martedì 19 giugno 2012

Ennio Abate
Giorgio, adelante con juicio...
Ancora su alcune poesie
di Maria Rosaria Madonna



Riprendo e rilancio (spero!) in questo post la discussione sulle poesia di Maria Rosaria Madonna già sviluppatasi intensamente (qui). [E.A] 


Caro Giorgio [Linguaglossa],
 intervengo sulle poesie di Madonna (qui) tenendo conto sia della discussione a più voci  avvenuta finora   sia delle  tua analisi (integrative) di singoli testi della poetessa. Parto al solito dalle mie impressioni di lettura.

Può il merlo non gracchiare (specie se posato sul frontone di un tempio pagano)?
Può il mare non sciabordare (specie se entra in un peristilio)?
Può un narciso (con la minuscola?) non guardare nello specchio  la propria immagine riflessa?[1]


Queste domande - lo so - sono rivelatrici: dietro o sotto la mia impressione immediata mostrano già (inevitabilmente) la mia “posizione di fondo”, la mia predisposizione o attesa o abbozzo di giudizio. Mi è parso, cioè, di cogliere subito da questi primi versi una vischiosità, una falsa eternità nel linguaggio poetico appartato che Maria Rosaria Madonna ha adottato; e  che lo fa somigliare - vedi un po’ questo dove  ti arriva! - a un linguaggio bloccato,  quasi come quello dell’aritmetica: lì 2+2 fa per forza quattro; e così, qui, un nome si tira dietro un certo aggettivo o viceversa, perché si muove in un sistema (linguistico) consolidato, tradizionale, ben noto. Come se Madonna maneggiasse una «lingua morta», appunto, che dispone di un lessico accertato e ormai, per forza di cosa,  chiuso e “specialistico”.  In questi versi abbonda una terminologia da libro d’arte di un’epoca circoscritta e comunque senza più scosse, immutabile. Si vedano le parole: ‘acquaforte’, ‘incastonate’, ‘nitore’, ‘arabeschi’, ‘intarsi’, feldspato’, ‘agorà’, ‘dande’,  ‘disuso’, ‘periplo’, ‘corbellerie’, ‘balbo’, ‘balbutire’, ‘ostico’, ‘famuli’. Esse vengono usate con la determinazione e la consapevolezza  di chi  vuole proprio  avere a che fare soltanto o prevalentemente con «parole morte». E con la illusione (creativa, certo) che, ad usarle in poesia, un po’ le si fa  resuscitare (almeno un attimo). Ma anche con l’intenzione di compiere una sorta di esercizio spirituale cristiano[2]: perché nel far ciò,  ci si rammenta che siamo morituri, anzi che si sta già morendo, che si finirà nel buio (o nel nulla). Proprio com’è capitato a queste parole in disuso (anzi «desuete»: così ci ricordiamo anche del lavoro raffinato di un critico sensibile come Francesco Orlando[3]) o rare o  per dotti (come dicono i dizionari).
Un fondo nichilista e religioso caratterizza queste poesie di Maria Rosaria Madonna. Perché  è alle prese con la problematica della  «salvezza» o della «resurrezione» (per contrasto: “noi” con quella banalmente storica della crisi: della poesia, dell’economia, della storia, ecc.). Ma attenzione: c’è una limitazione significativa, perché qui si pensa esclusivamente ad una resurrezione delle parole, non più della carne.[4] Ma c’è anche il problema del «male» (vissuto e trattato, però, in forma non storica).  E ci sono le immagini  archetipiche degli angeli e dei demoni. Ne viene fuori, secondo me,  un culto (salvifico, mi pare) della Poesia («la poesia salva la vita e riscatta il mondo/ e sono nel falso e nella menzogna/ coloro che dicono altro»). Che il sottoscritto, in buona compagnia con nonno Fortini, ha già altrove dichiarato di non condividere, mentre qui trova plausi ammirati.[5]
Ho poi colto a volo alcune ossessioni “private” di Madonna, sulle quali sarebbe interessante indagare anche con strumenti psicanalitici: l’immagine della pallina che ritorna; il tempo dello scrivere poesie minacciato da eventi politici eccezionali (la Rivoluzione russa!) come nel richiamo a Dottor Zivago; il ricordo -pare - di un tradimento.
Tuttavia, quando entro (facilmente, è vero) in questo linguaggio poetico, pur così distante da quello pratico quotidiano in cui sono volente o nolente immerso, non mi stupisco più. Anche  quando la poetessa, invece di dirmi che il mare è agitato (cosa che subito mi rievoca qualcosa di vivo nella mia memoria “meridionale”..), mi dice che «è un aquilone che un bambino/tiene per una cordicella»; o che «un antico vento solfeggia per il bosco/ etc…».
Il  surrealismo, che tutti ci ha sfiorati un po’ e poi è diventato (grazie agli investimenti dell’industria culturale) anch’esso «di massa», invadendo il mondo dei creativi e dei pubblicitari, dove è pane quotidiano - distribuito, masticato e rimasticato - nelle nostre vite metropolitane, ritrovato anche in questi versi di Madonna non mi dà più alcuna scossa, ma piuttosto un leggero senso di stanchezza, che mi fa  trovare l’immagine  appena simpatica o “poetica”.


