lunedì 9 aprile 2012

Giorgio Linguaglossa
Su "Fuori di sesto"
di Tiziano Salari



L’EPOCA DELLA STAGNAZIONE SPIRITUALE
Tiziano Salari Fuori di sesto Neos, Rivoli, 2012

Storicamente, l’immediatezza sensibile della lirica dell’epoca classica della filosofia tedesca fa sì che in essa l’oggetto sia immediatamente prensile, sia a disposizione del lettore in quanto riconosciuto. Nell’età classica della lirica («Agli dei di Hölderlin e al cielo stellato di Kant»), in Hölderlin e in Leopardi,  c’è ancora corrispondenza tra soggetto e oggetto, c’è una esperienza che richiede di essere tradotta in poesia, e la forma-poesia assume una configurazione riflessa e conclusa in se stessa tra un soggetto in posizione desiderante e un oggetto in stato desiderato.
Oggi, le cose della lirica nell’età post-lirica, stanno in modo ben diverso. L’epoca della stagnazione spirituale si preannuncia senza squilli di tromba o clangori di ottone: non c’è più una corrispondenza tra il soggetto e l’oggetto, non c’è più una esperienza significativa, non c’è più alcuna riconoscibilità tra il lettore e l’esperienza significativa descritta nella poesia. Il lettore è abbandonato a se stesso tamquam l’autore. In un poeta come Wallace Stevens questo processo è già molto visibile: la poesia si avvia a diventare quel clicchete clacchete di cui parlava il poeta statunitense, la poesia resta senza alcun destinatario. Così, anche nei suoi momenti di maggiore gaiezza, come nella poesia di Stevens, la poesia attecchisce al «lutto» di una perdita. Così è nella poesia di Salari, colpita anch’essa dalla melancholia del «lutto».
Per semplificare, direi che una conseguenza di questa situazione ontologica è che la percezione (e la percettibilità) è oggi «degradata» per via della paradossalità della lirica nell’età della post-lirica dell’epoca mediatica. La percezione diventa una questione che riguarda gli entomologi più che i poeti, gli addetti alla moda più che gli addetti alle cose culturali, gli addetti ai sondaggi di marketing più che gli addetti alla poesia. Così come la politica diventa un marketing anche la forma-poesia diventa marketing. Ma ciò sia detto senza alcuna presuntuosa iattanza rivendicativa o riappropriativa. Sia detto e basta. Una tesi di Adorno ci può illuminare: secondo il filosofo tedesco più è preponderante la pressione della «società» sul poeta tanto più grande sarà precaria la situazione della lirica. Ma già oggi la situazione appare cambiata rispetto all’epoca nella quale viveva Adorno: oggi sulla poesia non grava più alcuna pressione; il coperchio è stato tolto, e la poesia è stata così lasciata libera di bollire e sbollire nel proprio brodo. Non c’è più alcuna pressione, così la poesia è diventata libera, libera di essere una pratica di massa, diffusa, onnilaterale. E quindi inesistente. Si può dire, parafrasando quanto è stato detto da altri prima e meglio di me, che la lirica può sopravvivere soltanto restando sulla cresta d’onda della crisi alla quale non può non sottostare e dalla quale non può allontanarsi, non può prendere il largo pena il suo mutismo. È questa la modalità di esistenza della lirica al tempo del Moderno: che essa nasca e cresca dalla negazione del mercato, come si dice, globale, o all’opposto, che essa nasca e cresca dalla sua accettazione, non passiva ma attiva. È questa, credo, la posizione di un poeta come Tiziano Salari, l’aver puntato lo sguardo all’indietro per guardare meglio in avanti. È questo il carattere «postumo» della sua poesia.
Tiziano Salari è un poeta che dimostra di aver meditato profondamente sulla crisi della lirica nel «tempo» del Moderno adempiuto. Ecco alcuni versi sulla questione del «tempo»:

La questione del tempo mi ha da sempre frastornato.
Sia che contassi gl’istanti innumerevoli
Che occorrono per compiere un minuto
Sia ogni volta, al quindici di aprile
Invecchiato di un altro anno
M’interrogassi sulla fuga dei giorni
E da che cosa ero stato derubato
(…)
L’angoscia di essere sospinto dal tempo
In avanti (o indietro) verso un punto
Oltre il quale subentra solo il nulla.

