sabato 24 marzo 2012

Francesca Diano
Congedi.
Viatico in undici stazioni


Le Sorti, Francesco  Marcolini – Giuseppe Porta inc. Venezia 1540 
I
L’ESCLUSA

Andavo per strade coperte di polvere
L’orlo della mia gonna sfilacciato
Non si curava di fango o sterco
I piedi scalzi – segnati dal rifiuto persino della terra.
Signori o plebei – non facevo alcuna differenza
Nessuna presenza era presenza
Ed ogni assenza – assenza.
Mi dolevano le ossa – ero una casa diroccata
Disabitata persino da me stessa
Preda di predatori e depredata di me.
Ero povera – di quella povertà che non conosce
Nemmeno il nome di miseria
Perché al mondo non c’era creatura
Che mi guardasse se non come sgualdrina.

Sospesa in una terra di nessuno
Dove il giorno non vira nella luce e le notti
Sono  il delirio di  un lebbroso.
Il loro sguardo mi sfiorava col disgusto
Di chi è avvezzo soltanto alla bellezza
Delicata che si rispetta perché consacrata
Dalla legge di Dio e degli uomini.
Io ero buona solo per sfogare la rabbia
L’istinto che si tace nel letto coniugale.
Con la  rabbia impotente di uomini malati
D’onnipotenza – sapienti o rozzi contadini
Signori o poveracci – io ero buona per voi
Ma non per me. Non abbastanza
Da avere casa nel vostro cuore.
Avevate forse cuore per me?
Cagna reietta nell’istante stesso
In cui mi possedeva la vostra carne.
Ogni volta eravate  assassini
Ogni volta morivo un po’ di più
Finché il mio corpo si disfece
– me viva ancora -
Non vi perdono la disperazione
Vostra sola elemosina per me
Il solo soldo con cui mi pagavate.
Poi venne lui. Mentre stavo morendo.
Lo sguardo dei suoi occhi
non lo dimentico nemmeno ora.
Quel corpo martoriato dalla vita
Lui me lo fece amare
Donandomi  il perdono per me stessa.
Sul pagliericcio fetido – che accoglieva la morte
Scintillò  la bellezza luminosa
Che lessi nei suoi occhi
Capaci  di vedere oltre le piaghe.
E mi diede la pace.

II
STEPPA

Non ero che un bambino e tu un adulto.
Ti temevo. Temevo il tuo sorriso
Come una lama sfoderata a colpire
Senza guardarti in faccia.
La tua jurta era grande e molto solida
Però  a te non bastava. Eri feroce
Nella tua sete di potere.
Quell’anno fu gelido l’inverno
Più dei passati e il fuoco non bastava.
La nostra gente – gente guerriera
Soffriva il freddo.
Predatori eravamo e predavamo.
Tu più di tutti.
Io non potei evitare che mio padre
Mi abbandonasse nella steppa
Lasciandomi bambino a sostenere
Il peso di un potere non voluto.
Mi piegava le spalle e mi schiantava.
Lo  subivo il potere e con che gioia
A  te lo avrei ceduto.
Dunque – quando quel giorno con un’ascia
Mi aggredisti alle spalle e mi spezzasti
Le vertebre e la vita – senza guardarmi in faccia
- non eri coraggioso – io non potei capire.
Ma avresti visto – per sempre congelata
Nei miei occhi la sorpresa e l’orrore.
Cadendo altro non  vidi che terra congelata
E i licheni – come ricami di trine verdegrigie
A riempire lo spazio breve del mio viso.
I tuoi occhi una steppa – morta – immota.
Non ero che un bambino e tu un adulto.

III
LA PROMESSA

Vent’anni. Solamente vent’anni
E  mai avevo odiato.
Tu eri il mio signore.
Ero nato nella tua casa.
A mio padre facesti la promessa
Che  m’avresti protetto.
Morì sereno per la tua promessa.
Venne la guerra – aspra come l’aconito.
Case e campagne devastò e la miseria
E la fame tra la gente – sedute in trono –
reggevano lo scettro  di regine gemelle.
Mi  volesti al tuo fianco.
Così tu mi dicesti – al mio fianco,
Mi farai da scudiero e sarai il mio protetto.
Nulla di male ti potrà accadere –
Così tu mi dicesti. E ti credei
E  ti seguii sul campo di battaglia
Di una guerra non mia e tua nemmeno.
Ma poi il saccheggio t’avrebbe fatto ricco.
Perché – mentre morivo trafitto da una lancia
Con il petto squarciato ed il dolore
Rovente e vivo come brace viva
Steso a terra tra corpi devastati –
Perché – mentre passavi fiero a cavallo
Tra rantoli e lamenti – col tuo morrione in testa
Ageminato d’argento e d’oro
Lo sguardo compiaciuto  crudele e prepotente
del vincitore che sa d’esser temuto -
Non ti fermasti nemmeno accanto a me
Che ti chiamavo con l’ultimo respiro?
Aiutami – dicevo – sono qui, non mi vedi?
Ma alle tue  orecchie la mia voce era muta
Ed ai tuoi occhi  non ero che un’ombra.
Non mi guardasti e mi passasti accanto.
Ed io morendo imparai cos’è l’odio.