Sto - spero - giocando a carte scoperte. Metto queste mie personalissime impressioni di lettura sul tavolo assieme alle tue note tesi: c’è stata una «riforma moderata» della poesia italiana; è stata introdotta da Giudici; ha dato la stura ai “minimalismi piccolo borghesi”; ha imbottigliato la poesia italiana; solo la «poesia modernista», che è «”altra”  rispetto a quella» riuscirà a far uscire la malcapitata dal collo della bottiglia. E mi chiedo e chiedo a voi tutti/e, che vi affacciate su questo blog: sono davvero queste poesie di Madonna (magari con l’aggiunta delle molte altre inedite) «moderniste»? E una soluzione alternativa a quella che tu attribuisci a Giudici e ai vari minimalisti? Indicano una strada “altra” e capace di  tirarci fuori dalla crisi della poesia (il punto su cui concordiamo - credo - un po’ tutti)?

Tiro lealmente le mie conclusioni, tenendo conto anche  di quelle espresse finora nella discussione. Posso riconoscere che lo stile “colloquiale” di Madonna non sia banale (Diano). Che siamo sicuramente nel campo della «parola poetica» (leggi un po’ di versi e scatta il segnale: qui poesia!, come scriveva Fortini) e non in quello del “quotidianismo”, che si mescola (pare, ma andrebbe accertato caso per caso senza fare di tutt’erba un fascio o un’ammuccchiata) fin troppo con la prosa o con sensazioni che ci assagono giorno per giorno o con il “rumore di fondo” dei linguaggi di massa o - come qui si è detto - con la «lingua dei famuli».[6] Considero  (senza esagerare) il valore, ma anche il disvalore dell’isolamento di Madonna: valore, perché l’isolamento le avrebbe «permesso di elaborare una lingua non sua»; disvalore, perché, senza «modelli e  maestri», scrivendo da autodidatta (ma da autodidatta comunque non rozza e che ha macinato molti libri, come ha notato Mayoor), quasi nessuno si è accorto di lei in vita; e tu, Giorgio, stai ancora in cerca di un editore per il suo  “Tutte le poesie 1985- 2002”. Però a me pare che  l’autorecludersi di Madonna in  questo suo immaginario classicheggiante (dai toni mortuari) sia la scelta di una sorta di monachesimo o eremitaggio poetico,  limitante però e non liberante (per lei e anche per noi lettori della sua poesia).  Tra l’altro la sento “pagana” solo in superficie (sempre in queste poesie qui lette). Come ho detto, un’attesa religiosa, spirituale, di  ricerca di salvezza, una sorta di «sospensione» (Mayoor) dal mondo reale e dalla storia sembrano prevalere. Madonna mi pare troppo attratta dal mistero, dalla magia delle immagini. E crea attorno a sé, come ha ben capito ancora una volta Mayoor,  un clima «restaurativo» o - direi - “restaurativo-umanistico” (ma bisognerebbe contestualizzare questa ricerca  e confrontarla con altre analoghe del periodo  in cui s’è svolta: gli anni Ottanta-Novanta appunto).