Se l’essere assolutamente moderni è l’imperativo categorico del poeta all’alba della modernità, l’essere assolutamente «indietro» rispetto alla velocità di scorrimento del «tempo» rappresenta l’esigenza prioritaria per un poeta dell’età post-lirica; tanto più questo «viaggio» che il poeta dell’età post-lirica intraprende è un viaggio che non può svolgersi né nell’oltretomba né nell’empireo tra le schiere dei beati angeli, quanto più è un «viaggio» alle frontiere del «nulla» del nichilismo; il poeta si accorge che il suo «viaggio» è analogo a quello di una zattera di naufraghi in balia delle onde del mare, un abbandonarsi alla aleatorietà del «tempo» senza l’ausilio di bussole per l’orientamento o di rotte prestabilite, senz’altro aiuto che la forza dei remi azionati dalle proprie braccia.
Il nichilismo, come lo definì Nietzsche, è questo «rotolare dal centro verso un punto X della periferia»; il suo moto è tangenziale a quello del sarcofago del Moderno. È questa l’esperienza fondamentale della poesia di un Tiziano Salari, questo rotolare dell’«io» verso una continua perdita, una perenne spendita verso il «nulla», «un continuo saccheggio» dell’autenticità e del disautentico, questo continuo (in perdita) interrogarsi sull’inutilità di chiedersi le ragioni del senso degli avvenimenti, da quelli storici a quelli più naturali, semplici, ordinari, ma sempre enigmatici, in quanto «fuori di sesto»:

Deserto giorno di filamentosi scrosci
Di pioggia scura e avvolgenti
Onde verdi di lago che cerchiano l’orizzonte
Nella pace malata dei paesi lacustri.
Tutto dorme nel pomeriggio buio, anche
L’impiegato di banca e il portiere dell’hotel,
e le macchine non fanno rumore sullo stradone.
Solo si sente battere la pioggia
Contro le vetrate
Della Madonna di Campagna.
Ho cercato rifugio nell’ombra
Sobria, romanica, tra gli ippocastani,
E qua, solo, ricordo
Che Dio non è mai stato per me altro
Dal fumo dell’incenso di una vuota
Trascendenza. E nient’altro che sonno.

*

Ricordo quando il cupo rovescio del mondo
Di colpo si spalancava alle mie spalle
E soffocavo l’urlo di terrore
Guardando le ondate che si frangevano
Contro i fradici moli dove attraccavano
I battelli oscillanti sulle acqua profumate
Di vento. Ero giovane, allora, e l’angoscia
Si mescolava al pane nella gola in un groppo
Unico e sordo alle ragioni
Del divenire eracliteo. L’attimo, solo l’attimo
Da carnefice mi braccava
E nell’attimo il precipizio dell’oblio.

*

Non guarirò certo dal male
Assillante che mi pervase
Con un nitore assoluto, devastante
Del brutto anatroccolo
Che annaspava nell’acqua
A pochi metri dalla spiaggia
A contendersi le briciole di pane
Sbriciolate da una vecchia sadica
In un marasma di volatili.


