martedì 26 giugno 2012

CRITICA
Ennio Abate
A proposito di Kamala Das.
Mito e Storia, uno a zero?


Espongo qui  alcune critiche alle posizioni “orientaleggianti” e di liquidazione del femminismo storico occidentale che amiche e amici hanno espresso nei commenti al post su alcune poesie di Kamala Das tradotte da Francesca Diano (qui). Spero di farlo con ragionamenti fondati e rispettando la «visione delle cose» soprattutto di alcune mie interlocutrici che considero amiche. [E.A.]

1.
Si può partire dal mito (della Dea Madre) per valutare la storia? Certo. Ma nei commenti del post  dedicato a Kamala Das si finisce per  sostenere la superiorità del mito e a svalutare la storia, presentandola come  un pallido riflesso di quello, una sua forma degradata e pervertita da negare per ritornare, se possibile, al mito. Questo è lo schema che sottostà, secondo me, ai pensieri espressi in tutti gli interventi. Le differenze tra le affermazioni di Francesca Diano, in soffitta, Semy e lo stesso Mayoor  non mancano, ma sono dentro il medesimo paradigma: prima il mito, poi la storia; il mito superiore alla storia; il mito che si  abbevera alla fonte sacrale dimenticata colpevolmente dalla storia. In altri termini, il  discorso - che pur vuole polemizzare contro fissità e rigidità del pensiero occidentale, dominio maschilista, consumismo e colonialismi vari - si arrotola su di sé e diventa pur esso discorso fisso, rigido (e telelogico).

Per dire in sostanza che cosa? Che ci fu un’ “età dell’oro” (quella della Dea Madre), ma è finita (e della fine si dà una spiegazione del tutto mitica: la dea madre sarebbe  stata uccisa); ed è cominciata la storia (un’età vista esclusivamente nei suoi (reali) lati peggiori, tempo dilaniato da guerra e conflitti, le cui cause però non vengono esaminate in concreto, ma imputate a una oscura “natura umana”); tale storia terminerà (chi o cosa garantisce tale soluzione?) col ritorno della Dea Madre (e conseguentemente con la fine della guerra e dei conflitti,  i quali - ovviamente, ma senza documentarlo - nell’età dell’oro”, cioè della Dea  Madre, pare non siano esistiti); in  tale ritorno (o “ritorno a Casa”) consisterebbe il “vero” Progresso (anch’esso trattato miticamente, perché non si dice in cosa  consista, anche se si può supporre che guerre e conflitti scomparirebbero).  
Questa filosofia “matriarcale” e - ripeto -  mitologica, si pone sulla falsariga della visione finalistica o teleologica della Storia  tipica della cultura cristiana, egemone in Occidente. Al posto del Paradiso biblico ne sostituisce uno “materno”: il progresso arriverà e «sarà tale quando verrà riscattata l'uccisione della dea madre e rimessa al posto che era, è e sarà suo».

2.
La poesia di Kamala Das è, perciò, letta in modo che a me pare riduttivo. Finisce per essere apprezzata perché sarebbe un exemplum della forza benefica del mito della Dea Madre (o di un/una “padredeamadre”, un conglomerato di concetti eterogenei che sconcertano). La poetessa canterebbe «la sua morte, la sua risurrezione e la sua insurrezione». E  sta bene. Il  valore della sua poesia sarebbe però accresciuto dal fatto che, sullo sfondo, s’intravvedono le «altre culture, ben più antiche di quelle colonizzatrici», anch’esse accolte da un simpatetico “sguardo mitico”, che ne trascura completamente la storia (come se potessero non averne una). E, coerentemente (ma solo nella logica della visione mitica!) viene sottovalutato il  possibile legame tra la  ribellione individuale di Kamala Das («una sorta di guerra d’indipendenza culturale») e la cultura del femminismo occidentale, con la quale la sua poesia avrebbe legami trascurabili.

3.
Quanto al «dominio maschilista» col quale anche la poetessa indiana ha dovuto fare i conti, si ripete quanto oggi è di moda dire: non è stato intaccato dal femminismo (storico, andrebbe aggiunto, secondo me); le poche donne che hanno ottenuto un certo potere «hanno tutti i peggiori tratti maschili»; al potere «non ci stanno per loro merito» (come se gli uomini,  invece, sì, mi verrebbe da aggiungere malignamente!). Anche Mayoor, cede a questa visione, che definirei, senza nessun sarcasmo o disprezzo o senso di superiorità, “ideologia orientaleggiante”, se scrive:

«E' da tempo che qui si discute di minimalismo, dell'io ridotto ai minimi termini nel quotidiano, di esistenzialismo, e giustamente se ne osservano i limiti. Ma questo dipende anche dalla nostra cultura mass mediatica, tutta storica e sociale, dove l'individuo è visto come un'eccezione pressoché irrilevante. Non è così in oriente dove la cultura risente della religiosità scientifica, se mi passate il termine, che mette al centro l'individuo. La donna, che è incarnazione del femminile, può dirsi a ragione maestra d'amore. Mi permetto di dire che qui le donne sembra che se ne siano scordate, e questo può dipendere dalle mancanze di riferimento perché è vero che la nostra è una società maschilista, ma è anche vero che le donne spesso perdono tempo nel cicaleccio io/tu dove l'identità loro, così potente in queste poesie di Kamala Das, sembra ancora lontana dall'uscire dai luoghi della dipendenza».

4.
Dato il clima prevalente nei primi commenti, non meraviglia che una buona (per me) intuizione di Giorgio [Linguaglossa] sia stata presto accantonata. Egli faceva rientrare, la poesia di Kamala Das proprio nella «vasta area modernizzante e modernizzatrice (e quindi progressista e democratica) che è diffusa in occidente come in oriente». Conosco poco l’opera di Das per dargli del tutto ragione. Ma  un po’ gliene do. Anche se egli accentua eccessivamente i legami tra la poesia di Kamala Das e la “koiné globalista”, che è per lui  bestia nera con cui polemizza duramente, come si è visto anche nel post dedicato allo statunitense  Robert Hass (qui),  stroncato appunto perché rappresentante di una “poesia da villaggio globale”. Qui l’ha fatto anche con una sfumatura “vetero-colonialista”[1] che ha calamitato facili, ma giusti, rimbrotti da Semy e da Mayoor. Eppure l’obiezione di Linguaglossa è seria. Riporta l’attenzione sul problema dei contatti tra Kamala Das e la cultura occidentale, proprio per il tramite della lingua dei colonizzatori, l’inglese.

5.
Lo dice, del resto, esplicitamente la stessa Francesca [Diano] in questo passo:

«Das sceglie l'inglese - io ritengo - per la sua poesia, pur provenendo da una tradizione familiare letteraria e poetica raffinata e alta in malayalam, perché l'oggetto della sua poesia è una presa di posizione rivoluzionaria».

O in quest’altro: «Non c'è dubbio che parte dei suoi modelli poetici siano occidentali, (l'hanno definita la Sylvia Plath indiana)». Eppure il privilegiamento dello “sguardo mitico” o della sua «visione delle cose» non  permette a Francesca [Diano] di riconoscere in pieno il debito di Kamala Das sia nei confronti della lingua che della cultura dei colonizzatori, in questo caso gli inglesi. Domanda: senza quel contatto ci sarebbe stata  la sua rivolta di donna? Diano prosegue imperterrita nella sua apologia delle culture antiche e del mito contrapponendo quelle e questo al femminismo storico occidentale. Kamala Das, infatti, parlerebbe «di un "Io", parallelo all'"Io" maschile», le assonanze della sua poesia con la Plath sarebbero solo stilistiche «e non devono ingannare». E via, nella logica dei postcolonial studies, con la denuncia di un Occidente, che  ha solo  «ingannevolmente assimilato e digerito […] il tema della corporeità della donna [e] ha annientato un elemento fondamentale e il solo che l'avrebbe riscattata, e cioè la sua sacralità».Contro di esso  si erge soltanto «l'eredità culturale, filosofica e mitologica» dell’India, che è capace di «cantare l'amore, il trionfo dei sensi, la gioia del corpo con la voce di un'anima femminile». E si arriva all’omaggio (che a me pare eccessivo), per cui gli Indiani sarebbero “più avanti di noi”, perché trattano il tema della corporalità senza associarlo a quello «del sacrificio e della negazione, come in alcune voci occidentali accade».

