lunedì 2 aprile 2012

Gezim Hajdari
Poesie
con una Nota di G. Linguaglossa


da POESIE SCELTE (1990 – 2007) Besa, Nardò, 2008
     *
Quanto siamo poveri.
Io in Italia vivo alla giornata,
tu in patria non riesci a bere un caffé nero
.
La nostra colpa: amiamo,
la nostra condanna: vivere soli divisi 
dall'acqua buia.


Ritornerò in autunno come Costantino1,
tu nelle colline natali hai già raccolto l'origano
che porterò con me nella stanza ancora sgombra.

Ora vivo al posto di me stesso
lontano da quella terra che impietosamente
divora i propri figli.


1.    Costantino oppure  il Cavaliere della morte è un personaggio del più bel canto
degli albanesi d’Italia (arbëresh) che hanno come motivo principale la besa


*
SPINE NERE

C’era una volta un ragazzo magro dall’animo fragile
con occhi castani e sguardo penetrante come un corvo
                                                                                       nero,
nato in un inverno magico di lampi e tuoni marini
e cresciuto sulla collina brulla vicino alle stelle ardenti.

Quando vide i primi raggi del sole pallido:
“Il suo nome vivrà in eterno -dissero i laghi e le nebbie
                                                                                    cieche -
di pietra in pietra verrà scolpito il suo verbo,
nei secoli la sua storia d’uomo verrà narrata.

O donne, lo renderemo immortale -
giurarono i folletti delle valli oscure -
gli insegneremo la lingua degli uccelli e delle Fate,
e lo affideremo all’amore”.

Per sette giorni e sette notti egli dormì nelle ali delle Ore
senza mangiare, né succhiare al seno di donna.
Fu un patto stipulato con sua madre,
nel caso la creatura nascesse maschio.

Con un bel nome lo battezzarono nel paese natio i saggi
giunti di notte dalle regioni di mezzaluna.
Con l’acqua fresca del pozzo lo benedissero una mattina
                                                                               di febbraio
donne zingare dai volti scavati e dalle trecce nere.


Lui veniva dall’Est, paese del sole nascente,
tra riti e falchi trascorreva la sua infanzia.
Con fiori di  ginestre intrecciava ghirlande per la sua capra
e le infilava tra le vecchie corna.

“Lo chiameremo col titolo nobile di bey
e aumenteremo i terreni - brindavano spesso i nonni
                                                                               paterni -
prima diventerà il principe della sua gente
poi il Re del paese”.

Passarono anni ed egli crebbe con il latte di rondine,
mentre il sole seccava le spine della sua futura corona
e il bosco allargava il tronco del suo trono bianco come
                                                                                   la neve,
nei campi lunari cadevano piogge feconde.

 Nel suo paese tirava sempre vento e l’erba cresceva
                                                                                   incurvata,
mentre di notte sulla riva del fiume danzavano belle spose.
Dalle faide sanguinarie sorgeva la sua stirpe antica:
guaritori di morsi di serpenti, indovini di destini furono
                                                                                    i suoi avi.

Sul fango e la polvere camminava la sua gente umile
con la speranza nella terra e nella benedizione del Signore.
Quando moriva qualcuno veniva seppellito all’ombra
                                                                                      dell’ulivo,
senza né croce, né mezza luna.


Fu allora che il ragazzo di notte e di nascosto,
decise di scendere dalla collina fino al fiume profondo
aspettando impaurito nel silenzio e nel buio
di incontrare le belle spose danzatrici.

“O bel fanciullo - gli dissero appena lo videro -
dicci quale bontà ti ha portato fin qui? -
mentre danzavano intorno a lui
legate con le proprie trecce -

Nessuno fino ad oggi ha osato
assistere alla nostra danza notturna,
che il tuo seme non possa crescere sulla terra,
sarai maledetto in eterno.

Morirai in esilio solo e di crepacuore,
lontano dal paese che amavi.
Divoreranno impietosamente la tua debole carne
pietre ed aquile nere a due teste.

Mai nessuno pronuncerà il tuo nome
nei richiami quotidiani.
Il peccato lugubre ti peserà
come un vecchio chiodo nella fronte.