Mannacio, che a torto o a ragione diffida delle tue tesi “militanti” contro Giudici e i “minimalisti” o le accantona con più disinvoltura di me, ha fatto un’operazione, forse un po’ dissacrante (come la mia) ed improntata a un sano empirismo (anche questo - in parte - vicino al mio, quando  parto dai testi…): contatto coi versi qui pubblicati, registrazione delle proprie  reazioni di  lettore ”forte”, giudizi sintetici e veloci: calligrafia,  dispersione, retorica, gusto per la parola in sé, didascalismo, «arcaismo senza giustificazione emotiva, approssimazioni formali, spezzoni di realtà divenuti aneddoti etc». E arriva a una conclusione che sento  di far mia (con alcune precisazioni):  accetta Madonna come poetessa, ma non trova «notevole» la sua poesia e tantomeno  un modello per la poesia da farsi per uscire dalla crisi.
Anch’io, aggiungo, di fronte al tuo discorso critico, che troppo metaforizza e a volta tende a un ricamo lirico e all’enfasi,[7] trovo saggi certi richiami di Mannacio. Ad esempio, quando obietta: «Mi sembra che tu [Linguaglossa]" dica molto di più" di quello che " il testo" dica o suggerisca» o quando  ricorda che «la metafora [nei testi di Madonna] deve essere velata e rivelata dal testo e non dalle acute parole di Giorgio Linguaglossa».
Insomma io pure non vedo «svolta» in questi testi o un’indicazione di poetica a cui dovremmo guardare come a un modello. E non eccezionali mi paiono i meriti che elenchi: il fatto che questa di Madonna non  sia «poesia confessione» (alla Pozzi, alla Merini); che  lei dialoghi da pari a pari con altri poeti del Novecento (nel caso Kavafis); che non ceda ai «sensazionalismi» (alla Rosselli e, ancora, alla Merini); che nei suoi versi ci sia «metaironia»; che ci sia l’impressione di spazio. Certo,  la sua poesia è frammentaria e s’iscriva nella tradizione romantica (da Novalis in poi). E accetto, come tu sostieni, che Madonna «come ogni poeta di grande valore, tenta di ricomporre il frammento, ricomporre l'infranto, ricostruire la totalità ma una totalità di frammenti, di relitti e di delitti». Ma, intendiamoci, la totalità a cui lei, come i romantici, mira è, secondo me, quella statica, archetipica del mito, quella possibile solo in un mondo arcaico  o antico a cui quello d’oggi, anche se si ricomponesse, non assomiglierà mai più. Perché historia fecit saltus (dalla rivoluzione industriale in poi) e la totalità a cui si può mirare è pensabile (che non significa possibile o garantita!) soltanto nelle forme che potrebbero assumere sia le società che questo saltus  hanno compiuto irreversibilmente (quelle “occidentali”, ma ora anche quelle “orientali”) che quelle arcaiche o antiche, che posso pensare blochianamente nostre contemporanee (e quindi non “arretrate” o “sottosviluppate”!), ma non nostro modello, come avviene nella teoria della decrescitaalla Latouche, tanto per avere un riferimento di moda. (Qui so che dovrò riprendere un vecchio “duello” anche con Francesca Diano, che iniziammo su Le parole e le cose; e forse anche con Rita Simonitto… ma spero che nel frattempo, essendosi intensificato il confronto, anche su questioni spinose come queste si possa discutere a tutto campo…).