6.
Ora, senza timore di passare per “imperialisti”, sarebbe il caso di  dare a Cesare quel che è di Cesare. Mi pare insomma onesto rilevare che: - certe istanze di libertà individuale Kamala Das le ha assimilate proprio tramite l’accostamento alla lingua e alla cultura dei colonizzatori inglesi; - gli inglesi sono stati, comunque, colonizzatori dell’India e non gli si possono abbuonare le malefatte storiche: espropri, rapine, genocidi e stermini; - l’abbeverarsi alla «fonte» indiana della «sacralità del corpo» e alle sue antiche culture che non l’hanno  dimenticata non dovrebbe farci dimenticare - cosa che ricorda la stessa Francesca [Diano] e gliene va dato merito -, che «la società indiana [è anch’essa] repressiva e maschilista»; e che «ancora oggi, nei ceti più bassi, è terribile la piaga del feticidio femminile e delle donne arse vive per incassare la dote». (Ci aggiungerei  anche molte altre contraddizioni economiche e politiche di quella oggi sempre più potente nazione).

7.
È importante essere vigili contro i facili ideologismi. Bisogna rifiutare le mode dell’esotismo e dell’«orientalismo» (come c’insegnò a fare Edward Said), avere una visione meno manichea  e più equilibrata di pregi e difetti di tutte le varie civiltà (occidentali e orientali, nordiche o meridionali, le quali hanno tutte i loro orrendi scheletri negli armadi!), evitare la tentazione degli «scontri di civiltà» (Huntington), non trascurare la conoscenza delle stesse tradizioni illuministe  indiane, ben messe in luce da Amartya Sen,[2] non ridurre tutta la cultura indiana soltanto alla tradizione sacrale o religiosa (perché sarebbe come identificare Occidente e cristianesimo, saltando storia antica e storia moderna e poi illuministica, liberale, socialista). E per far questo bisogna  avere uno “sguardo storico”,  non può bastare solo quello mitico. Come minimo  attestiamoci su una visione che tenga conto di un necessario “strabismo culturale”  e sappia alternare entrambi questi sguardi, sapendo che sono contraddittori. 

8.
Proprio in questi giorni ho ascoltato questa intervista, lunga ma interessantissima,  a Francesco Orlando (qui: http://www.leparoleelecose.it/?p=5674#more-5674). Mi sono rinfrescato ricordi di vecchie letture e pensato anche all’importanza della sua lezione di critico che, unico in Italia, ha cercato d’introdurre nell’analisi dei testi i concetti basilari di Freud e poi di Matte Blanco  su logica simmetrica - più vicina all’inconscio, al “prelogico” e al mito - , e  logica asimmetrica - propria del pensiero logico, razionale e storico.  A conoscerlo o a rileggerlo Mayoor capirebbe quanto sbaglia nel dire «Qui tutto è scientifico, si potrebbe dire che anche la psicanalisi non distingue il maschio dalla femmina...».

9.
Quanto a Francesca [Diano], rispetto la sua ricerca, ma non  mi sento di condividere  le premesse e gli sbocchi, che a me paiono - ripeto - unilaterali e teleologici. Mi permetto di dire che la memoria che lei difende e a cui aspira non fa i conti con quella storica. È quella ancestrale delle Origini o dell’Uno, come desumo da questo passo:

«Manca - ed è questo il grande male - la memoria della tradizione. Quella vera, quella più arcaica, per cui ricordarsi che non si sopravvive senza la cooperazione, senza la collaborazione di tutti, maschi e femmine e senza l'amore per la Natura. Senza questa memoria, (non quella pilotata ad arte e usata come mezzo per distrarre l'attenzione dal presente dal Potere di turno) di futuro ce n'è poco e nemmeno bello.»

 Solo in questa memoria, solo nel mito la donna (meglio la Donna, Eva) sta in armonia con l’Uomo, l’Adamo,  e «non ha bisogno di essere liberata. E' donna. Punto.». (Si potrebbe aggiungere che neppure l’Uomo  ne ha bisogno. Eppure, già nella mitologia biblica c’è un accenno di rottura o di “catastrofe” nell’Eden originario. Come nei miti greci…). Se però, subito dopo passiamo a ragionare di storia (e dobbiamo farlo!) e, nel nostro caso, di «lotte femministe, cominciate già con la Rivoluzione francese e poi riprese alla fine dell' 800 e ai primi del 900 per il diritto al voto e in seguito a metà del secolo, si indirizzavano ad ottenere parità di diritti come individui e cittadini», non possiamo limitarci a dire che «erano sacrosante»; e che solo per «un terribile equivoco» tali rivendicazioni  hanno deviato verso  una lotta tra i sessi o una lotta fra «il Potere e la minaccia che il potere del femminino (non femminile) poteva rappresentare».

10.
Se ci decidiamo a parlare di storia, fosse pure solo quella del femminismo occidentale, che, comunque, ai mie occhi ha il merito di essersi un po’ sporcato  le mani con la storia, vedremo, sì, che oggi in Occidente (solo in Occidente?) è stato messo in trappola dall’industria massmediologica, capace di sedurre non solo le femministe  ma anche le donne in generale, che «spesso perdono tempo nel cicaleccio io/tu dove l'identità loro, così potente in queste poesie di Kamala Das» si smarrisce. Ma non possiamo aggrapparci a un’evidenza empirica e storica indiscutibile (io pure penso che il femminismo sia stato sconfitto come il comunismo, ma dirò più avanti…), per squalificare in toto il femminismo occidentale; e ribadire una tesi che considero unilaterale: l’importanza assoluta delle culture antiche, dalle quali la poesia di Kamala Das trarrebbe tutta la sua linfa (a scapito dei rapporti della poetessa con lingua e cultura angosassone).
11.
Né penso abbia fondamento  reale questa visione del Potere che regnerebbe e mirerebbe esclusivamente alla «negazione del potere del femminino, cioè della vita». Secondo me, non funziona.  Non è vero  (e basta dare un’occhiata - ancora una volta storica! - a  India, Cina e Brasile, il famoso BRIC)  per vedere che le cose  sono molto più complicate; e questa rappresentazione “mitica” le semplifica, non le  coglie, non le chiarisce.  Non è vero (o almeno non è più vero) che solo «la storia dell'Occidente è una storia dominata - e sempre di più - dalla negazione della vita per il profitto nelle sue forme più deliranti e anche idiote». Non è neppure vero che il Potere[3] nega del tutto e sempre «la vita». Anche se è arrivato a forme di distruttività  impensabili in passato e si rischiano  esiti apocalittici. Nelle strategie di dominio tra i vari poteri in concorrenza  conflittuale tra loro un posto per «la vita» (sottomessa!) c’è. Nessuno può volere del tutto cancellarla (anche se rischia di farlo; anche se, comunque, tutti continuano a distruggere  forme di vita, che coltivate (da altri poteri oggi solo teorici), potenzialmente sarebbero migliori di quelle realizzate (sotto questi poteri reali). Ma - ed è ciò che più conta dire senza giri di parole - questa distruttività dei poteri (capitalistici), che ha ragioni storiche, non sarà frenata o bloccata soltanto salvaguardando o rilanciando o ritornando alla «sacralità» delle culture antiche o arcaiche. Su questo per me non deve pioverci.

