venerdì 6 aprile 2012

DISCUSSIONE
Ennio Abate
E' così facile lo sposalizio
di Poesia e Scienza? (2)

 

Questo post riprende la discussione sviluppatasi nei commenti di quello precedente dallo stesso titolo (qui). [E.A.]

 

SECONDA LETTERA A ROBERTO MAGGIANI.

 

Caro Roberto,

avviatosi il dialogo tra noi, mi permetto ora il tu. Per scrupolo intellettuale, per evitare di spostare l’attenzione sul mio punto di vista, per non sembrare uno che parla solo sulla base di un’intervista, trascurando il discorso più completo  da te svolto, ho  riletto  il  tuo saggio «Poesia e scienza: una relazione necessaria?» (CFR 2011). E aggiungo a quanto finora detto le seguenti considerazioni:


1. In un commento precedente  hai scritto: «Vorrei inoltre precisare, più in generale nella discussione, che la mia posizione è per una distinzione netta tra poesia e scienza, mi pare che io sia stato frainteso». Ora devo farti notare che ti contraddici. Nell'intervista  avevi affermato: «La poesia ha l’obbligo di espandersi sui territori della scienza, fino ai suoi estremi confini»; e la stessa frase ritrovo a pag.7 del tuo saggio. Ma  più avanti trovo un'altra conferma della tua visione “missionaristica” e doveristica della poesia. Infatti dici: «Sia la poesia che la scienza sono fatti umani, pertanto devono incontrarsi nell’uomo e donare l’una all’altra la libertà di muoversi nei territori che ognuna ha raggiunto e conquistato. In particolare, la poesia ha il dovere di percorrere i territori della scienza e ad essa offrire il servigio del suo acutissimo senso indagatore e rivelatore di un più profondo livello di vita/esistenza del cosmo, interrogandosi sul mondo, LIBERA DAL METODO SCIENTIFICO» (p.7). [Le maiuscole accentuative sono mie].

 

2. La tua posizione non si fonda su una visione di pari dignità (storica) della ricerca poetica  e della ricerca scientifica. Tu parti, invece, dalla convinzione di una insufficienza (implicita e indimostrata) della scienza. Ne trovi conferma  nella tua biografia:«A suo tempo scelsi di studiare Fisica, pensando che tali studi avrebbero soddisfatto la mia curiosità sull’universo e le sue leggi […] Mi andavo però rendendo conto che la Fisica, da sola, non sarebbe riuscita a soddisfare appieno la mia ricerca» (p.8). Ma anche nell’autorità di alcuni filosofi, in particolare di Plotino (e nel filosofo plotiniano Alberto Monesterolo): «l’uomo scienziato  deve fare un potente e importante sforzo di astrazione per individuare l’unitarietà del mondo» (p.9). (Faccio notare in proposito che, mettendo, come suol dirsi. il carro davanti ai buoi, una visione unitaria del mondo potrebbe, in teoria o  al massimo auspicabilmente, essere il risultato eventuale della ricerca scientifica, e non dovrebbe passare, senza spiegazioni, per uno scopo della ricerca stessa!).

Del resto l’insufficienza  della scienza viene ribadita più oltre, quando scrivi: «c’è la possibilità, per l’uomo,attraverso l’intelligenza e l’anima, di salire di un gradino nella gerarchia dell’esistenza » (Un po’ quello che mi è capitato di sentir dire dal teologo Vito Mancuso a Radio 3 due o tre pomeriggi fa in un’intervista a «Fahrenheit»). E ancora, quando dici di aver trovato quello che ti mancava proprio nell’«indagine poetica», e cioè «la possibilità di descrivere il campo del reale con una più ampia libertà e molteplicità rispetto alla sola indagine scientifica». Ora a me pare che così  siamo molto vicini alla riduzione della scienza  ad ancilla della poesia. O a mescolarla - ecco la «sporca religione dei poeti» che ritorna! - con la religione: «Poesia è anche quel qualcosa di vagamente irrazionale, per certi versi simile alla fede, ma laico, non religioso, universale, che abbraccia ogni fede religiosa o assenza di essa» (p.13).


