mercoledì 23 maggio 2012

Robert Hass
Una poesia
da “Time and Materials” (2007)


La poesia è ripresa dal sito LE PAROLE LE COSE. Altre dello stesso autore si leggono qui [E.A.] 


The World as Will and Representation

When I was a child my father every morning -
Some mornings, for a time, when I was ten or so,
My father gave my mother a drug called antabuse.
It makes you sick if you drink alcohol.
They were little yellow pills. He ground them
In a glass, dissolved them in water, handed her
The glass and watched her closely while she drank.
It was the late nineteen-forties, a time,
A social world, in which the men got up
And went to work, leaving the women with the children.
His wink at me was a nineteen-forties wink.
He watched her closely so she couldn’t “pull
A fast one” or “put anything over” on a pair
As shrewd as the two of us. I hear those phrases
In old movies and my mind begins to drift.
The reason he ground the medications fine
Was that the pills could be hidden under the tongue
And spit our later. The reason that this ritual
Occured so early in the morning – I was told,
And knew it to be true – was that she could,
If she wanted, induce herself to vomit,
So she had to be watched until the her system had
Absorbed the drug. Hard to render, in those lines,
The rhythm of the act. He ground two of them
To powder in a glass, filled it with water,
Handed it to her, and watched her drink.
In my memory, he’s wearing a suit, gray,
Herringbone, a white shirt she had ironed.
Some mornings, as in the comics we read
When Dagwood went off early to placate
Mr. Dithers, leaving Blondie with crusts
Of toast and yellow rivulets of egg yolk
To be cleared before she went shopping -
On what the comic called a shopping spree -
With Trixie, the next-door neighbor, my father
Would catch an early bus and leave the task
Of vigilance to me. “Keep an eye on Mama, pardner.”
You know the passage in the Aeneid? The man
Who leaves the burning city with his father
On his shoulders, holding his young son’s hand.
Means to do well among the flaming arras
And the falling columns while the blind prophet,
Arms upraised, howls from the inner chamber,
“Great Troy is fallen. Great Troy is no more.”
Slumped in a bathrobe, penitent and biddable,
My mother at the kitchen table gagged and drank,
Drank and gagged. We get our first moral idea
About the world – about justice and power,
Gender and the order of things – from somewhere.

 Il mondo come volontà e rappresentazione

Quand’ero bambino, mio padre ogni mattina—
qualche mattina, per un periodo, io avevo più o meno dieci anni,
mio padre dava a mia madre un farmaco chiamato antabuse.
Ti fa star male se bevi alcool.
Erano pillolette gialle. Le frammentava
in un bicchiere, le scioglieva nell’acqua, le porgeva
il bicchiere e la controllava attentamente mentre beveva.
Si era negli ultimi anni ’40, un’epoca,
una società, in cui gli uomini si alzavano
e andavano a lavorare, lasciando le donne con i bambini.
La strizzatina d’occhio che mi dava era tipica anni ’40.
La controllava attentamente così che non potesse  “metterlo
nel sacco” o “prendere per il naso” una coppia
scaltra come noi due. Sento quelle espressioni
nei vecchi film e la mia mente comincia a vagare.
Il motivo per cui macinava fine la medicina
era che le pillole si potevano nascondere sotto la lingua
e poi sputare. Il motivo per cui questo rituale
veniva espletato così presto di mattina—mi venne detto,
e capii che era vero—era che lei avrebbe potuto,
se voleva, indursi a vomitare
così che andava tenuta d’occhio finché il suo corpo
non avesse assorbito il farmaco. Difficile rendere, in questi versi,
la cadenza di quell’atto. Ne pestava due
in polvere in un bicchiere pieno d’acqua,
glielo porgeva, e la guardava bere.
Nel mio ricordo, lui porta un completo grigio,
spigato, una camicia candida che lei ha stirato.
Alcune mattine, come nei fumetti che leggevamo
quando Dagoberto usciva presto per placare
Mr. Dithers lasciando Blondie con delle croste
di pane tostato e rivoletti di rosso d’uovo
da pulire prima che uscisse a fare compere—
quelle che il fumetto definiva “spese pazze”—
con Trixie, la vicina, mio padre prendeva
uno dei primi autobus e lasciava me
di guardia. “Tieni d’occhio mamma, compare”.
Ricordate quel passo nell’Eneide? L’uomo
che lascia la città che brucia portandosi in spalle
il padre, tenendo il figlioletto per mano,
e pensa di fare una cosa buona nell’arazzo in fiamme,
tra le colonne che crollano mentre il profeta cieco,
a braccia alzate, urla da una camera all’interno:
“La grande Troia è caduta. La grande Troia non è più”.
Accasciata in un accappatoio, docile e penitente,
mia madre al tavolo in cucina aveva conati di vomito e beveva,
beveva e aveva conati di vomito. La nostra prima idea morale
del mondo—su giustizia e potere, sul genere
e sull’ordine delle cose—deve pur venire da qualche parte.

81 commenti:

Anonimo ha detto...

Qui c'è un vissuto , una riflessione di quando si apre la scatola del tempo. La pensi e la vedi come allora , ma sei uomo e le parole servono solo per comunicare il perchè , il dramma e chiedersi il significato di una certa esistenza. Non so se chiamarla poesia o altro, lo scritto trasmette la fredda angoscia senza risposte di un bambino che lascia un senso di reale sconforto. Essere bambini in quel mondo , in questo mondo, accettando tutti gli errori degli adulti solo perchè da loro essi dipendono, è davvero un male grande , imperdonabile. La vera giustizia e morale, credo che arrivino dai bambini è da li che nasce, libera e senza potere, guardiamoli,ascoltiamoli. Grazie ad Ennio per avermi fatto pensare ed apprezzare questo lavoro. Emy

Francesca Diano ha detto...

Mah... francamente questo, che viene definito pomposamente "il più grande poeta americano", mi lascia del tutto indifferente. Se n'è letta a iosa di questa prosa che va a capo, priva di spessore e fintamente "easy" nel dire "le grandi verità del mondo" in modo facilone e senza una vera riflessione filosofica. Ma del resto Hass viene da Frisco e sicuramente i poeti della Beat generation che tanto lo hanno influenzato sapevano fare di meglio, se non altro perché, a differenza sua, non erano degli epigoni.
Aggiungo poi che la traduzione è proprio misera per un testo che già non è profondo né oscuro di per sé.

Anonimo ha detto...

Per l'esattezza è definito "uno dei maggiori poeti americani contemporanei" [E.A.]

Anonimo ha detto...

"Ricordate quel passo nell’Eneide?"
A chi si rivolge Hass con queste parole da conferenziere?
Poesia massmediatica, con emittente e destinatario, dove l'io narrante si fa protagonista tra la folla. Può sembrare, ma non è autoindagine, e non c'è alcun noi. Tipicamente americano.
mayoor

Anonimo ha detto...

In questo lavoro cercate, la profondità, il noi, l'autoindagine?? Suvvia nella tragedia infantile non esistono . E' il bambino il protagonista,colui che parla, l'uomo americano poi . L'America si sente , ma ormai tutto è America qui comincia il noi. Emilia

Anonimo ha detto...

Intendevo solo dire che queste altre caratteristiche, se vogliamo più introspettive, mi sembrano invece tipicamente europee. Un esempio tra i tanti possibili: nel cinema francese uno sguardo, un silenzio, possono dire assai più delle tante parole che di solito ascoltiamo nelle commedie hollywoodiane.
m.

Anonimo ha detto...

Sì , nel cinema francese... . Emy

Alda Cicognani ha detto...

Non conosco quel poeta, non mi vanto, è una mancanza. Mi ricorda molto i film e la letteratura degli anni cinquanta, così neorealistici. La traduzione è scarna perchè la poesia è scarna. Se dimettiamo la gran passione di criticare per svalutare, e ci impegnamo un poco, appaiono ombre di Silvia Plath, di Anne Sexton, anche se erano a mio parere poetesse molto superiori. Non fa forse male e tenerezza questa voce atona, rassegnata, e con tratti di tenera comprensione di colui che è stato quel bambino, che ha visto il disfacimento alcoolico della madre (senza giudizi) e lo sforzo tenuto leggero di un padre eccezionale?
Allora, se rinunciamo al voler demolire per pigrizia, questi sentimenti, questa dolce tristezza, questo controllato rimpianto( poteva esserci una madre che non beve vomitando in accappatoio, ma una mammetta arzilla e americanamente intenta alle faccende), non sono forse una voce poetica forte, che oltrepassa il dolore e lo filtra con una tenuta prosastica, perchè così ha lottato quel bambino, per diventare uomo: con determinazione e con la colonna portante di quel padre che ammiccava, per non drammatizzare la rovina.

Alda Cicognani

Francesca Diano ha detto...

Sì Ennio, non cambia di molto...

Francesca Diano ha detto...

@ Alda. Credi che non c'è alcuna pigrizia o gratuita volontà di demolizione, ma la constatazione che questo tipo di poesia fallisce quello che vorrebbe essere il suo obiettivo e che non indica alcuna via nuova, perché ripercorre soluzioni già abbondantemente e meglio sperimentate. Hass si è formato - ed ha attinto - su modelli sulfurei e rivoluzionari, violentemente iconoclasti, come Allen Ginsberg e la Beat Generation (non lo dico io ,ma le sue frequentazioni e dichiarazioni). E' stato un forte attivista politico e questo gli fa onore. Ma l'obiettivo che fallisce è il dramma di una generazione che ha creduto nel cambiamento e si scontra col dramma della sua irrealizzabilità. Rimane in superficie, piatto. Non c'è dramma. Questo è un tema prettamente americano, molto più che europeo. Non ha nulla in comune con la poesia di Sylvia Plath o di Anne Sexton, che è legata profondamente al loro essere donne e al dramma di esserlo. Tra l'altro entrambe si tolsero la vita. L'una schiacciata da un marito ingombrante e dalla depressione, l'altra ricoverata in una clinica psichiatrica. Ma queste loro vicende tragiche non hanno nulla a che vedere con la bellezza feroce dei loro versi e con la potenza della loro parola. E' un errore equiparare le vicende biografiche al valore artistico. Certo, la biografia permette di capire meglio, ma non può essere base per un giudizio di valore. La poesia - l'arte - esulano dall'individualismo, devono trascenderlo e assumere un valore universale per essere arte.
Mi pare invece che le immagini ricordino i quadri di David Hockney, solo che in Hockney la desolazione e la solitudine (l'infrangersi del sogno americano) sono assoluti protagonisti.
Hass è solo piatto.
Quanto alla traduzione, (al di là del testo in sé e per sé) non è che sia scarna, è proprio brutta e credo di avere sufficiente esperienza per dirlo. Chi mi conosce sa perché. Nonostante la piattezza - voluta o meno - del testo, la scrittura è elegante e la forma scabra (non scarna!) La traduzione invece è tirata via, senza alcuna ricerca di un analogo effetto in italiano.
Es: "Some mornings, for a time, when I was ten or so" - tradotto: "qualche mattina, per un periodo, io avevo più o meno dieci anni". Non era meglio: "certe mattine, per un po', avevo circa dieci anni"? Più aderente all'asciuttezza del testo.
Ancora: "handed her/ The glass and watched her closely while she drank.
It was the late nineteen-forties, a time,
A social world, in which the men got up.."
"le porgeva/ il bicchiere e la controllava attentamente mentre beveva.
Si era negli ultimi anni ’40, un’epoca,una società in cui gli uomini si alzavano..."
Meglio: "Le porgeva il bicchiere e la osservava attentamente bere. /S'era alla fine dei '40 ecc."