Questo schema (=ipotesi) mi guida anche nel giudizio delle poesie di Madonna. Se ho parlato di reclusione monacale dai toni mortuari, ritengo perciò che lo  spazio in cui si muove  sia soffocante e claustrofobico e niente affatto aperto.  E anche la temporalità in cui si pone, poiché Madonna pare  scegliere l’antico e l’arcaico cancellando il presente (conflittuale o in crisi; e la crisi, ci tengo a dirlo,  non è solo apocalisse già avvenuta, distruzione  di tutto), mi pare  “troppo chiusa”.
Tu parli di «una grande poesia di relitti, relittuaria, funeraria (non funebre!)». Perplesso mi chiedo: ma cosa  ne facciamo soltanto delle rovine, se non si ha un disegno nuovo in cui inserirle? Ci possiamo accontentare di questo nichilismo di fondo? Della sola pars destruens facendone una totalità?
Non vedo pertanto, come ho già detto, (almeno in queste poesie di Madonna, poi valuterò le altre inedite)  una «gioia della carne […] una gioia pagana irrefrenabile». Non ci può mai più essere oggi il paganesimo di una volta! Mi sento ancora  qui vicino alla posizione sia pur troppo   severa di Mannacio: «Che la situazione dei poeti non sia bella lo sappiamo da tempo, ma non è che cambi attraverso la supervalutazione di uno dei tanti che si aggirano, recitando, tra le tombe».
Non è  un cimitero il luogo in cui ci si possa ballare o sfrenarsi in amplessi amorosi pagani. E, comunque,  anche se alcuni  ci riuscissero, resterebbero in un cimitero. Il congiungimento di amore e morte resta per me irrimediabilmente un mito romantico. Sul quale riflettere a fondo. Ma  prima di  rifugiarsi ancora una volta in esso, tenterei di far uscire la poesia dalla crisi. In Madonna non esce, ma si chiude in un monastero o peggio in un cimitero.
Scendiamo giù dal pero. Siamo in una società capitalistica avanzata e in crisi, che  anche del paganesimo (e persino della cosiddetta “rivoluzione sessuale”) ha già dimostrato di sapersi servire per fare soldi e usarlo come instrumentum regni. E non dimentichiamo che anche se la poesia di Madonna rimettesse, come tu sostieni ( ma non dimostri), sul baricentro «la tradizione didascalica con quella metaforica e allegorica»,  ogni «perfetto equilibrio»  classico sarebbe solo di maniera, continuamente smentito dai conflitti e dal caos che ci  assalta appena  usciamo dalla soglia di casa o ci affacciamo al Web o alla Tv o, da turisti, in qualche paese “esotico”.
(Insomma, darei ragione ache a ‘Il fu GiusCo’ che ha fatto notare che sulla pars destruens forse siamo d’accordo, ma sulla  pars costruens non ci siamo. E questa discussione sulle poesie di Madonna ne è una prova).



Appendice:

Infine alcune annotazioni di contrappunto a singole tue affermazioni:

1. «Il merlo gracchiò sul frontone d’un tempio pagano»

Quando scrivi:

«Semplicissimo ed efficacissimo. Non ci sono trucchi. Tutto è chiaro, limpido. Il mondo pagano è tramontato per sempre. Un'altra civiltà si sta per affacciare, il mondo cristiano con le sue ombre e la sua teologia della crocifissione e della resurrezione».

Mi chiedo: ma cosa aggiunge di nuovo al risaputo storico questa “riassunto in poesia” di Madonna? Ben poco o niente, proprio perché, come tu dici «il lettore abita la contemporaneità del 2012, e sa come sono andate le cose in questi due millenni di Storia». Sul piano del rapporto poesia-storia, qui la poesia non aggiunge alcunché.


1.1. Inoltre dici:

«Madonna omette ogni accenno agli accadimenti dei due millenni di Storia e di stragi che si sono succeduti fino ad oggi, e li omette perché estranei alle esigenze di equilibrio e di armonia della prima strofe. La poesia per Madonna è suprema Armonia, suprema Finzione che hanno in sé la propria giustificazione».

A me  pare che proprio questa omissione della conflittualità della storia in base ad esigenze estetiche («di equilibrio e di armonia della prima strofe») sia grave in poesia. Così davvero la poesia intesa come «suprema Armonia, suprema Finzione», diventa Suprema menzogna! I suo fiori, come diceva Marx, finiscono per coprire le catene.  Siamo sulla sponda opposta di Foscolo: «e alle genti svela di che lacrime grondi e di che sangue».
 Cosa me ne faccio, allora, di questo respiro della dimensione del mito («qui si respira la dimensione del mito, della mitologia pagana, della civiltà ellenistico-romana che è tramontata»), se il mito invece di aiutare a svelare, nasconde?

1.2. Quando dici:

«le monete d'oro sono il simbolo di un tesoro che è stato dissipato: l'armonia del mondo pagano è stata infranta per sempre. Adesso tutto è chiaro: chi è quel merlo nero che «gracchia» sul frontone del tempio pagano? E' il poeta nero del tempo del mondo cristiano occidentale, costui gracchia, non può che gracchiare, le sue parole sono stridio informe e caotico che non possono più adire all'Armonia e al nitore del mondo pagano, sì, quel mondo scomparso «dove un narciso guardava nello specchio d'un pozzo la propria immagine riflessa e un satiro danzante muoveva...».