12. 
Ancora sul femminismo storico. A questo punto dovrei riprendere vecchi discorsi degli anni Settanta, faticosi e a tratti sgradevoli. Mi limito a dire che, se posso condividere la critica a un certo tipo di femminismo (e ho segnalato in un commento al post di Kamala Das una di queste mie critiche) e accettare una intelligente  revisione  del femminismo storico (nel senso  in cui io ed altri/e abbiamo parlato di revisioni e revisionismi nel n. 8 di Poliscritture), non ne condivido la sua liquidazione e l’attuale (ambigua) svalutazione. Specie se avviene sulla base di reazioni - emotive o ben meditate poco importa - a personali esperienze dei singoli, uomini o donne che siano. (Ho pubblicato nel 2012 una raccolta intitolata Donne seni petrosi.[4] Avrei avuto, sul piano personale e “mitico”, tutte le ragioni per bruciare in una sorta di  falò catartico il femminismo storico (magari assieme al comunismo che ha subito la stessa «damnatio memoriae»), ma proprio  uno sguardo storico mi ha impedito di cedere a questa tentazione, a non mettere nello stesso mazzo le esperienze personali e le  lotte collettive reali - la doppia sconfitta, insomma - e le ideologie (comunista da una parte, femminista dall'altra) concresciute con quelle esperienze personali e quelle lotte. 
E allora, mi va bene che Semy e Mayoor controbattono ricordando  che neppure qui, in Occidente, la corporeità è un problema risolto,[5] ma non accetto le  semplificazioni antifemministe.[6] Sarebbe un liquidare i problemi  tuttora irrisolti e sorvolare sulle ragioni  della conflittualità, generale e particolare, persistente.
Se c’è stato un forte «rifiuto del maschio da parte della donna» è perché c’è stata, c’è in giro tanta misoginia, mica inventata o “platonica”, ma agita con uccisioni e violenze corporali. Non è che il «rifiuto del maschio» sia venuto solo dall’«omosessualità»,  altra categoria che sembrerebbe  quasi “platonica” e riguarderebbe una  ben delimitata porzione della popolazione. (Ancora qui risulterebbe utile soprattutto l’ultimo spezzone dell’intervista a Francesco Orlando riguardante il suo romanzo La doppia seduzione pubblicato alla fine postumo[7]). 
Né si può dire che sia stato il femminismo a provocare «grottesche imitazioni di uomini che di positivo avevano solo, forse, vicino donne innamorate e purtroppo profondamente infelici». Le imitazioni sono avvenute   e avvengono da parte di milioni di donne non certo tutte simpatizzanti del femminismo, ma piuttosto condizionate da tutta una cultura effettivamente maschilista, che però permea apparati complessi, come ben fa notare Francesca [Diano], quando  ricorda l'industria della moda, dello spettacolo, del consumo più bieco, che  usa però  - diciamocelo - sia il corpo della donna che dell’uomo. Né butterei la croce tutta addosso alle "filosofe" e cultrici "della differenza", anche se qualcuna mi suscita istintivamente antipatia; e rimango incerto e non coinvolto dai loro discorsi sulla mente o l'intelletto sessuato come davanti a quelli sull’immacolata concezione della madonna. 

13.
A questo punto, però, una serie di domande le porrei: perché sarebbe sessuato il Potere? Perché «aggressività, arrivismo, cinismo» sarebbero «caratteristiche maschili»? Non vediamo che donne e uomini, quando entrano nella Macchina dei poteri, che li forma (o li deforma) per farli diventare astratti «funzionari del capitale» (La Grassa), usano la  loro sessualità quasi fosse una decorazione del loro ruolo ( un mobile d’antiquario)  o la usano come propellente "pragmatico" per la carriera?
Quanto ai sessantottini   adagiatisi in un confortevole e a volte remunerativo conformismo, perché generalizzare, come per le femministe? Io e tanti come me lo siamo stati e non abbiamo ottenuto, per questo, nessuna confortevole o remunerata collocazione. Anzi.  I cooptati (pochi) sono stati scelti dalla massa dei partecipanti a quella rivolta;  e lo sono stati grazie a loro precisi autodafé (iscrizioni a partiti di governo e di pseudo opposizione, carriere già predisposte da padri e nonni in posizione di potere, ecc.).

14. 
Se , dunque, in generale «le donne non sono migliori degli uomini solo perché sono donne», vuol dire proprio che le cose sono più complicate di come le aveva messa giù il femminismo (ideologico). Ma l’errore (la semplificazione) a me pare proseguire, se si cerca la “vera rivoluzione” nel ritorno all’arcaicità, se si mira a un astratta e idealistica «ricomposizione del conflitto e degli opposti» (Jung). Se il conflitto matriarcato/patriarcato, che le femministe hanno tentato di “agire” praticamente, non è risultato sanabile, perché le donne critiche del femminismo vogliono ridursi  a fare le predicatrici  di un improbabile «annullamento della dualità, del conflitto»? E, anzi contraddittoriamente, vorrebbero attribuire ancora una volta questo compito solo alle donne, sostenendo che «prima di tutto sono le donne che devono capirlo»? Oppure perché imitare i preti, che tuonano (invano) contro chi «si conquista un potere che è solo materiale e quindi precario e illusorio» e poi lo accolgono nelle loro chiese?
No «la semplicità» non sarà mai più «l'essenza della soluzione per entrambi i sessi in guerra». Bisogna guardare in faccia i conflitti e imparare a gestirli in modi possibilmente meno distruttivi e senza consolarsi con la retorica dei perdenti («se per "vincere" devi essere come "la culona", meglio perdere sia come uomini che come donne») finendo per sacralizzare anche le sconfitte.
 



[1] «il tema della corporeità femminile può essere rivoluzionario per una donna indiana ma qui in Europa il tema è già stato (per fortuna) digerito e assimilato»

[2] Amartya Sen, L'altra India. La tradizione razionalista e scettica alle radice della cultura indiana


[3] Io aggiungo l’aggettivo ‘capitalistico’ che  Francesca [Diano] forse non  può accogliere nella sua «visione delle cose».
[4] Ecco un brano del testo di accompagnamento delle poesie:

«In quel frangente il femminismo fu per me il nome della lama di coltello che proprio la donna con me da anni - riserva (in un immaginario arcaico e patriarcale?) quasi certa d’amore e d’affetto, cuscinetto tra me e il mondo più crudo e ostile – usava (ferendomi) per allontanarsi. Un lutto amoroso s'aggiungeva al lutto politico per la perdita della comunità dei compagni.  Anzi il dubbio che l’immaginario non sia così nettamente separabile in maschile e femminile, come lasciano
credere i mass media o si ibridi facilmente secondo un certo psicanalismo, si è rafforzato in me. Assieme al sospetto che la disinvoltura con cui si trattano tali questioni nasconda la rimozione e il venir meno di una riflessione critica sullo scontro storico che ha visto, a fine Novecento, la sconfitta sia dell’ipotesi comunista sia dell’ipotesi femminista. Se prima, nelle società occidentali, il conflitto di classe oscurava il conflitto di genere, oggi anche quello di genere, venuto per brevi anni in evidenza politica e culturale dopo il ’68, s'è opacizzato: in parte riassorbito dalla società dello spettacolo; in altra parte fluente carsicamente nelle pieghe della società e pensato solo nelle
“catacombe” di alcuni circoli di donne; e in altra parte ancora accolto (non senza reali resistenze) liberalmente soprattutto in ambienti accademici (gender studies).
Alla vulgata sia della fine della storia che del postfemminismo o della femminilizzazione trionfante nel lavoro delle società post-fordiste, ho preferito una riconsiderazione storica sia del comunismo che del femminismo: entrambi per me rovine di un fine Novecento da interrogare e reinterpretare per leggere nelle trasformazioni in corso - non certo benefiche per i molti uomini e donne del pianeta - qualcosa d’ altro.

Ed ecco una poesia:

Va su e giù, si tiene a mezza strada, stabilisce il passo,
guida donne danzanti sul Sagro Monte di Granada. Quanto
sono allegre! Come tornano bimbette, vispe e saltellanti!

A volte le rimprovera. Vorrebbe proteggerle. Ma bisbigliano
strette fra loro. La forza che a lui rimane serve loro ormai
solo se lontana. Più non accettano quel suo patriarcale
succhiare i loro gesti e odori lievi.