E alla fine, proprio travisando il senso:
"We get our first moral idea
About the world – about justice and power,
Gender and the order of things – from somewhere."

"La nostra prima idea morale
del mondo—su giustizia e potere, sul genere
e sull’ordine delle cose—deve pur venire da qualche parte."
Non è affatto: "deve pur venire da qualche parte", una sorta di concessivo, ma una constatazione: "Traiamo la nostra prima idea morale ecc... da una qualche parte (o da una parte qualsiasi)". Cosa ben diversa.

Francesca Diano ha detto...

Ennio, quando pubblichi un testo e poi la traduzione, va sempre indicato il nome del traduttore per correttezza e precisione. Grazie. Questo comunque so chi è e ho già visto in passato altra roba sua...

Moltinpoesia ha detto...

Francesca, non per pignoleria: ho linkato la fonte da cui ho tratto questa poesia e lì il nome del traduttore è indicato.
Per tutto il resto ( piattezza o epigonismo del poeta, sciattezza della traduzione) sono in parte (ma con tolleranza ed elasticità!) vicino alle tue critiche.
Dietro i tuoi rilievi io intravvedo, però, una questione ben più spinosa: quali testi proporre su un blog che è nato come "moltinpoesia" e dovrebbe affrontare proprio questa questione: che significa "essere moltinpoesia" oggi.
Ne abbiamo discusso anche nel Laboratorio Moltinpoesia ed esiste una reale contraddizione. Non so se può essere ancora affrontata dialetticamente, evitando snobismi dal basso e snobismi dall'alto. Ma io ci provo. Ora non posso approfondire le varie posizioni, ma ne riparleremo prima o poi...

Francesca Diano ha detto...

Caro Ennio, sì avevo visto, ma secondo me è sempre meglio. Comunque grazie e grazie anche della passione e del tempo che dedichi a questo lavoro, non facile. Non voglio sembrare troppo critica, ma è che, pur disordinata come sono nel quotidiano, quando si tratta di scrittura e di parole sono tutto l'opposto. Mi pare che le parole abbiamo un valore e una potenza enormi e trovo fastidioso questo spacciarsi per traduttori di "grandi poeti americani" o cose analoghe quando salta agli occhi l'opposto. Comunque, perdonatemi. Ognuno ha le sue idiosincrasie....
Quanto alla questione che poni, è importante e molto interessante in effetti. Appena sarò un po' più libera, se ti fa piacere e se vuoi, posso proporre qualche poeta interessante.

Anonimo ha detto...

Forse di quelle pubblicate su LPLC questa proposta da Ennio è la peggiore. Fra tutte avrei fatto altra scelta. Francamente non sono così negativo ma certo, se lo si confronta con il precedente poeta americano sempre tratto da LPLC, Weldon Kees (ricordate?), è un altro mondo (ma poi, vabbè, si possono fare confronti del genere...?).
Il lato positivo sono le immagini, ma non mi fa pensare ai dipinti di David Hockney. Tutt'altre atmosfere.
Grazie e ciao
Flavio

Moltinpoesia ha detto...

Ennio Abate:

Benissimo. Aspettiamo...

Anonimo ha detto...

Nemmeno io volevo essere negativo. Quando ho scritto che è "tipicamente americano" volevo esprimere una constatazione , non un giudizio. Mi sembra però che la vastità della visione americana, da Whitman a Ginsberg, abbia subito nel tempo una notevole metamorfosi, al punto che non mi sentirei di tentare accostamenti.
mayoor

Anonimo ha detto...

Mah...Il pezzo è anche bello ma più che poesia...mi pare prosa in colonna...Non so...e poi c'è sempre la questione della traduzione...
Insomma, non mi soddisfa.

Augusto Villa

giorgio linguaglossa ha detto...

Cari Ennio Abate e Francesca Diano,
ritengo la composizione in questione un tipico esempio di prodotto pseudo poetico di quella clericatura internazionale, di quella piccola borghesia internazionale che adotta in modo del tutto acritico a aproblematico il quotidiano con la visione del quotidiano. Il raccontino del compositore statunitense è banale, prevedibile, grigio e anche oltremodo sciocco; non ci sono salti, metafore, analogie,non c'è svolgimento, c'è solo una piattezza unidirezionale che vuole mimare la superficie della prosa. Ma allora perché l'autore non scrive direttamente in prosa? Che poi il personaggio in questione venga dichiarato il maggior poeta americano è una asserzione che illumina i gusti della clericatura italiana che lo ha battezzato poeta. Davvero, qui siamo alla maxima banalità possibile! Ma allora, andiamoci a rileggere le poesie di Transtromer! Andiamo a lezione di un grande e di come il poeta svedese impiega il quotidiano e la metafora!

Anonimo ha detto...

"uno dei maggiori poeti americani contemporanei", questo riportava il post di LPLC, forse in maniera un po' roboante ma non del tutto gratuita; e comunque un po' diverso da "il maggior poeta americano". Così, tanto per essere precisi.
Che poi ci voglia la "clericatura italiana" per battezzare Robert Hass "poeta", mi sembra una forzatura che oltremodo sopravvaluta l'influenza internazionale di tale supposta "clericatura".
Del CV di questo poeta(http://www.poetryfoundation.org/bio/robert-hass), ovvio, siamo padronissimi di fregarcene bellamente.
Un saluto
Flavio Villani

Moltinpoesia ha detto...

Ennio Abate:

Provo a difendere non l’indifendibile ma - questo per me il problema - una direzione di lavoro della poesia, quella che la spinge verso la realtà (e la prosa o il contenuto privato-sociale-storico) presente comunque, al di là della resa formale, sulla quale possiamo discutere, ma senza le stroncature che ho notato nei commenti e che a me paiono contenere qualcosa di eccessivo, anche quando le si volesse accogliere (tra l’altro ho già detto che parte delle critiche posso farle mie «ma con tolleranza ed elasticità!»).
Non mi convincono alcuni degli argomenti usati.

A Francesca Diano chiederei: un testo poetico può essere squalificato perché «non è profondo né oscuro di per sé»?
Sì, ma da un lettore che riconosce come poesia SOLO quella che mira a un certo tipo di profondità od oscurità: quella degli ermetici o dei neo-orfici per intenderci. Non ci sto. Mai accetterei che venisse cancellato come poeta un Brecht che, al di là del suo attenersi (per evidente scelta poetico-politica) a un dettato chiaro e “comunicativo” rivolto a precisi destinatari, è profondo e anche oscuro; ma in modo diverso dai poeti ermetici e neo-orfici.
Hass « non indica alcuna via nuova, perché ripercorre soluzioni già abbondantemente e meglio sperimentate»? Può darsi. Ma perché non ci sarebbe «dramma» in questo suo componimento?
« Non ha nulla in comune con la poesia di Sylvia Plath o di Anne Sexton, che è legata profondamente al loro essere donne e al dramma di esserlo»?
E con questo? Dovrà pur battere strade diverse da quelle di Ginsberg e della Beat Generation o della Plath e della Sexton (non potendo ovviamente “esser donna”). E magari sarebbe interessante capire quanto si distacchi da quei modelli pr muoversi in altra direzione, che sarebbe meglio capire, invece di limitarsi a misurarne lo scarto dai suoi «sulfurei e rivoluzionari» predecessori.
Quando un contesto storico cambia, chi ha antenne sensibili non può ripetere modelli anche gloriosi. È giusto perlopiù che i nani salgano sulle spalle dei giganti per vedere di più e più lontano. Ma a volte tocca anche scendere e esplorare rasoterra. Non è di per sé un male.

Il contenuto del testo di Hass attira l’attenzione, pone domande, «fa pensare» (Emy). A me questo piace.
Ad Alda Cicognani ha ricordato « i film e la letteratura degli anni cinquanta, così neorealistici».
Non mi spingo però alle considerazioni umanistico-esistenziali di Emy. Né provo tenerezza per quella «voce atona, rassegnata» (Cicognani). Mi trattiene il timore che, così facendo, il testo poetico POTREBBE diventare un semplice pretesto: o per abbandonarsi a considerazioni ideologiche («La vera giustizia e morale, credo che arrivino dai bambini è da li che nasce, libera e senza potere, guardiamoli,ascoltiamoli», Emy) o per isolare SOPRATTUTTO i suoi contenuti psicologi e sociologici («questa dolce tristezza, questo controllato rimpianto( poteva esserci una madre che non beve vomitando in accappatoio, ma una mammetta arzilla e americanamente intenta alle faccende)», Cicognani).

A Giorgio Linguaglossa, quando fa (e le ritengo legittime) osservazioni sempre drastiche del tipo «Il raccontino del compositore statunitense è banale, prevedibile, grigio e anche oltremodo sciocco» chiederei solo di documentarle nel dettaglio. Soprattutto non capisco quegli aggettivi («banale», «sciocco») attribuiti a QUESTO “racconto”. E poi: se ci fossero «salti, metafore, analogie», se l’autore scrivesse le stesse cose direttamente in prosa, si riscatterebbe?
Salto l’insistenza con cui ripete che Hass è stato presentato come «il maggior poeta americano» mentre è scritto: «uno dei maggiori».

[Continua 1]

Moltinpoesia ha detto...