Come non vedere che ti fermi a una concezione puramente nostalgica del mito e non tener conto della visione, che a me pare  ben più matura di Leopardi? Egli non dimenticava mai il presente (moderno e conflittuale!), anche quando si calava nel mito. Non vi affondava. Ne riconosceva la Bellezza potente (una volta!), ma sapeva che non era più raggiungibile; e non vi cedeva, perché sapdeva che per l’uomo moderno quell’Armonia sarebbe stata falsa.

1.3 Quando scrivi:

«Qui non c'è arcaismo o senzazionalismo, non ci sono trucchi, le due strofe scorrono liquidiformi sotto gli occhi del lettore il quale deve "leggere" con gli occhi la poesia più che ascoltarla con l'orecchio; deve intelligere dentro la cornice delle sue immagini».
Ma un lettore critico non può dimenticare e abbandonarsi alle immagini e dimenticare che tutta la situazione che la poesia di Madonna gli presenta è un finto arcaismo,  che illude, ti attira, ma non permette ritorno al presente (conflittuale) perché l’ha cancellato (Cfr. 1.1.).
Non è che così uno respinge del tutto la poesia di Madonna, perché non sarebbe in grado di capirla o dimostri «sordità critica» o cede a una «lettura frettolosa». Né siamo tutti ostacolati dall’esserci abbeverati alla «fonte della poesia maggioritaria del minimalismo romano-milanese e dell'esistenzialismo milanese».
Semmai  succede che quei «sottilissimi scarti, quasi invisibili a occhio nudo» della poesia di Madonna siano davvero fragili. E questo  appare anche a chi non è affatto dalla parte dei “minimalisti”.

2 . «Sono arrivati i barbari, console! - dice un messaggero»

Tu sostieni:

«È la metafora del nostro tempo. I barbari hanno già vinto, ed è inutile resistere. Ma chi sono per Madonna i barbari? È la nuova civiltà mediatica che ha già imposto le proprie condizioni: la resa definitiva e senza condizioni dei cittadini di Costantinopoli. In un linguaggio protocollare tombale relittuale Madonna vuole comunicarci la notizia che è stata trovata la soluzione e che occorre accettarla senza ambasce né resistenze. Occorre prendere atto dei nuovi rapporti di forza. Di qui (ma la poesia non lo dice) nascerà una nuova forma di civiltà. Chi parla è un sopravvissuto? Ma la poesia non ci dice nulla neanche su questo punto».

Su questa tua  linea mi  pare che concordino anche  Francesca Diano («Oggi prevale quello che Zolla definisce "l'uomo massa", accecato dall'illusione dell'industria culturale, da lui già denunciata e criticata nel lontano 1959 nell'"Eclissi dell'intellettuale"») e Paolo Pezzaglia. Dico ancora chiaro e tondo che dissento;  e richiamo quanto ho scritto nel post sulle otto tesi (qui):

«Apprezzerei anche però un "Dante reazionario"( titolo di un libro di Edoardo Sanguineti) o dei Danti reazionari. Mi spiego. Il mondo nuovo che si va preparando molti di noi non lo vivranno e non possono immaginarlo. Ma hanno una buona esperienza di quello in cui hanno vissuto e della poesia del passato (diciamo fino agli anni Settanta in Italia).
Ebbene, assumano almeno l'atteggiamento di Dante. Ce l'aveva a morte coi borghesi della sua Firenze ( le masse d'allora), giudicava poesia solo quella - pensate un po' di un Virgilio - ma capì che il latino non era più veicolo praticabile, neppure per i poeti come lui, e passò al volgare. Certo da par suo, che era un aristocratico e la sapeva lunga.Noi forse non sappiamo passare al volgare d'oggi. Non lo sappiamo inventare. Ma almeno critichiamolo sapendo che sarà la lingua del futuro e cerchiamo di "grammaticalizzarla", per quel che ci riesce, secondo il latino ( poetico) che abbiamo appreso». 





