domenica 15 aprile 2012

Rita Simonitto e Giorgio Mannacio
Un tema, due mondi, due stili



 Rita Simonitto e Giorgio Mannacio hanno scovato tra le carte due loro poesie convergenti su un tema quasi classico: l'usignolo. Ne è uscito  per il momento questo duetto di versi che, seguito da una prima riflessione di Rita, sottopongo all'attenzione dei visitatori del blog, nella speranza che altri intervengano. Anche questo è un modo solo in apparenza occasionale e "privato" di interrogarsi sul senso della poesia   che facciamo. Giorgio per il momento aggiunge che il suo usignolo ha a che fare con la predica agli uccelli di San Francesco. [E.A.]

Rita Simonitto
La morte e l’usignolo

Difficile è morire quando l’usignolo canta
e a nota fa seguire nota con selvaggia
maestria strenuamente imbricando
il passato al futuro.

E la notturna selva risponde a quella sfida
offrendo il ventre ombroso a inarcata schiena:
così note diverse intrecceranno altre
analoghe illusioni di continuità del tempo.

Come è difficile sciogliere gli amplessi
che la speranza adombra di continuità:
ed è solo un inchiostro di china
che scarabocchio/segno spazi differenti unisce.
(18.12.2009) 

Giorgio Mannacio
L’usignolo di cui parla la luna

L’usignolo di cui parla la luna
-incoerente e tardivo –
non la colomba bianca , non l’ulivo
specchieranno le lame iridescenti
degli acquitrini.
Qui c’era una città. Sciamavano sorridenti
per le strade i bambini.
Quanti gorghi nei tribunali, sui teatri;
inghiottiti gli scanni,
marciscono le maschere. Una spoglia
- una di tante – torna a galleggiare.
Ecco la sua natura e la fortuna
per l’usignolo di cui parla la luna.

Milano, marzo/ aprile 2012


Rita Simonitto a Giorgio Mannacio

[…]Alla tua domanda “sono usignoli  eguali o diversi?”  replicherei: “quanti usignoli hanno cantato dalle pagine di poesie e racconti?”. Tanti. Keats, Coleridge, Wordsworth, Wilde, Andersen, per citare solo quelli che mi vengono subito in mente: ognuno di essi ha portato sulla scena il ‘suo’ particolare usignolo, facendone una singolarità e non una “usignolinità”, una successione di usignoli, come noi non siamo una successione di uomini ‘in generale’ bensì individui con quel sentire specifico che fa di ognuno di noi un ‘singolo’.
L’usignolo, di cui io parlo (tento di parlare) nella mia poesia, è un usignolo mefistofelico, perché sembra prometterti l’eternità attraverso il suo modo di cantare; nel suo gorgheggio presente si allacciano, in modo sensuale e orgasmico, passato e futuro. E la ‘selva’, ossia la selvaggia natura umana, viene irretita da quel godimento che sembra senza fine, che annulla i confini del tempo. La parte femminile, inarcando la schiena, si offre a questa sfida, sedotta anch’essa dall’estasi narcotizzante.
Morire per entrare nell’immortalità?
Ma il trillo dell’usignolo richiama anche alla vita, alla forza vitale…
Così, mortalità e immortalità sono contigue, separate da un esile segno di china: su questo sottilissimo crinale noi stiamo, facili a scivolare da una parte o dall’altra.
Ma dobbiamo fare attenzione alle illusioni.
Questa è la storia del mio usignolo.

L’usignolo della tua poesia, a differenza del mio che, “romanticamente”, si fa ancora portatore di un discorso sugli interrogativi umani, è un usignolo ‘moderno’, “incoerente e tardivo”; è fuori posto
in un luogo che è un non-luogo per lui.
Centrale, nella tua poesia, è la città in disfacimento, osservata dall’occhio disincantato della luna (che corrisponderebbe all’occhio del poeta).
Non sono serviti i segni di pace (colomba e ulivo). Così non servono nemmeno le illusioni romantiche di cui la letteratura sull’usignolo è stata portatrice.
A questo punto, l’usignolo canta per sé, come peraltro ha sempre fatto: non ha nulla di che spartire
con un mondo siffatto.
E’ dunque il poeta-usignolo che si interroga sul senso del suo canto, oggi.
Quale città, se ci sarà ancora una città, saprà accogliere il suo canto?
Sono, quindi, due punti di osservazione diversi, che utilizzano lo sguardo sul reale in modo diverso.
Possono convergere verso una prospettiva unificante? E come? Mi piacerebbe tanto poterlo pensare.





8 commenti:

Anonimo ha detto...

A Rita e Giorgio

L'usignolo non guarda la luna
l'usignolo è la sua sera
e basta un insetto per la vita
una attimo di sole per il canto
cadrà a terra per una notte?
Sovrasta il tempo è un volo straniero
qualcuno ha compreso la rotta
qualcuno ha puntato una freccia
nel volo la sua ingenua difesa.

