mercoledì 23 maggio 2012

DISCUSSIONE
Ancora su "Dopo il moderno"
di G. Pedota:
Giusi Maria Reale e Navio Celese

Pubblico due interventi - di Giusi Maria Reale e di Navio Celese - sul libro di Giuseppe Pedota (qui e qui). Il primo, constatando la pervasività del Web, rifacendosi a Benjamin e giudicando ormai asfittico il «mondo della letteratura» e le lotte dentro o sotto le sue mura, suggerisce a poeti e critici di accettare la sfida della «rivoluzione comunicativa in atto»  e pone il problema di pensare una poesia e una critica adatte a questi tempi (indecifrabilmente) “nuovi”.  Il secondo mette sotto accusa (fin troppo rudemente a mio parere) la critica letteraria «militante e non» ( quale? tutta? senza  eccezioni?) e consiglia a chi scrive poesia di «starne alla larga» o a preferire «le antologizzazioni nude e crude piuttosto che i resoconti ragionati». È una tesi  spesso riproposta nel Laboratorio Moltinpoesia. Personalmente sostengo che l’atto poetico ha già in sé (implicitamente) una valenza critica e la buona critica è maieutica: svela apertamente (e non è cosa di poco conto...) quello che “già si sa” ma solo con una certa approssimazione.  Questa la mia opinione personale, che per ora metto nel mazzo delle altre. Ben vengano calibrati approfondimenti della questione. [E.A.]


Giusi Maria Reale

Il criterio d’impermanenza

Giuseppe Pedota, nel volume Dopo il Moderno-Saggi sulla poesia contemporanea, si pone una domanda:   “Non si è sempre detto e ripetuto che la poesia che riesce ad attraversare i secoli ha sempre in sé un pensiero forte?”. E’ un’affermazione sicuramente giusta, ma cos’è il “pensiero forte” oggi?
Un pensiero pervasivo? condivisibile? autorevole? auto-imponentesi? etero-imposto?
Oppure è un pensiero che ha a che fare con la verità assoluta, contro il pensiero “debole” targato anni ‘80.
Forse, ancora, è un pensiero che si riallaccia a matrici politiche storiche oggi esangui sotto la spinta inesorabile dell’omologazione e dell’opportunismo politico?
Cos’è il pensiero forte oggi?
Viviamo sotto il segno di una rivoluzione epocale: quella operata da Internet. Non possiamo far finta di niente. La sponda della temporalità, ineludibile per ogni vivente, si è spostata -prima con la scrittura poi con la stampa e ancor più e in maniera parossistica con internet- sotto il segno dell’illusione di una trasmissibilità infinita per un numero infinito di poeti e scrittori. Ma anche per un numero infinito di critici. Alla sete di un’indefinita permanenza (una volta “fama”), fa eco una pragmatica e necessaria impermanenza, generata dalla mostruosa mole di materiale che ogni giorno,ora, secondo passa su internet. E a nulla vale tessere l’epicedio della cara, vecchia carta stampata, il mondo va avanti e nessun Fedro platonico potrà (per fortuna) impedirlo.
Quale il canone, chi deve entrare a farvi parte, chi è il guardiano delle sue sacre porte. Ne abbiamo parlato altre volte, altre lo faremo. Il problema è più che mai complicato perché il cambiamento in atto impone di rimodulare le nostre categorie mentali, creare schemi interpretativi fluidi e adattabili alla fluidità dei nuovi mezzi di comunicazione.
La poesia, canale comunicativo per eccellenza delle civiltà antiche per la sua capacità di sedimentare nella memoria collettiva e di codificarne il dna culturale, non può non subire l’onda della rivoluzione comunicativa in atto. Lo stesso per la critica, se non vuole scadere nella mera partigianeria. Credo che il ruolo del critico da impositivo/propositivo debba trasformarsi in condivisivo. Le cittadelle della cultura dalle splendide mura merlate, sono ormai improbabili e improponibili. Come anche i frombolieri che si scagliano al loro attacco. Tutto il dibattito sulla critica letteraria si basa su una paronomasia: sul fraintendimento di “onda del cambiamento” in “onta del cambiamento”. E’ la vecchia sindrome dell’assedio dei barbari. Ma, come nella poesia Aspettando i barbari di Costantino Kavafis, i barbari non sono il problema, quanto piuttosto la soluzione per l’asfittico mondo della letteratura. La perdita dell’aura, constatata da Benjamin in L'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica, si è estesa ulteriormente e prepotentemente in forza della stessa riproducibilità che da tecnica è divenuta virtuale.  Il sigillo sacro attribuito dai sacri collegi dei critici letterari, non basta più a garantire il canone. Occorre prenderne atto. Al cambiamento dei modi di comunicazione non può non corrispondere un cambiamento dei modi di produzione poetica e, corollario naturale, dei modi di critica della produzione poetica.
E la parola poetica? Quest’ultima questione merita la citazione di un passo de L’Aleph di J.L.Borges:
Omero compose l’Odissea; dato un tempo infinito, con infinite circostanze e mutamenti, l’impossibile è non comporre, almeno una volta, L’Odissea.