Hanno giocato come sorelle fino alla selva dei morti. Da
lì si sono ritratte dopo il grido furioso che testardo ancora
ha lanciato, indicando loro la mobile fune che divide alto
e basso, ricchezza e povertà.

A tempo perso vigila ancora. Che, danzando, non la oltrepassino.
Ma sa che, stringendosi assieme e incoraggiandosi, scenderanno
in pozzi d’amore, dove l’alta minaccia non è percepita.

Sgridarle ancora? Sembrano le uniche a ricordare i luoghi
dove scorre sotterraneo il fiume che, liberato dell’umana
penuria e dalle loro incomprensibili azioni, correrebbe
nel solco dritto della morte o inaridito si piegherebbe
all’alta Legge che avvampa l’ardente roveto.

[5] «la corporeità crea ancora imbarazzo in certi ambienti (intellettuali soprattutto)soprattutto quella al femminile. le donne si conoscono molto bene oggi in tutti i loro aspetti»;  «è che siamo in un paese bigotto, trasudante di intellettuali, dove la corporeità è solo apparenza di status e dubbia salute».
[6] Del tipo:  «Non sono e non sono state le femministe a liberare le donne da alcune schiavitù, ma tutte coloro che hanno lavorato seriamente con uomini che le hanno appoggiate e sostenute», per cui basterebbe capirsi a vicenda: «Davvero penso che noi donne ci conosceremmo bene , solo se la nostra condizione venisse condivisa con l'uomo, quel tipo d'uomo che per amare e rispettare una donna chiede semplicemente di capirsi a vicenda».
[7] Un'intervista esaustiva di Emanuele Zinato a Francesco Orlando, su genesi, riscritture, forma narrativa e sottintesi psicologici de La doppia seduzione si trova qui: http://www.einaudi.it/speciali/Francesco-Orlando-La-doppia-seduzione-intervista-Emanuele-Zinato

18 commenti:

Francesca Diano ha detto...

Caro Ennio, ti ringrazio per aver messo in tavola molti dei problemi che erano nati o si erano affacciati nei commenti sulle poesie di Kamala Das, perché il discorso aveva toccato in effetti molti punti sensibili che, pur se non in modo dichiarato, i testi della Das in qualche modo sottendono.
Prima di tutto credo di dover ribadire che
1) ho precisato come KD abbia fatto una precisa scelta linguistica per le sue poesie e l'abbia fatta NON per i motivi della maggior parte degli attuali innumerevoli scrittori indiani che scrivono in inglese (motivi di mercato) ma - e questa è una mia supposizione - perché l'oggetto aveva un'interna relazione con la cultura occidentale colonizzatrice. Ma anche perché NESSUNO scrittore indiano tratta, nemmeno oggi, simili temi in una lingua indiana. La letteratura nelle varie lingue indiane è più ricca e variegata, anche più profonda in molti casi, di quella in inglese. Spesso tratta temi sociali molto forti. Ho però anche accennato che la Das non è certo la prima poetessa indiana a scrivere in inglese, perché ce ne sono state altre prima di lei, anche nell'800, come Sarojini Naidu, anche impegnata politicamente nella lotta per l'indipendenza. E la Naidu non tratta temi di tipo occidentale, ma tipicamente indiani.
2) Non ho mai negato che Das conoscesse sicuramente la poesia occidentale, ciò non toglie che il quadro storico da cui la sua poesia nasce sia molto diverso da quello degli anni 50/60 in cui lei inizia a scrivere poesie in inglese. L'osservazione di Linguaglossa era sicuramente pertinente e nessuno l'ha negata, anzi, i miei commenti hanno in parte confermato quello che notava e che, ovviamente, è subito evidente leggendo questi testi.
3) Quello della Dea Madre non è un mito, ma un periodo storico (o preistorico) ben documentato e che ha lasciato tracce potentissime in tutte le religioni. Tuttavia io non ho sostenuto che si debbano cancellare migliaia di anni di storia, il che farebbe di me una stupida, o un'ingenua, ma che è stupido e suicida dimenticare un passato che è molto più presente nel nostro inconscio di quanto molti credono e con cui si devono fare comunque i conti. Per capire chi siamo e dove andiamo è fondamentale capire da dove veniamo. O no? Dunque, l'operazione stupida che oggi fa l'occidente è proprio quella di un damnatio memoriae delle proprie radici. Questa folle convinzione che si debba accelerare sempre di più verso un futuro sradicandosi del tutto dal proprio passato.
4) Non mi pare di aver liquidato facilmente il femminismo storico. Ho solo detto che, pur fondandosi su rivendicazioni sacrosante è - almeno ora come ora - fallito e anzi ha provocato una misoginia di ritorno per nulla simpatica. E una parte del mondo femminile, purtroppo è cascata nella trappola.

Anonimo ha detto...

Pagare una prostituta
poi scaricarla
fuori sotto zero
lei conta sono cinquanta

Uscire con una prostituta
una comodo letto
fuori a sottozero
lei conta sono trecento

Un uomo ritorna
una moglie un figlio
fuori sottozero
domani segretaria

Quattro donne al bar
uno stesso uomo
fuori sottozero
dentro chi se ne frega.

Emy

giorgio linguaglossa ha detto...

Caro Ennio,
Parlando a proposito della poesia di Tomaso Kemeny scrivevo su questo blog: «Quella che un tempo era la dimensione mitica (in quanto passato più lontano), si è tramutata in preistoria, e la preistoria è diventata più vicina a noi proprio in quanto preistoria di un mondo divenuto post-storia (barbaro e barbarizzato). Così pre-istoria e post-storia si uniscono in idillio».
Ora, io dico soltanto una cosa molto semplice, che trattare il mito come pre-istoria, significa svilirlo e neutralizzarne le potenzialità. Se è vero che il Mito siamo noi, cioè noi siamo la Storia, è anche vero il contrario: la Storia diventerà Mito in un tempo lontano, magari tra duemila anni. Sia il Mito che la Storia sono «narrazioni», ma c'è differenza tra una narrazione e l'altra. L'errore filosofico del mitomodernismo di Giuseppe Conte è stato quello di presupporre che ci fosse un «rapporto ontologico» tra Mito e contemporaneo. Ma non è così, non c'è né ci può essere alcun rapporto ontologico tra il Mito e il Post-moderno (o il Moderno). C'è stata una frattura, una interruzione che si chiama Cristianesimo, che è durata duemila anni. Non è più possibile attingere, con un atto di volontà, la fonte del Mito, perché altrimenti il mito si dà che come orpello, decorazione, erudizione.
Piuttosto che la posizione di Kamala Das rispetto al Mito, che mi sembra facile e scontata, sono rimasto invece affascinato dalla «lettura» che Francesca Diano ha fatto del mito del Minotauro: restituendoci un'altra «verità», restituendo la voce al «mostro», ecco che il mito del Minotauro risplende di un'altra verità, contrapposta a quella che ha dominato l'interpretazione datane dalla cultura vicente: dalla cultura mnicenea a quella del cristianesimo. Quella versione dei fatti era conveniente alla vittoria e alla affermazione della cultura micenea, pagana e, infine, anche a quella del cristianesimo, perché si avallava di quel mito una versione pacificatrice e conservatrice. La novità e la grande importanza della poesia della Diano invece sta tutta dalla parte opposta, rivela che quel Mito dice «altro», ci può dire altro da ciò che per duemilaecinquecento anni ci è stato detto: ed esattamente, che le ragioni del «mostro» erano delle ragioni valide che però non coincidevano con la linea della civilizzazione che quella cultura stava per intraprendere.
In breve, direi che il Mito ha senso soltanto se trova una nuova Forma che lo riceve, soltanto se diventa significativo «per noi», se diventa un «evento» (tanto per usare le categorie di Carlo Diano). In qesta accezione il Mito può entrare nella Storia, nella «nostra» (nella storia della poesia intendo).