Grazie carissimi Emy

Anonimo ha detto...

correggo " un attimo" Emy

Anonimo ha detto...

Ci avete fatto caso? Il canto dell'usignolo è spesso ripetitivo, dice una cosa e poi la ridice. Poche le varianti. Se non ci avete fatto caso vuol dire che non avete provato a parlarci come fece Francesco d'Assisi. Un po' come se un poeta volesse rinnovare il piacere di scrivere un verso riscrivendolo più e più volte. L'usignolo è l'usignolo, ma può essere usato a metafora naturalmente, come qualsiasi altra cosa. Anche la metafora può essere specchio di se', e si potrebbe dire che la scontentezza per come vanno le cose del mondo, per quanto ragionevole (o disperata) parta anche dalla scontentezza di se'. E questo vale anche per i sentimenti contrari dell'infelicità. In tutti i casi agli usignoli piace parlare di filosofia, ma sono argomenti di minor interesse se confrontati con la notizia di un buon mucchio di briciole di pane cadute sul balcone.
Mayoor

Moltinpoesia ha detto...

Ennio Abate a Mayoor:

Beh, meno male che qualcuno si ricorda che anche gli usignoli per cantare hanno bisogno di briciole di pane da mangiare!
E così si apparentano a uccelli più "proletari" come quelli brechtiani, che sono andato a ripescare:


Gli uccelli aspettano in inverno davanti alla finestra
1.
lo sono il passero.
Bambini, la mia fine è certa.
E sempre vi chiamai nella trascorsa annata
quando il corvo era tornato in mezzo all'insalata.
Vi prego, una piccola offerta.
Passero, fatti avanti.
Passero, eccoti un chicco.
E tante grazie per il tuo lavoro!
2.
lo sono il picchio rosso.
Bambini, la mia fine è certa.
E picchio tutta la stagione estiva
e distruggo ogni bestia nociva.
Vi prego, una piccola offerta.
Picchio, fatti avanti.
Picchio, ecco ti un verme.
E tante grazie per il tuo lavoro!
3•
lo sono il merlo.
Bambini, la mia fine è certa.
Eppure sono io che nel grigio del mattino
cantai tutta l'estate nell'orto del vicino.
Vi prego, una piccola offerta.
Merlo, fatti avanti.
Merlo, eccoti un chicco.
E tante grazie per il tuo lavoro!

( da B. Brecht, Poesie 1933- 1956, p. 599, Einaudi, Torino 1977)

Anonimo ha detto...

Ahi, le osservazioni sempre puntuali di Mayoor!
Mi hanno fatto venire in mente una filastrocca in friulano a cui i genitori ricorrevano quando non era sufficiente sostenere, di fronte alle richieste impossibili dei bambini, che “L’erba voglio non cresce nemmeno nei giardini del Re”. E quindi chiamavano in causa il Re del bosco per metaforizzare la loro inquieta scontentezza che portava ad esiti insoddisfacenti (anche per un Re).
“Rusignûl, rusignûl!/ La plui biele no ti vûl/ la plui brute no ti plâs/ e al frutin al gote il nâs”.
(Usignolo, usignolo!/ La più bella non ti vuole/la più brutta non ti piace/e al bambino gocciola il naso [cioè rimane sempre un ‘moccioso’]).
Pur non vestendo i panni di San Francesco (tutt’al più mi sarebbe piaciuto essere Santa Chiara) mi sembra che sia il fringuello ad essere ripetitivo, un feticista (o un coatto) che trova piacere sempre ripetendo sempre la stessa solfa, e, se lo ascoltate, è come se parlasse fra sé e sé, facendosi le domande e dandosi le risposte. Un po’ come certi corteggiatori insistenti che, appunto, ‘fringuellano’.
Invece l’usignolo fa proprio un discorso costellato da punti interrogativi, da deliri vocali e poi precipizi di silenzio che ti fanno temere che sia schiattato. Sarà anche un monologo, ma è un monologo ‘amletico’. Il fatto poi che tutto accada avvolto nelle ombre della notte, sarà anche vergognosamente romantico, ma un suo fascino ce l’ha: udire e non vedere da dove proviene il canto. Rimanendo nel campo, succede così anche con l’allodola, in pieno giorno, quando sale così in alto che l’occhio non la può vedere ma sente solo il suo trillo.
Poi è vero che ognuno fa sulla realtà le sue brave proiezioni, però perché abbiamo bisogno di farle? Forse perché, a differenza dell’usignolo (ornitologicamente parlando) non ci bastano le briciole di pane che, oggi, scarseggiano anche quelle!
Perchè, a differenza degli uccelli, non riusciamo a fare del nostro canto un canto ascoltato?
Bye, bye.
Rita S.