Navio Celese

Caro Linguaglossa,
                 nonostante le suggestioni contenute nel libro postumo
di Pedota, Dopo il moderno, (CFR, Piateda, 2012), ho visto che pochi e
timidi sono gli interventi nel sito di Moltinpoesia.  Personalmente
credo che le ragioni risiedano in gran parte al livello in cui la
discussione viene sospinta: che è quello degli ultrasuoni
impercettibili della critica letteraria di stampo filosofico; la quale
lascia spesso al suolo le spoglie inanimate della poesia che mette
sotto esame. Ormai è la “poetica” - in senso lato e eterodosso - a
sopravanzare la “poesia” (e so bene di utilizzare questo secondo
termine in modo fin troppo ingenuo). A me sembra che il plateau delle
riflessioni non può essere quello “altolocato” e solitario che alla
fine porta a dominare il dibattito da una prospettiva “specialistica”. 

E’ ormai da tempo che la critica - militante e non - fa del tutto per
appropriarsi gerarchicamente della massa fluida che viene purtroppo
prodotta (in eccesso e in maniera disinvolta) quasi soltanto per
mantenere aderente il banale e l’inutile al blasone seduttivo della
forma grafica. C’è stato un capovolgimento di posizioni fra critico e
poeta, per il quale il complesso della critica agisce come all’interno
di una agenzia di rating; che si adopera in prevalenza a estendere il
proprio effimero merchandising attraverso indici di valutazione a dir
poco arbitrari. La neo-avanguardia, e ogni altra operazione che ha
avuto per base dei manifesti o dei canoni astratti, non è stato altro
che la consegna di happening alla consacrazione della critica
letteraria (e alla sua prevalenza) piuttosto che alla storia della
poesia. Solo in casi rarissimi (ma è difficile a chiunque
ricordarsene) la poetica posta a premessa ha generato poesia di
qualche spessore: se non invece soltanto materiale per sperimentazioni
virtuali o rituali di casta. Un tempo la critica osservava il testo
poetico da distanze rispettose che non ne provocassero pertanto
l’allontanamento ermeneutico: senza l’arroganza pretenziosa di chi è
sempre pronto a farsi garante-intermediario, non si sa a che titolo,
fra autore e destinatario. Oggi invece quel tale capovolgimento ha
generato una distorsione funzionale alle vuote coreografie
consumistiche della  moda; o del chiacchiericcio sofisticato intorno
alle case editrici più consistenti; che peraltro sopportano a malapena
gli scrittori di poesia e troverebbero volentieri un pretesto per
liberarsene. Oppure ha dato corso alle contaminazioni ideologiche di
chi in tal modo si è appropriato strumentalmente del sostrato teorico,
per sottomettere il testo a una visione storica contingente e
progressiva; senza averne il pieno diritto. Per questo il minimalismo
piatto è stato utile solo ai maestri di artifici ottici e manipolazioni fuorvianti;
tanto da ricavarne la propria fortuna che paradossalmente poggia 
le basi molli sulla stagnazione contemporanea,appunto. 
Sono dunque convinto che i maggiori demeriti rispetto alla
situazione in cui versa la poesia sia proprio da ascrivere alla
eccessiva ingerenza dei critici o della loro esuberanza: alla loro
velleità demiurgica. Chi scrive poesia, deve starne alla larga. Meglio
il “prodotto” a filiera corta per lasciare la porta aperta al lettore
(magari il più scaltro) il quale - se emarginato - finisce nella
disaffezione e nel disorientamento: perché non apprezza il solo valore
testimoniale del testo e si adegua malvolentieri alle sperimentazioni
di cui è fatto surrettiziamente vittima; perciò, quando poi si vuole
addentrare in qualche opera rappresentativa, si limita alla lettura
della nota di presentazione o a piluccarne qua e là i primi frammenti
indigeribili che gli capitano aleatoriamente sotto lo sguardo. E
tanto meno il lettore ha a disposizione varchi per la comprensione del
testo, tanto più si dilatano gli algoritmi speciosi del critico.
Meglio allora le antologizzazioni nude e crude piuttosto che i
resoconti ragionati, i quali alla fine consentono semmai l’esproprio e
il depistaggio. In fin dei conti i poeti sono un evenienza stocastica
della loro attività: in senso darwinistico. Insomma, se si vuole che
il dibattito prenda abbrivo, sarebbe più utile scendere nel
pentagramma al livello dei suoni percettibili. O, a corollario,
abbandonare la visione finalistico-escatologica che è filiazione “di
una impostazione politica del fatto poetico”. Dunque, né poesia
teologica né poesia teleologica. In ogni caso, per evitare il ritorno
alla sacralità, l’alternativa non è certamente quella di ricorrere
all’esame autoptico dei testi o al  loro reclutamento.