IV
ATTIS

Volgevo la mente alla speculazione astratta
E non volli sapere della vita
Che imbratta l’animo –
Non  lasciai che irrompesse
Dentro di me – fui sordo al suo richiamo.
La nobiltà del pensiero
Non  mi salvò dal contagio.
Vissi come in un sogno
Ricercando il segreto della vita
Non nelle azioni quotidiane
Non nella gioia o nella sofferenza
Ma perso nella mistica  bellezza
Nel senso di ciò che non vivevo.
Guardavo da lontano – coltivavo il distacco
Con sguardo aristocratico.
Ed ero bello e nobile e vestivo
La tunica di lino della mia condizione
La vita cinta dalla fascia gialla
E il nastro giallo legato sulla fronte.
Portavo al collo il gioiello sacro
Forgiato nel metallo il cui segreto
Custodiva la mia stirpe e m’avrebbe donato
Chiarità di visione.
Credetti in vita  che la conoscenza
Sgorgasse dalla mente – non dal cuore
E non amai nessuno – se non me stesso
Senza dare a me stesso
Amore per la vita.
Così, quando a trent’anni, venne il morbo
Che decimò la mia gente
E mi tolse la vita
Compresi – ma era tardi.
Amai la vita solo nell’istante
In cui divenni un’ombra
Incorporea – non un’orma
Lasciai di me – segnato dalla sete.

V
LA COPPA

Stretta la lama di luce che filtrando
Dalla finestra stretta
Si piega lieve a seguire in un barbaglio
La  luce delle gemme
Traendone riflessi come un fuoco
Azzurro e verde tinto di rubino.
La mano sfiora la coppa d’oro
Si ritrae poi la sfiora
Esitando e poi ancora
Si sofferma sull’orlo.
Da una fiala riversa
Nel liquore un  filo breve liquido
Di tetro rosso  – denso come sangue.
La vedo ancora e ancora
La mano di mia figlia
L’orrore che si compie
Il suo esitare ed io
Stesa sul letto – con la mente persa.
Non avevo pace da darle
Solo paura di me e di se stessa.
E fu questa paura che la perse.
Come fiori mostruosi – parole
Di giusquiamo le fiorirono in bocca
In urla oscene – intessute di fiele
Quando con il suo complice
Mi forzò nella gola la morte liquida.
Quali lampi di tenebra oscurarono il sole
Riflesso dalla coppa stretta dalle sue mani.
Per terre e per ricchezze mi tolsero la vita –
Per il castello e il titolo e i gioielli.
Povere cose che il tempo disperde
Che nulla sono se non polvere
Ombre, apparenze, inganni della mente
E in cenere si sfanno – come il tempo.

VI
IL CAVALIERE NERO

Attendo. Arriverai. Il villaggio è deserto.
Così appare. Ma tutti sono chiusi nelle case.
Così povere le nostre case. Poco più che capanne.
Mi hanno preparata. La veste lunga
Di tela grezza e la cuffietta in testa.
Solo il terrore sanno. Temono la tua ira
E il tuo potere di padrone di queste terre.
Noi non siamo che  servi. Solo cose.
E io – una cosa poco più che  bambina.
Mia madre mi ha pettinata e mi ha lavato il viso.
Verrai. Da  me tu torni sempre.
È questo il mio destino. Non ho scelta.
O te, o la morte di tutto il mio villaggio.
Attendo immobile e m’aggrappo
Per non cadere alla staccionata
Che divide la terra fangosa del villaggio
Dal grande prato e in fondo è la foresta.
Sento il rimbombo del tuo cavallo
Prima  che tu compaia laggiù in fondo
Emergendo dal bosco fitto e scuro.
Trema la terra e trema la mia bocca.
So che ci sono. Sono tutti dietro
Le porte chiuse ed il silenzio è un maglio
Che picchia sul mio cuore e lo fa in pezzi.
Non verranno a salvarmi. Non verranno.
Si schianta il cuore nell’attesa
Buia come la notte quando la luna è nera.
Nero è il tuo viso e nera la tua veste
È nero il tuo cavallo e la tua barba
Nera come la terra che copre i nostri morti.
Sento l’odore del tuo cavallo
Che m’insegue e tu ridi
Della mia fuga inutile che per te è come un gioco.
Un balzo e mi sei sopra. Non ti guardo.
Gocciola il tuo sudore acre sulla mia pelle.
Come fuoco rovente la perfora.
La tua spada di carne che mi uccide
Ed il corpo mi squarcia.
Il tuo peso mi schiaccia e come morta
Crollo a terra. Non  vedo altro che il cielo.
Non sento. Non sono viva più
Ed esco da me stessa.
Tutto s’è fatto immobile. Sospeso.
Vitrei i miei occhi. Persi dilatati.
Le  nuvole – lontane – come angeli
Fuggono via nel cielo. Me ne riempio gli occhi.
Se io fossi un uccello dalle  ali di vetro
Perforerei  le nuvole veloci.
Ti rialzi. Ti giri. Ti allontani.
Non uno sguardo per me.
Non  vuoi lasciare che ti legga negli occhi
Il vuoto buio che ti azzanna l’anima.
Chi di noi due è la vittima?
Questo è il nostro destino. Non c’è scelta.