La tua anima non sarà mai amata,
nessuna donna ospiterà il tuo corpo.
Vivrai dimenticato per il mondo
come una pietra buttata al margine della strada.”

E nel fiume oscuro le bianche spose scomparvero
cantando e danzando nella lingua dei fiumi.
Vortici di fuoco avvolsero il ragazzo sette volte
senza lasciare segni di sangue,né ferite.

Da quella notte fonda
gli spiriti abbandonarono le valli.
Le donne misero la sciarpa nera in testa
una nenia sgomenta si udì nel paese.

Cessarono i lampi, i tuoni marini,
i galli del paese cantavano giorno e notte.
Siccità e spine crescevano nei campi seminati,
ovunque regnavano le Ombre.

…un giorno di pioggia egli attraversò il mare
avvolto da canti marini e nebbie cieche.
Gli sembrò che qualcuno lo seguisse nell’obliò,
come se lo volesse accoltellare.


Nulla si sa della sua vita errante,
nel profondo racchiude i suoi misteri.
Come un monaco mesto fugge per il mondo
con una vecchia sciarpa intorno al collo.

Così narra la leggenda: 
si dice che egli, di notte, torni
nel paese dell’Est che tanto amava
su di un cavallo bianco.


*

Lascio questi versi come un addio
inghiottito dalla nudità della memoria
sapendo che il mondo non ne ha bisogno.
Del mio saluto con la mano che trema,
giù nel fondo stellato,
nessuno si accorge.
Orizzonte precario
mi appoggio alla tua acqua fredda
e scavo la tua fronte di cielo oscuro.

Abbandonato nella nebbia fitta
non so da dove vengo, né dove vado,
assedio nevi che mi assediano
in balia di neri uccelli.
Voglio sapere chimi separa da una terra impazzita
e che fine faranno la mia Ombra oltre l’acqua,
la pioggia che cade nella pioggia
e gli dèi fra gli alberi.

In fila accanto al freddo e al destino
attendo che mi chiamino all’alba dalle pietre
volti pallidi di voci arrochite.

Il mio nome linea che divide
la luce dall’oscurità,
il  mio corpo limite tra la sabbia e il cielo.

*

Stasera attendo che mi calmino la neve al confine,
il mare di sabbia,i volti nell’acqua.
Non c’è altro cielo dove affondare il mio delirio
ovunque la notte degli uomini che muoiono.

Dove fermarmi mio terrore,
i sassi che ho gettato controvento
hanno aperto su di me enormi abissi.

Ora il tempo dimora nel tempo
e io attraverso stanze dopo stanze, muri su muri.
Sono un esule esiliato nell’esilio
col sangue sparso sugli alberi e la voce nella pioggia

Conoscete la mia pena? Cammino di fianco a coloro
che vanno sul filo che prendo fuoco.
Avanzate, avanzate aquile nere a due teste, divorate da capo
il mio corpo lacerato, impiccate il mio cuore rosso ai rami,
bevete il mio sangue come belve affamate,
seppellite i miei canti,
lasciatemi solo il tempo di coprire
quest’infanzia quotidiana.

Ahimé,nei fondali dei fiumi il futuro,
nel nero mondo il passato.