[1] Questo mio approccio  alquanto irriverente  contrasta, a quanto vedo, con quello più coinvolto sul piano estetico di Rita Simonitto. È come se Rita, a differenza del mio modo di leggere i testi, ne valutasse in primis la loro tessitura simbolica («la poetessa ci fa sperimentare la tragica esperienza del fallimento di un legame estetico») e si muovesse a suo agio su questo piano («Le monete d’oro del narcisismo e dell’edonismo dionisiaco non permettono di prendere in considerazione l’esistenza di un Altro da sé, verso cui muoversi, verso cui sperimentare la spinta verso la bellezza e il conflitto estetico che ne deriva»). In me è forte - lo riconosco - l’esigenza di non autonomizzare il piano simbolico e di legarlo (troppo in fretta?) al piano storico-politico, perché solo da tale confronto il ‘simbolico’  svela il suo “sostrato conflittuale” che esso attutisce o nasconde.



[2] Secondo l’adagio latino: Memento homo, quia pulvis es et in pulverem reverteris  ("Ricordati uomo, che polvere sei e polvere ritornerai"). «La fortuna e il persistere di questa espressione, come delle consimili Memento mori ("Ricordati che devi morire") e Memento novissimorum ("Ricordati dei novissimi", cioè delle ultime cose, compresa appunto la morte), non risalgono solo al rituale e al formulario religioso ma anche a due tipici aspetti della società medievale, il penitenzialismo e l'ossessione, se non addirittura il compiacimento, della morte. Se ne hanno efficaci rappresentazioni, talora cupe ma anche ironiche, nei temi iconografici della danza macabra, dell'Incontro dei tre morti e dei tre vivi e del Trionfo della morte, poi ripresi e diffusi anche dal Cinquecento barocco della Controriforma fino alla metà del Settecento». (da: http://it.wikipedia.org/wiki/Memento_homo,_quia_pulvis_es_et_in_pulverem_reverteris)


3] Cfr. Gli oggetti desueti nelle immagini della letteratura. Rovine, reliquie, rarità, robaccia, luoghi inabitati e tesori nascosti. Einaudi, Torino 1997.



[4] Mi pare perciò errata l’interpretazione (anch’essa religiosizzante) che ne dà Lucy in un suo commento: «Ci sono parole che dormono...ed è bene non svegliarle.." Perché non svegliarle? Forse è preferibile tacere una verità per evitare di fare del male oppure non svegliare il sonno eterno delle parole evitando di fare affermazioni banali. Ritengo sia più credibile la prima ipotesi. Ma all'improvviso a partire dal terzo verso le parole risorgono ed è interessante l'accostamento "ed è questa la vera resurrezione della carne" per ribadire invece la necessità, l'importanza di esprimere, quasi "gridare" a gran voce i nostri pensieri».
Che la resurrezione della carne “vera” non possa essere ridotta alla resurrezione delle parole, che questo“risveglio” non sia la stessa cosa dell’altro, mi pare ovvio; e, ricordandomi di qualche passo di Michele Ranchetti, non mi sbaglio se dico che è ancora oggetto di discussione accesa tra i credenti.


[5] Vedi quest’altro commento simpatetico sempre di Lucy: «Gli angeli volano via simboleggiando la fuga dalla realtà, i demoni sono costretti a star fermi per sempre; questo avverbio finale sottolinea proprio la drammatica consapevolezza della condanna eterna a rimanere legati ad una realtà che soffoca ed opprime la libertà individuale.
La poesia, infatti, può essere letta in tal modo: una fuga dalla realtà ( il volare degli angeli) come espressione della propria libertà (anelito all'infinito) contro la disperata consapevolezza della debolezza ed incertezza umana e dell'accorata "disperazione singhiozzata" dai demoni. Gli angeli e i demoni: La luce contro le tenebre, lo splendore contro il buio, la vita contro la morte, il bene contro il male. Da notare ancora che la poetessa dedica il maggior numero dei versi alla condanna dei demoni contro il volare degli angeli, come eterna dicotomia dell'essere umano che ha attraversato la cultura religiosa e la filosofia greca. Già nella civiltà greca Platone sosteneva:" che c'è dentro di noi uno spirito divino e uno demoniaco". Forse è questo ciò che l'autore del componimento vuole comunicare, lo scontro perenne nell'uomo tra il bene e il male».