Ennio Abate (continua]:

Infine ci sono problemi di fondo del giudizio critico su un testo che sono appena sfiorati dalle diverse reazioni (mie, di Emy, di Alda Cicognani da una parte; di Francesca Diano, Giorgio Linguaglossa e in parte Mayoor) a questo testo di Hass.
Ne parlai in un intervento in risposta a Leonardo Terzo ed è leggibile su questo blog qui: http://moltinpoesia.blogspot.it/2011/02/ennio-abate-da-quali-nemici-e-falsi.html.
Stralcio qui un lungo passo che mi pare li metta a fuoco. È un po’ lungo da macinare, ma ho sempre fiducia che anche sui blog su possa pensare e non semplicemente battibeccare. E perciò lo copio per chi avesse voglia di rifletterci, avvisando che ho evidenziato in maiuscolo due passi maggiormente collegabili a questa nostra discussione:

«Chi invece, a mio parere, ha riflettuto a fondo e in maniera più convincente sull’ambiguità della forma (in poesia, nell’arte) è stato Franco Fortini, nome del resto non a caso tanto spesso da me richiamato in questo blog. Ho riletto per l’occasione un suo scritto, Poesia e antagonismo (pag. 199 di Non solo oggi, Editori Riuniti 1991). […]

Perché mi sento più vicino alla posizione di Fortini? Per varie ragioni: Fortini non si limita a un discorso puramente o esclusivamente estetico su quel complesso “oggetto” che è una poesia o un’opera d’arte; è più attento a indagare l’”impasto” ambiguo di storia, ideologia, immaginario, che forma una poesia; non sottrae al lettore comune (che non sempre è “fesso”, “ingenuo”, “profano”, ma a certe condizioni spontaneamente critico e indagatore curioso) l’interpretazione di un testo per consegnarla ai reali o supposti “specialisti della forma”, dai quali il lettore dovrebbe dipendere; non concede al poeta o all’artista un “lasciapassare”, una sorta non dico di impunità, ma di irresponsabilità etico-politica-conoscitiva. Mentre a me pare che Terzo, quando dice: «Il compito specifico del discorso letterario è operare al livello inventivo e immaginativo dell’originalità: se non è formalmente innovativo non è politicamente efficace, e neanche politicamente corretto», propone come unico o prevalente obiettivo della comunicazione poetica o letteraria o artistica l’«originalità» della forma. Esenta così il poeta, il letterato, l’artista dalla preoccupazione o dal compito – attenzione! – non dell’impegno (o dell’impegno politico, di cui dirò più avanti), ma da ogni verifica della politicità che è intrinseca all’uso sociale e politico dei linguaggi (di tutti i linguaggi) compresi quelli poetici, artistici e letterari. Raggiunta una forma innovativa, ne discenderebbe per Terzo che il discorso letterario (o una poesia o l’arte) avrebbe in teoria le “carte in regola” per diventare «politicamente efficace». Poi, se non lo diventa, questo dipende più dai lettori che dall’autore. Per me no: il nuovo, l’originale in poesia o in arte non è di per sé automaticamente positivo o politicamente efficace. È semplicemente nuovo. È semplicemente originale. Non è detto cioè che novità o originalità o bellezza o autenticità, quando siano raggiunte in poesia o nell’arte, costituiscano un valore quasi assoluto che sfugga di per sé all’ambiguità strutturale della poesia. La poesia o l’arte non riesce a fare tale “miracolo”. Resta solo «promessa di felicità» e, come si sa, le promesse possono aleggiare nel vuoto per secoli e indurre effetti narcotici.

5. Ecco perché c’è da insistere di più sull’ambiguità della forma. Non basta raggiungerla. Bisogna interrogarsi su che tipo di forma è stata raggiunta e che funzione ha e che uso essa stessa già induce o suggerisce. Perché non è neutra o univoca. Proprio perché ambigua e perché invia ai lettori un messaggio polisemico e – aggiungo con Fortini – contraddittorio. Proprio perché è un “assaggio” (promessa) di felicità ma non è felicità.
[Continua 2]

Moltinpoesia ha detto...

Ennio Abate (continua):


E poi va considerata l’ambiguità degli stessi lettori, che comunque la percepiscono (quando effettivamente ci riescono) attraverso altri filtri distorcenti: quelli della loro ideologia di riferimento o dell’immaginario che hanno ereditato. Ideologia e immaginario dei lettori interferiscono parecchio con il processo conoscitivo “normale” previsto dagli specialisti. Che normale non è quasi mai. In quanti casi avviene effettivamente?

Cosa vede in Guernica un professore di storia dell’arte e un turista di una comitiva di massa o un turista europeo o un turista giapponese o africano? Davvero, come sostiene Terzo, una poesia o un’opera d’arte è sempre capace di «rivelare uno spostamento di visione in un’altra prospettiva»?

La fiducia nella potenza della forma mette, secondo me, sullo sfondo o oscura troppe cose che finiscono per addolcirne o occultarne l’ambiguità. Basti pensare al fatto stesso che i giudizi (solo) estetici, pur non essendo completamente arbitrari, sono «necessariamente condizionati dal contesto sociale e ideologico» e «possono essere sottoposti a confutazione e revisione» (Terzo). Oppure agli effetti derivanti dal fatto che «arte e ideologia non sono sfere irrimediabilmente separate e antagonistiche» (Terzo). O che «la letteratura e la dimensione estetica possono prestarsi all’utilizzazione politica o resistervi» (Terzo). O ancora al fatto che «la complessità e la difficoltà interpretativa si prestano a de-familiarizzare la cornice ideologica entro cui operano, ma sia da posizioni conservatrici che da posizioni radicali» (Terzo). In quest’ultimo caso è come dire che la cornice ideologica di un testo non viene mai del tutto meno e che l’opera può essere tirata sempre da una parte o dall’altra da critici e lettori, comunque sotterraneamente spintonati anch’essi dalle loro ideologie e dai loro immaginari. Essere, dunque, valorizzata ora per i suoi elementi “conservatori” ora per quelli “innovatori”.

7. E allora preferisco chi, come Fortini, mi mette la pulce nell’orecchio. In maniera decisa egli insisteva sul fatto che la forma – anche quando è - o proprio perché è - forma (e quindi efficace, coerente con il contenuto, magari anche “bella”) - non smette mai di avere a che fare con un universo ideologico e storico pervaso dal conflitto; è comunque essa stessa impregnata di tale conflitto; e, proprio perché vi può alludere comunque solo in modo ambiguo, suscita reazioni diverse e prevede letture diverse, tutte da considerare e valutare. Per questo diffido soprattutto dei “formalisti puri” (Terzo non mi pare che lo sia davvero) così propensi ad autonomizzare in assoluto la forma (la poesia o addirittura la Poesia) dal resto, da ciò che forma non è, da ciò che non raggiunge la forma, da ciò che va messo da parte o cancellato o rimosso o dimenticato perché ci sia forma.
FORTINI DICEVA CON CHIAREZZA ESTREMA SIA CHE LA FORMA È AMBIGUA SIA CHE, DI CONSEGUENZA (E NON SOLO PER PROCESSI SOGGETTIVI DEL LETTORE) ESSA SUSCITA DUE MODI DI RICEVERLA, DI LEGGERLA CHE EGLI GIUDICAVA ENTRAMBI «FONDAMENTALI E ANTAGONISTI» E CHE, MUTUANDO I TERMINI DA HEGEL, CHIAMAVA SIGNORILE E SERVILE. IL PRIMO, DICEVA FORTINI, LEGITTIMA L’ESISTENZA FORMALE (FA DELLA FORMA L’ELEMENTO CENTRALE). IL SECONDO, QUANDO NON LA NEGA DEL TUTTO (NEI CASI PIÙ “INGENUI” O “ROZZI”, QUANDO SI FA CONFUSIONE TRA ARTE E VITA, POLITICA E POESIA), CHIEDE SOPRATTUTTO «MESSAGGI E NON FORME». PERCIÒ I LETTORI DELLA POESIA, QUELLI “INGENUI” E QUELLI “RAFFINATI”, HANNO PER LUI – RIPETO - DUE ATTEGGIAMENTI ENTRAMBI SIGNIFICATIVI («FONDAMENTALI») E NON FACILMENTE CONCILIABILI («ANTAGONISTI»): C’È CHI BADA AL CONTENUTO (O DI PIÙ AL CONTENUTO) E CHI «CONTEMPLA IL GIOCO DELLA SUPERFICIE VERBALE» (O SOPRATTUTTO QUESTO). E QUESTO DISSIDIO FONDAMENTALE E ANTAGONISTA LO VIVONO, CREDO, GLI STESSI POETI.

[Continua 3]

Moltinpoesia ha detto...

Ennio Abate (continua):


8. A differenza di Terzo (ma anche di Adorno) che sembrano voler quasi espungere la «referenzialità» dal testo poetico o la considerano secondaria, per cui più l’artista è innovatore quanto più da quella referenzialità (storica, sociale, politica, ecc.) si distacca, Fortini riconosceva (meno dogmaticamente, meno partigianamente, meno corporativisticamente, pur essendo stato un critico letterario di valore riconosciuto) il valore e il limite di questa ambivalenza intrinseca della poesia (e dell’arte) e la legittimità e problematicità delle due letture (signorile e servile) che la storia della società in un certo senso continua ad imporre e dalle quali non è facile liberarsi. Egli manteneva aperto e approfondiva il discorso là dove Terzo lo interrompe per predilezione dell’estetica e del formalismo. E non a caso mentre Terzo chiede il rispetto del “privilegio” della comunicazione artistica, Fortini vedeva uno dei segni di grandezza di un’opera di poesia e d’arte nella capacità di scartare gli “amici della poesia” (gli esteti) e di puntare ai suoi “nemici” apparenti, cioè a quelli che s’aspettano «messaggi e non forme». Non accettava per questo il loro “rozzo pregiudizio”, ma come poeta e come critico si assumeva in pieno il compito di misurarsi con la dimensione non-letteraria e non-poetica, con la pressione”barbarica” che mette in discussione i propri otia:

«Chi ha valutato positivamente quella pressione “barbarica” (Goethe tutti i classicismi) ne ha tratto che esistono “soggetti” buoni o cattivi, temi e forme di “destra” o di “sinistra” e che l’esito formale, l’intima coerenza eccetera non sono il criterio dell’eccellenza ma solo una sua frazione» (Poesia e antagonismo, in Non solo oggi, p. 204) [sottolineatura mia].

Terzo in modi professorali tende a chiudersi proprio almeno a un certo tipo di pressione “barbarica”, a ridimensionarla se non a demonizzarla. Fortini, invece, richiamandosi ad Hegel e ricordando che per il filosofo tedesco «la vita può mantenersi solo in prossimità della morte», sosteneva non una semplicistica separazione tra arte e vita, ma una tensione continua tra poetico ed extrapoetico ( tra arte e vita, tra arte e politica):

«Il discorso poetico può mantenersi solo se accetta la propria continua contestazione compiuta dal discorso extrapoetico ossia da una lettura comunicativa-pratica» (Poesia e antagonismo, in Non solo oggi, p. 205)

[…]
Concludendo. TRA I CRITICI, SECONDO FORTINI, ALMENO FINO AGLI ANNI SETTANTA DEL NOVECENTO, POTEVAMO INCONTRARE DUE TIPI: QUELLO CHE EDUCAVA AD AVERE «VERGOGNA DELLA LETTURA ROZZAMENTE CONTENUTISTICA OSSIA A PRIVILEGIARE LA LETTURA “POETICA” O “FORMALE” DEI TESTI LETTERARI E A INSOMMA DOMARE I SELVAGGI, CHE VOGLIONO SAPERE… A CHE COSA E CHI SERVONO LA POESIA E L’ARTE E CHI DEI CONTENDENTI ABBIA RAGIONE» ; E QUELLO CHE, COME IL PRIMO FORTINI, SEGUIVA LE TRACCE DI UNO «SPERANZOSO UMANESIMO, CHE DELLA EDUCAZIONE ALLA FORMA POETICA FACEVA SOLO UN CASO DELLA, E UN ITINERARIO ALLA, TENDENZIALE FORMALIZZAZIONE DELL’INTERA ESISTENZA». OGGI IL REVISIONISMO ANCHE IN LETTERATURA E POESIA HA CANCELLATO QUASI QUESTA SECONDA POSIZIONE E A ME PARE CHE IL FORMALISMO ABBIA PRESO TUTTA LA SCENA (ALMENO A LIVELLO UNIVERSITARIO). BISOGNA CONTRASTARLO. E CONTRASTARE IL SUO SOGNO DI AUTONOMIA A TUTTI I COSTI DELLA POESIA E DELL’ARTE.»