*Giusi Maria Reale
Insegna Italiano e Latino nel Liceo Scientifico di Niscemi. Dirige per Campanotto Editore la rivista Zeta Filosofia e collabora con la rivista Verifiche in qualità di critico letterario. La sua attività e i suoi interessi si rivolgono ai campi della poesia e della filosofia, ma si occupa anche di traduzioni dal francese. Nel 2005 ha pubblicato  Poemetti d’Oriente e d’Occidente (Joker Editore), nel 2006 la raccolta di poesie Phygè (Campanotto Editore), nel 2008 ha curato un volume di filosofia dal titolo Simone Weil -Scendere verso l’alto (Campanotto Editore, Collana Territori delle idee) e nel 2011 Orbis Chimaerae (LietoColle).

* Navio Celese
Dice di sé: «amo la campagna, vivo del mio lavoro, mi occupo di cose pratiche e concrete che mi costringono ad andare dritto al centro dei problemi e a comunicare senza metafore e perifrasi. I miei interlocutori sono semplici, schietti e producono oggetti che fanno resistenza al tocco delle dita. Non ho grandi rapporti, se non occasionali,  con i letterati e i professori».

19 commenti:

Anonimo ha detto...

Si potesse togliere un mattone
nel centro della seconda fila
dove il muro sorge dal prato verde.

Senza fare danno piano piano
con martello e scalpello
quasi arte , competenza.

Guardare se le notti erano come queste
e i giorni del veloce andare
erano di urla e tutti da rifare.

Se il vicino del cieco beveva vino
di nascosto per non farsi vedere
e il cieco s'ubriacava di odore.

Se la corda stretta al collo
era di parole o il cappio
si allentava e si moriva di natura.

Fiutare l'aria da quel pertugio
per capire il senso di quel muro
di quei mattoni del cazzo che hai
portato su quel prato a dividere
la tua vita da una storia di poesia.

Emy

Anonimo ha detto...

Sbagliato sovrapporre due fatti comunicativi, e non mi sembra per niente scontato che debbano sempre convivere sullo stesso mezzo (libro).
Nelle sale cinematografiche, o nei teatri, lo spettacolo comincia dal titolo. Nessuno introduce e nessuno commenta sul finire, per far questo ci sono recensioni e libri.
Se lo scopo dell'introduzione critica ad un libro di poesia è quello di avvalorare maggiormente il lavoro del poeta, allora è giusto che il critico affianchi l'intento editoriale che dovrebbe consistere nel cercar di diffonderlo. E scriva di conseguenza.
Ormai ci siamo abituati all'idea che se un poeta pubblicasse senza introduzione critica, specialmente se sconosciuto, non verrebbe preso in considerazione. Ne siamo sicuri?
mayoor

Moltinpoesia ha detto...