3. A maggior ragione, adesso che ho riletto il tuo saggio interamente, devo, togliendo le virgolette, definire spiritualista  e astorica la tua posizione. Non solo  perché, pur ammettendo (quasi di corsa) che «intorno all’uomo il mondo cambia», quello che t’interessa veramente sottolineare è che «in sé, l’uomo, nel più profondo, con la sua ampiezza intellettuale e di spirito, con la sua coscienza del Cosmo e della propria esistenza, sembra essere, da sempre, il medesimo, dai primi dipinti rupestri a Van Gogh» (p. 6).  Astorica, perché non si capisce che rapporto ci sia fra questo «uomo» (spirituale) e lo «sviluppo scientifico-tecnologico», pur «completamente diverso e nuovo rispetto al passato» (p.6) o  le «nuove scoperte che lasciano esterrefatti gli stessi scienziati» (p.7). Ma spiritualista è la tua stessa  vaghissima definizione di Poesia: «uno stato di coscienza umana in cui è permessa l’osservazione dell’esistenza da questa sfera superiore dell’anima e dell’intelligenza, sfera che ingloba la realtà materiale sensibile» (p. 9-10). Spiritualista, perché parli della poesia  in termini di «vocazione»(10);  e riproponi una gerarchia, che è proprio quella che la scienza moderna ha - guarda un po’! - rimesso in discussione! Anzi fai scendere di un gradino giù pure la filosofia. Ti chiedi, infatti, «ma la filosofia non potrebbe, forse, servire meglio della poesia a tale scopo [descrivere il campo del reale con una più ampia libertà]?». E rispondi no, retrocedendola a «intermediaria tra il mondo scientifico e quello poetico». La poesia, insomma, über alles, perché «sintesi di scienza e filosofia, di natura e spirito»(10)! E lo dimostrassi, te ne sarei riconoscente. Invece ti aggrappi al principio d’autorità. L’ Ipse dixit in questo caso è Novalis, «poeta ma anche  filosofo e di formazione scientifica», che «ammetteva che la poesia permettesse una conoscenza del reale superiore alla scienza e alla filosofia, riuscendo a cogliere e a rendere manifesto aspetti “intimi” alla realtà che ad esse sfuggono»(p.11). Uno ne vorrebbe sapere di più. Ma tu ti limiti a convalidare l’autorità di Novalis con l’ autorità di Roberto Reale, che - guarda un po’ - ha scritto l’introduzione a «I discepoli di Sais» dello stesso Novalis!


4. La tua visione del rapporto  poesia/scienza alla luce  dell’«affermazione novalisiana che le scienze devono essere poetizzate» (p.13) ti spinge, a mio parere, alle affermazioni più azzardate e a un “minestrone» poesia/scienza indigeribile e confuso. Parti, come ho già detto, da una definizione di poesia, anzi della «Poesia» (con la maiuscola sintomatica!), che a me pare - lo dico schiettamente - un vero delirio di onnipotenza: 

 

«Qui interessa pensare la Poesia come una profonda visione/intuizione che l’uomo ha della sua esistenza, un istante di sublime bellezza e/o sublime dolore; essa è estasi e mistica, semplice analisi o ironia sul mondo e sui suoi gesti, umani, animali o naturali che siano. Si può parlare di alcune sue proprietà, di come agisce, ma in sostanza assumo che la Poesia sua un concetto primitivo, un ente fondamentale correlato all’esistenza umana, essa è indissolubilmente legata all’uomo, è quindi un affare totalmente umano, e affermo che senza l’umanità non ci sarebbe Poesia; dicendo ciò implicitamente affermo che l’Universo si è dotato della Poesia, all’apice della sua evoluzione biologica - almeno su questo pianeta -, rappresentata dall’uomo» (p.12). 

 

Pare evidente che definirla così (un «affare totalmente umano») è giocare a rimpiattino: un concetto indefinito si appoggia su un altro concetto (l'uomo o l'Uomo) altrettanto indefinito. E, coerentemente con la tua impostazione, separi la «Poesia» dalla scrittura, che pur potrebbe aiutare a definire con una qualche accettabile precisione il campo di cui parliamo: «Non sempre la scrittura è Poesia, ma neanche la Poesia richiede necessariamente la scrittura. Che cosa significa esprimere la Poesia nella scrittura? Scrivere poesia è un atto secondario rispetto alla Poesia» (p.13-14). Poi, con disinvoltura, presenti una pagina di formule matematiche (p.19) e affermi senza esitare:«Chi può dire che la scrittura di pagina 19 non sia una poesia?» (p.18). Poi, sostenendo che quei segni grafici «nascondono significati profondi e possibili deduzioni non di immediata evidenza, neanche per matematici e fisici» e che  «anche nel linguaggio rigoroso, almeno in apparenza, della scienza, c’è, in realtà, una sorta di aleatorietà e interpretabilità soggettiva dovuta al fatto che lo scienziato appartiene alla fantasiosa categoria umana» (p.18), arrivi alla quadratura del cerchio tra poesia e scienza. Ovviamente a patto «che lo scienziato si ponga nella sfera superiore dell’esistenza, nel senso plotiniano»(p.20) prima accennato! Solo così «similmente a un poeta, può scrivere poemi bellissimi, soggetti alle stesse interpretazioni di una poesia scritta in italiano, in giapponese o in arabo» (p.20).