Unknown ha detto...

che peccato essere manipolati, pazienza.

Moltinpoesia ha detto...

Ennio Abate:


Ho lavorato diversi giorni a rileggermi il post su Kamala Das e la quarantina di commenti (non telegrafici) che ne sono seguiti.
Non si può dire che le mie critiche siano una manipolazione.
Sono le cose come le vedo dal mio punto di vista. E ho volutamente premesso che RISPETTO la visione o le visioni diverse dalla mia.
Non chiedo ad altri o altre di procedere su quanto da me ora scritto analiticamente come io ho fatto con i commenti. Ma semplicemente di rispettare la mia serietà e la mia volontà di confronto.
Mi pare sia importante misurarci in altre occasioni sui vari problemi sollevati. Magari ciascuno/a potrebbe riproporre il tema o i temi dalla propria angolazione. L'ospitalità sul blog è garantita. Come d’obbligo, direi, è la discussione successiva: sono per me premesse indispensabili per una ricerca approfondita e per non far chiacchiera.
A Giorgio e a Francesca, in particolare, chiederei di fare attenzione al rilievo che ho dato alla posizione di Francesco Orlando, molto vicina a quello "strabismo" culturale di cui sento l'esigenza. Ma anche - l’ho richiamato in altre occasioni- all'atteggiamento di Leopardi nei confronti del problema antichi-moderni.
A me è parso che nella maggioranza dei commenti prevalesse lo "sguardo mitico"; e perciò, in questa occasione, ho storto di più il bastone dall'altro lato, quello storico, che mi è parso sottovalutato.
Il problema della non conciliabilità di mito e storia resta aperto e va approfondito. Spero di poterlo fare assieme a voi e ad altri/e.

Francesca Diano ha detto...

@Giorgio Linguaglossa
Ieri notte, a seguito del mio primo commento, volevo aggiungerne un secondo, questo: il Mito E' la Storia, ma parla per archetipi usando la lingua della poesia.
Poi era tardi e mi ero ripromessa di aggiungerlo oggi. Ma in qualche modo lo hai fatto tu per me. E di questo ti ringrazio (come di tutto il resto delle cose belle e profonde che dici).
Tuttavia temo ci sia un grande equivoco di fondo nell'introdurre il discorso del mito per le poesie di Kamala Das nei termini in cui lo fa il caro Ennio. L'errore di fondo è quello di misurare con strumenti occidentali e trarne delle conclusioni, qualcosa che dall'occidente è molto lontano. Questo è il rischio che si corre nel credere che culture tra loro lontane possano dialogare usando un linguaggio convenzionale condiviso. E' l'effetto del colonialismo e della globalizzazione. Un linguaggio condiviso esiste, ma il suo livello è più profondo di quanto pensiamo. Mi è successo di capirlo quando vivevo in Irlanda (terra a noi apparentemente vicinissima) una mattina che all'improvviso mi sono resa conto di come la luce che illumina quella terra sia diversissima dalla nostra. L'ho definita una "luce sapiente". Questa semplice presa di coscienza, questa apparente ovvietà (è la luce del nord!) non l'avevo fino ad allora capita e il non averlo capito mi aveva ingannata, facendomi credere che gli irlandesi ci somiglino. Che l'Irlanda ci sia immediatamente comprensibile. Non lo è e gli irlandesi non sono immediatamente comprensibili. Solo da quel momento in poi ho cominciato a "vedere" e capire. Perché non ho guardato con gli occhi accecati dal luogo comune. Un altro elemento fondamentale è stato constatare come i miei allievi, dunque giovani, avessero dei loro miti e delle loro tradizioni una conoscenza, una familiarità talmente profonda, da essere connaturata. Miti e tradizione per loro, e per tutti gli irlandesi, non sono "cose del passato", ma parte di quello che sono e di come sono adesso. Sono il loro propellente. Noi non abbiamo questo tipo di esperienza e di storia e ci riesce difficile capire cosa significhi. Ma forse potrebbe essere utile per comprendere perché in Irlanda ci siano grandissimi poeti e perché la poesia da loro non sia affatto morta o moribonda e perché ci siano, come da secoli, grandi festival di poesia ecc. lo stesso potremmo affermare della loro letteratura. E ci spiega perché hanno recentemente affermato che, per uscire dalla crisi economica, la cultura può essere una risorsa da sostenere in tutti i modi.
Lo stesso può dirsi per l'India. Questa distinzione, questo iato tra Storia e Mito non c'è. C'è a livello sociale, economico, politico, ma non a livello individuale. La continuità è ininterrotta. Anche questa è una cosa che ci riesce difficile capire, perché giustamente, come tu sottolinei, da noi il Cristianesimo ha spezzato questa continuità. Cristo si è fatto uomo e quindi la sua rivoluzione è stata che la Forma si è fatta Evento (per seguitare il discorso che tu hai introdotto - e grazie di averlo fatto).
Quello che voglio dire è che non esiste "il problema della non conciliabilità tra mito e storia".
Quanto alla Das, non vedo che il mito sia così essenziale al suo discorso poetico. Lo è solo in quanto è indiana, ma questo appunto è parte di quella diversità e lontananza di cui dobbiamo tenere conto quando ci avviciniamo a culture che troppo facilmente pensiamo di capire.
Già Jung metteva in guardia da questo pericolo.
Quello che dici sul Minotauro, a parte la spontaneità con cui "quel" Minotauro ha preso a parlare, è appunto il mio tentativo di riallacciare il filo spezzato.
Giustamente dici che il Mito ha senso solo se trova una nuova Forma e se quella forma diventa hic et nunc, dunque forma eventica. Infatti è vero ed è questo di cui l'arte è fatta.

Moltinpoesia ha detto...

Ennio Abate a Francesca Diaono:

"Il caro Ennio" fa notare di aver citato Edward Said proprio come esempio valido di messa in discussione degli "strumenti di misura" occidentali o "occidentocentrici" quando si guarda alle altre culture; e di non aver tratto alcuna conclusione.
Se poi "questo iato tra Storia e Mito" non c'è a livello individuale ma a livello sociale, economico, politico, a me pare che il problema (una contraddizione) sussista e sia rilevante. A meno di non privilegiare solo il livello individuale.

Unknown ha detto...

ciao Ennio,
"conglomerato di concetti eterogenei che sconcertano" ed altre di queste espressioni, NON sono la pratica del "volutamente premesso che RISPETTO la visione o le visioni diverse dalla mia".
Ma lasciando perdere questa logica ed altre connesse già saltate in precedenti occasioni e di cui fare esperienza, nessuno da quanto letto finora si è messo in relazione con il tuo s-forzo togliendoti valore che , a prescindere da altri, solo tu sai e puoi sapere quanto e come ti sia costato in termini di tempo e impegno; non è il caso da una persona di cultura non "semicolta" come te , fare tali attenzionamenti autoritari e che tolgono il concetto stesso di cultura a ciò che devi e puoi permetterti di regalare al vento senza nulla in cambio, come il non tempo e non spazio che preparò il mito.

la deformazione "collettiva" sicuramente ha un peso notevole sull'aspetto uno ad uno della relazione , senza potere e controllo degli altri, è la base indivuale individuo, che ci allontana da un modo di mettersi in relazione all'altro senza troppi intellettualismi...peraltro, nota a margine e del tutto "collettiva", è contradditorio lamentarsi e prendere a mazzate ogni due per tre il ceto "semicolto", se poi si fa di tutto per tenerlo sempre piu lontano con forme linguaggio che non sono pane al pane vino al vino vedi Francesca Diano, ma adirittura anche Linguaglossa.

Quando la cultura diventa muscoli, si sa già come va a finire, mito e storia hanno gia detto tutto.
ciao.

