mercoledì 20 giugno 2012

CRITICA
Giorgio Mannacio
La poesia come oggetto




"Presto o tardi al commercio si arriva". Questo passaggio segna lo snodo di un'analisi ampia (si risale a Tommaso) che ripropone la questione poesia/mercato. Giorgio Mannacio la pone, per così dire, coi piedi per terra, in modi realistici e la sottrae alle soluzioni "estreme", con le quali implicitamente polemizza e che potremmo ancora chiamare degli "apocalittici" (anti Mercato) e degli "integrati" (apologeti di esso). Il saggio è interessante per la volontà di discutere della poesia non solo come oggetto estetico, ma anche economico e - perché no - sociologico. [E.A.]

I.
Pulchra enim dicuntur ea quae visa placent. ( San Tommaso: Summa theologica I,5,4 )
Con questa fulminea definizione sul bello, definizione che nessuno – fino ad oggi – è riuscito a confutare , il grande filosofo mette il dito in una delle piaghe che seguono i discorsi sulla poesia.
Una di queste è l’argomento della poesia come oggetto.

II
Vi sono manifestazioni artistiche cui è essenziale la produzione da parte del c.d spirito creatore di oggetti in senso proprio di più o meno immediata utilità. Si pensi all’architettura che – temporibus illis – rispose in primo luogo alle esigenze di ricovero e difesa dei nostri progenitori. Alla fine di un certo percorso , o in percorso parallelo, il costruttore di palafitte ed altre abitazioni divenne artefice di templi, palazzi,castelli et similia in alcuni dei quali sembra assente e quasi rifiutata l’esigenza pratica a favore di altro, nel quale “altro” si iscrive anche quella che possiamo definire esigenza estetica. Sulla funzionalità della Casa sulla cascata di Wright ( 1935 ) sono possibili molti dubbi. Ma questo è altro discorso,accantonabile per il momento.
III.
Quale che sia l’esigenza originaria delle incisioni preistoriche , dalle quali discende l’arte pittorica
( si pensa attendibilmente che fosse una istanza di tipo pratico inserita nel quadro di riferimento dell’analogia magica : Hauser – Storia sociale dell’ arte vol. I,Einaudi 1955 ) è sicuro che  “ da un certo momento in poi “ essa venne a soddisfare  un bisogno estetico.
Anche la pittura si manifesta nella produzione di oggetti,così come la scultura.
IV.
Anche gli oggetti di uso comune subiscono una trasformazione di tale tipo. Se l’affinamento di un’ascia preistorica dal paleolitico al neolitico può ragionevolmente spiegarsi con l’esigenza
“ pratica” di rendere l’arma più tagliente, a parità di efficacia non si spiegano le decorazioni che
“ abbelliscono” un kriss malese e non il coltello del macellaio. Su alcuni carrelli della spesa sono aggiunti particolari inutili all’uso proprio di esso ma idonei a renderlo “ più bello”.
Persino alcune  tavolette tarmicide hanno assunto ultimamente forme gradevoli alla vista ma inutili ai fini pratici.
V.
Architettura, pittura, scultura e “ artigianato minore” esigono un tramite materiale in senso
stretto,  una abilità tecnica  a volte notevole e spesso anche una certa preparazione di tipo scientifico. E si aggiunga: una certa spesa
VI
Se del tutto legittimamente ( dal punto di vista filosofico ) definiamo l’oggetto come “ tutto ciò che è davanti a noi e che si presenta alla nostra considerazione “ ( e come tale è percepito dai nostri sensi ) possiamo dire che anche la poesia e la musica sono da considerare oggetti.
Non ho alcuna esperienza musicale e, quindi, mi astengo dal trattare di essa.
VII.
Quanto alla poesia come non rilevare – empiricamente – la sua specifica differenza dalle manifestazioni artistiche  di cui ho parlato in precedenza ? Non tanto – osservo – nelle più remote origini quanto nelle sue più “ recenti “ vicende.
Quanto al lontano passato anche ad essa viene riconosciuta una “ funzione “ magica e, dunque, recuperata una certa “ utilità” ( vd Seppilli: Poesia e magia, Einaudi 1971 ),ma certo è proprio di essa la specificità del “ materiale” entro il quale si manifesta: la parola.
Verba volant sembra volere segnalare una particolare fragilità di questa espressione artistica. In linea pratica sembrerebbe   che la tradizione orale che ha salvato poemi di prima grandezza sia stato soltanto “ un felice incidente di percorso”.
Ma la realtà si è sviluppata in un modo totalmente differente per l’intervento degli dei. L’invenzione dell’alfabeto e della scrittura attribuita al dio egiziano Thoth o Theuth ( Platone:
Filebo,17 b-c e Fedro,274 c ) non solo ha tolto la poesia dalla propria precarietà ma ha finito per assicurare ad essa una sorta di immortalità attraverso la “ riproducibilità all’infinito” del testo scritto. Questa riproducibilità si presenta fin dall’origine e i mezzi tecnici del presente ne accentuano solo la facilità . Solo un poeta può permettersi di dire con una certa sicurezza e quasi tracotanza   “ exegi monumentum aere perennius “ ( Orazio, Odi III, 30 ) di fronte allo sfacelo delle rovine di Pompei , l’usura degli affreschi, lo sbriciolanti delle statue e i buchi del tarlo sulle
tele.
Ha poco senso, ed è forse addirittura regressivo, rimpiangere il tempo dell’oralità. Il presente si impone con i suoi dati: oggi la poesia vive attendibilmente solo nei “ testi stampati” che rappresentano, in qualche modo e con notevoli caratteristiche differenziali ( le vedremo ) la riduzione della poesia ad oggetto.
La poesia è , e resta, ovviamente, parola e in quanto la sua epifania piaccia a qualcuno possiamo definirla bella così integrando la massima di San Tommaso ( quae audita placent )
Ma qui cominciano i problemi.
VIII.
La volatilità sembra essere una delle ragioni che impediscono ad essa di “ cristallizzarsi “ in un prodotto con un valore estetico “ aggiunto “. La poesia ancorchè imbalsamata  “ nel libro “ non viene appesa alle pareti di una prima o seconda o terza casa per il piacere del padrone e/o degli ospiti. Si aggiunga – e ciò non è poco – che la poesia stessa ( il discorso è addirittura banale in una attualità di scolarizzazione  di massa ) non ha davvero alcun valore aggiunto ( in senso strettamente economico ). Il materiale su cui si cristallizza non offre alcuna resistenza all’opera dell’autore e non occorre alcuna capacità tecnica particolare per scrivere versi  scambiabili per poesie. Non vi è neppure il valore del materiale usato. Insomma se la poesia è “ anche “ un oggetto lo è in modo del tutto particolare. L’obbiezione secondo cui la poesia oggetto avrebbe il valore aggiunto della propria eccellenza “ come poesia “ è inconsistente perché tale pretesa eccellenza deve essere predicata per tutte le arti – ammesso che tale giudizio sia possibile – e non è specifico dell’opera poetica.