Anonimo ha detto...

Ricopio, eliminando due versi finali ripetuti, la poesia di Paolo Pezzaglia.

Sulla mia cassetta postale s'è posato in ritardo quest'altro usignolo di Paolo Pezzaglia. Batto le mani e si trasferisce qui sotto [E.A.]



MEANDRI

Io sono Vajra
il fulmine
io sono l’acqua
che sprizza,
liquido diamante,
nella tua anfora
invisibile amante;
dell’usignolo
io sono il canto
che nella notte
annuncia l’alba.

E’ così difficile
ritrovarti,
tu che dagli antichi mattini
attingi,
d’argilla
mirabile forma;
tu sei il fascino dei segni
smaltati,
meandri
del tuo ricordo.
Senza il tuo vaso
ruscella via l’acqua
nel fango
dell’indistinta terra.
Solo questo canto,
questo usignolo vero,
in questa notte reale
che attraverso insonne,
ti potrebbe convincere
a non fuggire,
Lesbia mia.

Ecco lo risento ora,
ma annuncia la sera.

Paolo Pezzaglia
(da “Le Rughe della Luna”)

Anonimo ha detto...

Beh, gli uccelli non se ne preoccupano, credo. E fai bene a distinguere tra usignoli, fringuelli e allodole, perché sicuramente parlano linguaggi diversi tra loro. Ma per rispondere alla tua domanda ne faccio una io: cosa ci si aspetta dai poeti?
Che siano saggi, che abbiano pensieri profondissimi e dicano parole elevatissime, che abbiano il coraggio della follia e della verità, che riescano a dire le parole che mancano e che lo sappiano fare meglio di chiunque altro... suppongo. Ma ci si potrebbe anche contentare di felici strategie, ad esempio: perché la narrativa piace ed è così tanto seguita, al contrario della poesia? Senza aver la pretesa di saper analizzare un fenomeno tanto complesso, mi limito ad osservare che per lungo tempo abbiamo pensato che fosse un problema di linguaggio. S'è fatto uso della prosa, ma sembra non bastare. Così ora qualcuno tenta di fare uso anche della narratività, poesie che abbiano argomento indipendentemente che si parli di se' o di temi universalmente riconosciuti come poetici. Poesie narrative con contenuti anche storici da rivivere... se n'è parlato anche qui sebbene nessuno abbia fatto chiaro riferimento alla narrativa. Tentar non nuoce. A me sembrano ancora espedienti, ma è indubbio che il canto dei poeti avviene in stanze ben separate (appartate?) dal resto dell'umanità, e quindi non può essere ascoltato. E poi manca silenzio, infatti il canto degli uccelli lo senti al mattino preso, almeno qui a Milano, quando la gente dorme. L'altro silenzio su cui possono contare i poeti è quello prodotto dalla distrazione, ma in quel caso bisogna essere fulminei.
Mayoor

Anonimo ha detto...

Paolo Pezzaglia ( tirato ancora sul palcoscenico da E.A.):

Ho ripreso il libriccino Adelphi “La preziosa ecc.”
Si tratta di un poemetto indiano tibetano molto bello ma del genere devozionale buddista che se qualcuno è interessato andrà a leggersi per conto suo. Io, che vi ho già riassunto la Baghavad Gita - una delle sacre scritture indù - mi ritiro: non voglio fare il missionario!
Ma sull’argomento “uccelli” ho trovato L’elogio degli uccelli di Leopardi (Operette morali).

Metto qui sotto l’inizio e soprattutto l’impagabile chiusa con la citazione di Anacreonte che piacerà molto ai feticisti (i poeti spesso lo sono)

Chi invece volesse leggerlo tutto – è Leopardi! – lo trova facilmente magari sui suoi scaffali.



ELOGIO DEGLI UCCELLI (Operette morali – Leopardi)





Amelio filosofo solitario, stando una mattina di primavera, co' suoi libri, seduto all'ombra di una sua casa in villa, e leggendo; scosso dal cantare degli uccelli per la campagna, a poco a poco datosi ad ascoltare e pensare, e lasciato il leggere; all'ultimo pose mano alla penna, e in quel medesimo luogo scrisse le cose che seguono.
Sono gli uccelli naturalmente le più liete creature del mondo.

……………………………………………………………………………………………………………………….

……………………………………………………………………………………………………………………….
In fine, siccome Anacreonte desiderava potersi trasformare in ispecchio per esser mirato continuamente da quella che egli amava, o in gonnellino per coprirla, o in unguento per ungerla, o in acqua per lavarla, o in fascia, che ella se lo stringesse al seno, o in perla da portare al collo, o in calzare, che almeno ella lo premesse col piede; similmente io vorrei, per un poco di tempo, essere convertito in uccello, per provare quella contentezza e letizia della loro vita.