Ennio Abate:

SEGNALAZIONE AD HOC.

"Agli inizi dell’attuale secolo ebbe una certa eco un tema che appariva degno di aprire il nuovo millennio: il canone letterario. Già dalla semplice specola scolastica da cui guardo risultava stravagante, ma quanto poi nel frattempo si è andato consolidando nel mercato delle università, che ha sia devastato le facoltà umanistiche, sia ridicolizzato i percorsi di studi, ha reso il dibattito poco meno che salottiero.
La comunicazione sociale si è sbriciolata sotto i colpi della colonizzazione mediatica. Non solo la divisione tra settore colto e settore popolare dell’industria culturale appartiene a un’altra era, ma la simbiosi tra editoria e media ha annichilito la nozione stessa di valore letterario. Nel frattempo, le istituzioni preposte alla sua conservazione e trasmissione – ma dovrei dire ‘alfabetizzazione a’ – come la scuola e l’università venivano messe fuori gioco.
Questo non significa certo che non esistano luoghi dove tali valori sono riconosciuti, coltivati e fatti nascere. Significa solo che sono diventati irriconoscibili, spesso invisibili. Significa che per un’intera fase non troveranno più nessuno che, come Lenin all’ascolto della musica di Beethoven, sia costretto ad alzarsi scosso dall’ira per quella bellezza. Significa che l’autore di tali opere, anche quando serbi la forza di vederlo, sentirà svanire il senso delle proprie stesse parole –risucchiate dal vuoto dove vivono- allorché provasse a ripetere la confessione baudelairiana: *mon hypocrite lecteur, mon semblable, mon frère*.
La critica letteraria capace di riconoscere il valore sopravvive allora in spazi di entomologi, oppure in qualche biglietto sudicio dimenticato negli angoli delle strade."

(Velio Abati, da "IL DOMANI RIMOSSO. Fortini oggi", di prossima pubblicazione sul n. 9 di POLISCRITTURE)

Anonimo ha detto...

Giusi Maria Reale:
"L'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica, si è estesa ulteriormente e prepotentemente in forza della stessa riproducibilità che da tecnica è divenuta virtuale. Il sigillo sacro attribuito dai sacri collegi dei critici letterari, non basta più a garantire il canone. Occorre prenderne atto."
E aggiunge: "Al cambiamento dei modi di comunicazione non può non corrispondere un cambiamento dei modi di produzione poetica e, corollario naturale, dei modi di critica della produzione poetica."

Forse vale solo per i poeti che il mezzo non sia anche il messaggio, e i "modi di produzione poetica" mi pare debbano riguardare principalmente il destino del lavoro editoriale. L'offerta dei poeti a me sembra già sufficientemente variegata.
m.

Anonimo ha detto...

“L'offerta dei poeti a me sembra già sufficientemente variegata”: ha il triste alone al neon dello scaffale di un supermercato. Mercificazione della produzione estetica? Miseria della poesia? Meglio, allora, ri-attualizzarla come “fenomeno originario”.
L.M.M.(Lettera di Montale a Malvolio)

Anonimo ha detto...

Il linguaggio commerciale era preso a prestito per ironizzare sul fatto che un po' si fa intendere che i poeti avrebbero la responsabilità individuale di non seguire le linee guida proposte da settori della critica, magari, e purtroppo, preferendo accodarsi per contaminazione alla tendenza di turno. Resta il fatto che, comunque la si valuti, la produzione artistica, tra eccellenza e dilettantismo, a parer mio non conosce tregua e dà prova donchisciottesca di saper attraversare qualsiasi genere di crisi. E ho l'impressione che si preferisca guardare la pagliuzza invece di agire sapientemente sulla trave che sta nel contesto. Ma qui mi fermo che non mi va di improvvisarmi. La critica manda i suoi segnali, leggo e umilmente ne tengo conto.
mayoor

giorgio linguaglossa ha detto...