Ahimè, questa, dunque, sarebbe la «poetizzazione della scienza»? Uno scienziato cioè che viaggerebbe «sull’onda di una personale e intima intuizione del mondo» (p. 20), proprio come un buono, ottocentesco poeta romantico tedesco!

 

5. Ahimè, a questi eccessi soggettivistici porta una visione astorica sia della poesia che della scienza.  È vero che linguaggio poetico e linguaggio scientifico si staccano dal «senso comune», ma - per carità - mai in questo modo arbitrario e indefinito. Quando ho parlato di immaginazione scientifica che non ha niente da farsi perdonare da quella poetica, non intendevo cadere  nelle fauci di questa confusione ipersoggettivistica che tu approvi:«L’interpretazione è soggettiva, dipende da ciò che il lettore ha esperito nella propria vita» dici a proposito di un haiku. E arrivi ad  ipotizzare che la «Poesia» resterebbe lì dentro (in quei segni), anche se scomparissero tutti coloro capaci di decifrarli. Ci sarebbe sempre, anche se «totalmente indeterminata» (p. 23). Se questo significa «traslare la rivoluzione scientifica della fisica quantistica in campo letterario-poetico inziando a parlare di Quanti di poesia e definire una sorta di principio di indeterminazione poetico, in analogia con il principio d’indetermianzione di Hesenberger»(p. 25), dico subito: no, grazie! Se «la poesia ha lo stesso ruolo dei quanti in fisica, cioè di mediare tra due realtà, in particolare tra la natura e la sopranatura», cioè «il mondo delle idee, situato in una sorta di iperuranio, un cosmo interiore che scaturisce dall’unione di coscienza e intelligenza, una realtà altra che è insita nello spirito umano e ad esso connaturale, che, per chi crede, è la più stretta aderenza a Dio, per chi non crede può essere comunque il valore più alto nella gerarchia dell’esistenza»(p. 25), mi pare di tornare a scuola di Platone e mi viene voglia di gridare: Ahi, ridatemi il buon vecchio Lukács!

   

6. Contro questo ipersoggettivismo, mi riduco persino ad abbracciare il buon senso illuminista di Umberto Eco di cui per caso ho letto proprio ieri un interessante articolo che a a che fare indirettamente con questa nostra discussione.Eco non mi è stato mai troppo simpatico, ma consiglio di leggerlo e ne stralcio qui un passo:

 

«Ricorderò un mio dibattito con Rorty, svoltosi a Cambridge nel 1990, a proposito dell’esistenza o meno di criteri d’interpretazione testuali. Richard Rorty – allargando il discorso dai testi ai criteri d’interpretazione delle cose che stanno nel mondo – ricordava che noi possiamo certo interpretare un cacciavite come strumento per avvitare le viti ma che sarebbe altrettanto legittimo vederlo e usarlo come strumento per aprire un pacco. Nel dibattito orale Rorty alludeva al diritto che avremmo d’interpretare un cacciavite anche come qualcosa di utile per grattarci un orecchio. Nell’intervento poi consegnato da Rorty all’editore l’allusione alla grattata d’orecchio era scomparsa, perché evidentemente Rorty l’aveva intesa come semplice boutade, inserita a braccio durante l’intervento orale. Possiamo astenerci dall’attribuirgli questo esempio non più documentato ma, visto che – se non lui – qualcun altro ha usato argomenti consimili, posso ricordare la mia contro-obiezione di allora, basata proprio sulla nozione di affordance. Un cacciavite può servire anche per aprire un pacco (visto che è strumento con una punta tagliente, facilmente manovrabile per far forza contro qualcosa di resistente); ma non è consigliabile per frugarsi d’entro l’orecchio, perché è appunto tagliente, e troppo lungo perché la mano possa controllarne l’azione per una operazione così delicata; per cui sarà meglio usare un bastoncino leggero che rechi in cima un batuffolo di cotone. C’è dunque qualcosa sia nella conformazione del mio corpo che in quella del cacciavite che non mi permette di interpretare quest’ultimo a capriccio. […] Tornando al cacciavite di Rorty si noti che la mia obiezione non escludeva che un cacciavite possa permettermi infinite altre operazioni: per esempio potrei utilmente usarlo per uccidere o sfregiare qualcuno, per forzare una serratura o per fare un buco in più in una fetta di groviera. Quello che è sconsigliabile farne è usarlo per grattarmi l’orecchio. Per non dire (il che sembra ovvio ma non è) che non posso usarlo come bicchiere perché non contiene cavità che possano ospitare del liquido. Il cacciavite risponde di SÌ a molte delle mie interpretazioni ma a molte e almeno a una risponde di NO.Riflettiamo su questo NO, che sta alla base di quello che chiamerò il mio Realismo Negativo. Il vero problema di ogni argomentazione «decostruttiva» del concetto classico di verità non è di dimostrare che il paradigma in base al quale ragioniamo potrebbe essere fallace. Su questo pare che siano d’accordo tutti, ormai. Il mondo quale ce lo rappresentiamo è certamente un effetto d’interpretazione, e sino a ieri lo interpretavamo come se i neutrini viaggiassero anch’essi alla velocità della luce e forse domani dovremo deciderci a cambiare idea mettendo in crisi una presunta costante universale. Il problema è piuttosto quali siano le garanzie che ci autorizzano a tentare un nuovo paradigma che gli altri non debbano riconoscere come delirio, pura immaginazione dell’impossibile. Quale è il criterio che ci permette di distinguere tra sogno, invenzione poetica, trip da acido lisergico (perché esistono pure persone che dopo averlo assunto si gettano dalla finestra convinti di volare, e si spiaccicano al suolo – e badiamo, contro i propri propositi e speranze), e affermazioni accettabili sulle cose del mondo fisico o storico che ci circonda?»


