lunedì 21 maggio 2012

Rita Simonitto
Dialoghi a perdere



Restituiscimi, tu puoi, le lunghe note
o la curva che aprì improvvisa sui destini
non solo miei e tuoi ma incolorò il mondo
coi pastelli, filtrati i suoni, contrastato
il tempo che imprime e vìola i sostegni,
e gli archi, le tenerezze delle sponde
ti prego qui ridammele così come
si specchiarono sul fiume, il nostro
ti ricordi, e poi ci fu una guerra
ma che non ricordo quale, forse
un mondo alla rovescia, un segnale
male interpretato, disfatte voci,
morì qualcuno, non mi dicesti niente
fammi appoggiare alla finestra, forse
non è che sono io che sto morendo
adesso?
Dimmi.


*

Aforisma di te stesso
dopo giorno giorno
hai raspato il fondo a croste
bruciate le narici nell’acido
odore dei trapassi.

Da oggi che altro inventerai?
Non più declinazioni dell’azzurro
che nel celeste sfiora aguzzi  monti.
Nemmeno le tempeste,
non più quelle ormai,
solo grigiori, o il catrame nero,
insolenti carene delle barche
esposte al sole nude
a sgretolarsi senza più viaggi.
Giocherai d’alterigia o di distacco,
d’indifferenza che come panno sporco
asciuga i piatti e lascia l’unto?

Sconfitto dal tuo gioco
nascosto il capo nella veste
affronterai così la doppia morte
del tradimento venduto per rivoluzione.

*

Un pugno di terra, vuoi? disse la luna
e scavalcò la zolla, ragnatele di gelo
come di diadema lampi, poi fu il buio.
Quanto è fonda la notte se non batte il cuore
che me ne faccio, indurite le mani,
dei tuoi doni luna, un viandante saluta da lontano
solo per un attimo, solo per un attimo
ho sperato con me condividesse
le ossa rotte del silenzio dove ammutoliscono
gli scriccioli fra le piume sott’ala.

Solo adesso so che la morte è passata di qui
e al momento si è liquefatta nello stagno.

06.02.2012



6 commenti:

Anonimo ha detto...

La tua tristezza entra impetuosamente e si fa natura. Tutto mirabilmente descritto. Una rivoluzione vissuta o subita? Non importa . Rita è grande, Emy

Massimo Caccia ha detto...

Interessanti sensazioni fermate in un verseggiare che cattura con descrizioni essenziali. Piaciute.

Anonimo ha detto...

c'è musicalità in questi versi, tipica della bella poesia.
raaf

Anonimo ha detto...

Capisco questa voragine esistenziale che chiamano tristezza, c'è di buono che fa sorgere domande, e c'è di buono che produce versi che non ti aspetteresti perché, a ben vedere quando si è tristi, almeno io, i versi belli non li vorrei neanche.
E' vero che un poeta minimamente informato e intelligente sa delle difficoltà social-culturali in cui si trova ad operare, ma poi deve fare i conti con se stesso e con i suoi ideali, con le sue maniere di scrivere che si presentano ad ogni parola che scrive. Questi ideali creativi io non li so comprendere ma li riconosco in ciascuno, almeno mi sembra.
Di queste poesie apprezzo particolarmente il verso d'inizio perché è linguaggio poetico senza tentennamenti, e se la poesia s'introduce subito è meglio secondo me. Poi si può andare di riserva. Ma le parole rapiscono, s'attorcigliano nell'estetica... per posarsi in un verso. E uno cancellerebbe tutto il resto.
In evidenza:
"non è che sono io che sto morendo / adesso?
"Quanto è fonda la notte se non batte il cuore / che me ne faccio"
"Solo adesso so che la morte è passata di qui"
Grazie.
mayoor

Moltinpoesia ha detto...