[Fine]

Annamaria ha detto...

...provo ad esprimere un commento sulla poesia che mi é piaciuta. Lasciare in custodia ad un bambino un'adulta alcolista, un rovesciamento di ruoli che non lascia scampo alle illusione e pone con crudezza la condizione dell'esistere già dall'infanzia. Certo la poesia si presenta priva di quella musicalità che spesso accompagna la stesura poetica e che immette in una sorta di fiume la cui corrente trasporta a valle a propria insaputa, come rinfrescati e rigenerati(l'effetto scarno potrebbe anche dipendere da una traduzione poco curata, ma non credo). No, qui anzi il ritmo é spezzato, proprio come quella pastiglia del tutto vana da cui dipende la serenità della famiglia.
Questo significa mancanza di forma? O una precisa scelta di linguaggio poetico? Un "verismo poetico" all'americana? Anche accostare riferimanti a film e fumetti(ricordi dell'infanzia) a un'immagine tratta dall'Eneide mi sembra molto americano, ma non nel senso dispregiativo, semplicemente di una cultura diversa, dove quella europea non é più al centro...
Annamaria

Anonimo ha detto...

Dopo aver strapazzato le mie cinque diottrie per mezz'ora esatta ( Ennio , ti prego , recepisci il grido di dolore degli stoici frequentatori : aumenta la dimensione dei caratteri in funzione della leggibilità , grazie ! ) ; dicevo : dopo accurata lettura del testo e dei commenti sono giunto a questa riflessione non so quanto maldestra peraltro già espressa tra i commenti al libro di Giuseppe Pedota : la critica , il giudizio di "valore" dovrebbe rifarsi a quello che la poesia è , non a quello che vorremmo che fosse . E' la nostra faziosità fisiologica legittima sacrosanta che andrebbe padroneggiata / gestita , dimenticandoci ogni volta della poesia in cui ci riconosciamo , " che ci dice veramente qualcosa ", per la quale possiamo dire " è valsa veramente la pena di leggerla e rileggerla ".
Si tratta di una generosità / disponibilità / attitudine che non si impara , si possiede o non si possiede , e che prescinde ( impresa iperbolica ) dal pedigree dello scrittore in questione . Io sono sempre dell'idea che per fare ( tentare ) un contropelo "verace" a un testo bisognerebbe presentarlo anonimo : qui si potrebbe capitalizzare dialetticamente un contraddittorio che non porterebbe certamente a conclusioni definitorie e definitive , ma quantomeno ad avvicinare quel benedetto giudizio di "valore" che rimane l'affascinante utopia della critica letteraria nei secoli dei secoli .

leopoldo attolico -

Anonimo ha detto...

Il definitivo in poesia è difficilissimo. Il tentativo di raggiungerlo è ciò che di più grande si possa chiedere al poeta e al critico. Credo che il voler lasciare la critica nell'utopia del giudizio di "valore" sia ciò che di più giusto si possa fare per il poeta e la poesia, se non altro per poter continuare ad essere critici e poeti (volevo aggiungere l'aggettivo veri, ma non serve o lo si è o non lo si è). Emy

Moltinpoesia ha detto...

Ennio Abate:

Caro Leopoldo,
per ora solo questo:
non sono un sadico... ogni programma ( Chrome, Mozilla Explorer) ha un comando che permette all'utente di ampliare a suo piacimento (in Visualizza> zoom...) i caratteri dei post.

Anonimo ha detto...

Grazie delle indicazioni caro Ennio , ma per me tutti questi marchingegni - computer telefonini i pad - sono arabo , conosco solo le cose elementari , sono corpi estranei per le mie attitudini di ottuagenario...
Una menzione particolare alla tua pazienza .

leopoldo -

Anonimo ha detto...

Giorgio Mannacio:


SU HASS.
Posto che alla fine di osservazioni più o meno lunghe si arriva a dire “ a me piace perché…..”darò subito il mio giudizio: la poesia di Hass la trovo veramente brutta.
E’ una stroncatura ? Sì. Perchè non si dovrebbe stroncare? In fondo il Nostro non deve essere già soddisfatto che qualcuno lo crede un poeta notevole ? Una disavventura può capitare a chiunque.
Mi stupisce che di fronte ad un testo che pretende ( del tutto legittimamente ) di essere considerato “ testo poetico “ si invitino coloro che dissentono a dimostrare la fondatezza della loro opinione.
Dovrebbe esserne il poeta “ a produrre in giudizio “ le prove della sua affermazione.
Vediamo un po’ che prove potrebbe addurre Hass.
Potrebbe dire che la sua poesia piace ad Ennio Abate e qualche altro del gruppo. Benissimo. A tale giudizio si contrappongono il mio e quello di Diano ( mi pare ) [ndr: ma anche di Linguaglossa]
Nessuno dei due opposti schieramenti mancherebbe di argomenti per sostenere la propria tesi . Per un minimo di “ decenza intellettuale “ nessuno dei due schieramenti oserebbe richiamarsi al dicktat : “perché lo dico io “ e ciascuno di essi cercherebbe l’appoggio esterno di una qualche “ autorità “. E questo ci porta alla fine del discorso ( o ai suoi inizi ).
Non ho nulla contro l’aforisma ( che ha antenati illustri ) secondo cui “ è bello ciò che piace “ . Avrei qualcosa da obbiettare se tale aforisma si trasformasse in quello: “ è bello ciò che MI piace “.
Se si resta ancorati , e consapevolmente ancorati , al giudizio strettamente soggettivo il discorso è inesorabilmente chiuso. Ma questa esemplificazione non soddisfa nessuno, o così mi pare di capire.
Ma andiamo un po’più avanti. Mi sembra curioso trasferire un termine proprio dell’estetica ( “ mi piace “) al campo della conoscenza ( “ mi piace perché mi fa pensare “ ). Anche Relatività: esposizione divulgativa di A.Einstein mi fa pensare – e come ! – ma mi guardo bene dal dire che “ mi piace “. Diciamo, con un certo rigore terminologico, che mi interessa moltissimo.
O forse la categoria dell’estetico non esiste più? E’ una ipotesi da verificare.
Non mi pare che lo scritto di Ennio Abate conduca a questo risultato estremo, risultato che – alla fine – non mi può spaventare più di tanto. Ma non voglio fare l’apocalittico a costo zero.
Mi interessa – dialetticamente –pensare che non sia così e mi pare che tale conclusione sia anche di Ennio Abate. O sbaglio?
Se si arriva a questa condivisa conclusione e si salva un qualche principio estetico,il discorso si trasferisce altrove e ci porta ad indagare i confini di tale territorio e le condizioni di cittadinanza in esso.
Dimentichiamo, in tale prospettiva di indagine , la “ mera soggettività individuale “ ( da parte mia si è trattato di una ipotesi provocatoria indispensabile per portare avanti il ragionamento ) e dedichiamoci all’indagine di un gusto che sia “ quantitativamente significativo “, dia luogo cioè ad una sorta di “ quadro di riferimento culturale “ dotato di una qualche rilevanza oggettiva, per quanto possibile.

[Continua]

Anonimo ha detto...

Giorgio Mannacio (continua):


Da qui, è ovvio, si diparte un filone che riguarda specificamente “ la critica “. Lo lascio per altre occasioni.
Vorrei dare un senso più compiuto al termine “ ambiguità della forma “ che Ennio Abate mutua da Fortini.
Da un lato e in generale , ambiguità implica la contemporanea appartenenza a campo di esperienza astrattamente diversi e ben definitì nella loro identità. Se si attribuisce tale ambiguità alla forma credo di capire che essa più o meno arbitrariamente tenda ad invadere il campo del “ contenuto “ e pretenda di imporre ad esso il suo statuto. Non so se colgo perfettamente il pensiero di Fortini ma mi sembra che esso sia influenzato da una sorta di “ ossessione “ tra il campo dell’ esperienza politica e il campo dell’esperienza estetica in senso proprio. E’ una ossessione ( mi si passi il termine che allude ad un travaglio e non vuol essere spregiativo ) che segnala – in ogni caso – la “ presenza dell’estetico “. Tende ad esorcizzarla ? Dunque ad esso dobbiamo per forza tornare? Pare che di essa non ci si possa sbarazzare tanto facilmente.
Poichè abbiamo abbandonato la “ mera soggettività individuale “, dobbiamo tornare alla costruzione di qualcosa di oggettivamente percepibile che - nel campo di una società qui ed ora riconoscibile – significa parlare di “ gusto collettivo”, di “ moda “ di “ modelli culturali”, di “ critica influente sul gusto e da questo influenzata “.
L’ambiguità si scioglie – deve sciogliersi ( per riconoscere e svelare le identità diverse che ne costituiscono il contenuto enigmatico ) – nell’adozione di criteri di giudizio per assegnare l’esperienza della scrittura ad uno dei campi in discussione.
Non mi sembra contestabile- ancora ambiguità ! – da una lato la relativa oggettività dei criteri sopra indicati e dall’altro la assoluta relatività degli stessi , ambiguità che si scioglie nella “ storicità “ degli stessi e cioè nella loro immanenza ad una società data.
Mi pare che a tutto ciò si alluda quando – con una semplificazione imposta dalla natura estemporanea degli interventi – si accenna alla “ americanità “ di Hass. E’ del tutto persuasivo che la “ cultura “ di laggiù porti a considerarlo un poeta notevole. Ma la globalizzazione delle economie non ci impone ( ancora ) l’adozione di criteri uniformi di giudizio estetico. La “ tradizione “ opera anche come criterio di attribuzione di specificità culturali e, dunque, permette e anzi impone giudizi diversi su esperienze simili. La “ diversità di giudizi “ deriva dal riferimento a diversi criteri di valutazione e non ha mai impedito la comprensione di esperienze artistiche “ diverse quanto ai luoghi “. Hass mi si presenta lontanissimo, ma mi sono vicinissime alcune poesie di popoli africani “ primitivi “
Se, dunque , debbo “ motivare “ la mia stroncatura, posso con estrema chiarezza riferirmi ad un canone occidentale , o a quello che di esso resta, che predica della poesia la sinteticità, la polivalenza di senso,la ricerca stilistica e semantica,l’uso non pubblicitario delle parole,una certo “ manierismo “ come individuazione di un modo particolare di “ dire “ . Non parlo della metrica e dell’armonia ( pure queste appartenenti al nostro canone ) posto che ciò implicherebbe conoscenze linguistiche e rispondenze innate che non ho.
Conosco abbastanza bene ( o mi illudo di conoscerle ) le doti di sottigliezza critica e di rigore intellettuale di Ennio Abate per pensare che egli non sappia e non possa immaginare cosa si intende, nella scioltezza di un discorso estemporaneo, per banalità, piattezza,sciatteria,prosasticità etc che mi sembra emergano nelle voci critiche sulla poesia di Hass.
A proposito del quale mi piacerebbe sapere – perché alla fine il discorso ritorna a tale punto e banalizzo davvero, scusandomi – chi siano i suoi “ sponsor “.
Con questo, come anticipato, si ritorna alla critica e al suo ruolo.