E concluderei così: cerchiamo di delimitare «i confini della poesia» (Fortini). Cerchiamo di non usarla come il cacciavite di Rorty…


*Nota. L'intero articolo di U. Eco è reperibile qui  

 

 

12 commenti:

Roberto Maggiani ha detto...

Caro Ennio, mi piace il tuo metodico "scandalizzarti" dei passaggi del mio testo, ma dovresti dimostrarmi che tutto ciò che ti "scandalizza" sia effettivamente elemento di scandalo. Per quanto riguarda il primo punto dove affermi il mio contraddirmi, non riesco a vedere contraddizioni in ciò che affermo e tu hai riportato... ma avrò più calma per meditarci ed esplicitare meglio il mio pensiero; ora ti ho risposto un po' velocemente per farti arrivare ancora il mio grazie per il tuo approfondimento e la tua attenzione... in quanto al delirio di onnipotenza... beh, mi sono solo schierato in un pensiero, forse in un modello... ti ricordo che il mio saggio è solo un inizio, un tentativo, una proposta, e le tue critiche le trovo di grande aiuto, non sono però sicuro di riuscire a risponderti a breve, mi ci vorrà tempo per elaborare, ma già avevo in mente da tempo di focalizzare meglio molti punti. Per completezza dico anche che ci sono altre voci critiche sul mio saggio che sono di tutt'altro parere rispetto al tuo, cercherò di mettere tutto insieme nel mio ripensare il tutto. Umberto Eco mi è piaciuto. A presto.

Moltinpoesia ha detto...

Ennio Abate:

Caro Roberto,
essere per "una distinzione netta tra poesia e scienza" e al contempo sostenere che la poesia ha il dovere di "aprire gli occhi" alla scienza un po' "miope" a me pare una contraddizione. Ma ora ho detto quel che avevo da dire e aspetto senza fretta altri approfondimenti da parte tua o di altri.

Anonimo ha detto...

Poesia non crederti umana
sei finita qui per errore
non cercare troni o allori
nell'ingiustizia della parola
nella fragranza della musica
nel vuoto dell'aria canti
ma non sei qui per esistere
tu sei padrona del tutto
non fidarti dell'uomo che
ti vuole in catene e della
favola del cavaliere vincente
di guerre e abili guerrieri
di formule magiche o matematiche
sei fuori di qui vai via da qui
esisti per il tuo essere pronuncia
il tuo nome a chi ti sa incontrare
e ti apre le mani stremato
dal lungo cammino.

Emy

Roberto Maggiani ha detto...

Lancio qualche altro pensiero recuperato qua e là, più o meno in relazione alla discussione del punto 1 e 2.
Rinnovo la convinzione della necessaria distinzione tra poesia e scienza affinché entrambe possano lavorare, per così dire, in santa pace, senza intromissioni di sorta, tuttavia è possibile, per me necessario, focalizzare gli sforzi su uno stesso obiettivo, la natura dal punto di vista pratico e ontologico. La poesia può, in un colpo d'occhio, vedere, ovvio che è l'uomo a farlo, il mondo nella sua unità, spetta alla scienza entrare nell'unità, già smembrata in parti e comporle in unità teorica e matematica. Uno dei più grandi scienziati del Novecento affermava (la prima parte la riporto dalla proposta e traduzione di Roberto Perrino su www.larecherche.it, proprio in relazione alla stessa discussione):