Anonimo ha detto...

da Rita Simonitto
Intanto che ho preparato la mia 'solita lenzuolata' ci sono stati altri interventi di cui eventualmente terrò conto in seguito.
Riprenderò i punti esposti da Ennio come base per i miei pensieri al proposito.
1.
Si può partire dal mito (della Dea Madre) per valutare la storia?
E’ una domanda che presuppone una linea continui sta di sviluppo, sostenuta anche dal fatto che, data la nostra esperienza di ‘umani’, sappiamo che siamo nati piccoli, con le nostre lallazioni e le nostre fantasie magiche, poi siamo cresciuti, con la nostra razionalità e attenzione ai fatti anziché alle fole, e poi via via ci dirigiamo verso una qualche fine. In realtà non esiste questa ‘progressione’ ma un imbricamento continuo tra la passione (da patio) e la ragione. Se non ci fosse questo intreccio non ci sarebbe arte, non ci sarebbe letteratura, non ci sarebbe poesia.
L’uccisione della Dea Madre (come l’uccisione del Re-Padre) se inizialmente avveniva in ‘modo concreto’ - proprio in quanto contrassegnata da un pensiero ‘concreto’ di sovrapposizione uno-ad-uno, senza scarti, tra nome e cosa nominata - poi divenne simbolica e rappresentativa (vedi anche nella liturgia cristiana “allora Gesù disse, spezzando il pane: questa è la mia carne…ecc. ecc.).
In questo modo l’uccisione simbolica sarà ciò che permetterà alla vita di procedere.

2.
La poesia di Kamala Das è, perciò, letta in modo che a me pare riduttivo. Finisce per essere apprezzata perché sarebbe un exemplum della forza benefica del mito della Dea Madre (o di un/una “padredeamadre”, un conglomerato di concetti eterogenei che sconcertano).
Il sincretismo non fa mai bene a qualsiasi lettura noi diamo alle cose se lo prendiamo così, pari-pari: per il fatto stesso che ‘diamo una lettura’ siamo costretti a dipanare, a di-spiegare. Il mito non è né benefico né malefico: esso è là come la Sfinge (onnisciente e al tempo stesso custode del silenzio), o la dea Kali, la crudele (che è energia e morte e verità). La parola Kali, al femminile, in sanscrito, significa ‘tempo’. “Il tempo è nostra madre, le nostre origini e il fine della nostra esistenza. Il tempo è creazione e distruzione: affinchè il nuovo venga ad essere, dobbiamo abbandonare il vecchio”.
La poesia di Kamala Das è bella perché ella canta il SUO mito di “morte, risurrezione e insurrezione” (Ennio) e, all’interno del SUO mito, possiamo intravvedere la possibilità di cogliere sfaccettature altre, legate ad altre ‘culture’ (occidentale, ad esempio) o condizioni sociali (meno abbienti di quella di cui disponeva Kamala Das).

3.
Quanto al «dominio maschilista» col quale anche la poetessa indiana ha dovuto fare i conti, si ripete quanto oggi è di moda dire: non è stato intaccato dal femminismo (storico, andrebbe aggiunto, secondo me); le poche donne che hanno ottenuto un certo potere «hanno tutti i peggiori tratti maschili»; al potere «non ci stanno per loro merito» (come se gli uomini, invece, sì, mi verrebbe da aggiungere malignamente!).
E’ buffo, se non fosse tragico, vedere come si critichi ‘allegramente’ il Mito (lo metto con la maiuscola per definirne la serietà, in quanto serio tentativo di comunicare l’esperienza) e invece si bevano ‘seriamente’ le stupidaggini di questi ‘luoghi comuni’. ‘Luoghi comuni’ che hanno soltanto la funzione di raggruppare in un comune luogo degli elementi della società che altrimenti non saprebbero come definirsi singolarmente se non attraverso questa aggregazione. Aggregazione che nulla ha a che vedere con la appartenenza, perché quest’ultima presuppone la presenza di una posizione ‘critica’, ovvero una scelta consapevole.
E poi ‘donna, maestra d’amore’ che cosa significa? Una donna capace di organizzare un’azienda, sia anche quella domestica, è da buttare via come donna?

[continua]

Anonimo ha detto...

Da Rita Simonitto
[continua]

4.
Dato il clima prevalente nei primi commenti, non meraviglia che una buona (per me) intuizione di Giorgio [Linguaglossa] sia stata presto accantonata. Egli faceva rientrare, la poesia di Kamala Das proprio nella «vasta area modernizzante e modernizzatrice (e quindi progressista e democratica) che è diffusa in occidente come in oriente».

Sì, è buona l’intuizione di Linguaglossa. Il guaio è che si va poco a fondo di questo problema legato al cosiddetto ‘progressismo democratico’. Ci si trova indubbiamente su di un crinale da cui è facile scivolare o da un lato (l’esportazione forzata, imperiale o coloniale della libertà e democrazia occidentali), o da un altro (il mitologismo del buon tempo andato, il de-crescismo, ecc. ecc.).

5.
Lo dice, del resto, esplicitamente la stessa Francesca [Diano] in questo passo:

«Das sceglie l'inglese - io ritengo - per la sua poesia, pur provenendo da una tradizione familiare letteraria e poetica raffinata e alta in malayalam, perché l'oggetto della sua poesia è una presa di posizione rivoluzionaria».

Ennio si pone la domanda: “senza quel contatto ci sarebbe stata la sua rivolta di donna?”. Forse che sì, forse che no. Il destino di chi emerge è polideterminato, cioè dipende da molte congiunture, fra cui anche quella ‘storica’ (con buona pace di Ennio che alla Storia ci tiene) che si può permettere di permettere (scusate il bisticcio di parole) anche certe rivoluzionarietà perché lasciano un po’ il tempo che trovano (cosa di cui si rese conto Dario Fo quando, con la sua Compagnia, sbarcò negli Stati Uniti in tempi non sospetti).
Anche la Edith Piaf, per andare in un altro ‘orto artistico’, nel nostro bell’Occidente si fece la sua ‘piccola rivoluzione femminile’: ma passò facilmente, e pesantemente, per ‘nevrotica’ manovratrice di uomini, per non dire di peggio.
Ci sarebbe qualche cosa da aggiungere sulla ‘corporeità’ delle donne e sul come essa venga ‘usata’ dalle donne stesse come ARMA di seduzione oppure, al suo contrario, come CORPO UMILIATO dall’uomo, o dalla società ‘maschilista’.
Ma è un discorso troppo lungo da fare in questa sede perché, ancora una volta, si dovrebbe andare a scomodare il mito.

6.
Ora, senza timore di passare per “imperialisti”, sarebbe il caso di dare a Cesare quel che è di Cesare.

…. e a Cleopatra quel che è di Cleopatra che, certo, non le mandava a dire….!
Continuo a pensare che il potere non ha ‘genere’ ma utilizza il genere quando, dove e come gli sia più utile per garantirgli il suo mantenimento. E’ poter capire dall’interno questi meccanismi di potere che sarebbe molto utile anziché continuare a scannarsi come i “polli di Renzo”.

[continua]

Anonimo ha detto...

Da Rita Simonitto
[continua]

7.
È importante essere vigili contro i facili ideologismi.

Anche l’ideologia ha una funzione di mantenimento di un qualche cosa che inizialmente poteva essere stato rivoluzionario. Come, appunto, la lotta di emancipazione femminile. Poi, diventando ideologia, ha dovuto rinunciare alla carica prorompente originaria annacquando, e al contempo irreggimentando, le risorse onde mantenere un piccolo posto di potere.
E’ molto bella la dizione di “strabismo culturale” citata da Ennio (che richiama la “visione binoculare” dello psicoanalista W.R.Bion): lo ‘sguardo storico’ non può prescindere da quello ‘mitico’ e viceversa. Perché anche il ‘mito’ ha dovuto appoggiarsi su ‘fatti (supposti) storici’ come tenta di documentare R. Graves nel suo “I miti greci”.

8.
Proprio in questi giorni ho ascoltato questa intervista, lunga ma interessantissima, a Francesco Orlando....

Non ho avuto il tempo di leggere questa intervista ma mi riprometto di farlo.