VII
LA LEGGE

Tra il borgo e il bosco, solamente una striscia
Di terra spoglia, e di erba giallastra.
In questa terra  erano venuti
I nostri padri traversando il mare
Su  vascelli di legno e le case del borgo
Son  fatte del fasciame delle navi
A  ricordare che un mare ci separa
Dal passato – che in  una terra nuova
Il nostro cuore sarebbe salpato
Solcando nuove rotte – nuove vite.
Ma non intero il cuore e l’anima divisa
Tra passato e futuro. Tra borgo e selva
Inesplorata – dove  potente sussurra
Un richiamo che io sola intendevo.
Ed eccovi schierati – come tanti birilli
Come un muro di cinta da cui tenermi fuori.
Autorevoli, onesti cittadini
Le vesti nere, il cappello e le scarpe
Con  le fibbie d’argento bene ornato.
Tutti in fila – con lo sguardo severo
Ed io la peccatrice – giudicata da voi.
Le vesti lacere – i capelli selvaggi.
Ma era per la fame. Avevo fame
E nulla da mangiare.
Tu mi guardavi, dall’alto del tuo rango
Di borgomastro ed io, la tua serva
Giovane e bella – mi dicevi allora.
Ma la bellezza non mi dava cibo.
Anche tu avevi fame. Un’altra fame.
Segreta, inconfessabile, ossessiva
Che attirava i tuoi sguardi
Su di me. Ma  tua moglie,
La signora, padrona della casa,
Degnamente il tuo rango rispecchiava
Nella sua veste nera e con la cuffia bianca
Ornata di merletti, i gioielli preziosi.
Ma lei non ti sfamava.
Il corpo inaridito dalla dura virtù
Di donna onesta. Lo sguardo austero
E le labbra tirate – una fessura amara.
Come potevi sperare che il segreto
Non ti esplodesse in mano
Devastando quell’ordine e la legge
Dietro cui nascondevi i tuoi terrori
Le tue incertezze di senzapatria?
Avevo  fame e il mio sguardo di selvaggia
Che ti accendeva dentro
No, non era per te – ma per il pane
Che poi mi avresti dato.
Io provavo ribrezzo del tuo corpo
Delle tue mani bianche – senza segni.
Non avevi vergogna di accoppiarti
Quando  la tua di fame t’accecava.
Mai vidi compassione nei tuoi occhi
Ma avida follia. E quando un giorno
Il  tuo peccato gridò la sua presenza
Perché non c’era legge che valesse
A tacere il crescendo della fame
Che ti mordeva l’anima
Io sola fui accusata. Io t’avevo stregato -
Dicesti. T’avevo preso l’anima
Con malefici e inganni – e mi scacciaste.
Votata a morte certa in quella selva
Vasta come l’oceano. Ma non avevo nave
Su cui salpare. O un porto.
Tu – il borgomastro – tu eri la legge.
Tutti mi giudicaste. Per non vedere
La trave che accecava i vostri occhi.
Con il dito puntato mi scacciaste.
Tu – nel vedermi andare –
Piegata in due per la disperazione
Provasti del sollievo.
Se ne andava a morire
Con me la tua vergogna.
Io la selva – voi il borgo
Io la strega e voi tutti la legge.