In un bicchiere di vino c’è l’universo intero. Probabilmente non sapremo mai cosa volesse veramente dire, perché i poeti non scrivono per essere capiti. Tuttavia è vero che, se guardiamo un bicchiere di vino da vicino, ci vediamo l’universo intero. Ci sono le cose della fisica: il liquido cangiante che evapora a seconda del vento e del tempo, la riflessione della luce nel bicchiere, e la nostra immaginazione ci aggiunge gli atomi. Il vetro è un distillato delle rocce della terra, e nella sua composizione scorgiamo i segreti dell’età dell’universo, e l’evoluzione delle stelle. E che strano insieme di sostanze chimiche c’è nel vino! Come si sono messe insieme in questo modo? E ci sono i fermenti, gli enzimi, i substrati, e i prodotti di questi reagenti. Là, nel vino, troviamo la grande generalizzazione: tutta la vita è fermentazione. Nessuno avrebbe potuto scoprire la chimica del vino senza scoprire, come fece Pasteur, la causa di molte malattie. Come è vivido il Bordeaux, che espone pressante la sua esistenza alla coscienza di chi lo sta a guardare! Se la nostra piccola mente, per comodità, divide questo bicchiere di vino, questo universo, in parti: fisica, biologia, geologia, astronomia, psicologia, …, ricordiamoci che la Natura non lo fa! Così rimettiamo tutto insieme, senza dimenticare infine a cosa serve. Che ci dia ancora piacere: beviamolo e dimentichiamo tutto il resto!

[continua]

Roberto Maggiani ha detto...

e ancora Feynman affermava:

I poeti sostengono che la scienza tolga via la bellezza dalle stelle – ridotte a “banali” ammassi di gas. Non c’è nulla di “banale”. Anche io posso vedere le stelle nella notte deserta, e sentirle. Ma vedo di meno o di più? La vastità dei cieli estende la mia immaginazione. Bloccato su questa giostra il mio piccolo occhio può catturare luce vecchia di un milione di anni. Un grande disegno di cui sono parte […] Qual è il disegno, o il significato, o il perché? Non sminuisce il mistero conoscerne un po’. Poiché la verità è ancor più meravigliosa di quanto ogni artista del passato abbia mai immaginato. Perché i poeti moderni non ne parlano? Che uomini sono quei poeti che possono parlare di Giove come se fosse un uomo ma se invece è una enorme sfera rotante di metano e ammoniaca rimangono muti?




Riguardo alla visione unitaria propongo una mia poesia pubblicata in Scienza aleatoria, LietoColle:

Lo scienziato e il poeta

La natura è fatta a pezzi
deturpata scientificamente
sezionata con tagli netti
sviscerata
al fine di comprenderne
la struttura
e le relazioni tra le parti.
Lo scienziato si prodiga
a ricomporre ciò
che già era unito
e che divise
per sua curiosità innata.
Il poeta – al contrario –
è alla ricerca dell’interezza,
di essa si fa custode.

Ma la scienza che smembra
e divide
salva molte vite,
la poesia invece
è un rapace che preleva dal suolo
e deciderà in volo
se strappare le viscere
o adagiare sulla cima.

[continua]

Roberto Maggiani ha detto...

Infine, Maurizio Soldini su Poesia 2.0 in relazione al mio saggio su "Poesia e Scienza, una relazione necessaria?", scrive:

La scienza ha i suoi canoni ed è bene che li segua, ma non può pretendere di vincolare l’uomo ai suoi paletti. Insomma la scienza deve continuare a fare il suo percorso ma non può pretendere di assolutizzare se stessa ed ergerla a padrona incontrastata del mondo e dell’uomo. C’è altro e c’è Altro. E, forse, chi sa tenere presente questa alterità è proprio tra le altre arti e scienze, proprio la poesia, che tenta di ricucire gli strappi della scienza, alcune devianze della filosofia, che tenta di ridare all’uomo un linguaggio che è sicuramente molto più a misura d’uomo ma ancor più dell’umano.

Invito a leggere per esteso il suo intervento critico:
http://www.poesia2punto0.com/2012/03/14/roberto-maggiani-poesia-e-scienza-una-relazione-necessaria-una-lettura-di-maurizio-soldini/#.T38oTPA9Ung

Anonimo ha detto...

Il dibattito in corso mi sembra privo di concretezza, errore sia per lo scienziato che per il poeta.Uno spirito beffardo ha definito il sorriso un moto particolare dello sfintere orale.La brutale sentenza non interessa lo scienziato che si bea del sorriso dell'amata. E al medico che deve curare un moto incontrollabile e patologico delle labbra interessa la ricerca della causa e l'entità degli effetti.Ciascuno vede i fenomeni reali secondo prospettive di " senso" e di
" interessi" che non debbono per forza unirsi in matrimonio. Al sommo Leonardo - materialista convinto ( " O matematici fate lume a tale errore ! Lo spirito non ha voce perchè dov'è voce è corpo " )non interessa la natura umana o divina delle sue Madonne.Il discorso si può trasferire completamente nel rapporto Poesia / Scienza. O così mi pare. Giorgio Mannacio.

Anonimo ha detto...