*

Un filo di sole che attraversa la stanza
Berlinese, dalle pareti nere e dalle luci rosse
Nel bagno rivolto a una specchiera nell’atrio.
Non sapevamo che era un albergo per gay
E che dal letto potevo guardarti nuda
Sotto la doccia e dal bagno io osservarti
Nuda tra le lenzuola immacolate, e il corridoio
Una sorta di labirinto nero pieno di specchi
In cui ci vedevamo avanzare come due estranei
E poi rendendoci conto che eravamo noi due
E che dalle pareti grandi foto in bianco e nero
Di maschi a petto nudo e con occhiali scuri e pose leziose
Ricordavano continuamente, dicevi, gli ultimi secoli
Dell’impero romano, i cinesi, e come la storia cambia
A pensare che i nazisti li avevano accomunati agli zingari
E agli ebrei e che nelle vicinanze un museo
Documentava il loro olocausto… Come sono mutati
I tedeschi dal tempo in cui hanno messo a ferro e fuoco
L’Europa… un popolo edonista ma pur sempre ordinato
Sono oggi i tedeschi… E a sera nei ristorantini
Lungo la Sprea mangiatori di fuoco e strimpellatori
Rock, mescolati ai turisti, “Ich bin berlinisch”
Dissi, alzando il boccale di una cattiva birra
Agli dei di Hölderlin e al cielo stellato di Kant
Nel divenire noi postumi di tutto il bene e il male
Della Storia.


*

Pioggia, lontane pianure trasformate in pantani.
Il cerchio ampio di vite che hanno l’orizzonte come margine estremo.
E carri e carri che vanno, ma non sanno dove e perché.
Uno scroscio più forte, la situazione ideale per immergermi in un silenzio interiore.
Staccarmi dalle cose (non solo esteriori, come un tavolo, finestre, quattro pareti), ma anche dal mio corpo, il dolore reumatico nel collo e nella mano sinistra, le gambe accavallate sotto il tavolo, per uscire, ma per andare dove (quei carri non hanno meta, segnano l’orizzonte di solchi profondi, sotto la sferza obliqua della pioggia).

Andare, il viaggio nella steppa sconfinata, nel deserto, sulle acque dell’oceano.

Poi ci voltiamo, il nulla. Dal nulla andiamo verso il nulla.
Rintoccano le campane, le corde all’interno dei grigi campanili di tutta Europa.
Un suono metallico, profondo, evocativo dei secoli passati.
Duemila anni di cristianesimo, duemila anni di cupa sofferenza, duemila anni di rintocchi.

Selve di candele accese, di boschi in fiamme, di perdite.
E i mattini di luce vagante di collina in collina gravavano come una colpa sui fuggitivi dal nulla, che vanno verso il nulla.
Le voci delle Madri salgono da ogni cunicolo luminoso dove vengono accolte le vittime del naufragio.


*

Il giorno in cui morì mio padre
Ero ancora un fanciullo e non capivo
L’irreversibilità di quell’istante
E quel trambusto in casa, l’andirivieni
Di parenti ed estranei, e quel ronzio
Di campane nelle vie del paese
Oscillanti nella scialba luce
Di un marzo irrepetibile in cui stringevo la mano
Di mio fratello ancora più ignaro
Di me, di essere orfano...

                        Giorgio Linguaglossa

4 commenti:

Moltinpoesia ha detto...

Ennio Abate:

Riconosco che la poesia di Salari sia colpita dalla melancholia del «lutto», magli ricorderei che ogni lutto non comporta necessariamente autenticità. Può indurre anche un certo ambiguo appagamento (secondario), il rischio dell’estetizzazione e forse un po’ di falsa coscienza a causa della rinuncia (implicita o esplicita) a un’interrogazione intellettuale tenace e oppositiva *malgrado tutto*. (Cosa, ad es., che sento in Leopardi, ma molto meno in Salari).
Detto questo, aggiungo che Giorgio Linguaglossa, nel presentare questa raccolta di poesia, stabilisce correttamente una distanza dell’oggi rispetto a un passato che pure sembra tanto somigliante:

«Adorno ci può illuminare: secondo il filosofo tedesco più è preponderante la pressione della «società» sul poeta tanto più grande sarà precaria la situazione della lirica. Ma già oggi la situazione appare cambiata rispetto all’epoca nella quale viveva Adorno: oggi sulla poesia non grava più alcuna pressione; il coperchio è stato tolto, e la poesia è stata così lasciata libera di bollire e sbollire nel proprio brodo. Non c’è più alcuna pressione, così la poesia è diventata libera, libera di essere una pratica di massa, diffusa, onnilaterale».