VIII
IL NULLA

La gola trema delle parole che s’avvitano
Come convolvoli alla tua fronte lunata.
Con te – dico – con te oltre le vette.
Niente più conta. Di tutto il resto
– e ti porsi la mano.
E quando uscii dalla mia casa che guarda il mare
Tacendo la tempesta del segreto -  il cuore un lago inquieto –
Era per sempre. Non sarei mai tornata.
-         Sali sulla mia nave – questo dici
Con un sorriso irrequieto a cui fui cieca.
Ed io salii. Per  volare oltre me stessa
Per  adattare il mondo alla tua sorte
Che diviene la mia contro la morte.
La morte t’è sbocciata tra le mani
Pervasa dal languore dell’assenzio
Che fu l’assenza dell’una parola mai détta.
Dètta dentro il tuo spazio limitato
Da cortei virginali di promesse
La legge degli opposti – la sinergia
Di feroci dolcezze che  lambiscono il corpo
Con lingua di predone. Come radici malate
Fitte nelle midolla.
Umidore e rossore – rivoli come serpi
Sanguigne sulla pelle a fiotti da voragini
Slabbrate urlanti erompono in sorgenti.
Via se ne fugge la vita verso cui son fuggita
Resta sulle tue mani ormai svuotate
L’odore del mio sangue.

IX
LA PROFEZIA

Non mi voleste credere
Quando con il rigore della logica
Vi annunciavo il pericolo
La fine che incombeva su noi tutti.
Non ero un sacerdote né un veggente
Ma la mia mente seguiva i meandri
Della  realtà che cela il suo disegno
Finale in ingannevoli apparenze.
La gente ch’era giunta da oltremare
Era contaminata. La purezza
Del cuore non era in loro e germinava
Soltanto il seme  della distruzione.
Non mi voleste credere
Quando – leggendo i segni delle azioni –
Vi indicavo la falsità – l’opportunismo
Degli stranieri dalle lunghe barbe.
Sapevo calcolare riflettere e dedurre
Pur nel terrore di quello che vedevo
Quel che svelavano le relazioni
Dei messaggeri inviati alla scoperta.
Vi supplicavo invano di ascoltarmi
Di capire con me che il salvatore
Annunciato da tempi immemorabili
Che quel Santo che il mare avrebbe reso
Non era giunto. Non era lì tra loro
Il Dio Serpente  – lì tra quella gente
Che si fingeva amica e ci avrebbe annientati.
Erano umani – come tutti noi
Ma avidi e bugiardi. Abili nella guerra
E nell’inganno. Voi non voleste credermi.
Avrebbero travolto e devastato
Distrutto e cancellato millenni di sapere.
E fui un vigliacco. Non seppi sostenere
L’orrore preannunciato – la morte d’ogni cosa.
Non la seppi affrontare con voi la fine.
Ero un aristocratico e il mio mondo
Era fatto di studio e di bellezza.
Ma la mia logica – la mia conoscenza
Non furono sorgenti di coraggio.
Quando salii sulla scogliera alta
Guardai le rocce aguzze e il mare ribollente.
Nel mio ultimo volo – a braccia aperte
Come un uccello dalle ali d’oro
Scorsi  la libertà dalla paura.
Non percepii la fine. Non la morte.
Solo il mio corpo – disteso sulle rocce
Vidi dall’alto. Libero
Libero ormai – compresi.
Il mio posto era lì – con la mia gente.
Tolsi a me stesso e a voi la mia presenza.
Non mi voleste credere
Perché a me stesso io pure non credetti.

X
RITORNO

Percorro il sentiero di terra battuta
Tra le querce del bosco. Filtra il cielo
Tra le piante l’azzurro in mille occhi
Che accompagnano i passi.
Ombre come merletti disegnano le foglie
Sul bronzo del sentiero.
Sono felice – sto tornando a casa.
Il mio villaggio dove la mia gente
Mi attende. Sento già i rumori farsi
Più intensi. È così dolce e familiare
Il suono delle voci che mi giunge.
Un suono che mi avvolge in un abbraccio.
Ma quando arrivo alle siepi alte
La macchia che divide il bosco dal villaggio
Circolare che s’apre alla radura
La gioia si sframmenta e si contrae.
Soltanto il vuoto – solamente case
Vedo ed oggetti ed attrezzi – ma non voi –
La  mia gente.
Non vedo i vostri volti o i vostri corpi
E solo avverto le voci e le risate.
Non posso valicare la barriera
Invisibile che da voi tutti mi esclude.
Non c’è ritorno dal buio e dal freddo.
Mi esplode allora crudo dentro il petto
E disperato un urlo d’abbandono
Come dicono facciano i vulcani
Che vomitano lava ribollente.
E quella pena si gonfia e s’accresce
Fino a serrare l’anima in un gorgo
Che mi squassa e mi schianta e mi travolge.
E allora – solo allora – ecco, ti vedo.
Alto solenne con la barba bianca
La testa fiera e il  nobile profilo
Tu padre mio – nella  tua veste bianca
Di  veggente e di saggio. Ancora vigoroso.
Tu solo ti riveli alla mia ombra
Ch’è tornata dal freddo e dal silenzio
Perché sia certa dell’immenso amore.
E la pena si placa e si dilata
Sciogliendosi  in dolcezza e compassione.
Non ci siamo mai persi – perché amore
È una potenza che non ha confini
Nel tempo e nello spazio ed è collante
Tra gli esseri che amano donando
Se stessi agli altri al di là d’ogni tempo.