Arte come scienza

La differanza tra poesia (letteratura, arte) e scienza è in primo luogo una questione di prevalenza della funzione del linguaggio, referenziale per la scienza e autoriflessiva per l’arte. La funzione referenziale è inoltre rafforzata nella scienza, nel senso che vuole essere rigorosa e innovativa nel riferirsi al mondo, cioè nello svelare e dimostrare il vero.

Ma in ogni testo le funzioni linguistiche ci sono sempre tutte, sebbene in posizioni non primarie. E forse tutte contribuiscono alla principale, ovvero funzionano come aiuto per raggiungere lo scopo primario che non competerebbe loro. Così la funzione autoriflessiva può portare il suo contributo alla scienza rendendo icastica e più evidente, e quindi più chiara e convincente, la formulazione dimostrativa del referto. Lo stile delle formulazioni e la sua importanza diventa più evidente in filosofia, che pure è un uso referenziale del linguaggio.

Dalla scienza alla filosofia, come pure nella gamma delle scienze stesse, vi è una varietà molto grande di sfumature e differenze, per esempio dalle scienze cosiddette “dure” a quelle cosiddette “umane”. Lo stesso vale nella gamma delle filosofie, per esempio tra le analitiche e quelle morali o storiche. Lo si vede nelle formulazioni di Heidegger che a me fanno ridere, ma capisco che evidenziano lo sforzo di dire l’indicibile o l’impensato.
(continua)

Anonimo ha detto...

Arte come scienza

Ho dovuto di recente rivedere la formulazione in inglese di un documento scientifico relativo a certe ricerche sperimentali di astrofisica, e mi sono reso conto della necessità di una formulazione essenziale, tutta dati e consequenzialità asfissiante, almeno per me, rispetto ad un normale discorso referenziale, anche nelle parti per così dire “narrative” e descrittive della messa in opera del contesto sperimentale. Alla fine, avendo preso un po’ di confidenza con quel tipo di linguaggio mi sono reso conto che c’erano i dati, la loro percezione, e le considerazioni o commento esplicativo e di collocazione nel contesto cognitivo pregresso.

Questo mio rendermi conto metteva in luce la necessità anche “estetica” di quel rigore linguistico (infarcito di segni matematici), perché una formulazione più “elastica” e rilassata sarebbe stata meno efficace per la comunicazione richiesta. Quindi per raggiungere il suo fine quel tipo di comunicazione era la più adatta, il che per me è l’essenza della bellezza. Se la formulazione fosse stata più rilassata e per me, non scienziato, più piacevole, avrebbe invece suscitato l’impazienza dei destinatari del documento.

Dall’altro capo del problema ci si deve chiedere che apporto è in grado di fornire l’autoriflessività del linguaggio (l’arte) alla conoscenza e quindi alla scienza. Un apporto sembra più agevole relativamente alla conoscenza del linguaggio stesso, cioè di come funzionano i mezzi cognitivi ed espressivi usati per formulare tutte le conoscenze e dunque anche quelle scientifiche. Ma in senso più ampio che è il livello a cui di solito si pone il confronto tra scienza e arte, ci sono varie possibilità.

L’arte può divulgare la scienza per i non scienziati, ma è un compito di servizio, nobile, ma non il più necessario. Invece bisogna chiedersi se il proprio dell’arte non sia di corroborare la vita in un compito che non è la semplice conoscenza, ma che come la conoscenza è un tipo di adattamento all’ambiente, cioè una conoscenza pratica e dedicata alle modalità di reazione che l’uomo come animale culturale realizza vivendo e per vivere, e che si è realizzato nelle ere in modo storico ed evolutivo di pari passo all’evoluzione della conoscenza scientifica.

L’arte è una modalità della coscienza a tutti i livelli, dal più ingenuo al più sofisticato. Essa esprime nei modi più diversi lo stato di conoscenza dell’uomo in una data epoca, dal mito alla formula dell’acqua ossigenata, ma insieme, e soprattutto, mostra e dice l’atteggiamento e il valore “umanistico” che l’uomo attribuisce al suo contingente di coscienza, conoscenza e quindi di sapere a tutti i livelli compreso quello scientifico. Questo è il vero punto di contatto e continuità tra arte e scienza. La biologia ci dice cos’è l’uomo, l’arte (come un sondaggio?) ci dice che effetto fa sull’uomo la conoscenza fornita dalla biologia. Cosa che per la vita è altrettanto importante. Ma soprattutto cerca di esprimerlo e quindi di capirlo in modo inedito, cercando di dire ciò che fino a quel momento non si sapeva. Così l’arte è una modalità della scienza del capirsi (anche quando sbaglia, come la scienza).

Leonardo Terzo

Moltinpoesia ha detto...