IX.
Nonostante ciò, anche la poesia-oggetto ha un proprio mercato . Il libro di quel tal poeta si vende
di più di quello di un altro ed è operabile anche una sorta di classifica .
 La poesia, così inserita nell’oggetto libro è dunque poesia –oggetto e seppure con caratteristiche del tutto marginali si inserisce nel discorso generale del mercato.
E veniamo, dunque, alle particolarità di questo mercato rispetto alla poesia.
Il quadro di un pittore ( ma ciò vale anche per la scultura ) può piacere molto al possessore e quindi “ essere bello per lui “ ma il valore di scambio ( il suo prezzo ) non dipende mai – in senso assoluto – dal valore estetico attribuito ad esso dal possessore. Costui – se vuole venderlo – si accorgerà che il mercato è relativamente sordo alla sua valutazione estetica e che il prezzo del quadro dipende da fattori esterni. Alcuni sono di tipo socio-culturale e li possiamo inserire ( senza che ciò implichi alcun disprezzo ) nella nozione di Moda ( “ Tu mostri di non conoscere la potenza della moda “: Leopardi, Dialogo della Morte e della Moda ) ma proprio la coessenzialità  di moda e società / cultura non consente di vedere in essa una entità per così dire “ imparziale e
immutabile “. Anche la “ fama “ cristallizzata attorno ad opere “indiscutibilmente belle “ fa parte del nostro background socio-culturale ( se non altro perché convalidata da un giudizio critico permanente ) ed è uno degli strumenti attraverso i quali si può pilotare il gusto e, con esso, il mercato. La moda è pilotata e tanto più lo è quanto più incrocia il proprio “ cammino oggettivo “ con gli interessi soggettivi di singoli o categorie significative. Al di fuori della cerchia sempre più ristretta dei “ grandi maestri del passato “ ( il concetto di passato è relativo e può consistere anche nella retrocessione nel tempo – in funzione celebrativa – di artisti presenti ) , il valore commerciale di un’opera pittorica o assimilata dipende dai mercanti di oggi che , come ho detto,hanno tra i loro strumenti di valutazione anche i valori di ieri.
L’integrazione tra Moda e Morte è inestricabile e la prova persuasiva della bontà estetica  diventa invincibile se accompagnata da un’altra valutazione commerciale  determinata con  criteri del tutto differenti. Si può avere , al limite , un totale scardinamento del rapporto ( relativo ) tra piacere estetico e valore estetico e, paradossalmente,ma non tanto,una sorta di oggettivazione del valore estetico attraverso il canone mercantile. Il possessore di un quadro la lui giudicato esteticamente brutto si stupirà della diversa valutazione che esso ha sul mercato e diventerà, se vuole immetterlo in esso a fini speculativi,artefice, anche se in minimo grado,di quella valutazione commerciale di cui si è stupito.
Le galleria d’arte, i mercanti d’arte e, come detto, anche i semplici proprietari di opere artistiche  diventano complici di una  Moda esistente  e ,nello stesso tempo,più o meno determinanti autori di una Moda a venire,in un gioco di interessi complesso ed equivoco.
Non si può escludere che in alcune performances parallele di pitture e lettura di poesia si annidi non la pur interessante proposta teoretica dei rapporti tra queste due forme d’arte ma la più o meno innocente consapevolezza dei meccanismi del mercato delle arti figurative.
X.
Dove e come si pone la poesia-oggetto in questo complesso schema?
Anche in esso la poesia mostra la propria singolarità.   Essa non può vantare alcuna oggettiva scarsità ( che secondo gli economisti è uno dei fattori di aumento valore di una merce )salvo il caso – che si pone in altra sfera di considerazioni – del libro antiquario ( che prescinde nella sua essenza dal contenuto ) . La poesia oggetto non può vantare , come si è già detto, una sorta di nobiltà collegata alla resistenza dei materiali, al loro prezzo e alla abilità tecnica dell’autore .Si è detto e si deve ripetere con grande determinazione che la poesia-oggetto è alla portata di tutti sia nella sequenza ispirazione/espressione sia nella successione espressione/cristalizzazione in forma scritta. Sinteticamente e banalmente, ma non per questo contro la realtà: tutti sanno scrivere una poesia, tutti sono in grado di renderla testo scritto e dunque essa – nel senso provocatorio e provvisoria che abbiamo assegnato a tale concetto – “ è alla portata di tutti “
Ecco, direbbe l’Ottimista Inguaribile, il campo ideale per il “ trionfo del canone selettivo del Bello “ posto lassù nel paradiso platonico delle idee , ignaro di tutto che si chiama mercato.
Questa conclusione che i Poeti ( l’uso della maiuscola è, a questo punto, una necessità logico-critica ) difendono a spada tratta, e a volte con le peggiori intenzioni,dipende però da alcune condizioni e cioè : a ) il Bello è definibile diversamente dall’applicazione di un piacere soggettivo ;  b ) il prodotto poetico è estraneo al dialogo Moda – Morte; c ) il prodotto poetico è totalmente estraneo alla dimensione socio-economica che si manifesta nella produzione e circolazione del libro e dunque all’interesse di chi li stampa o li fa stampare.
Se queste condizioni mancano, tutto ciò che si è detto a proposito della pittura si deve necessariamente trasferirsi al campo della poesia-libro.
Ed è qui che il discorso si fa davvero interessante. Vediamone qualche aspetto analizzando la realtà.
XI.
La prima osservazione da fare è che esiste realmente un mercato della poesia-oggetto o più semplicemente del libro di poesie. Ancorchè in misura ridottissima il libro di poesie si stampa ancora e viene ancora venduto . Tale realtà si può scomporre in pratiche diverse che vanno dalla grande editoria al piccolo editore per  finire – estremo, in tutti sensi, della catena - allo stampatore su commissione da parte di uno dei numerosi vati in circolazione.