XI
LA BAIA

Piatta si allarga nella sera dolce
Di fine estate e l’oro verdazzurro
Si liquefa nell’acqua e vi si fonde
Col violetto rosato del tramonto.
Piatta la baia incurva le sue braccia
Accogliendo nel cerchio ampio del  seno
Mille isole verdi. Le grida dei gabbiani
Solcano il cielo alto dove nubi
Vive  come vascelli dalle vele spiegate
Veleggiano per lidi liquescenti.
Sciabordio spumeggiando si trasforma
In un canto corale che si scioglie
Nell’aria nella terra e nelle acque
Fatte di luce che il tempo ha trafilato.
Piccole barche doppiano sull’acqua
Il volo dei gabbiani ed il salmastro
Ricolma le narici – inebriante.
In un luogo lontano – in un Nord indistinto
E  in un tempo lontano da ogni tempo
Ti  guardavo nascosta tra le piante
Alte di querce. Tu che scivolavi
Davanti a me sulla tua barca bianca.
Anima amante e amata cui l’amore
Mi ha pur saldata per la vita e oltre.
Ci siamo amati – ma da te divisa
Dalla meschinità dall’ignoranza
Del fanatismo che separa in caste.
Casto l’amore e puro come il mare
Che come ventre cercavi consolante
Alla  tua pena. Solo – nel silenzio.
Il mare madre il mare confortante
Rifugio alla mia assenza.
Allora non riuscisti ad ignorare
Il marchio dell’infamia e rinunciasti.
Ma nulla è perso – tu che mi sei giunto
Da lidi dolci e amari  – da terre che nell’acqua
Si frammentano in isole virenti
Anima amante e amata tu percorri
Il sentiero che solo porta a casa.

******

Anima amante e amata cui l’amore
Mi ha pur saldata per la vita e oltre.
A te che da altro tempo mi sei giunta
Sia lume la parola che ci lega.

Padova, febbraio 2007
(C) 2007 Francesca Diano RIPRODUZIONE RISERVATA

* Il testo inedito è tratto dal blog Il Ramo di Corallo  


20 commenti:

Francesca Diano ha detto...

Grazie Ennio!

Massimo Caccia ha detto...

Un testo lungo ed impegnativo. Poesia forte, scandita da una struttura robusta. Tornerò a leggere ed anche il blog indicato in fondo.
Buon fine settimana.

Anonimo ha detto...

Penso che “Steppa” sia veramente molto bella. Siamo tutti predatori di amore. La ferocia dell’abbandono è presentata in tutta la sua crudeltà. Il bambino interiorizza la trasfigurazione drammatica di un sorriso e poi si prostra a una sofferenza non voluta. È impreparato, prima rinnega e poi accetta la prima tappa del dolore.
Anche i più combattivi vengono schiantati con un colpo di mannaia alla schiena e fatti cadere nella terra congelata della sofferenza.
Giuseppina

Anonimo ha detto...

Anche se priva di riferimenti biografici la narrazione assume sembianze reali molto coinvolgenti . Venendo meno al rapporto autore-lettore predomina l'emozione estetica . Ho provato sensazioni past life ricche di insegnamenti. Complimenti.
mayoor

Francesca Diano ha detto...

Grazie a Massimo, Giuseppina e mayoor.
@Giuseppina. La tua lettura è molto interessante e, come accade quando si mandano le cose che scriviamo per il mondo, i lettori a volte vedono anche aspetti di cui l'autore non era del tutto consapevole. Ti ringrazio per la tua osservazione.