[Fine]

Anonimo ha detto...

Segnalo alcuni refusi, errori di trascrizione in inglese. 1) "And spit (our) later" invece di "And spit hour later". 2) "until the (her) system had absorbed.. " invece di "until the system had absorbed the drug". La traduzione rispetta il taglio colloquiale del testo e risulta abbastanza aderente all'originale. enzo

Francesca Diano ha detto...

Caro Ennio, forse sono distratta, ma dov'è che ho scritto che un testo poetico dev'essere "profondo e oscuro di per sé"? Non riesco a trovare il punto. Anche perché non direi mai una cosa del genere. Direi però che un testo, poetico o meno, una profondità debba averla. L'arte è la ricerca di un senso delle cose. La vicenda del singolo deve essere trascesa per divenire strumento di conoscenza e in questo modo acquisire un valore universale. La grande poesia - compreso Brecht, cui mi pare tu faccia un torto appaiandolo a Hass - (è chiaro e comunicativo, ma che forza, che potenza e che dramma!) va alla radice delle cose. Che lo faccia con un linguaggio oscuro o limpido e trasparente non importa. Ma se non diviene "forma", arte non è. Che c'entrano gli ermetici e i neo orfici con le critiche che ho fatto? Ho solo detto che, con tutto il rispetto per il dramma umano di Hass, che questo rimane il "suo" dramma, la "sua" vicenda e non la trascende.
Cosa che invece fanno i suoi modelli, da Ginsberg in poi. Va benissimo che Hass batta strade diverse dalla Beat Generation, magari lo facesse! Invece vuole percorrere le stesse strade (quelle del dramma americano, cioè del fallimento del sogno americano) ma lo fa senza quegli strumenti di potenza rivoluzionaria che loro hanno avuto, Kerouac più di chiunque altro. Se hai visto, poi, ho anche scritto che il suo è uno stile elegante, ma questo non basta.
Comunque, sì, io in un testo poetico cerco profondità, superamento della propria egoità, la ricerca di una visione del mondo che possibilmente sia nuova.
Ho detto che non c'entrano Plath e Sexton solo perché erano state portate in causa da Alda Cicognani e non ne vedevo i nessi e ho spiegato perché. Ho anche spiegato perché, ed è inutile che lo ripeta, quale sia lo scarto dai suoi modelli.

Moltinpoesia ha detto...

Ennio Abate a Francesca Diano:

Cara Francesca,

prima mi permetto un utile suggerimento tecnico. Quando si cerca una determinata parola o frase in una pagina Web, basta copiare la parola o la frase nella casella del ‘Trova’ e automaticamente appare evidenziata sullo schermo del PC. Risparmia molta fatica.

Nel merito, la mia obiezione («A Francesca Diano chiederei: un testo poetico può essere squalificato perché «non è profondo né oscuro di per sé»?») si riferiva a:

Francesca Diano23 maggio 2012 15:59
«Aggiungo poi che la traduzione è proprio misera per un testo che già non è profondo né oscuro di per sé».

Io ho generalizzato, certo. Ma, del resto, è opinione che ribadisci ancora adesso, quando scrivi:
« Direi però che un testo, poetico o meno, una profondità debba averla».
Se non si assolutizza o estremizza, posso ben concordare con te. Sempre, però, in generale, perché a volte anche i testi leggibili o “piatti” hanno le loro profondità, che vanno individuate e discusse caso per caso. E facevo polemicamente il nome di Brecht, perché molti lo pensano autore “piatto”, “ideologico”. Non però «appaiandolo a Hass» ( deduzione tua).

«Che c'entrano gli ermetici e i neo orfici con le critiche che ho fatto?».
C’entrano sempre come esempio.
Come ho fatto il nome di Brecht per indicare un poeta che comunemente viene considerato troppo piatto e “terrestre”, ho nominato gli ermetici come esempi di un modo di far poesia volutamente mirato alla ricerca della Parola profonda e oscura (per i profani ovviamente!) e, dunque, quasi sempre sacerdotale.

Chiarite queste questioni, che ritengo tutto sommato marginali, mi aspetto, se possibile, che il discorso si sposti su quella centrale presente nel mio lunghissimo (e, credo, argomentato) commento.
Quale, mi chiederai.
La indicherei in questo passo di Fortini che ho evidenziato in maiuscolo (solo per ragioni tecniche: nei commenti non ci sono i corsivi…):

TRA I CRITICI, SECONDO FORTINI, ALMENO FINO AGLI ANNI SETTANTA DEL NOVECENTO, POTEVAMO INCONTRARE DUE TIPI: QUELLO CHE EDUCAVA AD AVERE «VERGOGNA DELLA LETTURA ROZZAMENTE CONTENUTISTICA OSSIA A PRIVILEGIARE LA LETTURA “POETICA” O “FORMALE” DEI TESTI LETTERARI E A INSOMMA DOMARE I SELVAGGI, CHE VOGLIONO SAPERE… A CHE COSA E CHI SERVONO LA POESIA E L’ARTE E CHI DEI CONTENDENTI ABBIA RAGIONE».

Qui è indicato, a mio parere, un dato di fatto reale, storico: noi valutiamo i testi (siamo costretti in parte a farlo) dalla collocazione diversa (non solo materiale, ma di immaginario, di desiderio, di attese) che abbiamo nella vita.
Se soggettivo è il mi piace/non mi piace del “semplice” lettore, un grado più raffinato ( a volte mascherato) di soggettività c'è anche quando ci spostiamo ai livelli "più alti" del discorso estetico o filosofico, tra i lettori “forti” o che “la sanno lunga”. Per non parlare degli specialisti.
Sul testo di Hass, in piccolo e quasi per caso, si sta delineando - credo - proprio lo scontro di cui parla Fortini: tra le opinioni più "formaliste" e quelle più "contenutiste".
Scontro davvero interessante, se… andasse in profondità!


P.s.
Preferisco collocare qui la mia risposta a Francesca Diano01 giugno 2012 18:59 perché risulta più facile da rintracciare.

Francesca Diano ha detto...

Francesca Diano23 maggio 2012 15:59
«Aggiungo poi che la traduzione è proprio misera per un testo che già non è profondo né oscuro di per sé».

Caro Ennio, è proprio vero che le parole scritte (e non solo) si prestano a essere intese a seconda del proprio punto di vista! Mi spieghi, di grazia, come hai potuto interpretare questa mia osservazione nel senso che hai riportato nel tuo commento? E' chiaro che non lo trovavo, perché non è un giudizio che tu affermi io ho dato del testo!
Ovvio che io parlavo della traduzione, ancora più piatta e discorsiva dell'originale, dato che in alcuni punti, qualcuno dei quali poi da me indicati, farebbe apparire il senso un po' oscuro, perché non lo ha capito, e NON perché il testo è oscuro! Anzi, è piuttosto facile, data la sua ovvietà. Via Ennio, leggi meglio!

Non vedo poi a cosa serva un testo poetico (addirittura se lo si possa definire tale) se non è parte di una poetica, più o meno fondante, più o meno vasta o profonda, che costituisca una visione del mondo quale l'autore ha e a cui cerchi di dare forma coerente. Qui non si tratta di una questione estetica (mi piace o non mi piace) ma di capire cosa sia poesia (cioè di cosa sia arte) e cosa non lo sia.
Va benissimo dare sfogo alle proprie emozioni e sensazioni, se questo rende felici, ma se tutto si riduce a quello, poi non la si può definire "testo poetico" o "poesia". Dato che qui si discetta di "uno dei maggiori poeti americani", di cui ho letto altre cose non migliori di questa, è, credo, utile, stabilire che l'arte è fatta di coerenza (anche nell'incoerenza, forma, tecnica e idea.

Moltinpoesia ha detto...

Ennio Abate a Francesca Diano:

Insisto (spero con grazia!). Nella frase che riporti l'argomento è effettivamente la traduzione ( e infatti dopo ci sono i tuoi rilievi in merito), ma io la preposizione relativa "che già non è profondo né oscuro di per sé" l'attribuisco alla parola 'testo". Ne deduco che ad essere giudicato non profondo e non oscuro sia il testo (di Hass). Anche perché gli aggettivi 'profondo' e 'oscuro' sono al maschile e concordano con 'testo', anch'esso al maschile e non con 'traduzione', che è femminile. Da qui le mie considerazioni.

Francesca Diano ha detto...

Ennio, fai come vuoi. Vedi un po' tu come ti viene più comodo interpretare le mie parole. Se leggerle come dici ti dà l'opportunità di costruirci sopra una teoria su quello che io penso o non penso della poesia in generale e lo sai, parrebbe, meglio di quanto lo sappia io stessa, chi sono io per toglierti questa gioia? Basta così poco a far felice un cuore...

giorgio linguaglossa ha detto...