Ma la differenza essenziale di portata tra tali varie eventualità non si fonda tanto sulla qualità dello stampatore quanto  piuttosto sul tipo di interesse che muove la relativa operazione. Per la grande editoria la stampa soddisfa, molto spesso, un desiderio di immagine fondata ( chissà per quanto ancora )  sul presupposto di una particolare nobiltà del lavoro poetico. E’ chiaro, d’altra parte, che se si fa un’operazione destinata, anche se in minima parte al mercato, vi deve essere anche un interesse economico diretto ( un certo guadagno nella vendita del libro di poesie ) o indiretto
( prestigio dello stampatore e conseguente una immagine maggiormente spendibile sul mercato )
Presto o tardi al commercio si arriva.
Nella piccola editoria la questione diventa un po’ più complessa. Sembrerebbe preminente l’interesse culturale ( comunicazione della cultura poetica in sé ) , ma ancora una volta il mercato fa capolino , e come. Il rispetto di una saldo positivo ricavo/costi è maggiore che per la grande editoria che può pensare di recuperare una parte delle perdite dell’operazione culturale attraverso i ricavi di altre operazioni editoriali (  i romanzi etc ).
La piccola editoria, dunque, quali che siano i suoi intenti, sente più intensamente sul collo l’alito del mercato  e , se vuole sopravvivere, deve sfruttare al massimo quei meccanismi che consentano ad essa un saldo positivo. Tra questi mezzi vi è – lo sanno tutti – quello della pubblicazione a spese dell’autore ( o l’impegno dell’autore ad acquistare un certo numero di copie ), meccanismo che – secondo alcune testimonianze – può consentire un certo ritorno economico, anche se modesto. Tale sistema si pone in una posizione ambigua tra il fine nobile della propalazione della Poesia e quello meno nobile del soddisfacimento di autocompiacimenti poetici privi di dignità poetica.
Ma è del tutto ingeneroso scagliarsi contro tale situazione perché – se si ha un occhio disincantato sulle cose – si avverte che la stessa ambiguità può riscontrarsi – ancorchè con modalità diverse – anche al livello dell’editoria maggiore.
L’interazione con la Moda non avviene sempre e comunque in unica direzione ( autore- editore ) ma anche in senso contrario . L’autore può essersi conquistato una certa fama nel proprio contesto sociale e nel proprio secolo ( e da qui parte una diversa e connessa indagine sul come e perché tale conquista sia avvenuta ) . Tale posizione conferisce alle sue poesie un una sorta di valore aggiunto “  che possiamo ipotizzare , egualmente, indipendente o dipendente dal valore estetico in sé . E’ evidente, richiamando quanto è stato detto, che l’editore ha interesse ad accaparrarsi “ l’autore famoso “ come quello che , presumibilmente, sarà più venduto.
Il fenomeno – particolarmente intenso nel mercato delle opere d’arte  direttamente definibili come oggetti di mercato – si propone anche rispetto al libro di poesia anche se in termini più ridotti.
Ma tornando all’editoria , piccola o grande che sia , si deve rilevare, rispetto ad essa, anche un altro fenomeno, tutt’altro che marginale nella “ qualità “ , ed è quello della commistione tra funzioni produttive all’interno dell’azienda editoriale e selezione dell’autore. E’comune esperienza la relativa facilità con la quale un poeta che sia, per avventura, inserito nell’organizzazione aziendale riesca a pubblicare un libro di poesia presso la stessa azienda in cui opera o in aziende collegate alla prima. La pubblicazione di tale poeta/dipendente può soddisfare esigenze più o meno importanti e di diverso contenuto dell’editore   ma incrocia un interesse intensissimo che è quello dell’autore e da questo incrocio nasce l’ingresso del poeta/dipendente sul mercato.
Se l’interesse dell’editore, quale che sia, è sufficientemente forte può determinare una sostanziale indifferenza ai “ valori estetici oggettivi “ dell’opera ( sto ragionando seguendo l’ipotesi che tale valore esista ).
Si arriva , poi, a veri e propri “ conflitti di interesse “ ( verso  la Poesia ? ) quando il poeta che pubblica per un certo editore ha, nell’organizzazione di costui, il compito di selezionare il
“ mercato della poesia “, diventando così selezionatore di sè stesso.
Gli intrecci equivoci ma reali e realmente operativi si colgono anche tra editori e critici letterari.
E’ bene chiarire subito che la nozione di “ critico militante “ non è così ristretta e nobile come sostiene  la  “ sinistra culturale “. Tutti coloro che entrano sul mercato e quindi non possono non volere la distribuzione del loro “ prodotto” ( quale che esso sia )debbono fare i conti col mercato ed elaborare strategie di penetrazione in esso .Diventano  combattenti e “ perdono l’innocenza “.
Se un critico che si autoproclama militante ha voce presso una istituzione editoriale ( non può non averla ) favorirà l’ingresso sul mercato di colui che egli ritiene poeta “ esteticamente valido “. In ciò non vi è alcuna “ malafede “ se non si mistificano i meccanismi dell’operazione.
Basta avere occhi aperti e un minimo di senso critico per arrivare all’affermazione che non vi sono innocenti  una volta che si voglia entrare in un meccanismo di mercato.
Il più innocente o, meglio, il meno colpevole, è colui che pubblica a proprie spese pagando quel poco di “ fama eterna “ che dura lo spazio di un pomeriggio nel quale presenterà la propria opera immortale  in uno spazio qualunque che diventa per lui – come insegna Goethe  - un “ luogo “. E ci sia chi vuole esserci.
L’estrema innocenza si raggiunge – forse- nella riconquista di quella dimensione originaria della poesia che è l’oralità la quale implica però ( tutto ha un prezzo ) l’accettazione dell’amara sentenza della Sibilla: “ …così nel vento nelle foglie lievi – si perdea la sentenza di Sibilla “
( Paradiso XXXIII,45-46 ). Eventualità che nessuno dei poeti vuole che si realizzi.
Per il resto, il cerchio rimanda a San Tommaso, dal quale ho cominciato.