@mayoor. Sono contenta che tu abbia colto la realtà di queste vite che si raccontano e che comunicano quello che hanno imparato. E' in effetti il senso del testo. I riferimenti biografici dei vari personaggi variano molto nel tempo e nei luoghi, dall'Europa al Nuovo Mondo, all'Asia, da un'era molto arcaica, al Medio Evo a secoli più recenti. Uomini, donne e bambini. Ma non sono quelli l'aspetto più importante. L'aspetto più importante è appunto la vita vissuta e l'insegnamento che se ne è tratto. Tuttavia c'è un filo comune, un legame che li collega tutti ed è racchiuso nell'ultima quartina che fa da chiusa e da raccordo.

giorgio linguaglossa ha detto...

devo fare i miei complimenti a Francesca Diano per questi "Congedi" che la rivelano come uno dei poeti italiani che con più originalità di pensiero si è cimentata nella costruzione di quella cosa che io da un paio di decenni mi sforzo di chiamare "discorso poetico". È da almeno due decenni che scrivo che la poesia del futuro prossimo, se non vuole scomparire, dovrà necessariametne andare verso la confezione di un "discorso poetico", verso la elaborazione di un abito narrativo in grado di contenere una struttura sostanzialmetne post-lirica. E poi c'è l'aspetto importantissimo della spersonalizzazione che queste poesie rivelano: la liberazione dell'io lirico ormai divenuto, presso gli epigoni di Milo De Angelis e le sacerdotesse dell'io alla mariangela Gualtieri, una vera e propria iattura.
Queste poesie poi rivelano una originalissima soluzione tra l'ambiguità del registro poetico e la univocità della tesi a tema di questi testi.
A quanto mi risulta, un tale livello di spersonalizzazione dell'io poetico, prima di Francesca Diano, è stato raggiunto soltanto dai libri di Dante Maffìa "Lo specchio della mente" del 2000 e "La Biblioteca d'Alessandria" del 2005, nonché con il mio "Paradiso" del 2000... ma anche da libri come "Passanti" del 2005 di Cesare Viviani...
come si vede siamo all'interno di un processo storico che investe la forma-poesia e le inclinazioni personali degli autori per portare il tutto in una direzione unica che coinvolge le singole ricerche dei singoli autori e stravolge i risultati del passato recente e meno recente, riducendo certi valori estetici che si credevano accertati e aumentando altri valori estetici in via di affermazione. Ciò coinvolge in questo processo storico anche gli assetti di equilibri di potere e istituzionali più disparati...

Anonimo ha detto...

Molto drammatica e complessa questa scrittura mi ha colpita per la scelta raffinata della parole , quasi preziosa. Una scrittrice esperta che ti porta in una dimensione passata anche come stile. La lettura per me impegnativa, mi ha lasciata con dei dubbi sullo stile ma è sicuramente una mia lacuna- Emy

Francesca Diano ha detto...

Grazie Emy. Mi interesserebbe sapere quali sono i tuoi dubbi.

Anonimo ha detto...

Gentile Francesca Diano, la poliedricità dell’interpretazione sicuramente è un arricchimento per chi scrive e per chi legge. Sono consapevole di non dire nulla di nuovo, ma prendo spunto dal concetto filosofico di Stevens riguardo alla realtà (la realtà è il prodotto dell’immaginazione, è l’immaginazione che dà forma al mondo) e affermo che è l’immaginazione che dà forma alla poesia. Leggere poesia è un atto poetico che permette di proiettare delle parti di mondo interiore e rendere coerente ciò che più ci coinvolge nel preciso momento in cui leggiamo.
La poesia è un happening. Di rado poeta e lettore si incontrano fisicamente e si dicono le loro impressioni. Come lettrice ho lavorato con la mia fantasia e ho inserito nella poesia “Steppa” ciò che in questo momento tocca di più le mie corde. Grazie. Giuseppina

Francesca Diano ha detto...

Ancora una volta grazie per quello che ha scritto della mia poesia. E' per me un grande onore essere avvicinata, anche se mi sento molto piccola accanto a loro, a poeti come Maffia e Viviani. Mi ci riconosco in effetti per molti aspetti, così come trovo in "Paradiso" una potenza miltoniana che mi piace e che vorrei trovare più spesso.
Non so se la mia poesia, che io stessa vedo diversa da molta che circola e che trova osanna per me incomprensibili, sia appunto lontana dalle correnti mode perché io ho scelto di esserne estranea. Né mi sento attirata dalla modernità. Non sono una grande conoscitrice della poesia italiana contemporanea, (a parte alcuni poeti e poetesse che amo moltissimo) e in questo ammetto una mia profonda, vergognosa ma gioiosa ignoranza.
Mi è molto piaciuto quello che ha detto sull'ambiguità del registro poetico e dell'univocità della tesi a tema. In effetti questo può risultare spiazzante per un lettore, ma si è posta invece come soluzione assolutamente necessaria a un coro di voci molto diverse tra loro, ciascuna con-clusa in un proprio universo esistenziale. La sopravvivenza di quell'universo è affidata a quella voce. Che solo così sa parlare.
Ancora grazie.