Caro Ennio,
Per quanto riguarda le questioni sul "merito" delle cose della poesia, riguardo alla accusa che tu muovi al mio modesto lavoro di critico e a quello di Giuseppe Pedota cioè di aver imboccato una strada "elitaria" piuttosto che una, diciamo così, più democratica, vorrei dirti che io personalmente, come critico, non mi chiudo in nessuna particolare direzione, non ho preferenze, non seguo scuole, cortei e cortili o corti di imperatori o di apprendisti stregoni; personalmente non escludo nessuna delle potenziali strade di accesso in grado di portarci fuori da "Dopo il Moderno"... ma che cosa ci sia Dopo il Moderno ovviamente nessuno può saperlo, tantomeno il critico (o chi fa le vesti del critico) e nemmeno il poeta (il quale spesso è ignaro dei risvolti teoretici del proprio lavoro)... nel corso della Storia ci sono delle strade che si aprono e altre che si chiudono... ma non è solo un gioco a nascondino (o di prestigio), è un gioco di acume e intelletto, di coraggio e di talento, infatti soltanto pochi, e tra questi pochi solo pochissimi, riescono a trovare il bandolo della matassa... ma non si tratta di una questione elitaria perché io la intenda elitaria, è elitaria perché è una strada solitaria; ma la solitudine che a me interessa è quella fattiva e attiva del materialista Leopardi, quella ricchissima di Ripellino, quella ardente di rabbia di Helle Busacca... il delirio incandescente di poetesse del calibro di Maria Rosaria Madonna e Maria Marchesi (già morte e dimenticate) e così via.
Ecco, come è stato detto nel post di Fortini, questi poeti sono oggi "irriconoscibili"... forse verranno riconosciuti nel lontano futuro ma oggi non lo sono. ma questo è un fatto che ha a che fare con la questione dell'atto critico che non può che essere "elitario" perché si rivolge ad una ristrettissima élite di lettori che abitano più il lontano futuro che non il vicinissimo presente. Ma il critico non ha altra scelta, deve inseguire il lontano futuro...

Giorgio Linguaglossa

Anonimo ha detto...

Da ciò che scrivi ne emerge il ritratto di un critico solitario ed "elitario". Quindi chi sono i destinatari della tua poesia? Quali temi essa affronta? C'è una Musa ispiratrice delle tue composizioni poetiche?

Moltinpoesia ha detto...

Ennio Abate a Anonimo:

Fa delle domande del tutto accettabili. Perché non firmarsi?

Giusi Maria Reale ha detto...

Credo che al movimento stesso dell'atto critico sia velatamente connaturata una cernita elitaria: quella della scelta medesima. La critica democratica, nel senso di non elitaria, è solo un ossimoro. Del resto il termine "democratico", è abusato/snaturato e levato spesso più come magico amuleto in grado di zittire l'avversario, che usato a ragion veduta. L'accusa di anti-democraticità sempre più frequentemente ha il sinistro baluginio dell'anatema, arma di una retorica abile da un lato, povera dall'altro. Fare scelte mirate non significa creare un'élite, ma assumersi la fatica e l'onere della scelta, appunto. Credo che tu, Giorgio, sia uno dei pochi a farlo in modo consapevole.
Al critico di un tempo, il lector doctus, si chiedevano due cose: la lima e la litura.
Al critico di oggi si chiede la qualità di lector doctus solo in seconda battuta: prima viene il potere nel campo del mercato editoriale. Le collane senza "collana", quelle dei best-sellers, attirano il grande pubblico solo perché contengono un sofisticato specchietto per le allodole: un meta lector doctus, che tranquillizza i lettori sulla bontà e qualità della propria scelta. E' l'equazione direttamente proporzionale del "se un libro lo hanno comprato in tanti, allora vale molto".

Anonimo ha detto...

Le persone non somo allodole. Ed è raro che un libro di poesia diventi un best-sellers. Diventano inaspettatamente best-sellers i libri di un certo autore invece che quelli di altri, ed è naturale aspettarsi che per il grande pubblico quell'autore diventi al tempo stesso il garante di ogni suo libro.
A me sembra che spesso anche ciò che si nasconde dietro, i giochi di potere e le manovre editoriali, arrivino in seconda battuta, al seguito dell'inatteso interesse del pubblico. Lo dimostrano casi recenti come le poesie di Charles Bukowski in Europa o la Merini qui in Italia. La critica storce il naso, ma lo fa anch'essa in seconda battuta.
L'indagine sulla qualità è indispensabile, ma sulle scelte ci andrei con più attenzione. La democrazia non è solo omologazione, a me sembra sia anche l'inconveniente per il quale nessuno può dirsi al sicuro, se non per illusorie e temporanee circostanze.
mayoor

Moltinpoesia ha detto...