[6] In proposito mi pare ci sia un equivoco: i «famuli», cioè i servi oggi andrebbero identificati con le badanti o gli “extracomunitari”. Qui, però, si parla (ne ho parlato io pure nel post dedicato al libro di Daniele Santoro) spesso anche di ceto medio (semicolto) e di piccola borghesia, i cui rappresentati veri ‘famuli’ non sono e andrebbero meglio accostati, se proprio vogliamo rifarci al mondo antico, ai ‘liberti’ (o a falsi liberti).


[7] Un esempio: «mi convince la filigrana, le sedimentazioni della civiltà dei secoli. E poi l'oscillazione tra ethos e pathos è talmente vasta da fare venire le vertigini al lettore».

13 commenti:

giorgio linguaglossa ha detto...

Caro Ennio,
qui tu hai toccato un punto (la lingua morta di Madonna) fondamentale che cito integralmente: «Mi è parso, cioè, di cogliere subito da questi primi versi una vischiosità, una falsa eternità nel linguaggio poetico appartato che Maria Rosaria Madonna ha adottato; e che lo fa somigliare - vedi un po’ questo dove ti arriva! - a un linguaggio bloccato, quasi come quello dell’aritmetica: lì 2+2 fa per forza quattro; e così, qui, un nome si tira dietro un certo aggettivo o viceversa, perché si muove in un sistema (linguistico) consolidato, tradizionale, ben noto. Come se Madonna maneggiasse una «lingua morta», appunto, che dispone di un lessico accertato e ormai, per forza di cosa, chiuso e “specialistico”. In questi versi abbonda una terminologia da libro d’arte di un’epoca circoscritta e comunque senza più scosse, immutabile. Si vedano le parole: ‘acquaforte’, ‘incastonate’, ‘nitore’, ‘arabeschi’, ‘intarsi’,feldspato’, ‘agorà’, ‘dande’, ‘disuso’, ‘periplo’, ‘corbellerie’, ‘balbo’, ‘balbutire’, ‘ostico’, ‘famuli’. Esse vengono usate con la determinazione e la consapevolezza di chi vuole proprio avere a che fare soltanto o prevalentemente con «parole morte».
Il punto è presto detto: ritengo che la genialità della poesia di Madonna risieda proprio qui, nel fatto che l'italiano utilizzato è impiegato come "una lingua morta". È questo l'aspetto, a mio parere, più geniale della poesia di Madonna, e, indirettamente lo hai indicato tu quando parli di "sistema linguistico consolidato", e quindi solidificatosi nell'uso di una comunità nazionale da tempo tramontata.

giorgio linguaglossa ha detto...

...Madonna lavora una «lingua morta» (con le mie parole «relittuale funeraria»); ed è questo un punto centrale della sua poesia e della sua poetica; tu scrivi con acume di un «linguaggio poetico pur così distante da quello pratico quotidiano» del linguaggio poetico derivato da un Sereni o da un Giudici, questi sì linguaggi morti!, dico io, che si erano illusi che utilizzando la lingua viva del quotidiano e della cronaca facilitasse il compito di fare una poesia viva e significativa. Alla lunga, dopo tutti questi decenni, gli spiriti più acuti si sono accorti che quella poesia che faceva uso di una «lingua viva» è adesso percepita come «lingua morta» ma non quella morta dei classici ma quella morta dei minori. La lingua di Madonna è invece viva e vive nello strato sottilissimo di una epidermide, l'epidermide di un cadavere che ha ancora la pelle tiepida quasi che, al di sotto ci scorra il sangue un tempo caldo. Insomma, voglio dire e ripetere che quella estrema fragilità del linguaggio poetico e metaforico di Madonna è il suo più grande merito, quel richiamarsi alla «città lituana» simile a «un merletto di vetro di Murano», richiama l'immagine dell'estrema fragilità della poesia (come dell'esistenza e della Storia), è un sintagma di straordinaria levigatezza e leggerezza metaforica. È una metafora talmetne leggera! Che sembra che tutto debba crollare da un momento all'altro... e, invece resta l'impalcatura fragilissima della poesia che resiste al tempo delle alluvioni e della stagnazione.
tu scrivi: «quando la poetessa, invece di dirmi che il mare è agitato(cosa che subito mi rievoca qualcosa di vivo nella mia memoria "meridionale"), mi dice che «il mare è un aquilone che un bambino / tiene per una cordicella», immagine che a me sembra di una leggerezza e di una fragilità seducente proprio in virtù della sua (della immagine) estraneità al demanio del surrealismo entro il quale tu sembreresti incasellarla.
Il problema affrontato e risolto da Madonna, di usare una «lingua morta» come se fosse una cosa viva e ignorare «la lingua dei vivi» proprio perché essa è morta, e morta per sempre, uccisa dalla telecomunicazione mediatica che maciulla e trebbia la lingua di color che furono vivi, e che ora non lo sono più.
Insomma, non mi meraviglia che la lingua poetica di madonna sollevi tante e tali questioni e incomprensioni e difficoltà di ricezione, ma qui il fatto è che entrare nei delicatissimi congegni metaforici e simbolici della poesia di Madonna significa mettere tra parentesi tutta la balbuziente iconologia del quotidiano e la lingua dei vivi dei quotidianisti e degli sperimentalisti che hanno infestato la poesia italiana degli ultimi decenni rendendola cosa non più fruibile e godibile dai lettori.
E poi c'è una considerazione importante da fare (che ha conseguenze politiche, cioè che attengono alla polis) che l'adozione di una «lingua morta» da parte della poetessa palermitana significa che lei considera quella «lingua morta» più viva della lingua dei morti viventi che abitano la società del villaggio dei villaggi che crede di parlare una lingua di vivi quando invece utilizza una lingua di morti, di zombi, a-significante. E questo, davvero, lo considero un aspetto rivoluzionario del linguaggio poetico di Madonna.