Milano, maggio 2012.





13 commenti:

giorgio linguaglossa ha detto...

Caro Giorgio,
sulla impostazione del tuo discorso nulla da eccepire. Dico solo una cosa e dico (con Harold Bloom) che ogni qual volta dei poeti o dei critici sventolano la questione del «Bello» pongono in essere una operazione culturale conservativa, vogliono «conservare il Bello» contro l'invasione della marea del «Brutto»; di qui ne discende che chi propugna il «Bello» ne detiene (e ne intende detenere nelle sue mani) a buon diritto anche le chiavi di accesso e ne diventa un guardiano, rissoso e spesso scorbutico.
Altra questione è porre l'equivalenza: «Bello» = «Valore» o, addirittura «Valore aggiunto». E qui mi sembra che una critica marxiana dei concetti in argomento sarebbe la benvenuta; come anche il concetto di «mercato». Ma certo il «mercato» non è neutrale ed è condizionato dalla interazione delle Mode culturali, dei gusti sedimentati negli strati sociali dei consumatori (o dei fruitori, concetto da tenere distinto da quello del consumatore). Per farla breve, vorrei dire che una volta che il testo viene impacchettato e posto sul «mercato» dei compratori, solo in quel momento si pone quell'altro problema ben più subdolo e invincibile del «mercato dei Modelli culturali», e qui si apre un altro discorso sui «monopoli», sui «filtri» sui colli di bottiglia che operano a monte e a valle del «mercato dei Simboli e delle Mode», vale a dire sulle «Istituzioni» che detengono il corredo del «Sapere» e dei «Valori» culturali (le Università, le Associazioni, i Partiti, la Chiesa etc.).
Insomma, una volta che il testo è impacchettato e infiocchettato in un libro, possiamo dire che cominciano i dolori.

Anonimo ha detto...