Ennio Abate:



Caro Giorgio,

solo tre appunti veloci per ora.
Se uno rilegge bene la mia posizione su “Dopo il moderno di Pedota” ( ), troverà queste affermazioni:

“E qui arrivo al punto di dissenso. Pedota (ma dovrei dire anche tu, dovrei dire anche voi di «Poiesis»), sceglie di tirarsi fuori dalla Storia (da una visione ottimistica e finalizzata delle vicende umane). Chiama però i poeti non solo ad abbandonare le forme poetiche che ancora insistono nel solco del moderno, ma proprio la storia (anche quella con la minuscola) o tout court la «storicità» delle forme di vita contemporanee.
Da qui il rifiuto di ogni contaminazione con il linguaggio dei mass media, un linguaggio «radicalmente funzionalizzato alle esigenze dell’apparato di produzione» e che gli appare «irrimediabilmente compromesso». E la polemica virulenta contro l’«estetizzazione diffusa della cultura di massa». E i giudizi drastici, a volte sprezzanti, contro una vastissima schiera di poeti contemporanei, raggruppati sotto categorie assolutizzanti e squalificanti: «epigonismo», «qualunquismo», «talqualismo», «turismo poetico».

[…]
Questa a me pare la sua (vostra) scelta “militante”. Essa però si colora, secondo me, fin troppo di un sentimento tragico. Pedota parla di «ultimo modo di esistenza della poesia». Tende a una «eroicizzazione dell’arte», la quale sarebbe costretta a «una resistenza allusiva e assoluta al mondo». Per cui non resterebbe che il «suicidio e il silenzio dell’arte autentica» (p. 58).
Un così ascetico e austero silenzio non è esente da un forte determinismo[4]. E spinge verso un immancabile fuoruscita (temo alla cieca) dal razionale[5].
Questa è, dunque, per Pedota la via d’uscita. Questa la sua risposta a quell’aut aut, non del tutto nuovo o relativamente nuovo, che ancora ci troviamo di fronte noi, ma che era già stato posto a molti ben prima di noi.

[…]
In questa situazione temo (l’ho espresso in vari commenti anche su questo blog a proposito del tema poesia/religione) il ritorno a una sacralizzazione della poesia. Né condivido la contrapposizione drastica della poesia come «rappresentazione» alla poesia come «comunicazione». Sono per me schematismi da sconfitti.».

Insomma le “accuse”, se di accuse vogliamo parlare, sono di astoricità, di tragicismo e di sacralizzazione della poesia. Non quella di «di aver imboccato una strada "elitaria" piuttosto che una, diciamo così, più democratica».

[continua]

Moltinpoesia ha detto...

Ennio Abate (continua):


In secondo luogo, io penso che bisogna contrastare allo stesso tempo democraticismo ed elitarismo.
In poesia (ma lo stesso si dica in politica) queste sono due risposte facili ma sbagliate.
Il compito della critica è sicuramente quello di stabilire una gerarchia di valore tra i testi. Ce ne sono alcuni che vengono giudicati validi e diventano canonici, preminenti e degni della massima attenzione ed altri che vengono esclusi e considerati al massimo come “minori”, “epigonici” e diventano, come tu dici, “invisibili”.
Io questa funzione non la discuto, anzi rimprovero che non venga esercitata più (per quel che è possibile anche sui contemporanei). E venga sostituita proprio da una critica “democraticista” e da una critica “elitarista”, che si guardano (sterilmente) in cagnesco.
Perché facili e sbagliate queste risposte?
Brevemente per ora. Perché gonfiano in modo unilaterale una parte e la fanno diventare il tutto. Il buono risiederebbe di per sé o nell’elemento “represso” per cui basterebbe togliere il “tappo repressivo” dei censori, degli accademici, dei manager delle case editrici e avremmo la genuina, autentica poesia. (E non viene valutato la mancanza, il deficit che deriva dalla condizione di repressione subita dall’autore “invisibile”). Oppure il buono risiederebbe nell’elemento “libero”. (E non viene valutato il marchio che tale libertà raggiunta porta comunque con sé, secondo quanto diceva Benjamin nella sua settima tesi sulla storia: Non esiste documento di cultura senza essere, nello stesso tempo, documento di barbarie.).