Ennio Abate:
Ho trovato, visitando casualmente alcuni siti Web, un’intervista di P. Del Giudice a uno studioso d’arte, Ferdinando Bologna, che mi pare un bell’esempio di come si possa impostare correttamente il rapporto (autonomo, non cervellotico o doveristico) tra pittura e scienza (ma estendibile anche a quello tra poesia e scienza).
Il fatto che riguardi proprio un’epoca lontana, quel Seicento che vide nascere la scienza moderna e metta in collegamento due figure ben note come Caravaggio e Galilei, lo rende per me ancora più interessante e degno di riflessione.
Copio qui passi tre passi che mi paiono offrire spunti notevoli rispetto alla discussione qui in corso: indicano la positiva funzione demitizzante e desacralizzante sia della scienza moderna che della pittura caravaggesca (e toccano di striscio, certamente, la questione da me posta: la critica dell’ottica spiritualista con cui Maggiani imposta il rapporto poesia/scienza)
1.
Caravaggio pareggia nel rapporto luce-ombra i fenomeni, esattamente come nel buio cosmico i corpi astronomici si pareggiano e si rivelano della stessa natura. La grande scoperta di Galilei è che la Luna è come la Terra, ha gli stessi accidenti e le stesse asperità e le stesse caratteristiche oggettive che connotano la Terra e non è il corpo supremo, iperuranico che la tradizione aveva costruito. Il processo con cui Caravaggio esplora la realtà è pareggiabile a quello di Galilei proprio in questo, perché Galilei scopre – e lo scopre per osservazione non per costruzione teorica – che gli aspetti del sistema astronomico obbediscono alle stesse leggi e sono costituiti dalla stessa materia e congegnati negli stessi modi. Galilei quando punta il cannocchiale sulla Luna, scopre che la Luna è come la Terra, Venere ha le fasi come la Luna e il rapporto fra i pianeti è un rapporto sostanzialmente paritario - una volta scardinati i miti della centralità della Terra nel cosmo.
Così per Caravaggio un pezzo del corpo umano. Raramente Caravaggio dipinge una figura intera, quando la dipinge la sottopone a questa forte dialettica di luce per cui il raggio vibrato la colpisce dove la colpisce, come la trova e in questo mette in evidenza la sua struttura naturale. In Caravaggio l’esistente si spiega da sé, in quanto è fenomeno, in quanto è apparizione di se stesso, mostra di se stesso.
Giordano Bruno costituisce una premessa. Bruno che scopre e afferma assoluta universalità dell’universo. L’universo non ha centri, è policentrico. In questo policentrismo scopre anche l’universo, l’universalità, l’infinito.

Da questo relativismo – così lo possiamo chiamare – che cosa ne consegue nella visione dell’uomo, dell’ “accidente” dell’uomo?

Ne consegue che gli aspetti della natura hanno dignità per se stessi e vengono valorizzati dalla capacità esplorativa che ha la luce. La luce è lo strumento dell’osservazione. Ma Caravaggio applica tutto questo ai soggetti da rappresentare e in particolare ai soggetti sacri. Il problema principale era pur sempre quello di mettere un quadro sull’altare, decidere come comportarsi nei confronti della rappresentazione del sacro.

[Continua 1]

Moltinpoesia ha detto...

Ennio Abate (Continua):

Caravaggio, in base a questi principi che abbiamo più o meno illustrato, scopre che l’evento sacro non ha assolutamente niente – di per sé – di trascendente. Nel momento in cui si è manifestato per la prima volta, l’evento sacro si è manifestato come un evento naturale normale. Il problema è ridurre al grado zero dell’esistente la agiografia e eventualmente la teologia. Questo è il punto centrale dell’opera di Caravaggio, soprattutto quando Caravaggio passa dalla rappresentazione del “quadro di genere” - che in realtà è una tranche de vie - alla rappresentazione del quadro sacro da mettere sull’altare. Probabilmente conosceva ciò che aveva detto Erasmo della rappresentazione dei santi: “è ridicolo voler fare il Cristo più divino di quanto è. Il problema è di rappresentare la realtà così come si presenta, perché niente ha maggior valore conoscitivo della realtà nella sua verità oggettiva”. La rappresentazione del sacro va inclusa dentro questa dimensione, nel momento in cui si è manifestato, anche il miracolo non è potuto essere altro che un evento quotidiano, a cui io avrei potuto assistere come testimone.

2.
Nel suo libro L’incredulità del Caravaggio, Lei scrive di “superamento del principio di autorità, tenendo la cosa sempre davanti…” Ci fermiamo qui?