A Giorgio:
nel tuo scritto si sente tutta la tua grande personalità e passione per la poesia. A parte questo, l'argomento non sorprende ma fa pensare soprattutto a: -Finirà la poesia? E come finirà?- Come vedi da me è scaturito un pensiero pessimistico, sono molto legata alla poesia in maniera poco direi pochissimo razionale e di conseguenza potrei approvare ogni meccanismo di divulgazione di essa, ma non la prostituzione del poeta al mercato che chiede sempre cose nuove...la novità deve scaturire coraggisamente dal poeta al mercato e mai viceversa. Il prezzo in delusioni che il poeta paga, spesso è grandissimo, nel senso che il suo lavoro viene talmente setacciato dalla moda del momento che non gliresta che continuare a scrivere per passione , per fede in ciò che fa , il resto è un meccanismo nel quale ci stai o non ci stai. Qualcuone c'è stato , ora è famoso , non ci resta che leggere le sue opere e trarne conclusioni non condizionate nè condizionabili. Ciao e davvero grazie grazie.Emy

Anonimo ha detto...

Riflessioni di un pubblicitario.

I miei complimenti per l'headline "Clicca per leggere le poesie".
Nel linguaggio pubblicitario, per affrontare il tema del poesia come oggetto, si parlerebbe di fisico del prodotto. Descriviamo il fisico della poesia:
è una particolare forma di scrittura facilmente riconoscibile perché caratterizzata da numerosi a-capo.
Oltre che per distinguerla da altri generi di scrittura, gli a-capo servono ad evidenziare le particolari valenze di questa scrittura, che sono estetiche e di contenuto.
In realtà la particolarità del linguaggio poetico è tale che l'uso del verso breve (interrotto, isolato, cadenzato) sarebbe superfluo. L'esempio che segue lo dimostra:
Meriggiare pallido e assorto presso un rovente muro d'orto, ascoltare tra i pruni e gli sterpi schiocchi di merli, frusci di serpi. Nelle crepe del suolo o su la veccia spiar le file di rosse formiche ch'ora si rompono ed ora s'intrecciano a sommo di minuscole biche. Osservare tra frondi il palpitare lontano di scaglie di mare mentre si levano tremuli scricchi di cicale dai calvi picchi.
E andando nel sole che abbaglia sentire con triste meraviglia com'è tutta la vita e il suo travaglio in questo seguitare una muraglia che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia. (E. Montale: meriggiare pallido e assorto).
E' evidente che togliendo gli a-capo l'originalità del testo non ne risente. Dunque la funzione del rigo breve deve essere un'altra, e va ricercata alle origini del poetare stesso che deriva dall'oralità, e ancor prima dal canto. Infatti l'azione di "imprimitura" svolta dal rigo breve agevola la possibilità di rimandare a memoria l'intera composizione.

Dunque questo è il fisico del prodotto-poesia, o se vogliamo della poesia come oggetto.

A cosa serve, c'è una reason why?
Come per tutti gli oggetti anche la poesia dovrebbe poter contare sul valore d'uso. E siamo all'aspetto deficitario: siamo al punto che nessuno sa più a cosa serva. Questo può dipendere dal fatto che questo prezioso "condimento" intellettuale non viene considerato dai media come valore aggiunto alla comunicazione. Ne deriva che l'oggetto-poesia riposi nel suo libro-cassetto al pari di qualunque altro utensile fuori moda, come una salsiera del settecento o un vaso di Alessi scelto sul catalogo della lista nozze.
(segue)

Anonimo ha detto...

Alcune considerazioni sul fisico del prodotto:
- ha ancora senso insistere sul verso breve se non vi è necessità di rimandare a memoria quanto s'è scritto?
Sì, ne risentirebbe la visibilità dell'oggetto-poesia che altrimenti si disperderebbe nel magma della comunicazione*.
- il libro: è il mini-teatro (portatile) della rappresentazione poetica. Ma anche uno spettacolo di marionette è teatro, può bastare?
No, troppo spesso la stampa digitale produce libri in carta pessima dove, per contenere ulteriormente i costi ( del poeta) si arriva ad affollare le pagine dentro gabbie risibili di un cm. Inoltre andrebbero abolite le prefazioni perché rallentano l'inizio della lettura-spettacolo, o andrebbero messe in coda (se è il caso mettere uno strillo in copertina).
Il libro è vissuto dal lettore come un evento, anche se privato, e andrebbe maggiormente sostenuto. In molte antologie si usa mettere fotografie, album di famiglia, testimonianze visive che risultano avere un buon indice di gradimento. Perché rinunciarvi? Perché non vivere maggiormente il libro nella sua storia, nel contesto esistenziale e culturale dov'è nato? Di conseguenza, perché affidarsi al tipografo invece di avvalersi della collaborazione di un valido art-director? Perché costerebbe assai di più? E mettiamoci della buona pubblicità, che diamine.
- Esistono altri veicoli possibili per la poesia?
Sì, e senza cadere nella trappola asfittica di internet (che va benissimo ma condiziona il linguaggio). Si possono creare circuiti nuovi e differenti: poesie per ascensori, per sale d'attesa, per automobilisti, per autolavaggi, per viaggi in treno e aereo… antologie o singole poesie in autiolibri o per proiezione. Queste dovrebbero essere le presentazioni del libro, e se non piacesse la pubblicità tra le pagine si faccia come la Ferrari che nel modello base è fatta solo per il piacere di guidare.
Al momento non mi viene in mente altro.
mayoor


*i sono segnali recenti, nel mondo giovanile (es. hip hop), che indicano un rinnovato interesse per la scrittura ritmata, se non addirittura per la metrica. Sembra che agevoli la composizione e, contrariamente al verso libero, offra maggior sostegno all'ispirazione… canta questo testo, si potrebbe dire. Senza contare che, sempre nel mondo giovanile, sembra esserci un rinnovato interesse per l'improvvisazione.