Ed infine. Un’esperienza solitaria, come è in parte per forza di cose quella poetica, non necessariamente è elitaria. Può essere vissuta o presentata così da chi la vive, se costui nella sua attività poetica (e innanzitutto nelle scelte linguistiche) nega i tratti che l’accomunano agli altri e non solo esalta quelli che la distinguono dagli altri (ciascuno ha una sua individualità o singolarità), ma li considera proprietà sua o di una minoranza qualitativamente eccezionale, un’élite appunto. Ma oggi davvero ci sono delle vere élite in poesia? E davvero i pochi o pochissimi poeti originali e che riuscirono o riescono a «trovare il bandolo della matassa» ci arrivano in solitudine o grazie alla loro solitudine?
A me non pare. Siamo tutti più o meno degli ‘io-noi’; e alterniamo solitudine e scambio con gli altri/e, in differenti proporzione a seconda del carattere, delle occasioni, delle opportunità offerteci dagli ambienti e dai ruoli sociali che ricopriamo.

[Fine]

Moltinpoesia ha detto...

Ennio Abate:

Ho saltato il link riferito al libro di Pedota.
Eccolo:
http://moltinpoesia.blogspot.it/2012/05/ennio-abate-su-dopo-il-moderno-di.html

Anonimo ha detto...

In realtà le mie domande erano rivolte a Giorgio Linguaglossa.

giorgio linguaglossa ha detto...

Cari Ennio Abate e Giusi Maria reale,
proprio per evitare schematismi e facili stigmatizzazioni io direi di andare sul concreto. Partiamo da Tomas Transtromer il recente nobel per la poesia: come è accaduto che di lui niente si sapesse nelle patrie lettere, che non sia mai stato pubblicato un libro (tranne Crocetti che l'ha editato previo finanziamento di una Fondazione) del poeta svedese, quando era stato tradotto ampiamente in inglese e pubblicato in Inghilterra e negli Stati Uniti... anzi, addirittura pare che la poesia di Transtromer abbia influenzato in profondità le ultime generazioni di poeti statunitensi mentre invece in Italia si continuava a parlare di questioni risibili come Canone, poesia lombarda, post-sperimentalismo, poesia mitopietica e altre amenità senza costrutto? Non c'è qui una pigrizia, di più, una stagnazione dell'intelligenza? non c'è qui un profilo di conformismo del settore "poesia"?
Prendiamo un altro esempio: noi abbiamo in Italia un grande poeta esule, l'albanese Gezim Hajdari, un efferato oppositore dei regimi post-comunisti che si sono installati nel suo paese... ebbene, perché nessun grande editore si è mai premurato di pubblicare le poesie di Hajdari? Forse perché è un esule isolato e senza potere di scambio? forse perché non fa la corte agli intellettuali di corte italiani?
Vedi, caro Ennio, queste sono cose concrete, sono questioni palpabili che un critico (o chi voglia fare le veci di critico) deve sbandierare, deve sollevare... ma in Italia nulla di tutto ciò, si continuano a pubblicare poeti del tutto secondari(per usare un eufemismo). E allora qui non ha più senso parlare di critica democratica o elitaria, qui (dico in Italia) siamo arrivati alla stagnazione e alla recessione dell'intelligenza! questo è il vero problema. Ma a questo punto io mi tiro indietro, faccio un passo indietro e dico chiaramente che non ci sto, non ci sto a questo gioco al massacro delle logiche di potere editoriale e delle logiche degli uffici stampa degli editori a diffusione nazionale. Il mio impegno critico (e quello di Pedota) è un impegno solitario (da isolato) non elitario come tu, caro Ennio, dici... e sono isolato perché (molto semplicemente) sono una voce stonata, una voce fuori dal coro, che tanto puoi lascarla parlare perché priva di potere, di retro terra editoriale e politico.
Ma, a questo punto io dico semplicemente: io non ci sto, faccio un passo indietro rispetto all'indecenza delle collusioni dell'apparato. Proseguo per la mia strada che è quella dell'onestà e del rifiuto dei giochi di retro bottega.