Non condivido però le sue conclusioni:
«la lirica può sopravvivere soltanto restando sulla cresta d’onda della crisi alla quale non può non sottostare e dalla quale non può allontanarsi, non può prendere il largo pena il suo mutismo». Non le condivido perché mi pare che, dando dignità etica a un io ambivalente, si ratifichi e si stabilizzi questa sua ambivalenza. Potrei dire lo si "incoraggia" nel suo lutto.
Né mi sento di accogliere questa sorta di nuovo, prioritario imperativo categorico del poeta d’oggi (non più moderno, ma post-lirico) espresso in queste sue parole: «l’essere assolutamente «indietro» rispetto alla velocità di scorrimento del «tempo».

Linguaglossa scrive pure:
«il poeta si accorge che il suo «viaggio» è analogo a quello di una zattera di naufraghi in balia delle onde del mare, un abbandonarsi alla aleatorietà del «tempo» senza l’ausilio di bussole per l’orientamento o di rotte prestabilite, senz’altro aiuto che la forza dei remi azionati dalle proprie braccia».

Io trovo che questa analogia tra poeti lirici e naufraghi sia esasperata. E che quell’ «essere assolutamente “indietro” rispetto alla velocità di scorrimento del “tempo”», rischi di diventare acquietamento. Almeno se non si chiarisce (ma si vuole chiarirlo?) che quell'essere indietro (= non perdere la memoria del passato, della tradizione) è una consapevole resistenza in attesa di una possibile (mai certa o garantita) nuova sfida; insomma un *reculer pour mieux sauter* (indietreggiare per saltare meglio).

D’accordo: oggi i poeti non hanno più addosso la pressione della società e il (sempre metaforico) coperchio è stato tolto.Eppure, invece che «sbollire nel proprio brodo» (e i brodi possono essere sciapi, come quelli di tanti poetanti; o saporiti e solenni, come quelli di Salari), non è detto che ci si debba aggirare sempre e solo «alle frontiere del «nulla», del nichilismo».
Fossimo pure nell'epoca del più completo nichilismo.
Se tutto congiura a mandarci «fuori di sesto», se «non c’è più una corrispondenza tra il soggetto e l’oggetto, non c’è più una esperienza significativa, non c’è più alcuna riconoscibilità tra il lettore e l’esperienza significativa descritta nella poesia», a me pare che resti comunque la decisione (fosse solo il pensiero!)di non cedere (la ginestra leopardiana!). E poi una qualche differenza non trascurabile esiste anche tra i lirici o i post-lirici d'oggi: una lirica che « nasca e cresca dalla negazione del mercato, come si dice, globale» non è la stessa cosa di quella che il mercato (capitalistico, aggiungo di mio) l'accetta come un dato di natura.
E infine e senza volontà di banalizzare: ma perché bisognerebbe insistere solo a far poesia lirica?

giorgio linguaglossa ha detto...