Cari Ennio, Diana e Giorgio, ritengo che parlare di "ambiguità" della forma rischi di portarci fuori strada. Per semplificare, direi che la «forma» è un precipitato di stratificazioni e di forze eterogenee che, appunto, «formano» il testo poetico. Per tornare alla poesia di Hass direi che il lessico, la periodizzazione delle proposizioni, il piano colloquiale-quotidiano delle proposizioni si avvicina eccessivamente alla leggibilità assoluta delle comunicazioni mediatiche; il difetto principale è che in quella poesia c'è, appunto, un deficit di forma (o di formalizzazione), tipico di un testo poetico che vuole esemplarsi sul paradigma della comunicazione mediatica. Questo deficit di «forma» comporta un'altra conseguenza: un deficit dell'impianto delle retorizzazioni. È anche vero che si può fare poesia senza (apparentemente) l'ausilio di retorizzazioni (come in Brecht), ma qui il discorso si fa più lungo e sottile: e si arriva alla concezione dell«efficacia magica» del linguaggio poetico, cioè im-mediata, tipica del testo di Hass. Ma non è vero, il linguaggio poetico non opera mai come una comunicazione «magica» o «immediata»! Nel testo di Hass c'è una visione acritica sia del linguaggio poetico ridotto ad una utilizzazione «immediata», e quindi ridotto a strumento, che una visione ingenua dei rapporti e delle tensioni appena sottostanti che scorrono all'interno delle proposizioni del linguaggio poetico, così come esso si è sedimentato e solidificato nelle rispettive tradizioni. Insomma, nel testo di Hass si verifica, ad un tempo, una «pacificazione» del quotidiano e una «neutralizzazione» delle potenzialità del linguaggio poetico ridotto a strumento, ad esprimere tutto il «dicibile», o meglio quello che Hass pensa che sia il «dicibile». Ma è un errore (filosofico ed estetico) non è affatto automatico che basti impiantare una serie di proposizioni del quotidiano per attingere la sfera del «dicibile»! Questo concetto e questa procedura sono propri di una visione semplicistica del linguaggio poetico. Insomma, nel testo di Hass si verifica una equazione quotidiano=dicibile. Ma è una equazione falsa! Per il semplice fatto che c'è un quotidiano che esula dal dicibile come c'è un dicibile che esula dal quotidiano! Insomma, sfugge completamente ad Hass (e a coloro della clericatura internazionale dell'internazionale piccolo borghese) che non c'è nulla di più impenetrabile del quotidiano! (come ben ci ammoniva Benjamin). Insomma, di questo passo, adottando questa visione acritica e ingenua del quotidiano e del linguaggio poetico si sta in superficie delle cose, sopra la patina della veste fenomenica delle cose. E le cose restano misteriose (o meglio, ovvie). Tutto il dramma descritto nel testo di Hass è terribilmetne ovvio, ma non è l'ovvietà di chi scopre nel quotidiano il mistero di ciò che ha sempre avuto sotto gli occhi senza averlo visto come accade, per esempio, nelle poesie di Transtromer! Ma forse Hass voleva mostrarci la mancanza di mistero del «reale», ma sbaglia, il reale è un oggetto denso e compatto e complesso che l'arte deve saper svolgere senza semplificazioni ma, direi, attraverso una complessificazione (mi si passi il termine).

Anonimo ha detto...

è caratteristica americana che un individuo maltrattato dalla vita se ne esca con
"La nostra prima idea morale
del mondo—su giustizia e potere, sul genere
e sull’ordine delle cose—deve pur venire da qualche parte."
Da qualche parte… insomma, una scrollata di spalle.
Chi scrive non sembra conservare tracce di devastazione, e per estetica racconta aneddoti. Almeno Bukowski, nel suo tragi-comico faceva ridere.
mayoor

Anonimo ha detto...

Caro Mayoor, davvero non capisco. "Per estetica racconta aneddoti": cosa vuoi dire? Ti sembra il racconto di un aneddoto? E non si era detto che qui la scrittura è piatta, al limite dello sciatto, antitetica rispetto ad una qualsivoglia scelta di estetica poetica? Forse la scelta "estetica" è l'appiattimento in un linguaggio annichilito, "an-estetico", ma qui i discorsi si fanno troppo elevati per me, li lascio a te e agli "specialisti", fuor di dubbio, capaci di costruirci qualche interessante teoria.
In ultimo: da dove deduci che l'ultimo verso rappresenti una "scrollata di spalle" del poeta rispetto al proprio passato ("non sembra conservare tracce di devastazione")? E che tale atteggiamento sia "caratteristica" americana? Si è detto che Hass non è Sylvia Plath o Anne Sexton (a quanto mi risulta anche loro, guarda un po', americane): infatti la sua scelta non è il suicidio.
Ciao
Flavio

Anonimo ha detto...

Gentile sig. Linguaglossa, grazie per questo chiarimento della sua posizione rispetto alla poesia di Hass: ora la comprendo meglio, e in parte mi sento di condividerla. Anche se la cosa la riguarderà poco voglio farglielo presente: da non specialista è questo il genere di approccio che apprezzo e che mi sembra - dal mio specifico punto di vista - più utile alla comprensione di questioni che possono essere complesse per chi di altro principalmente s'interessa. La precedente "stroncatura", mi perdoni, mi era sembrata un po' troppo frettolosa.
Un saluto
Flavio Villani

Anonimo ha detto...

Beh, è il linguaggio che non mi pare quello di una persona devastata. E l'aneddoto è presente in moltissime poesie americane che si rifanno alla Beat generation (movimento artistico che amo ancora oggi) raccontano fatti, fanno della vita "vissuta" un ideale... non so dire se la scrittura sia piatta, non m'intendo di traduzione. La scrollata di spalle, che è rinuncia ad approfondire, sta in quegli ultimi versi... da qualche parte. Come se quel che contava di dire è stato detto, il resto è sleng, che da noi equivarrebbe a dire che son menate.
Ciao
m.

Francesca Diano ha detto...

Detto perfettamente e limpidamente col linguaggio del critico quello che io, con un linguaggio assai meno specialistico e compendiario, ho cercato di spiegare.
Sì, la questione difatti è proprio questa: l'enorme ingenuità con cui Hass crede di poter affrontare le cose. Per chi non lo capisca, le vicende di cui parla, sono già in sé così terribili da far presumere che siano sufficienti, in quanto eventi, a dar loro potenza poetica. Ma un conto è una secca e piana narrazione, anche del fatto più atroce e un conto è "scegliere" di farlo con linguaggio poetico, cioè scardinando la compattezza del reale per farne forma, cioè un assoluto.

Moltinpoesia ha detto...

Ennio Abate a Giorgio Linguaglossa:

Sempre con l’intenzione di approfondire (come mi pare si stia ora facendo dopo le prime reazioni più o meno “viscerali”):

1. Ma esiste la “leggibilità assoluta delle comunicazioni mediatiche”?
Dovremmo distinguere tra bisogno di leggibilità (legittimo, credo) di un lettore, il quale vuole capire e se trova un testo leggibile, segue meglio e la leggibilità manipolata (sovente al limite della mezogna) dei mass media.
La domanda sarebbe allora: Hass sta manipolando o no? È un “emissario” dei mass media in poesia? O muove da una poetica che vuole agganciare il lettore (nel caso soprattutto la sua intelligenza e meno la sua emotività), stabilire un “patto comunicativo” con lui, magari “ragionare” con lui?
Nel secondo caso cosa ci sarebbe di scandaloso? (Tanto per stare al “mio” Brecht, egli lo faceva… Poi si può discutere se Hass raggiunga i risultati di Brecht o no. Ma questo è altro discorso).

2. Nel testo di Hass c’è « un deficit di forma (o di formalizzazione)»?
Se accettiamo l’ipotesi che Hass non sia un “servo dei mass media”, un “infiltrato” nella poesia, a me viene da dire che ci potrebbe essere deficit di forma solo se quella narrativo-didascalica, scelta da Hass, risultasse davvero inadeguata al tema proposto: il piccolo dramma di vita quotidiana di una famiglia operaia o impiegatizia americana degli anni Quaranta. Su tale adeguatezza o inadeguatezza manterrei aperta la questione. Possiamo concordare su un fatto: il confronto tra le diverse formalizzazioni (ad es. di un Brecht o di un Dante o di un Hass o…) non può essere fatto in astratto, ma dev’essere compiuto su un piano storico e in riferimento anche ai contenuti storici trattati e non lo si può improvvisare.

3. A me non pare che ci sia “immediatezza” nel linguaggio di Hass. Tra i diversi registri (da quello più vicino al parlato incontrollato a quello più formalizzato, astratto o concettuale) ha scelto quello che definirei medio, “colloquiale-amicale”. Discutibile la scelta? Discutiamone. Ma l’immediatezza io non ce la vedo. Tanto più che Hass lavora su un ricordo o brandelli di ricordi. Non ci dà il dramma in presa diretta, ma lo colloca in un’architettura compositiva (per strofe e lunghi versi liberi) molto ordinata (studiata).

4. Né mi pare ci sia « una visione ingenua dei rapporti e delle tensioni appena sottostanti che scorrono all'interno delle proposizioni».
Io ci vedo:
-una capacità (elementare quanto si vuole, ma l’elementare è frutto di studio…) di mettere in relazione sguardo quotidiano (mio padre tutte le mattine
dava alla mamma una medicina) e sguardo storico (Si era verso la fine degli anni’40, un’epoca,
una società dove gli uomini saltavano giù presto dal letto per andare a lavorare);
- l’attenzione ai dettagli realistici (le pillole potevano essere nascoste sotto la lingua per sputarle dopo), corporei (lei, se voleva, se lo faceva venire, il vomito) e che a volte (Nel mio ricordo, lui porta un vestito grigio, spigato, e la camicia bianca che lei ha stirato) sintetizzano concisamente (ecco una delle ragioni per cui il testo non è prosa, anche se s’avvicina alla prosa..) un rapporto uomo-donna storicamente preciso;
- un punto di vista freddo, controllato, da narratore non più coinvolto emotivamente (Difficile da spiegare in questi righe il ritmo della sua azione) e che si rivolge a destinatari suoi simili (lettori che hanno nel loro immaginari i fumetti ma anche l’Eneide, filtrata dalla cultura di massa, ridotta a citazione didascalica, veloce, “per intendersi a volo”).

[Continua]

Moltinpoesia ha detto...

Ennio Abate (continua):


Di un certo rilievo mi pare poi, poiché implicitamente suggerisce un’analogia simbolica tra mito e realtà, tra caduta di Troia e caduta (traumatica nel ricordo del bimbo-narratore adulto) della famiglia, questa strofe:

Ricordate quel passo nell’Eneide? L’uomo
che lascia la città che brucia portandosi in spalle
il padre, tenendo il figlioletto per mano.
Pensa di fare la cosa giusta
tra l’arazzo in fiamme e le colonne che crollano,
mentre da una stanza all’interno
il profeta cieco urla a braccia alzate
“ la grande Troia è caduta. La grande Troia non c’è più”

5. Non riscontro affatto una «pacificazione» del quotidiano in questo testo. Partendo dal quotidiano, apparentemente volando basso, Hass mi pare indichi in quel microcosmo familiare un apologo o un’allegoria della vita (quasi freudiana). E lo dice sommessamente (anche questa, credo, sia una scelta niente affatto ingenua, ma sobria!) nella chiusa finale:

Ci facciamo la nostra prima idea morale
sul mondo, sulla giustizia e sul potere,
sul sesso e l’ordine delle cose, e da dove veniamo.