* Gezim Hajdari


Gezim Hajdari nasce nel 1957 ad Hajdaraj (Lushnie), Albania, in una famiglia di ex proprietari terrieri i cui beni vengono confiscati dalla dittatura comunista di Enver Hoxha. Si laurea in Lettere Albanesi all’Università “A. Xhuvani” di Elbasan e in Lettere Moderne a “La Sapienza” di Roma.
In Albania svolge vari mestieri lavorando come operaio, guardia di campagna, magazziniere, ragioniere, operaio di bonifica, due anni di militare con gli ex detenuti, insegnante di letteratura alle superiori dopo gli anni ’90; mentre in Italia lavora come pulitore di stalle, zappatore, manovale, aiuto tipografo. Attualmente vive di conferenze e lezioni presso l’università in Italia e all’estero dove si studia la sua opera.
Dal 1991 Hajdari è tra i fondatori del Partito Repubblicano e del Partito Democratico della città di Lushnje, partiti d’opposizione, e viene eletto segretario provinciale di Lushnie. Nello stesso anno fonda il settimanale «Ora e Fjales» con la mansione di vice direttore e scrive sul quotidiano nazionale «Republika». Denuncia pubblicamente e ripetutamente i crimini, gli abusi e le speculazioni della vecchia nomenclatura di Hoxha e dei recenti regimi mascherati post-comunisti. Anche per queste ragioni, a seguito di ripetute minacce subite, è stato costretto, nell’aprile del 1992, a fuggire dal proprio paese. Dal 1992 vive come esule in Italia dove svolge una attività letteraria all’insegna del bilinguismo, in italiano e in albanese. La sua poesia è stata tradotta in diverse lingua. È cittadino onorario per meriti letterari della città di Frosinone. La sua opera continua ad essere cinicamente ignorata in patria pur avendo pubblicato vari libri, tra cui: Antologia e shiut (Antologia della pioggia). In italiano sono usciti molti libri, tra cui Antologia della pioggia, Ombra di cane, Sassi controvento, Corpo presente, Stigmate, Spine nere, San pedro Cutud: Viaggio negli inferi del tropico, Maldiluna, Poema dell’esilio, Muzungu: Diario in nero, Peligòrga.
Si attende ancora che i maggiori editori italiani si accorgano della presenza in Italia del più grande poeta albanese per una pubblicazione che lo consegni ai lettori italiani e gli riconosca il ruolo di uno tra i maggiori poeti lirici ancora presenti in Europa. Quella di Gezim Hajdari è una poesia lirica di grande potenza espressiva dove una voce forte parla dell’esperienza dell’esule nel contesto della natura e del paesaggio albanese e italiano. Una voce pura, sporcata dall’esperienza della Storia e del tradimento del popolo albanese, una voce che ci parla come da una “cornice”, ad un tempo primordiale e attuale, in una dimensione quasi sacrale del mondo e della Storia, che eleva l’io della sua poesia ad un piano di universalità. Un discorso lirico di straordinaria autenticità e sensibilità di accenti.

                                                                                                                      Giorgio Linguaglossa

5 commenti:

Anonimo ha detto...

Mi piacciono queste poesie di Gezim Hajdari nella selezione qui proposta. E' interessante come un esule mantenga radici tanto forti nel proprio passato e in quello del suo popolo. Non so se sia "il più grande poeta albanese" - ahimè, non conosco altri poeti di quel paese - ma certo una voce forte, davvero interessante.
Grazie
Flavio

Anonimo ha detto...

Sono davvero belle...Emozionano e non poco.
Intense, scritte in modo semplice e chiaro, rispondono al diritto di poesia e bellezza per tutti. Nella prima ad esempio, un verso che mi ha colpito (e che dice piu' di cio' che dice) è.."Ora vivo al posto di me stesso"...
Praticamente..una poesia.
Piu' che piaciute!!!...e sicuramente andrò a cercare qualcos'altro su questo autore.

Augusto.

Annamaria ha detto...

Esule...
da un'infanzia felice, magnifico luogo di promesse,
dalla patria e infine da se stesso, quest'ultima la più tragica delle condizioni.
Ha visto ballare le spose di notte sulla riva del fiume, l'apice della bellezza, ha osato infrangere un tabù ancestrale ed ha raccolto una maledizione perenne capace di condurlo alla pazzia...L'esule, lontano dalla sua terra e da ogni calore affettivo, precipitato dall'eden, vaga per il mondo come un cane rognoso e randagio, non spera nella redenzione anzi desidera solo soffrire...Una poesia molto potente e carica di passione
Annamaria

Anonimo ha detto...

... grazie a Giorgio Linguaglossa per questa segnalazione.
Marcella

ps: c'è forse qualche refuso che piacerebbe vedere corretto

valdet haxhiu ha detto...

belle molto belle sei grande gezim hajdari urime sono fiero di essere tuo paesano ........