Ennio Abate:



Il tono generale dei tre componimenti a me non pare triste, ma assorto. Come di chi, in profonda solitudine, parla con un tu-fantasma.
Il primo è sicuramente il più drammatico. Chi è l’ignoto o l’ignota confidente di chi parla in questi versi? Non una divinità, mi pare. Una figura che resta sfumata, indefinita - un fantasma del passato, appunto - con la quale c’è stato un legame profondo e che ora è rimeditato nell’elegia.
E cosa gli si chiede davvero? Azzarderei: nientemeno che di rivivere quel (proustiano?) dolcissimo tempo perduto quasi prenatale e metafisico, accennato da un mondo a pastelli (i colori dell’infanzia!), da suoni «filtrati» (e dunque non violenti). Più indecifrabili sono quegli «archi» (ipotizzo di un ponte, ma non sono certo) e soprattutto quel «tempo che imprime e vìola i sostegni».
Le cose perse, ma di cui con caparbietà e con un’invocazione appassionata si chiede la restituzione,
sono abbastanza indefinite, forse intime, indicate allusivamente («le lunghe note», « la curva che aprì improvvisa sui destini» (di entrambi), «le tenerezze delle sponde»). Definito nella sua fisicità placida, anche se pur esso non nominato, è solo il fiume, in cui quelle “cose” «si specchiarono» (al passato) e che viene detto «nostro».
È questa elegia (d’amore e d’infanzia?) che è andata persa a causa di una guerra. Una delle tante, perché, con sprezzo o disperazione, non viene detto nemmeno quale fu; e ciò conferma che la riflessione si pone su un piano astorico e molto intimo e che quello stato d’animo e appena recuperabile nella memoria ( e forse in una poesia di memoria).
Notevole stilisticamente mi pare che l’evocazione della guerra rende convulso il dettato del componimento. C’è quasi un ingorgo affannoso, come se la vicenda non potesse (non dovesse?) essere narrata. Il tono si fa di rimprovero («non mi dicesti niente»). E nel finale ecco una sorta di potente cortocircuito: tra la morte evocata («morì qualcuno») e l’angoscia di morte, che coglie chi parla («non è che sono io che sto morendo/ adesso?»).
Nel secondo componimento, più freddo, leggo la figura di un resistente. Bella, anche per l’inaspettata riduzione a un tono “casalingo”, l’immagine dell’indifferenza paragonata a un «panno sporco» che «asciuga i piatti e lascia l’unto».
Nel terzo, più che il dialogo un po’ criptico con la luna, attira quel viandante che «saluta da lontano». Un incontro («solo per un attimo, solo per un attimo») mancato, che ha fatto battere il cuore, preferito ai doni (freddi?) della luna. Non mi pare che il viandante, comunque vitale e fascinoso, possa essere la morte «passata di qui». Non mi piace, invece, l’immagine della morte «liquefatta nello stagno».

Anonimo ha detto...

da Rita Simonitto
Per questo mio commento mi scuso per il ritardo, dovuto a impegni di lavoro nonché a ‘capricci’ del mio PC. Ma non volevo perdere l’occasione per ringraziare Ennio non solamente per la sua generosa sollecitudine nel dare attenzione ai miei componimenti. C’è un altro motivo per dirgli ‘grazie’, ben più importante, ed è connesso all’esercizio del suo ‘supporto critico’ alla poesia, cosa che mi ha dato molto da riflettere.
Lo chiamo ‘supporto critico’, anziché ‘critica’ tout court, perché non si limita ad esprimere una valutazione soggettiva sul testo (mi piace/non mi piace; mi emoziona/non mi emoziona, mi dice cose/non mi dice niente), bensì porta *un’analisi del testo attraverso il testo*, cerca di seguire il *cosa attraverso il come*. Pone domande anziché fornire delle risposte immediate.
Io credo che questo ‘modello’ di critica sia utile per integrare ed arricchire il lavoro fatto da chi scrive e che aggiunga alla ‘poetica’ una ‘poietica’ in quanto coinvolge un altro al lavoro dell’Io (= noi?).
Diventerebbe una specie di ‘ermeneutica’, una dotazione di senso che vale non solo per il lettore ma anche per lo scrittore stesso che così può accedere, attraverso la lettura che ne viene fatta, a strati di inconsapevolezza, che pur guidavano il suo scrivere, ma di cui non ne era pienamente consapevole.
Non appena disporrò di un po’ più di tempo, e se me ne verrà data la possibilità, mi piacerebbe precisare meglio su Moltinpoesia il mio intendimento a partire sia dal mio lavoro ma anche da suggestioni prodotte, su questo blog, da commenti e precisazioni di Emy e Mayoor su “Ottocento” di Emilia.
Un caro saluto a tutti.