9.
Quanto a Francesca [Diano], rispetto la sua ricerca, ma non mi sento di condividere le premesse e gli sbocchi, che a me paiono - ripeto - unilaterali e teleologici….

La memoria e la storia abitano lo stesso caseggiato, osservano gli stessi oggetti, ma hanno porte di entrata e di uscita diverse che non sempre coincidono. I loro fini sono altri, pur dichiarando a piena voce di volere lo stesso fine, ovvero la Verità (con la maiuscola).
Per me è stata illuminante l’esperienza ‘patita’ (sì, fortemente patita) quando ho visto il film “La meglio gioventù” di Giordana, un ‘falso storico’ per chi, come me, aveva vissuto in quegli anni ma osannato come ‘fedele ricostruzione dei fatti’.
Ho assistito al ‘tradimento’ anche da parte di coloro che, pure essi, avevano fatto quelle esperienze e che le rinnegavano in nome di: a) la memoria dei fatti è soggettiva; b) meglio dare una lettura piuttosto che tacere; c) oggi i tempi sono cambiati e quindi anche la lettura di quei fatti non può essere più quella di allora. Compattando, quindi, presente e passato senza fare distinzione alcuna fra un pensiero che mostrava (allora) le sue deficienze – ma che aveva una sua ragion d’essere “allora” – e un oggi che irride, ironizza, rende puerile quell’”allora” solo perché non ha avuto gli esiti sperati.
Questo significa ‘rinnegare la storia e la memoria’, evitare la contestualizzazione e il conflitto che questa, inevitabilmente, porta con sè.

Quanto a commentare i punti successivi non farei che ripetere quanto già detto fin qui.
Per cui adesso chiudo e ringrazio Ennio per questa carrellata di spunti che ha offerto al dibattito.

R.S.
[Fine]

Francesca Diano ha detto...

Caro Ennio, se tu mi scrivi: "Eppure il privilegiamento dello “sguardo mitico” o della sua «visione delle cose» non permette a Francesca [Diano] di riconoscere in pieno il debito di Kamala Das sia nei confronti della lingua che della cultura dei colonizzatori, in questo caso gli inglesi." io mi chiedo se tu abbia letto quello che ho scritto. Eppure mi era parso di essere stata molto chiara sia sull'una che sull'altra faccenda e mi attribuisci cose che non ho detto. La Das "usa" l'inglese come lingua letteraria, come tutti gli indiani colti sanno fare, ma non ha "grandi" debiti con esso. Se dobbiamo riconoscerlo in pieno, allora le va riconosciuto nella giusta misura. Cioè poco. Tanto è vero che seguitò per tutta la vita e con enorme successo a scrivere racconti e altro in malayalam e hindi. Sul suo rapporto con queste tre lingue lei è molto chiara nella poesia "Presentazione". La sua autobiografia, assolutamente dissacrante e scandalosa, fu scritta in malayalam. E, non dimentichiamo, che la sua ricchissima formazione culturale avviene in un ambiente culturale e linguistico molto lontano da quello dei colonizzatori.

Tu prosegui chiedendo: "Domanda: senza quel contatto ci sarebbe stata la sua rivolta di donna? Diano prosegue imperterrita nella sua apologia delle culture antiche e del mito contrapponendo quelle e questo al femminismo storico occidentale." Anche qui noto sconsolata che non hai letto con attenzione quello, "tutto" quello che ho scritto. La sua rivolta di donna non ha nulla a che vedere con quel debito, dato che non si limita a scrivere in inglese, ma, come ho detto, "usa strumentalmente" quella lingua e non ne è usata. Inoltre ha sempre - e lo ha fatto lei stessa - rifiutato etichette di femminismo o di occidentalizzazione.
Non è che io "proseguo imperterrita" nell'apologia del mito e delle culture antiche, né tantomeno - mi viene da ridere nel leggerlo! - che io le contrapponga al femminismo storico. Ma che dici? Rileggi meglio Ennio, vedrai che hai equivocato. Forse il mio discorso è un po' più articolato e complesso di così. Non è che tu mi attribuisci qualcosa che è frutto di tue interpretazioni?
Non credi sia una conclusione un po' troppo superficiale affermare che senza quel contatto non ci sarebbe stata la sua (di Das) rivolta di donna? Guarda che poi si è convertita all'islam, che non mi pare sia proprio una scelta in linea con l'occidentalizzazione.

Quanto a Edward Said da te citato, non ci serviva che ce lo venisse a dire lui di stare in guardia. Anche perché sono la prima a criticare queste superficiali mode New Age, ridicole e facilone, tanto amate dai fricchettoni o dalle signore bene europei e americani, che di oriente non sanno nulla se non appunto quelle quattro acche di luoghi comuni ma magari fanno i corsi di yoga, vanno dal santone di turno che giustamente li spella per bene, vanno da Sai Baba o ad Auroville e li scambiano per l'India. Insomma, tutto il ciarpame di cui era intriso un romanzetto di gran successo (Mangia, prega, ama) che mi sono divertita tra gran risate a fare a pezzi sul mio blog. Io non sono un'indologa a livello accademico, ma ho costante contatto con chi serissimamente lo è a livello accademico e assorbo e imparo. Per il resto sono solo in rapporto diretto e amicale da una decina d'anni con alcuni autori indiani che traduco e ho imparato anche da loro. Dunque ti sarei grata se non venissi a parlare a me di mode.

Moltinpoesia ha detto...

Ennio Abate a Francesca Diano:

[Nota. E' preferibile o almeno io preferisco collocare gli interventi uno dopo l'altro, "a scorrimento"]



Cara Francesca,
è una questione di toni. Stavolta i tuoi non mi paiono accettabili, specie se confrontati coi miei. Memore del nostro vecchio “duello” (che però ci permise di conoscerci) su «Le parole e le cose», ho anticipato che muovevo delle critiche, ma che SPERAVO di farlo «con ragionamenti fondati e rispettando la «visione delle cose» soprattutto di alcune mie interlocutrici che considero amiche», ho abbondato in frasi interrogative e in attenuazioni («Mi permetto di dire che»), ho fatto atto di umiltà preventiva dichiarando che «conosco poco l’opera di Das», ho per gentilezza e convinzione disseminato il mio scritto di «a me pare» e di «secondo me», parlato di femminismo mettendomi in gioco (e non in modi impersonali), ti ho persino dato merito perché riconoscevi gli elementi repressivi della società indiana (per dirti che la tua posizione non mi pare unilaterale o fanatica…) e ho scelto - come segnali d’apertura! - dei riferimenti a Said e a Orlando (sullo sfondo Freud e Matte Blanco) a sostegno di un auspicabile “strabismo culturale”. E allora?

No, proprio non mi puoi dire «se tu hai letto quello che ho scritto»…! Ho letto, eccome. E anche intepretato. Com’è mio diritto fare; e, come del resto fai tu ora, controbbattendomi. Spero, dunque, che converrai: non puoi porre con me il problema su un piano così “scolastico”. Ogni lettura è orientata e - diciamolo pure - un po’ prevenuta. Ma - ripeto - la mia, come la tua o di altri/e. Letture neutre non ce ne sono. Criticare non è manipolare. Ed io ho dichiarato chiaro e tondo il MIO PUNTO DI VISTA su cose che tu vedi in modo diverso e contrapposto al mio. Ho fatto delle affermazioni. Sono per me correggibili e volentieri mi lascio correggere se l’altro/a mi porta buoni argomenti.
Le tre correzioni che mi fai mi paiono un po’ risentite. Vediamole, comunque:
1. Mi dici che Kamala Das non ha “grandi” debiti con l’inglese e la cultura inglese e "usa strumentalmente" quella lingua e non ne è usata. Ne prendo atto per il momento. Ne sai più di me; e non ho altre pezze d’appoggio alla mia posizione, che del resto era un’ipotesi (mi sono infatti chiesto se «senza quel contatto non ci sarebbe stata la sua (di Das) rivolta di donna»…);
2. Il tuo discorso non sarà “imperterrito”, sarà “più articolato e complesso”, ma il senso, la direzione che prende a me pare chiara e non temo di essere smentito: mira alla riscoperta della sacralità delle fonti di un sapere mitico che gli occidentali hanno negato. E io, per le ragioni che ho tentato di dire (presenti anche nel titolo ironico e dubitativo) non sono d’accordo. Posso dirlo?
3. « Quanto a Edward Said da te citato, non ci serviva che ce lo venisse a dire lui di stare in guardia» mi pare una frase ingenerosa. Come trovo troppa sufficienza in quel « ti sarei grata se non venissi a parlare a me di mode».

