mercoledì 16 maggio 2012

Giuseppina Di Leo
Due poesie


Il tempo dell’appartenenza

Sotto i portici di piazza Cavour di Rimini una ragazza fa esercizi yoga.
Sulla adiacente strada la gente sfila veloce in bicicletta
sento il battere delle ali di un piccione.
L’aria è fredda e pioviggina, non c’è sole: sembra autunno.
Ma le ragazze sorridono comunque. Perlomeno ci proviamo.
La pioggia ha la sua buona parte di verità in questa domenica di fine luglio
una verità che rompe gli argini dell’ipocrisia
di quanti vorrebbero supporre il pensiero degli altri
gli abitanti indefessi del lato falso del mondo della poesia.

Ma la pioggia lava e ristora, per fortuna.
Siamo tornati a Santarcangelo, felici di essere qui ora.
Usciremo tra un po’ per un pranzo in trattoria
c’è già una prenotazione per due per le 13,30
c’è tempo anche per rilassarsi
guardare un giornale in due;
entrano gocce dalla finestra aperta.
Un tempo meraviglioso è quello dell’appartenenza.

***

Stasera non ci sono i contradaioli di ieri a Santarcangelo gremita di gente
ma con la pioggia tutto è ritornato sotto il dominio della città: le strade
si sono sfollate di colpo.

Il gatto dal manto bianco e nero questa volta non voleva saperne di guardarmi
ma quando gli ho accarezzato la testa nello spazio tra le orecchie un fremito
gli ha fatto oscillare le punte. Qualche goccia di pioggia è stata sufficiente
per farlo scappare via e ripararsi sotto un porticato, subito raggiunto
da un gatto amico; un po’ com’è successo a noi, mentre eravamo a Rimini.

Spesso resta un colore del cielo, un disegno informale tra le nuvole
come quel calice mezzo pieno di rosso che ho fotografato ieri sera.
Il dio del vento ci ha sorpresi per le strade, sospingendoci uniti
come un’urgenza d’amore.


Parole maledette

Se giungi al cubo verde di cartone siediti a guardare
il cavallo fermo a due passi gironzolare sul deserto
l’onda tornita abbassarsi nella sabbia fino a scorticare
la punta alta del palmo
tra parole nel genere e nel senso invertite

immagina poi di vedere quante altre stele di sabbia annegheranno
stelle contrastando il giocoso rame. Tutto questo per dire
come tutta questa pletora di dolore si può sconfiggere (evitando il ribadire)
e con un gioco più semplice scarnire il puzzle dei pensieri della sera per scoprire
a quale rappezzo di vita attraccheranno le ultime (infine, nuove) speranze

un bagliore sembra niente per definire un cielo illuminato a fondo
come le nostre idee più nitide quando, portate sulla bocca
si arrestarono proprio qui nei servi versi prive di sensi
amare da scartare

sorda al tatto anche la pelle allora ignorò la dolcezza;
senza capire non sapemmo dire nemmeno chi siamo
se nel dire fu il tradire
neanche il vuoto volare volemmo provare.

Conoscere serba il segreto del nulla
sul cubo, ora tavolo di cartone
porto un fuoco alto di addii
cespi colti da selve notti insonni
all’alba il fumo scrolla leggero la farsa
di noi attesi e dormienti nel digiuno del dire
di noi mal nutriti dalle parole male dette.


Giuseppina Di Leo

Mi chiamo Giuseppina e scrivo versi. In campo poetico, ho al mio attivo due pubblicazioni: Dialogo a più voci (Libroitaliano World, 2009); Slowfeet. Percorsi dell’anima (Gelsorosso, 2010).

3 commenti:

Anonimo ha detto...

Traggo dall'altro post di Walser:
"una è semplice, una pomposa,
una magica, una noiosa, una commovente, una
deliziosa"...
Infatti a me sembra che la prima poesia scorra prosaica di buon passo, la seconda già tradisce in qualche verso una maniera che la prima aveva sorpassato, e la terza si confonde passando dal verso lungo al breve. E il linguaggio ne risente perché guidato da un piede che sta collaudandosi. Però ne vale la pena, le immagini scorrono con le parole e leggendo non si ha l'impressione di perdere tempo. Al contrario…
"Ma una cosa è certa" dice Walser
" il poeta che le ha fatte piange tuttora, piegato sul
libro; il sole splende su di lui; e la mia risata è il
vento che gli scorre impetuoso e freddo nei capelli."

grazie
mayoor

giorgio linguaglossa ha detto...

Si nota che Giuseppina Di Leo sta adeguando il suo linguaggio al tema-racconto del qultidiano, e lo si vede soprattutto quando l'autrice spinge il pedale dell'acceleratore di particelle (le parole), e qui le cose si complicano perché moltiplicando le parole c'è anche il rischio di moltiplicare le possibilità di errore... ma la via probabilmente è quella giusta e il rischio da correre è stato calcolato... è che bisogna sempre mettere in quarantena le parole prima di abbandonarle definitivamente sulla pagina bianca.
Comunque misembrano due buone prove. complimenti.

Anonimo ha detto...

Esprimo il mio ringraziamento a Ennio Abate per aver dato spazio alla mia voce su questo blog, così come ringrazio Mayoor e Giorgio Linguaglossa per la fiducia accordatami e per lo sprone a continuare la strada intrapresa.
La parola racchiude in sé l’ambivalenza del ‘detto’, una duplicità a mio avviso inammissibile in poesia. L’onestà della parola poetica è dunque ciò che inseguo. Si tratta sicuramente di un obiettivo ambizioso e non facile da raggiungere, perché significa saper discernere il vero dal falso, come il sogno dalla realtà, o come l’immagine dal suo contesto. Sono tuttavia persuasa del potere insito nella parola, in grado com’è di mostrare la propria unicità giocando e di mettere a nudo l’ambivalenza tra ciò che si vorrebbe esprimere e quello che viene detto (il ‘detto’ e il ‘dire’), come pure di abbattere con la propria forza il muro invisibile dell’ipocrisia e dell’indifferenza. Si tratta, come dicevo, di un compito non facile. Ma ci provo.
Aggiungo qualcosa in merito alle poesie presentate.
“Il tempo dell’appartenenza”. In entrambe le poesie, ma soprattutto nella prima, emerge da sé un non so che di irrisolto, uno spaziare intorno per cercare il nucleo di un pensiero che in effetti mancava; contraddicendomi anche, se, nel dichiarare, affermo che tutto ciò che vedo è esattamente come lo vediamo (per Pessoa, il poeta è un “fingitore”). Nella seconda lo spazio si fa man mano interiore e la poesia guarda senza essere vista.
Queste prime due sono in realtà tre, nel senso che ve ne sarebbe - come in effetti c’è - una terza poesia, da me non presentata per ragioni che attengono alla sfera personale e sulla quale ho pensato sia bene riflettere ancora. E, al riguardo, trovo dunque prezioso il suggerimento di Linguaglossa.
Lo stile in prosa l’ho forse penalizzato nel corso degli anni prediligendo al suo posto un certo lirismo che più si confà al verso breve. Ma, seppure marginalmente, la prosa poetica era presente già in Dialogo a più voci e ha trovato poi maggior spazio in Slowfeet.
Con stima.
Giuseppina Di Leo