Anonimo ha detto...

Me l'aspettavo che queste poesie sarebbero piaciute a G.Linguaglossa :) sono in tema con quando si disse a proposito della sua poesia "La grande casa immersa tra gli aranci". Così come , mi pare, siano in tema le poesie di Giorgio Mannacio che ho letto sull'ultimo Almanacco dello specchio...
mayoor

Francesca Diano ha detto...

Infatti quello di cui la ringraziavo era proprio questo. Di aver lasciato che qualcosa nel mio testo la toccasse e in cui si è riconosciuta. Che è ciò che ogni autore vorrebbe accadesse a chi legge. Ma lei ha fatto di più: ha letto con chiarezza il significato della metafora e la sua universalità. Quelle voci infatti non parlano a se stesse, se non come esseri che hanno sperimentato aspetti della condizione umana.
Quello che lei ha definito happening è proprio quel che dovrebbe accadere (e che bello sapere che è accaduto!) L'arte vive non nel silenzio o nell'invisibilità, ma nell'istante in cui si crea questa scintilla/evento tra l'opera e chi la osserva (o la legge). E' solo allora che si fa cosa viva.
Grazie ancora

Anonimo ha detto...

A Francesca: mi sono chiesta se le tue poesie hanno uno scopo soprattutto sociale o altro, perchè io leggo anche uno sfogo sentimentale e mi va molto bene, ma io sono stata spesso redarguita da Ennio, riguardo lo sfogo,cercando di contenere questo bisogno (ancora non ho imparato), sono riuscita a fare scritti sicuramente più soddisfacenti ma a volte privi della vita che io avevo pensato per loro. Non voglio assolutamente mettere in dubbio il tuo stile, sono solo domande che mi sono posta , amo la poesia e vorrei sempre migliorarmi. Ciao Emilia

Anonimo ha detto...

A Ennio : vorrei specificare , non si sa mai,il clima spesso non è pacifico: sono stata redarguita simpaticamente da Ennio dopo aver richiesto un suo parere , devo dire che aveva ragione! Ma ora vorrei potermi esprimere cercando un veicolo giusto anche per lo sfogo, inteso come rabbia, passione, fede, sentimenti insomma da controllare ma.... Ciao Emy

Moltinpoesia ha detto...

Ennio Abate:

Amiche poetesse
andate a briglia sciolta dove volete!

A Emy dedico questa da "donne seni petrosi":


Va su e giù, si tiene a mezza strada, stabilisce il passo, guida donne danzanti sul Sagro Monte di Granada. Quanto sono allegre! Come tornano bimbette, vispe e saltellanti!

A volte le rimprovera. Vorrebbe proteggerle. Ma bisbigliano strette fra loro. La forza che a lui rimane serve loro ormai solo se lontana. Più non accettano quel suo patriarcale succhiare i loro gesti e odori lievi.

Hanno giocato come sorelle fino alla selva dei morti. Da lì si sono ritratte dopo il grido furioso che testardo ancora ha lanciato, indicando loro la mobile fune che divide alto e basso, ricchezza e povertà.

A tempo perso vigila ancora. Che, danzando, non la oltrepassino. Ma sa che, stringendosi assieme e incoraggiandosi, scenderanno in pozzi d’amore, dove l’alta minaccia non è percepita.

Sgridarle ancora? Sembrano le uniche a ricordare i luoghi dove scorre sotterraneo il fiume che, liberato dell’umana penuria e dalle loro incomprensibili azioni, correrebbe nel solco dritto della morte o inaridito si piegherebbe all’alta Legge che avvampa l’ardente roveto.

Anonimo ha detto...

Ah! L'ardente roveto! Grazie Emy

Francesca Diano ha detto...

Cara Emilia, non mi è molto chiaro a cosa ti riferisci quando parli di "scopo sociale". Tu mi hai detto che avevi dei dubbi sullo stile, ma lo stile non è il contenuto, piuttosto è la forma. Tu qui però mi parli di contenuto, ma mi pare evidente che i miei testi (e in genere tutto quello che scrivo) non hanno alcuno scopo sociale, cioè non sono critiche della nostra società, delle istituzioni, non portano avanti battaglie ideologiche ecc. Questo sarebbe uno scopo sociale. Lo stile invece è la forma. La forma che si sceglie, il registro linguistico, la costruzione e la struttura del testo, la metrica che vuoi usare ecc.