Anonimo ha detto...

Parlar di pubblicità ai poeti è come sventolare trecce d'aglio in cimitero.
mayoor

Anonimo ha detto...

Leggo con piacere dopo * che si sta profilando un maggior interesse per il carattere ritmato e la metrica e che " sembra " che tali artifici agevolino la composizione e al contrario del verso libero offrano maggiori sostegni all'ispirazione. Vorrei segnalare che vi sono importanti contributi lingustici sulla importanza della rima ( qualcosa di " minimo " ho scritto anch'io ).Molte delle riserve sull'importanza delle regole nel " fare poesia " nascono da equivoci sul signbificato di " ispirazione " che molti,troppi, vedono come un cavallo sciolto.Giorgio Mannacio

Anonimo ha detto...

da Rita Simonitto

Scrive G. Linguaglossa a Giorgio Mannacio a fronte del suo post del 20.6.12 *La poesia come oggetto*:
“Caro Giorgio, sulla impostazione del tuo discorso nulla da eccepire. Dico solo una cosa e dico (con Harold Bloom) che ogni qual volta dei poeti o dei critici sventolano la questione del «Bello» pongono in essere una operazione culturale conservativa, vogliono «conservare il Bello» contro l'invasione della marea del «Brutto»; di qui ne discende che chi propugna il «Bello» ne detiene (e ne intende detenere nelle sue mani) a buon diritto anche le chiavi di accesso e ne diventa un guardiano, rissoso e spesso scorbutico”.
Mi aggancio a questa risposta per estendere il mio pensiero ad altri recenti post a cui non ho avuto tempo per rispondere prima. Mi scuso pure per non riuscire a stare dentro la programmazione dei tempi dati dal Blog nel suo susseguirsi degli interventi:
a) dibattito Linguaglossa-Abate sui termini poetici arcaici, la *lingua morta*, utilizzati da M.R.Madonna; b) la poesia “nel cortile della morte” di D. Santoro .

Innanzitutto non penso (mi corregga lui, se sbaglio) che per G. Mannacio la Bellezza stia da una parte e la Bruttezza dall’altra in una scissione così netta: altrimenti non avrebbe utilizzato, in un altro post, il concetto di “enigma della bellezza” di Rella.
La Bellezza non è un concetto astratto in sé conchiuso, quanto l’esito di un conflitto tra il *fascinans* ed il *tremendus*, che sono consustanziali quando l’esteticamente bello, che si gode con i sensi, fa percepire nello stesso tempo il nascondimento del suo profondo sconosciuto, il *phantasmata* della sua assenza. C’è sempre, pertanto, un *o-sceno* di cui si deve tenere conto e che può entrare in scena. A volte, per risolvere radicalmente, senza affrontarlo, il conflitto estetico tra la bellezza presente e la percezione della sua mancanza, si scivola nell’estetizzante, nella messa in scena dell’o-sceno.
Leggendo la prima poesia di Daniele Santoro presentata nel Blog, ho percepito proprio questo: tutto è già in scena. Percezione sostenuta anche dalla fotografia, a-emotiva al massimo in quanto tutto perfetto, tutto leccato, non un capello fuori posto, tutto pronto come per girare la scena di un film d’effetto e poi tutti gli attori assieme a mangiare ‘ tarallucci e vino’, vittime e carnefici. Nessun vuoto tragico in cui si può gettare lo sguardo; tragico perché là potremmo incontrare anche noi stessi, nessun abisso in cui rischiamo sì di perderci, ma da cui possiamo emergere con una esperienza in più.
Pasolini cercava disperatamente, nei suoi film, di rappresentare questo enigma della bellezza (in “Che cosa sono le nuvole”, la frase finale di Totò a Ninetto Davoli, ambedue scaricati nell’immondezzaio, che, guardando le nuvole, esclama “Ah, la straziante, meravigliosa bellezza del creato”); oppure, attraverso la contrapposizione tra la Bellezza plastica estetizzante della Deposizione del Cristo nel film “La ricotta”, con la ricerca della composizione geometrica ed i colori brillantissimi, e la estetica e drammatica bellezza della crocifissione e morte del povero Stracci. In questo ultimo film cerca di darne una espressione anche verbale quando, in una sua poesia ivi citata, parla di “certi ruderi antichi di cui più nessuno capisce stile e storia/ e orrende costruzioni moderne che invece tutti capiscono./ Mostruoso è chi è nato/ dalle viscere di una donna morta”.
Se la Storia ci narra ciò che è accaduto, l’opera letteraria ci narra gli schemi sottesi.
Aristotele, nel cap. IX della poetica, 1451 b, scrive: “Compito del poeta è di dire non le cose accadute ma quelle che potrebbero accadere… E perciò la poesia è cosa più nobile e più filosofica della storia perché la poesia tratta piuttosto dell’universale mentre la storia del particolare. L’universale, poi, è questo: quali specie di cose, a quali specie di persone capiti di dire o di fare secondo verosimiglianza o necessità, al che mira la poesia pur ponendo nomi propri, mentre invece è particolare che cosa Alcibiade fece o che cosa patì”

[continua]

Anonimo ha detto...