Questo è nelle fonti. Le fonti sono perfettamente d’accordo nel rilevare questo: Caravaggio non dipinge mai niente che non abbia davanti come modello. Questo esalta il valore dell’apparenza naturalistica del modello.
Intendiamoci, da Aristotele in poi l’arte è sempre stata considerata “rappresentazione della natura ” e per tutti i secoli successivi per vari gradi, fino alla vigilia dei decenni in cui Caravaggio opera, persino nei manieristi, il principio dell’arte come imitazione della natura è vigente. Caravaggio afferma che in pittura è “valenthuomo” chi sa “depingere bene et imitar bene le cose naturali”. Ma cosa vuol dire “imitar bene le cose naturali ” per Caravaggio? significa che le cose vengono osservate sistematicamente. È questo l’elemento nuovo: la sistematicità della osservazione, che è appunto l’elemento scientifico più recente. Il movimento della rivoluzione scientifica si basa su questo, sulla intensificazione della osservazione che permette di scoprire rapporti nuovi che a uno sguardo più superficiale non erano stati percepiti.

Da qui l’uso dello specchio?

Di qui l’uso dello specchio già come esperimento ottico. Lo specchio non ha niente di simbolico sia quando è adoperato per riflettere l’immagine da ritrarre, sia quando è introdotto nella composizione come oggetto da rappresentare. Lo specchio ha la funzione di fissare meglio i rapporti luminosi con le cose, tanto da esaltare la condizione anche dell’aria come pezzo di natura morta, come fatto oggettivo da rappresentare per com’è, esaltato nella sua dimensione effettiva.
Nessuno ha capito meglio questo procedimento di Caravaggio del pittore e storico dell’arte tedesco Joachim von Sandrart che viene in Italia nel 1630, viaggia sino a Malta per vedere la Decollazione di San Giovanni Battista. Von Sandrart del modo di dipingere di Caravaggio dà questa definizione “Caravaggio tiene nel suo studio, esposta così a lungo all’occhio la cosa da ritrarre sino a che non è riuscito ad adeguare con il colore – cioè con i procedimenti pittorici – l’evidenza della naturalezza dell’oggetto”. Il testo dice in latino “rem pingendam in conclavi suo tandiu oculis exponens donec colore veritatem assecutus est”. Sandrart, nell’esaltare l’intensità dell’osservazione di Caravaggio, mette in evidenza due circostanze che sono di una modernità straordinaria.

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Moltinpoesia ha detto...

Ennio Abate (Continua):


Sembra che parli addirittura di procedimenti fotografici perché insiste sulla lunghezza della osservazione “tandiu oculis” e poi parla di esposizione. C’era – d’accordo – il problema della camera ottica, ma il fatto che la definizione di Sandrart si applichi ai procedimenti pittorici di Caravaggio - non è provato che il Merisi adoperasse la camera ottica, anche se forse aveva letto le cose di Giacomo della Porta che parlano appunto di questo - esalta questo processo. Cioè il fatto che Caravaggio esponesse la cosa all’occhio così a lungo da ottenere poi di adeguarne la verità con il colore, dipingendo.

3.
In un universo dove tutto si pareggia…

Il problema era quello di combattere la gerarchizzazione degli aspetti della natura, gerarchizzazione che viene addirittura attribuita alle intenzioni di Dio. Paleotti cita San Paolo per dire che “non tutte le carni sono della stessa carne ”! Quindi anche all’interno del corpo umano ci sono parti più nobili e parti ignobili. Vai a rappresentare i piedi!
Caravaggio anticipa e realizza in pittura questa rivoluzione. Le date delle sue opere sono tutte anteriori ai grandi risultati dell’osservazione scientifica. La scoperta dei satelliti di Giove da parte di Galilei, le osservazioni sulle macchie del sole, le osservazioni sulle fasi di Venere, le osservazioni sulla parità della struttura della Luna rispetto a quella della Terra, la scoperta della parità della uguaglianza del mondo sublunare, sono del 1610. Galilei mette per iscritto e comunica all’universo degli scienziati il risultato di queste sue osservazioni, con ilNuncius sidereus (Annuncio sugli astri) pubblicato il 12 marzo 1610. Caravaggio muore il 18 luglio 1610.
Caravaggio scopre questa eguaglianza per osservazione. Il motore è lo spirito empirico che governa tutta la grande tradizione della pittura lombarda che si differenzia da quella fiorentina e dalla grande tradizione tosco-romana che culmina in Raffaello e Michelangelo. Caravaggio ben conosce la pittura di Lombardia e la valorizza, la definisce criticamente per applicarla. A lui non interessa l’inquadramento razionalmente prospettico e sistematicamente costruttivo della realtà, Caravaggio osserva le cose per percepirne non la necessità logica e la struttura razionale ma gli aspetti correnti, diurni, quotidiani, nel rapporto esistenziale.

Rimando gli interessati a una lettura completa dell’intervista al link: http://www.galatea.ch/index.php/sommario/cultura/item/295-caravaggio-la-realt%C3%A0-senza-aggettivi.html


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