6. Davvero in questo testo si ha una «neutralizzazione» delle potenzialità del linguaggio poetico?
Mi pare una considerazione fatta in astratto. Si parte dal presupposto che un CERTO linguaggio poetico (quello non usato da Hass) è superiore al suo; e renderebbe MEGLIO questo dramma o il quotidiano. E Giorgio sembra trovarlo nel linguaggio di Tranströmer.
Alzo le mani. Può darsi. Non posso però pronunciarmi, perché conosco pochissimo di entrambi questi autori. Se qualcuno è in grado di impiantare un confronto serie tra i due, lo faccia; e ridiscutiamo ancora questo punto.

7. Poco afferro (e chiedo chiarimenti) che cosa Giorgio intenda per «dicibile», imputando al testo di Hass di stabilire una falsa equazione tra quotidiano e dicibile.
uol dire che Hass considera dicibile solo quello che registra coi sensi nel quotidiano, nel - esageriamo! - giorno per giorno?
Lasciando stare la «clericatura internazionale» (che è altro concetto sfuggente…) non credo che Hass dimostri in questo testo che per lui il quotidiano sia qualcosa di facilmente “penetrabile”.
Non so se Hass conosca o meno Benjamin. Ma direi che anche se non lo conoscesse, in questo testo in modo semplice, senza darsi arie, va oltre «la patina della veste fenomenica delle cose ». Tant’è vero che allude a un contesto storico e perfino (col riferimento all’Eneide) mitico. Sicuramente non fa l’equazione reale=mistero. Mi pare che la sua visione (sempre da questo testo) non veda il reale come mistero, ma non si può dire che ne abbia una visione poco complessa.

P.s.
Le citazione del testo in italiano fanno riferimento alla traduzione di Paolo Pezzaglia

Anonimo ha detto...

TRADUZIONE DI PAOLO PEZZAGLIA

Il mondo come volontà e rappresentazione

Per un certo periodo, quando ero un bambino,
avrò avuto dieci anni, mio padre tutte le mattine
dava alla mamma una medicina chiamata antabuse.
Fa male se ci bevi su l’alcol.

Erano delle piccole pillole gialle.
Le schiacciava in un bicchiere, le scioglieva nell’acqua, le
dava il bicchiere e la guardava da vicino mentre beveva.

Si era verso la fine degli anni’40, un’epoca,
una società dove gli uomini saltavano giù presto
dal letto per andare a lavorare, lasciando
le donne coi bambini.

Era proprio anni ’40. la strizzatina d’occhio che mi dava.
La controllava da vicino così lei non poteva fare la finta
e spiazzare dei dritti come noi due.
Sento quelle frasi nei vecchi film e mi ci perdo dietro.

Il motivo per cui lui macinava bene la medicina
era che le pillole potevano essere nascoste
sotto la lingua per sputarle dopo.
E il motivo per cui questo rituale avveniva così presto
alla mattina - me lo disse - e capii che doveva essere vero –
era che lei, se voleva, se lo faceva venire, il vomito,
così andava tenuta d’occhio fino a che
il suo organismo non assorbiva la medicina.
Difficile da spiegare in questi righe il ritmo della sua azione
Ne tritava due, metteva la polverina nel bicchiere,
lo riempiva d’acqua, poi glielo porgeva, e
stava a guardarla bere.

Nel mio ricordo, lui porta un vestito grigio, spigato,
e la camicia bianca che lei ha stirato.

Alcune mattine, come nei fumetti che leggevamo quando Dagwood
usciva presto per star dietro a Mr. Dithers,
lasciando Blondie con delle croste di pane tostato e rivoletti
gialli di uovo da pulire prima d’andare a fare compere -
quelle che il fumetto definiva “spese pazze” - con Trixie,
la vicina della porta accanto; mio padre aveva già preso
uno dei primi autobus, lasciando me di guardia:
“Dai un occhio alla mamma, socio”.

Ricordate quel passo nell’Eneide? L’uomo
che lascia la città che brucia portandosi in spalle
il padre, tenendo il figlioletto per mano.
Pensa di fare la cosa giusta
tra l’arazzo in fiamme e le colonne che crollano,
mentre da una stanza all’interno
il profeta cieco urla a braccia alzate
“ la grande Troia è caduta. La grande Troia non c’è più”

Accasciata in un accappatoio, docile e
sofferente, mia madre, al tavolo di cucina
aveva conati di vomito e beveva,
beveva e vomitava.

Ci facciamo la nostra prima idea morale
sul mondo, sulla giustizia e sul potere,
sul sesso e l’ordine delle cose, e da dove veniamo.


*Ho inserito io la traduzione. spero che siano rispettati gli a capo [E.A.]

giorgio linguaglossa ha detto...

Caro Ennio e amici tutti,
due parole sul riferimento alla caduta di Troia etc.: è troppo telefonato, vuole aggraziarsi il lettore, lo vuole accarezzare per meglio disarmarlo e blandirlo; Hass vuole far passare questa sua composizione come un atto di «gentile» confessione su un proprio dramma familiare o un dramma tout court. È legittimo, ma è un trucco, un falso, è un atteggiamento da imbonitore, che vuole carpire la buona fede del lettore per ammannirgli il piatto della distruzione di Troia e della distruzione della propria famiglia targata anni '40. Troppo facile, tutto troppo facile. Un poeta rigoroso e di spessore non ricorre a questi piccoli trucchi. Ma qui la questione di Hass direi che passa in secondo piano e subentra l'altra questione, di politica estetica, dell'uso (strumentale) che Hass (e molti autori della clericatura internazionale dell'internazionale piccolo borghese) fa del quotidiano utilizzato (strumentalmente) per dimidiare nel lettore lo spirito critico; come dire: vedete, cari lettori, io sono uno che le cose le dice belle e piane, dirette e dritte, con tutta la retorica imbonitoria del Male che "viene da qualche parte" etc... insomma, a me sembra una visione acritica, per usare un eufemismo, e ingenua, per usare un altro eufemismo. Diciamo le cose come stanno: La vera questione (estetica e quindi anche politica) è quella del «quotidiano»; Hass (come la clericatura dei quotidianisti) crede (vuole far credere) che basti sbattere in faccia al lettore il proprio quotidiano (facendogli credere in un atto di estrema sincerità) per attingere chissà quale verità! Ma la vera questione è un'altra, quel quotidiano (di Hass) è quello telefonato e trasmissibile che si trova già impacchettato in miliardi di trasmissioni televisive, recitative, direi in una parola: mediatiche. Caro Ennio, è questa la «trasmissibilità assoluta delle comunicazioni mediatiche» che molti poeti di serie inferiore inseguono per incontrare il facile plauso del pubblico e della critica degli Uffici stampa; ma non possono pretendere il mio plauso né il mio apprezzamento. Troppo facile, tutto troppo facile. E scontato (compresi i trucchi).
E poi il problema della «dicibilità». Altro grande problema. Vedi, caro Ennio, in Hass tutto è diventato «dicibile», la guerra di Troia insieme alle pillole color giallo (mi sembra). Tutto è unidimensionale. Ecco, è questa facile dicibilità che è diventata la facile cantabilità della nuova poesia della clericatura internazionale. E mi appare quanto mai bizzarro che un marxista del tuo stampo e rigore possa apprezzare questa paccottiglia poetica di medio profilo. Scusami Ennio, per la stima che porto alla tua intelligenza ma queste cose (intendo i lai di apprezzamento per Hass e simili) lasciamoli dire a quelli de LPLC ma non le posso dire certo io.

Unknown ha detto...

sono molto d'accordo con la sua analisi perché al sempre piu democratico, mediatico, companatico etc etc, controllo mentale dell'impero,fanno estremamente comodo poeti come hass, soprattutto laddove rivolgano o attingano il loro "sguardo" a miti, riferimenti, etc etc di vecchie civiltà, fra cui quelle, guarda caso, della povera grecia.

Non sto parlando in nome di una lente complottista attraverso cui guardare la realtà, ma nei fatti per cui l'impero attuale sa darsi sempre piu forza imperiale anche attraverso mitologie (della culla europea) da capovolgere ed ampiamente sfruttare ad eventi mediatizzabili, per "apparire" ovviamente sempre più "libero" attraverso qualsiasi strumento che si faccia soggetto di pseudo libera critica al sistema.

Hass diventa sul piano poetico-politico, come Occupy Wall Street, ed anche se non finanziato da Soros e compagnia, è utile alla causa mediatica che si svolge dentro qualsiasi nodo e rete , web compreso, nicchie e rivoli di pseudo- alternativi.

A sua insaputa o meno(classico dell'impero dei sogni e degli incubi ) serve la causa del monopolio culturale dell'informazione drogata compresa quella poetica, pertanto non mi stupirebbe se scrivesse versi in difesa della culla di omero in nome dei bambini siriani da andare a liberare.

Moltinpoesia ha detto...

Ennio Abate:

Se controllate sul sito di Le parole e le cose vedrete che il post dedicato ad Hass ha ricevuto zero commenti. Tanto che ieri ho lasciato io un commento per dire che qui ferveva la discussione su una sua poesia.

Anonimo ha detto...

Breve tentativo di capire il mondo di Hass partendo da due poesie.
Della poesia di Robert Hass “The World as Will and Representation” ho apprezzato molto la descrizione realistica che fa degli oggetti domestici quasi iperrealista come quelli dei comics “crusts of toast”, “yellow rivulet of eggs yolk”, bathrobe, un realismo mai appesantito da forzature. Hass ci fa poi rivivere lo slang usato dal padre per alleggerire una situazione triste; un strizzatina d'occhio, una intesa forzata per un bimbo.
La poesia mi ha lasciato un disagio poetico, mi ha spiazzato proprio per la limpidezza degli scatti.
Ma da dove arriva questa “prosa poesia” che deve assomigliare al mondo il più possibile (stylistic clarity)?
Quando Hass iniziava questo processo di scrittura era cosciente di ciò che non era considerato prosa poetica e mentre lavorava sentiva che ciò che stava producendo aveva una forma esteriore che i versi non avevano. Hass era molto interessato a certe sfumature quasi tattili del sentire.
Nel tempo in cui Hass inizia la prosa poetica, in America questa viene usata per esprimere situazioni surrealiste un po’ spigliate e spiritose oppure associazioni libere, immaginazioni e senso selvaggio, tutte cose considerate poesia perché se ci si avvicinava troppo alle convenzioni, era solo prosa. Muoversi tra confini, capire i limiti tra prosa e poesia è per Hass molto interessante, egli continua a scrivere, a sperimentare .. Accadono poi nella sua vita cose sconvolgenti di grande impatto drammatico che non vuole né guardare né sentire e quasi inconsciamente procede nella sua esplorazione. Diventa però chiara la sua tendenza a scrivere evitando i bisogni dell'”incanto” poetico. Ciò che prima sembrava esplorazione in retrospettiva si capisce che è una fuga dal crogiolarsi. Hass non fa autoterapia.
Ma per capire meglio la sua spinta verso il “disincanto” poetico bisogna tener presente quanto conta per lui l’aspetto “politico” in generale e in particolare quanto esso chiarisce alcune note della sua poetica legata allo studio della figura del poeta Mandel’stam.
L’ ideale politico di Mandel’stam erano le città -stato italiane. Ora l'unica città-stato nella Russia del Medioevo era Nizhn Nagorod che era famosa perché era un posto libero dove l'acqua del pozzo non veniva tassata. Città senza gabelle, Nagorod diventa così la metafora della felicità, di un posto dove la vita è vivibile. Mandel’stam che non era un politico ma un poeta, si sa, è stato poi eliminato dallo stalinismo. Hass assume la visione di Nogorov fino a pensare che il compito dell'arte sia quello di creare immagini appunto di una comunità vivibile. Nella sua poesia questo si traduce spesso in un linguaggio chiaro senza incantamenti, realistico e soprattutto che non vuole dare soluzioni ma appunto immagini. Hass che è passato attraverso Wittgenstein, è molto cosciente dei limiti del linguaggio.
Altri in America hanno tentato altre vie per ribaltare il linguaggio. Cito Charles Bernstein poeta iconoclasta che si è spinto su strade più accidentate. Più che liquidare Hass è sempre meglio studiarlo senza il bisogno di dire che è tra i maggiori poeti del mondo. Enzo

Segnalo una poesia di Robert Hass sul disincanto :
“The Problem of Describing Trees”

GiusCo ha detto...