Da Rita Simonitto
[continua]

Seguendo qui una definizione elementare della poesia (ovvero una scomposizione nei suoi elementi primi) si potrebbe dire che essa è l’espressione di una RELAZIONE soggettiva che l’essere umano ha nei confronti del proprio sè e del mondo che lo circonda; dei limiti e delle potenzialità che in questi rapporti si pongono. E, per dare espressività a questa sua esperienza, utilizza il linguaggio come strumento d’elezione, anziché il canto, la pittura o la danza; anche se queste tre modalità possono essere comunque presenti metaforicamente nell’espressione poetica la quale è al contempo orale, visiva e anche ritmica, non soltanto perché segue un ritmo ma in quanto fa danzare insieme il sentire, l’immaginare e il pensare.

Questo aspetto relazionale fa sì che il poetare sia a disposizione di tutti anche perché non richiede un grande investimento tecnico se non un foglio di carta e un lapis (un tempo) e, a volte, nemmeno quelli per coloro che amano improvvisare le loro composizioni. Come afferma Mannacio: “non occorre alcuna capacità tecnica particolare per scrivere versi scambiabili per poesie”. Il problema si pone al momento in cui la poesia ‘viene data al mondo’, là dove si confronta, perdendo via via l’innocenza infantile, con le leggi che governano il mondo, leggi di mercato, non solo, ma anche di potere che attraverso il mercato si può instaurare.
Fare poesia è invece un’altra cosa. E’ un’opera di ingegno che, attraverso *mètis*, *dolos* e *techne* , cerca di padroneggiare gli oggetti del mondo interno ed esterno usando stratagemmi intelligenti. E dove “in luogo dell’intrappolare, del codificare [tipico della scienza] vediamo implicate l’apertura, la recettività, la meraviglia” (Martha C. Nussbaum, “La fragilità del bene”).
*Metis*, come modo di conoscere che combina la *fancy* e l’*imagination* di Coleridge con l’attenzione, l’intelligente sagacia e il senso dell’opportunità nei confronti di una realtà fugace, sconcertante e ambigua.
*Dolos*, come capacità di utilizzare la finzione, il gioco sapiente con il simbolo. Espressione di ciò è il mitico Ulisse.
*Techne* come abilità linguistica che attinge ad ogni esperienza espressiva sia legata alla *parole* e sia alla *langue* da qualsiasi parte essa provenga a condizione di essere utilizzata ai fini di avvicinarsi il più possibile a quel ‘vero’ che il poeta avrebbe colto nel suo contatto con il reale.

[continua]

Anonimo ha detto...

Da Rita Simonitto
[Continua]

Certo, quando Ennio scrive:

“ Può il merlo non gracchiare (specie se posato sul frontone di un tempio pagano)?
Può il mare non sciabordare (specie se entra in un peristilio)?
Può un narciso (con la minuscola?) non guardare nello specchio la propria immagine riflessa?
Queste domande - lo so - sono rivelatrici: dietro o sotto la mia impressione immediata mostrano già (inevitabilmente) la mia “posizione di fondo”, la mia predisposizione o attesa o abbozzo di giudizio. Mi è parso, cioè, di cogliere subito da questi primi versi una vischiosità, una falsa eternità nel linguaggio poetico appartato che Maria Rosaria Madonna ha adottato; e che lo fa somigliare - vedi un po’ questo dove ti arriva! - a un linguaggio bloccato, quasi come quello dell’aritmetica: lì 2+2 fa per forza quattro; e così, qui, un nome si tira dietro un certo aggettivo o viceversa, perché si muove in un sistema (linguistico) consolidato, tradizionale, ben noto. Come se Madonna maneggiasse una «lingua morta», appunto, che dispone di un lessico accertato e ormai, per forza di cosa, chiuso e “specialistico”.

non posso che dargli ragione.
Ma se evitiamo di fissarci sul richiamo statico e scontato tra il nome e quell’aggettivazione (o quell’ attribuzione) e solo quella, ci troveremo a dover lavorare in un luogo enigmatico. Là dove si potrà cercare di capire il messaggio profondo che la poetessa invia. Infatti, come potrebbe usare parole di una lingua ‘viva’, o relazioni più dinamiche tra nome e aggettivo, se è un senso di morte che vuole trasmettere?
Maria Rosaria Madonna, in questa poesia, ‘reifica’, attraverso l’uso della ‘lingua morta’ una parte ‘morta-alla-vita’ che c’è dentro di lei. La potenziale bellezza delle immagini evocate (chi di noi non si è sentito emozionato in ambientazioni simili, ma con ben altri esiti, legati al fatto di averne accettato, in un certo qual modo, la caducità) viene portata a morire dalla poetessa a causa dell’assenza di un movimento interiore, forse legato al bisogno di una ‘falsa eternità’ che, attraverso il linguaggio, ‘falsamente eterno’ (Abate), Madonna cerca di raggiungere, invanamente.
Certamente si ‘respira’ un tempo sospeso, rappreso, pietrificato.
In questo sta la grandezza dell’autrice, nel farci percepire questo, almeno in questa sua poesia.
Quindi non è tanto l’uso di certi termini, la *techne* utilizzata da Madonna ciò su cui si concentra la mia attenzione, quanto capire se, e quanto, questo uso sia funzionale a dare una rappresentazione di una esperienza individuale che può anche riguardare, in un modo o nell’altro, ognuno di noi.

R.S.
[Fine]

Anonimo ha detto...