mi spiego meglio. Innanzitutto un distinguo: tra la "pressione del reale" e la "pressione della società"; la prima è una situazione immanente, ineliminabile, la seconda è una condizione storica, e quindi variabile. La poesia (o meglio, la costruzione poetica) è sempre una risposta al "reale", ma v'è differenza tra una risposta in avanti e una risposta indietro, una risposta problematica e una aproblematica; per es. io considero la poesia che Francesca Diano ha pubblicato su questo blog una delle più intelligenti risposte alla pressione del "reale", e una delle più complesse che abbia letto in questi ultimi dieci anni. La Diano procede in modo molto semplice: costruisce un "altro" reale. Si badi: non ritorna al mito come hanno fatto in modo aproblematico i mitomodernisti ma riafferra, riprende il "reale mitico" per reinterpretarlo alla luce di una interpretazione che ne rovescia letteralmente il significato, e si sa che ogni significato è stabilito dalla "società", cioè da una convenzione, un patto, un concordato. Ogni significato è stabilito dalla comunità politica. E la Diano lo sovverte e lo delegittima. È una operazione di strordinaria intelligenza secondo me. ma torniamo alla poesia lirica. Molto semplicemente ritengo che la poesia lirica sia un genere del passato, la poesia contemporanea si sta dirigendo verso quella "cosa" che io ho chiamato la post-poesia, che è però tutta ancora da costruire. È una operazione culturale che bisogna fare, e gli inizi, si sa, sono tutti in salita, ma è una strada che la poesia contemporanea deve imboccare. Ritengo sia una strada obbligata. Certo, la via è lastricata di buche e di bucce di banane, e poi c'è la resistenza passiva dei gusti già costituiti, gli interessi di scritture già accreditate, le prosopopee delle istituzioni, etc.

Francesca Diano ha detto...

Mi hanno molto colpita tanto le poesie di Solari, quanto il testo di Linguaglossa. E in particolare due punti: la centralità della "crisi" e la questione del tempo.
Crisi necessaria alla poesia - ma all'arte nella sua totalità - perché il senso di questo termine è quello di segnare appunto quella tensione, quella collisione instabile che è l'evento poetico, o artistico, senza la quale tensione - tra l'assoluto immobile della forma e l'assoluto eternamente mobile dell'evento - non si dà arte. E' qui, in questo istante così instabile e che pure continuamente si rinnova, che avviene quell'identificazione tra soggetto e oggetto. Mi piace, per riprendere un argomento che qui è stato dibattuto, pensare al "punto critico" in fisica, quell'istante in cui una materia liquida cambia il proprio stato per le variazioni di temperatura e pressione.

La questione del tempo poi è davvero enorme. Il tempo, si sa, non è un assoluto e la sua percezione non è solo soggettiva, ma epocale. La velocizzazione del tempo che oggi segna la nostra modernità, è un Crono che divora i suoi figli ad una velocità sconvolgente. Se la poesia vuole trovare una via d'uscita, non può che gabbare il mostro saltando agilmente a piè pari sulla sua testa e ridisegnando una realtà che è stata sottratta, persa nelle viscere di un'indistinta masticazione.
Naufraga la poesia forse è stata sempre. Davanti le si apre sempre un temibile àpeiron perièchon. Non so se esista una strada obbligata o se la natura dei poeti sia tale da poter stare all'interno di confini ben tracciati. Posso solo dire la strada che io ho trovata per me ed è quella di ri-trovare il passato (non "tornare" al passato) ripercorrendo la strada all'indietro e di ascoltarlo. In quel momento, il mio essere qui e ora, in quel qui e in quell'ora, mi fa percepire proprio quella tensione, quel "punto critico" che li sovverte e li trasforma.

Non posso poi che dire ancora una volta grazie a Giorgio Linguaglossa per quello che scrive della mia poesia. Davvero grazie, perché rende meno solitario il mio percorso. Proprio perché ha letto, ed è stato tra i pochi a farlo, se non l'unico, quello che è il senso del mio lavoro: un sovvertimento. Non una reinterpretazione. Eppure quel sovvertimento, o rovesciamento, non è un tradimento di quel "reale", ma è come se io vedessi all'interno della forma cristallizzata del mito (o del passato), sotto le stratificazioni, qualcosa che chiede di essere detto con una sua voce diversa da quella che si conosce. Non lo dico per posa, ché sarebbe stupido, ma perché a volte mi pare di "essere lì", non saprei come esprimerlo in altro modo.

Anonimo ha detto...

Sono storie di poesia, di quando la vita ti da da raccontare ciò che non si potrebbe raccontare se non attraverso la poesia e solo in quel momento. Complimenti Emilia.