Arrivo da "le parole e le cose". Mi permetto di inserire il link ad una intervista che noi di nabanassar.wordpress.com facemmo ad Abeni (il traduttore di Hass) 8 anni fa, quando usci' l'antologia da lui curata "west of your cities" presso minimum fax. Potrebbe aggiungere qualcosa al vostro dibattito su motivi e fondamenti della poesia d'oltreoceano, nonche' sul traduttore stesso. Per quel che riguarda me, mi limito ad osservare che man mano che il proprio lavoro si sposta verso il mainstream, se ne diventa a torto o ragione neutralizzati portavoce. Saluti. GiusCo.

http://nabanassar.wordpress.com/2008/06/18/intervista-a-damiano-abeni/

giorgio linguaglossa ha detto...

Gentili interlocutori di poesia,
facciamo subito una distinzione tra Mandel'stam e Robert Hass: l'ideale politico di Mandel'stam non era la città stato di Nizhn Nagorod o le città stato italiane, Osip era un conservatore (ma non nel senso italiano ma in quello russo), cioè paventava la rivoluzione dei bolscevichi perché vedeva in essa il pericolo incombente della distruzione della tradizione della civiltà ellenistico-romana da lui amata che andava dalla Palestina alle porte di Ercole. E torniamo ad Hass. Io non so quale possa essere l'ideale politico di Hass e nemmeno mi interessa saperlo come critico di un testo; come critico-lettore di un testo mi limito a trarre tutte le conseguenze (non solo a livello stilistico ma anche su quello del "politico") che scaturiscono dall'atto della lettura. E, ripeto, la poesia di Hass è in una certa misura emblematica della medietà del gusto poetico così come si è sedimentato in Occidente nell'epoca del minimalismo e della stagnazione perdurante. È una tipica poesia dell'epoca della stagnazione (Damiano Abeni, il suo traduttore, lo indica come epoca del "disincanto"), e della stagnazione ha tutti i profili: 1)il profilo basso; 2)il piano medio finto-colloquiale e amicale; 3)l'utilizzazione della iconologia della tradizione della civiltà occidentale quali tessere del mosaico post-minimalista (ad es. l'accenno alla caduta di Troia); 4) l'aura di «disincanto» propria degli intellettuali occidentali nell'epoca del tardo capitalismo; 5) il ritorno alle piccole vicende del proprio privato riprodotte e riparametrate sullo stesso piano dei grandi eventi della storia mondiale; 6)con una astuzia: presentare la propria poesia come la continuazione di quella del Novecento (Milosz, Mandel'stam etc); 7) presentare la propria poesia come quella che meglio riesce a bordeggiare il limite che separa la poesia dalla prosa... e potrei continuare. È chiaro che qui si tratta (in Hass) di un abilissimo remake di posizioni di poetica precedenti entro una contestura di poetica non-poetica, in un orizzonte di fine-delle-poetiche. Ma non è vero che le poetiche sono finite. Non è vero che siamo nell'epoca del «disincanto». Orbene, si tratta di un artificio, di una strategia di posizione per mettere la propria poesia in una posizione di maggiore e migliore visibilità. Tutto legittimo, ci mancherebbe. Ogni autore adotta la strategia che ritiene migliore per imporre il proprio prodotto sul mercato delle opinioni e dei seguaci (e degli epigoni). Personalmente ritengo le poesie di Hass di livello medio basso, alquanto prevedibili, scontate, prodotto di una abile regia di posizione, dico, di rendita parassitaria. La poesia di Hass non sposta neanche di un millimetro le questioni che oggi stanno al centro del problema di quale poesia fare oggi in Occidente (per una volta lasciamo stare la questione della piccola Italia), ma non le sposta perché non ne ha le capacità motrici né le intende realmente spostare di un millimetro.
Il problema stilistico della poesia da fare oggi in Occidente non è certo semplice ma quel che è certo è che la poesia di Hass non porta nessun contributo alla chiarezza di quale poesia fare oggi per dei lettori intelligenti. Perché ritengo che ci siano ancora i lettori intelligenti di poesia. Questo è indubbio.

Anonimo ha detto...

Caspita ma non ti sembra di allargare troppo gli scopi del povero Hass? Addirittura parte attiva nel "complotto capitalistico"? Forse guardare un po' nella storia personale del poeta (non è difficile oggigiorno) risparmierebbe uscite come "non mi stupirebbe se scrivesse versi in difesa della culla di omero in nome dei bambini siriani da andare a liberare", che, scusa, ma a me sembrano davvero fuori luogo.
Ciao
Flavio

Moltinpoesia ha detto...

Ennio Abate:

Ho letto l’intervista a Damiano Abeni da lei segnalata. E mi hanno colpito due passi:
- quando si riferisce della reazione ricevuta in Italia dall’ antologia (“West of your cities”) sui poeti post-beat: « la poesia italiana sarebbe più "avanti" rispetto a quella statunitense, per profondità e stile». (Non si accenna alle ragioni di questa “superiorità” e perciò non mi pronuncio);
- quando si denuncia la scarsità di traduzioni della produzione poetica statunitense da parte dei dipartimenti di letteratura americana operanti in Italia («nessuna antologia è uscita negli ultimi quarant’anni, se poeti come Ashberry, Merrill, Wilbur, Justice, Hecht, Ammons, Snodgrass e tanti altri, sono in gran parte o del tutto sconosciuti in Italia»).
Ne traggo un’unica dolente conclusione. Siamo tra due fuochi: critici snob italiani che respingono la produzione poetica statunitense (per non parlare forse di quella degli altri paesi non culturalmente egemoni come gli USA…) da una parte ; e traduttori che non si danno da fare come dovrebbero.
Ci vedo in piccolo una prova del bluff della globalizzazione.
Per tornare alla discussione su Hass, mi chiederei come la nostra valutazione della sua poesia potrebbe mutare (più in positivo o più in negativo) se avessimo un quadro più preciso del contesto politico- culturale in cui è collocato.
Ma siamo “in periferia”. Gli echi della “poesia che si va facendo” in altri paesi arrivano attenutati. E dobbiamo muoverci a tentoni.

GiusCo ha detto...

Cari Linguaglossa e Abate,

Condivido la vostra "pars destruens", sempre acuta e competente. Converrete che la "pars construens" e' drammaticamente piu' complicata, sia per limiti nostri personali che per il fatto di vivere schiacciati nel nostro tempo presente. Paragonare la spazzatura prodotta giorno per giorno alla crema scelta dei secoli passati e', peraltro, ingeneroso e fuori scala. Ne' e' possibile imporre a tutti un percorso iniziatico, perche' non siamo tutti uguali (valga anche come dichiarazione politica).

Che si fa, allora? Il "minimalismo internazionale piccolo borghese" e' il prodotto dell'elite economica contemporanea: bianca, anziana, laica ed egoista. Lo scandalo generato dai picchi estetici citati da Linguaglossa (Mandelstam, Ripellino, Busacca) e' talmente fuori scala da valere ormai l'epigonismo di qualsiasi autore della domenica, senza che qualcosa cambi nella dinamica delle vite contemporanee.

L'arte rimanga un esercizio privato, un agone personale col proprio mondo rappresentativo. Questo e' un destino di solitudine, forse, ma l'unica risposta davvero persuasiva e non condannata in partenza all'irrilevanza anche sociale.

Moltinpoesia ha detto...

Ennio Abate:

Concordo sulla difficoltà di arrivare ad una "pars costruens".
L'ipotesi che mi/ci muove dal 2006, quando è partito il Laboratorio Moltinpoesia qui a Milano, è quella di tentare una strada di ricerca che eviti sia l'elitarismo che il democraticismo (e anche il suo "destino di solitudine").
Cercherò di sintetizzare il punto d'arrivo provvisorio di questa pratica e riflessione in un breve scritto a tesi, che spero di pubblicare sul blog entro il 7 giugno, data della serata intitolata appunto "essere moltinpoesia".

enzo ha detto...

La poesia di Robert Hass non è completa ma vi è quanto basta per capire il senso di quel "disincanto"di cui parlavo. Ascoltare il testo direttamente dall’autore può fare la differenza. Vi allego una mia prima versione della traduzione della poesia.

"The Problem of Describing Trees"

The aspen glitters in the wind
And that delights us.
Flinging its coits of light
Through afternoon
The leaf flutters, turning
Because that motion in the heat of summer
Protects the leaf from drying out
Likewise the leaf of cottonwood.
The gene pool threw up a wobbly stem
And the tree danced.
No.
The tree capitalized.
No
The are limits to saying,
in language,
what the tree did.
We move among these things
The Aspens doing something in the wind

Il Problema di Descrivere gli Alberi

Il pioppo luccica nel vento
E ci delizia
Lanciando archetti di luce
Attraverso il pomeriggio
La foglia trema, girandosi
Perché quel movimento nel calore estivo
Serve a non farla seccare
Lo stesso per la foglia del pioppo bianco
Il pool genetico ha generato un tronco vacillante
E l’albero danza.
No.
L’albero capitalizza
No.
Ci sono limiti del linguaggio per dire cosa ha fatto l’albero.
Viviamo in mezzo a queste cose...
I pioppi fanno qualcosa nel vento.

Anonimo ha detto...

Enzo, questa poesia è l'incanto del disincanto. Ciò che Hass vuole dare. Questo poeta mi piace davvero tanto. Emy

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