Non parlerei poi di "sfogo". E' una parola che non si coniuga con lo scrivere. Uno sfogo è il lasciare uscire un'emozione momentanea ed esprimerla senza un processo di consapevolezza e di elaborazione che passa attraverso la mente. La scrittura, come ogni forma d'arte, è prima di tutto consapevolezza. Dunque elaborazione, riscrittura, eliminazione del superfluo. Certo, tutto nasce da emozioni o immagini interne (per me molte delle mie cose nascono da immagini interne e meno da emozioni momentanee)ma è comunque un processo lungo e non facile. Non tutto quello che scriviamo ha valore, molto va eliminato, ma serve comunque come esercizio conoscitivo e come banco di prova per altre cose.
La mia poesia è molto meditata, molto limata e prima di decidere che quello che ho scritto potrebbe aver raggiunto una sua definitezza, ci ritorno molte volte.
Uno "sfogo" è una cosa immediata, momentanea e non elaborata e difficilmente ha un qualche valore poetico. E' utile per chi lo fa, certo, ma non può essere fine a se stesso.
La poesia è fatta di forma e contenuto, o stile e idea, come preferisci. Ma non si può separare l'uno dall'altro. Una bella forma vuota è inutile. Un contenuto o idea senza forma è inutile. E' necessario fonderli in un'unità inscindibile.
Tu dici che vuoi cercare un veicolo giusto per lo sfogo delle tue emozioni. Io ti dico: smetti di volerti sfogare. Perché se lo fai, il frastuono delle tue emozioni non ti permetterà di sentire con chiarezza la tua parte più profonda, quella che ha bisogno di silenzio per essere udita, che è quella da cui nasce l'ispirazione più vera e meno momentanea o estemporanea.
Credo che ogni poeta abbia una sua posizione. La mia è che il linguaggio poetico debba essere musicale. So che non va di moda (anche perché è più facile scrivere a caso e da sordi che non sentono la musica), ma per me è essenziale. Non parlo di rime - anche se ogni tanto ci possono stare, ma ogni tanto. Parlo di assonanze, allitterazioni, metrica ecc.
Per quanto mi riguarda, prima sento dentro la musica del primo verso che ancora non ho scritto e poi il resto viene. Ma mai come sfogo.
Spero di averti risposto.

Anonimo ha detto...

Sì Francesca mi hai risposto, ti avevo parlato di stile, infatti mi sembrava non certo nuovo ma sicuramente molto valido come del resto le idee , meditate. Anche a me piace riservare attenzione alla musicalità, così nasce lamia poesia, ma ultimamente mi sono cimentata trascurando la musicalità pur rimanendo nella poesia e nel suo scopo e non direi proprio che è stato facile anzi..,comunque quando parlo di emozioni o di sfogo non mi riferisco solo ai miei sentimenti, che senz'altro potrebbe compromettere l'esito di tutto lo scritto , ma all'emozione delle cose,dei momenti,degli accadimenti, insomma l'essenza, quella che ha originato attraverso le più grandi emozione e passioni la vita di tutto ciò che noi chiamiamo arte. Lo scritto che Ennio mi ha dedicato racchiude tutto ciò che io voglio dire, anche se lui da uomo, la vede da spettatore...comunque molto interessato. Ciao grazie ancora. Emilia

annamaria ha detto...

Tutto il poemetto mi é parso bello, straordinariamente bello...certo ho dovuto interpretarlo e non so se ho colto nel segno, in tutti i modi mi ha molto coinvolto. Mi sembra che la protagonista del racconto di cui si canta sia la figura femminile iniziale,una donna dei tempi antichi ma anche fuori dal tempo per i suoi caratteri di universalità, segnata da una lettera scarlatta perciò esclusa, perseguitata, calpestata, lei stessa non crede più nella sua dignità..ma l'esperienza di un amore intenso le ridonerà se stessa, consegnandola pura all'amato...Gli altri bellissimi personaggi presentati nelle diverse stazioni, con tutte le loro vicissitudini e sentimenti, mi sembrano riemergere da una sorta di"Spoon river" dei ricordi da parte della stessa donna che dà inizio e conclusione al canto. Ne emerge un'umanità complessa fatta di vittime ma anche di vittime delle vittime...il paesaggio é primordiale e ci riporta alla rappresentazione di esseri umani dalle forti emozioni, in cui anche noi ci riconosciamo..il linguaggio é prezioso ma non manca di essenzialità..
Annamaria

Francesca Diano ha detto...

Grazie Annamaria, hai colto perfettamente nel segno. C'è infatti un unico filo, nascosto e sotterraneo, non facilmente evidente, che lega tutte queste vite, appunto le "stazioni" di una sorta di Via Crucis. Di vittime - di se stesse e di altri - e di vittime delle vittime si tratta. Tutto quello che hai scritto con straordinario acume è vero.
Ti ringrazio davvero delle tue parole e della tua lettura.