.
Anzi, ne sono certo, ma provo
a non pensarci, e a lungo ho creduto
di sbagliarmi.

Non ha senso, mi dicevo, tutto questo,
va oltre le mie capacità di comprensione
per questo non desidero pensarlo
e neppure vagamente immaginarlo.

Devo confessare: non l’ho raccontato mai
a nessuno,
forse per timore del dileggio
o
di essere confuso per un folle,

eppure ne sono certo,
la voce,
quella voce nel telefono era la sua,

solo che lei,
lei
il salto
a quell’ora e in quell’istante
già l’aveva fatto.

Liberi di non crederci, come non ci credo io.  

6.
E noi chi siamo, allora? Ora,
ci chiamano i salvati,
poiché questo è il nostro nome,
il nome che fin qui ci siamo dati
(non per decoro, certamente,
dato che questo è il nome
di superstiti e colpevoli),
e oggi resistiamo ancora
in cima a questa scala,
come spettatori attoniti
di mistero troppo grande
(l’inizio, il tutto, poi
il volo,
le parole sottovoce
oltre il limite del giorno,
la corsa a perdifiato
giù giù
fino al selciato
e
sottile
sottile
ormai il respiro,
mentre la mano s’appoggia
sulla spalla
e lo sguardo si fa
febbrile).

Tutto questo è, anzi è sempre stato:

il dolce Icaro, pallido fanciullo,
da sempre precipita nel mare
senza un lamento,

e il mare, nero oceano
senza pace,
ne sommerge il corpo bello,
indifferente.

Nessuno può ignorare il disco bianco,
che sta immobile lassù,
incandescente.

I salvati sanno, invece,

così aggrappati
alla terra grassa, grondante d’acqua
e del loro seme,

sanno
che la cera non
potrà tenere insieme
piume e pelle
non adatte al volo.

È solo il caso, dico.
È solo il caso? chiedo. 

Quel che so è poco,
solo, nella notte, attendo
la luce obliqua del mattino.


8 commenti:

Anonimo ha detto...

Drammi esposti delicatamente, per dare più evidenza ai fatti, ai ricordi, come si presentano lontani e sempre in agguato nel nostro piccolo pensare. La scrittura di Flavio mi piace tanto, il poeta quasi si nasconde dietro le sue parole e le parole lasciano grandi segni. Bravo Emilia.

Anonimo ha detto...

enzo :
Mentre leggo questi racconti in poesia mi chiedo se molti significanti non contengano puntuali domande. Non credo che l´intento di chi scrive sia didattico, ma è come se queste domande si trasferissero quasi spontaneamente nella mente del lettore. Una sublinguaggio polisemico che si lascia scoprire lentamente. Accanto a "si dice : è la follia" nasce spontanea la domanda "è veramente follia ?" Certi fatti accadono all´ improvviso" e così via.... Come se quasi inconsapevolmente, il poeta volesse attaccare stereotipi e clichè che tendono a nascondere il disagio. Ma come fare a sommergere le urla, il tonfo, lo sguardo, le pupille, il pensiero. Sorge dopo il diluvio la necessità di fermare il tempo per rivedere a ralenti le immagini come in una illusione, come se si potesse riavvolgere la pellicola e partire dall´inizio. Liberarsi nella catarsi, si arriva alle allucinazioni uditive, si sentono distinte le voci mentre, coscienti del fenomeno, resistiamo in cima alla tromba delle scale e la sociologia o la filosofia del suicidio non bastano. Il tempo è ancora sospeso, non ci è dato sapere, attendiamo solo la luce del mattino.

Anonimo ha detto...

...
"Ve ne siete andato, / come si dice, / all'altro mondo.
Vacuità... / Volate, / speronando le stelle. "
...

Majakovskij, A Sergej Esenin.

da Mayoor

Moltinpoesia ha detto...