Roberto Buffagni ha detto...

Ringrazio Ennio Abate che mi ha inviato questa rassegna stampa. Vorrei fare i miei complimenti alla traduttrice (per niente facile rendere il tono di - finta? - semplicità dell'originale). Dell'India non so niente, dell'Autrice neanche, della Dea Madre nemmeno, e quindi mi astengo dal commentare. Qualcosina dell'Italia e delle italiane lo so, e cosa posso dire? A proposito di Mito & Storia, trovo un gran peccato che la Donna, una delle più grandi invenzioni mitiche dell'uomo, sia uscita di produzione nel corso della storia che mi trovo ad abitare anche io. Certo, non c'è linea di prodotto che duri in eterno, le innovazioni e le distruzioni creative sono necessarie e magari anche benefiche, ma devo dire che questa impennata del tasso di crescita delle felicità nei rapporti fra i sessi io non l'ho ancora vista...Comunque, avendo una figlia e un figlio, spero nel lungo periodo (quello dove saremo, come diceva quello, finalmente tutti morti e ci toglieremo il pensiero).
Mie opinioni personali in materia: no, le donne non sono migliori degli uomini solo in quanto donne, come nessuno è migliore di un altro solo in quanto italiano, alpino, non fumatore, pallavolista, etc. Il potere piace a tutti/e, e a tutti fa bene/male, a seconda di etc., etc. Niente di nuovo sotto il sole (principio di una scienza nuova)...

Francesca Diano ha detto...

Caro Ennio, ho solo risposto a tono agli argomenti che mi hai attribuito e che non avevo posto in quel modo. Al di là del fatto che tu dica di aver usato un tono dubitativo, francamente, leggendo, io ci ho visto invece delle accuse di cecità e ottusità. Certo, non era nelle tue intenzioni, ma io l'ho letto così. E' ovvio che tutti siamo liberi di opporre una critica a quello che ci appare criticabile, però prima dobbiamo capire se quello che ci appare criticabile è quello che l'altro ha detto. Ti ho indicato quali punti secondo me hai travisato.
Detto questo, nulla cambia nella stima e nel rispetto che ho per l'immenso lavoro che fai e per la passione che ci metti, e anche se ogni tanto il tono si fa tagliente, per quanto mi riguarda ti sono amica e tale resto. Ci mancherebbe! Però, davvero, non mettermi in bocca pensieri che non ho.
Quanto al fatto che tu non sia d'accordo sul valore che do al passato, va benissimo. Non so in che commento qui da te ho scritto che questa è la mia poetica, mia personale, quella a cui attingo per quel che faccio. E' il frutto di una lunga vita e di una lunga maturazione e filtraggio di conoscenze. Non costringo nessuno a trovarsi d'accordo. E' la mia risposta. Ognuno ha la sua, perché credo che a un certo punto della vita ogni essere umano si debba creare una propria visione del mondo. Questa è la mia. Non è essenziale che ottenga il plauso universale.
Dunque, non solo sono felicemente quasi isolata e in parca ma ottima (per quanto mi riguarda) compagnia, ma anche del tutto fuori moda. Lo trovo delizioso.
E non ti crucciare. Tutto passa. Resta l'essenza.

Francesca Diano ha detto...

Grazie Roberto, ha colto bene il tono di finta semplicità. Concordo con lei, come ho già scritto sopra, che le donne non sono migliori solo perché donne. Ci sono individui migliori (più evoluti) e altri peggiori (meno voluti). Ma sempre di individui è giusto parlare. Quelle che invece non sono migliorate molto sono le società. la tecnologia ha fatto, è vero, molti progressi, viviamo più a lungo, ci curiamo meglio, abbiamo acqua corrente e elettricità. C'è una maggiore consapevolezza dei diritti umani, ma, nella summa generale, le proporzioni tra chi vive meglio e chi non ha quasi nulla o vive male sono più o meno le stesse di alcuni secoli fa. Siamo più di 7 miliardi e meno di un settimo vive bene rispetto al resto. Dunque....chi ha il potere se l'è sempre tenuto stretto. Sapendo che prima o poi tanto lo perde. Inutile preoccuparsi.

Unknown ha detto...

Cio' che dispiace di persone "di cultura" come Ennio, travalica Ennio stesso, perchè rappresenta per usare uno solo dei suoni da lui usati, l'intervallo "sconcertante" di una certa frequenza in ogni tipo di comunità, produttiva o ricreativa, sociale, o politica etc etc. Mi spiego. Generalizzando in due categorie la divisione della natura umana, lo s-concerto è dato dal "potere" che alcune vogliono ed altre no( a loro volta in due sottoinsiemi, uno attivo perchè consapevole del suo rifiuto, l'altro passivo perchè lo subisce).

Questo potere contraddistingue, all'interno del primo sottoinsieme che lo vuole sul secondo, due ulteriori sottoinsiemi: uno che vuole e sa esercitarlo, riempiendolo di contenuti relazionali in modo che chi ne viene in qualche modo "sottoposto", desidera a sua volta mettersi in relazione perchè sente l'arricchimento "culturale" complessivo dei contenuti generati dall'esercizio di questo potere. "Culturale", a seconda dei sottoinsiemi, è quel potere personale, estremamente individuale ma a volte sfocia anche in collettivo,che si ravvede dalle relazioni di coppia, quindi culturale sentimentale, a quelle lavorative, politiche, produttive, ricreative, sociali, artistiche,etc etc fino a quelle culturali strictu sensu .

Nello stesso sottoinsieme di chi desidera o imita o comuqnue esercita "potere", vi sono altri/e che forzano la mano, con movimenti impercettibili e percettibili tali per cui anzichè ottenere l'effetto desiderato per lo sforzo e le fatiche impiegate, ne producono uno contrario.
Se ad esempio non mi rendo conto che voglio per me un tipo di comportamento che non mi fraintenda, o prenda a mazzate, o diminuisca etc etc tanto più saro attenta/o , d'istinto o autoeducandomi, a non dire,dare, fare dell'altro alcun strumento a mio uso e consumo. Non cadrò nella frequentissima "proiezione", abbastanza tipica di ogni periodo e società( ma di più della nostra) in cui è " delizioso" vedere come tutto il rispetto si vuole alla fine solo per se stessi.
...
Infine credo che il tema in sé, come altri analoghi, divida o divida a metà prima che all'esterno (come ad esempio in questa e precedente post conversazioni) dentro se stessi, tutti/e coloro che come Ennio , al di là di volere o meno potere, non possano ammettere nella loro vita "cerebrale" solo che esclusivamente altra cerebralità che si identifica con la vita culturale.
La "finta" semplicità di kamala das è comunque fatta, come ad esempio per le finzioni di borges, di una vita intera e non spezzata, dei vari piani, dalle cantine ai tetti, di aspetti irrazionali e razionali, compreso " il mostro" in questo contesto definito teleologico.

Se trasponessimo questi temi /conversazioni, sul piano musicale, sarebbe il fallimento della musica, nel momento in cui da certe corde e strumenti fisici potesse spezzarsi e separarsi dalle altre da cui le prime arrivano e ritornano, senza alcuna ostruzione o segmentazione del relativo flusso.

roberto buffagni ha detto...

Prego, Francesca, capita anche a me di tradurre e mi fa piacere vedere un lavoro ben fatto.