Moltinpoesia ha detto...

Ennio Abate:

Giorgio, mi spiace insistere.
Tu scrivi sopra: "Il mio impegno critico (e quello di Pedota) è un impegno solitario (da isolato) non elitario come tu, caro Ennio, dici...".
Eppure io ho scritto: "Un’esperienza solitaria, come è in parte per forza di cose quella poetica, non necessariamente è elitaria".

Il tuo impegno critico è un impegno solitario. Ma lo è anche quello di tanti di noi.
Non sarebbe il caso di distinguere la solitudine (necessaria al lavoro poetico e critico) dall'isolamento imposto (e non solo a te, ripeto) e fare INSIEME "un passo indietro rispetto all'indecenza delle collusioni dell'apparato" (e, perché no, un passo avanti dove fosse possibile contrastare tale indecenza?
Qui c'è un dilemma da sciogliere:
la strada che tu chiami "dell'onesta e del rifiuto dei giochi di retrobottega" è la "tua" strada o può essere la "nostra" strada?
Attendo chiarimenti.

giorgio linguaglossa ha detto...

Caro Ennio,
tu scrivi: «la sua (di Pedota) e la (vostra) scelta “militante”. Essa però si colora, secondo me, fin troppo di un sentimento tragico. Pedota parla di «ultimo modo di esistenza della poesia». Tende a una «eroicizzazione dell’arte», la quale sarebbe costretta a «una resistenza allusiva e assoluta al mondo». Per cui non resterebbe che il «suicidio e il silenzio dell’arte autentica» (p. 58).
Un così ascetico e austero silenzio non è esente da un forte determinismo[4]. E spinge verso un immancabile fuoruscita (temo alla cieca) dal razionale[5]».
Non è qui in questione il problema di un «determinismo» che minaccerebbe la posizione critica di un Pedota e mia, il vero problema è che in Italia la «riforma moderata» introdotta da Giovanni Giudidi con "La vita in versi" (1965) e da Sereni con "Gli strumenti umani" (1965), hanno portato la poesia italiana in un collo di bottiglia dal quale ne fuoriesce soltanto il talqualismo e il turismo poetico delle ultime generazioni. È ovvio che nelle condizioni di generale mimetismo e omologismo della poesia italiana degli ultimi decenni, venga rimossa la «grande riforma» del parlato introdotta da poeti come Helle Busacca con la trilogia de "I quanti del suicidio" (1972) e di Angelo Maria Ripellino. La vera questione è, schematicamente:
1)vogliamo veramente uscire dal collo di bottiglia? 2)C'è una poesia che non adotta la corriva equazione del quotidiano visto dal punto di vista del quotidiano?
3) la vittoria del minimalismo è un problema politico oltre che estetico?
4) l'idea di una poesia modernista che attraversa il secondo Novecento (e arriva fino ai giorni nostri) che vanta poeti di grande spessore come Maria Rosaria Madonna, Maria Marchesi, Luigi Manzi, lo stesso Giuseppe Pedota, è una categoria percorribile?
L'importanza del mio lavoro di critico (e di quello dello scomparso Pedsota) è tutto qui: nella valenza di una idea di poesia "altra" rispetto a quella, questa sì "deterministica" (perché determinata dall'alto, dalle Istituzioni deputate).
Ma, in fin dei conti, il generale disinteresse per la poesia epigonica di un Giudici, divenuto manifesto alla scomparsa del poeta lombarda non significa qualcosa? Che quella poesia non ha più nulla da dire ai contemporanei? Non è questa una riprova della scarsa importanza di un poesia, diciamolo, politicamente corretta come quella di Giovanni Giudici?

Moltinpoesia ha detto...

Ennio Abate:

Giorgio, la cosa più utile che potrebbe fare questo blog, al quale si affacciano persone che, secondo me, non vedono la poesia di un Sereni o di un Giudici come esempi di "riforma moderata" e non inquadrano nella categoria della "grande riforma" quella di Helle Busacca e di Ripellino (o degli altri modernisti del secondo Novecento che tu citi), sarebbe quella di proporre testi significativi di ciascuno di questi autori e dimostrare che quelle categorie reggano.
Vogliamo tentare di fare quest'operazione chiarificatrice?
Se sì, il blog è a disposizione.