Errata corrige al commento precedente.
1)"fascinans" et "tremendum" e non "tremendus".
2)in "La Ricotta", la poesia di Pasolini non è citata, bensì 'recitata' da O. Welles.
Chiedo scusa, ma mi sono trovata impicciata nella gestione del numero di battute per cui certe correzioni figuravano da una parte e non dall'altra.
R.S.

Anonimo ha detto...

Sì, molti,troppi lettori, vedono come un cavallo sciolto l'ispirazione. E sicuramente tra i lettori non manca l'autore stesso, altrimenti si potrebbe dire che l'ispirazione altro non sia che un difetto della percezione, una sorta di miopia della coscienza a cui si potrebbe porre rimedio con semplici accorgimenti dettati dall'esperienza e dalla ragionevolezza. Spero avremo modo di parlarne ancora, più avanti, chiarendo la differenza tra esattezze dell'ispirazione e tumulti dell'improvvisazione.
mayoor

Anonimo ha detto...

Cara Rita Simonitto,sei stata chiarissima nel descrivere il tuo pensiero che condivido pienamente.Sì, nel fare poesia ci sono tanti scogli più o meno affioranti e si rischia sempre di naufragare. Perizia, certo, ma anche quella
" moralità " che è insita in ogni ricerca o ritorno.Non per nulla uno dei più profondi aforismi di Nietzsche sulla poesia è contenuto in Aurora - Pensieri sui pregiudizi morali,n.568 . Si fa fatica a condividerlo. Un caro saluto. Giorgio Mannacio

giorgio linguaglossa ha detto...

Cara Rita Simonitto,
il linguaggio poetico è un sistema di relazioni che è in rapporto dialettico con altri sistemi di relazioni, Che cosa voglio dire? Voglio dire che il linguaggio poetico di Maria Rosaria Madonna è un sistema relazionale che entra in rapporto conflittuale con i sistemi relazionali adottati dalla tradizione poetica italiana del tardo Novecento. Madonna mette in opera un (e qui ha ragione Ennio Abate) un linguaggio cristallizzato (morto) per metterne in risalto ciò che non è morto di quel linguaggio morto, opera una resurrezione di un linguaggio morto. Ma qui il distinguo è più sottile: in questo modo mette fuori gioco i linguaggi maggioritari del post-sperimentalismo e della poesia degli oggetti mostrando (indirettamente) come quel linguaggio morto e stereotipato sia, quello sì, un linguaggio morto! In questo modo Madonna rivitalizza quegli oggetti che entrano nel suo linguaggio poetico. La poesia di Madonna la si può apprezzare soltanto se si coglie questo distinguo sottilissimo: è un linguaggio relazionale perché non si riferisce ad altro che non sia il mondo degli oggetti del proprio linguaggio poetico. Del resto, criticamente parlando, non si può valutare un linguaggio poetico da ciò che è esterno a quel linguaggio poetico ma la valutazione deve iniziare e finire entro il contesto storico stilistico e filosofico di quel linguaggio poetico. La straordinaria espressività (e novità) del linguaggio poetico di Madonna la si può cogliere proprio nei suoi nessi relazionali che ci dicono il «noto» per svelarci ciò che «non è noto»; la restaurazione di Madonna è, invece, a mio avviso, una vera e propria rivoluzione! A parte il fatto che il merlo posato sul frontone di un tempio pagano potrebbe anche non «gracchiare», potrebbe singhiozzare, sibilare, ugolare, strillare, mormorare etc., non vedo affatto nulla di così scontato nell'uso che Madonna fa del verbo «gracchiare», e poi il fatto che sia un merlo e non un corvo che «gracchia», come hai ben notato tu, ci dice molto di più, ci dice che quel «merlo» «gracchia» perché il suo canto è Brutto, prodotto di Menzogna, e il fatto che si posi «sul frontone di un tempio pagano» ci dice che il suo canto è funesto e infausto, è il canto di vittoria che irride il tempio pagano. Il «merlo» che gracchia diventa così il simbolo (il correlativo oggettivo) della tradizione poetica italiana, la quale «gracchia» non sa fare altro che «gracchiare», e il suo suono sinistro e lugubre è il contrario della dizione apollinea dei versi di Maria Rosaria Madonna, la cui poesia avviene sotto il segno di Apollo, è apollinea e dionisiaca (e non cristiana!). L'accenno al mare che entra sciabordando nel peristilio è un simbolo relazionale che ci collega a un'altra civiltà del passato che è scomparsa ad opera del «merlo» che «gracchia».
Quello che più conta poi è la siderale distanza che Madonna pone tra la propria poesia e quella che si è fatta nel Novecento (in specie la seconda metà). È proprio questa distanza della sua poesia da quella del suo tempo che ne fa un valore relazionale inestimabile.
Se uno dei criteri per la valutazione di un'opera di poesia è il suo valore relazionale, quello della poesia di Madonna sta proprio in quell'atto di negazione della direzione intrapresa dalla poesia italiana del secondo Novecento. La sua massima relazione è nell'assenza di relazioni con quella tradizione. È questo il punto centrale della sua poesia. Il punto altamente politico, se mi si passa il termine. E la critica ha un senso e un valore soltanto se è capace di sviscerare i punti critici di un certo tipo di linguaggio relazionale, altrimenti è chiacchiera.