Ennio Abate:

Leggendo "I sommersi", mi è venuto in mente «cantando rumpitur anguis» (un verso delle Bucoliche di Virgilio, che è anche in exergo a "Paesaggio con serpente" di Fortini). Tradotto: col canto (di formule magiche) il serpente viene distrutto. Più liberamente: con il canto (la poesia) spezziamo l’angoscia. Questo mi pare faccia Flavio con questa poesia, che a me più che poesia-racconto (alla Cesare Pavese) pare una poesia-indagine. Certo si narra: di due suicidi, uno in un ambiente metropolitano e l’altro - di una ragazza - in un ambiente mediterraneo. Ma la narrazione del primo dramma è lenta, dall’impersonale si passa al tu, per tornare ancora all’impersonale, procede per ipotesi (Tu allora pensi a cadute d’altro genere), aggiunge dati senza mai definirli (il mio amico, quel tipo, un palazzo; su questo si torna più avanti per indicarne però dati scontati di modernità e funzionalità), accelera solo nell’acme del dramma (il volo/la corsa per le scale a perdifiato).
Poi c’è il cambio di scena (la telefonata; vengono rivelati altri particolari: la ragazza che ha preso a correre e ad urlare, l’amico che l’ha fermata). E poi le interrogazioni (cosa?!...cosa passa per la testa in quel momento?), i commenti (dei vivi) che segnalano una certa (residua) coralità.
Anche il secondo quadro (che mi pare richiamare i dati del suicidio di Primo Levi) è impersonale e breve. Ma dal terzo è l’io che rientra in scena con suoi ricordi precisi (una vacanza al mare) per parlare del suicidio di un’amica appreso dal giornale, che però resta anonima come il primo suicida (Per quanto mi sforzi il suo nome non lo ricordo./Non lo ricordo più./ Forse per quello, sì, è passato troppo tempo.) e dell’inquietante episodio a nessuno prima svelato ( aver risentito la sua voce dopo che «lei/il salto/a quell’ora e in quell’istante/ già l’aveva fatto.).
Qui il colpo vero, il fulcro della poesia: il contrasto tra un reale che sfugge all’indagine razionale e affiora solo nelle credenze (Dicono che per comunicare sia il mezzo/ preferito dagli spettri). L’indagatore ammette la sua impotenza. E mi pare che l’angoscia alla fine venga aggirata col ricorso al SEMPRE del mito ( il dolce Icaro, pallido fanciullo,/da sempre precipita nel mare/senza un lamento).

Anonimo ha detto...

Grazie Ennio per questa tua lettura. E' vero questa poesia e' ammissione dell'insufficienza degli strumenti della ragione nell'interpretazione di certi fenomeni. Il suicidio e' il paradigma, ma chiaramente non l'unico. La medicina cerca di spiegare razionalisticamente. Ma ne sento tutti i limiti. Il Mito e' un sistema interpretativo. Se tranquillizzi non lo so. Quanto meno (mi) aiuta a pensare che il mondo non e' solo caos senza senso.
Ciao
Flavio

Anonimo ha detto...

Solo un'associazione degregoriana.

"...e senza ali e senza sete, e senza ali e senza rete, voleremo via”....

enzo

Luigi Maffezzoli ha detto...

Mi sono astenuto finora a commentarla per non scrivere banalità, comunque cose non all'altezza della poesia. Ho avuto la fortuna di leggere molti tuoi testi, racconti e liriche, e queste ultime poesie mi pare rappresentino il più alto livello di sintesi di quello che hai scritto in passato. Come sempre al centro c'è la tragicità dell'uomo, senza giudizi, senza retorica. I salvati non hanno più meriti di quelli che soccombono. Muti attendono "la luce obliqua del mattino". Tutto è vacuo, ma resta la memoria, il rimpianto per quelle passeggiata, quella speranza "La luce arriverà, prima o poi." E poi non è arrivata. Come in tutte le opere di Flavio il senso della vita sta tutto in quei minuscoli momenti di tenerezza, di compassione disinteressata, di amore, anche loro vacui, ma, in fondo, immortali.

Anonimo ha detto...

Grazie Luigi, vedo solo oggi il tuo commento.
F