giorgio linguaglossa ha detto...

cari lettori,
poetare in una «lingua morta» è ovviamente un concetto straordinariametne complicato e sottile e sfuggente. La lingua che Madonna impiega non è morta come quella del Pascoli (poeta modernizzante e populista e piccolo borghese che apre la forma-interna alla piccola borghesia dell'italietta imperialista), la «lingua morta» è qui, come dire, generata da una forma-interna, una lingua messa in frigorifero dalla stagnazione delle forme simboliche operata dal minimalismo e dal post-sperimentalismo. È ovvio che Madonna ripescando una «lingua morta» compie una operazione di portata rivoluzionaria, mette fuori gioco la balbuzie, il «balbutire» dei suoi contemporanei, il «favellare» dei «famuli» (cioè dei servi) i quali non possono che suonare il piffero del conformismo. Anche la glaciale compostezza del verso e delle strofe della poesia di Madonna è un segnale del «rigor mortis» che inerisce a quella lingua morta. La quale è più viva di quella veramente morta dei minimalisti e dei loro epigoni. Leggiamo una grande poesia di Madonna e leggiamola con gli occhiali di un materialismo ateo qual era quello della poetessa palermitana:

Tu mi chiedi ancora una volta
di tornare al nostro problema principe:
«quale sia l’origine del male».
«Ebbene, ed io ti rispondo che se
al male aggiungiamo altro male e al bene
aggiungiamo altro bene, non per questo
avremo più male o più bene, ma ciò
non deve farci recedere di un millimetro
dal nostro proposito».
Sì, mio caro lettore, dobbiamo
amare le stelle e andare a passeggio
con Dante e i personaggi del suo Inferno
piuttosto che tra i beati del Paradiso.
Sì, mio stimato lettore, il male esiste e resiste
a tutte le intemperie…

Ed ora un aneddoto. Sai come si salvò
un tenente italiano fatto prigioniero dai tedeschi?
All’ufficiale della Wermacht che lo interrogava
rispose recitando il primo canto della Commedia…
parlava senza fermarsi della selva oscura
che nel pensiero rinnova la paura
e delle tre fiere che gli sbarravano il passo…
E così si salvò dalla deportazione in un lager.

Dunque, è vero, stimato amico lettore
che la poesia salva la vita e riscatta il mondo
e sono nel falso e nella menzogna
coloro che dicono altro. Tienilo a mente,
o lettore, tu che sei saggio e sai
distinguere la verità dalla menzogna.
E così sia.

Qui non si tratta di una ingenua rivendicazione alla Poesia di un ruolo catartico o salvifico come è stata erroneamente intesa. Qui si dice semplicemente che la poesia può, anceh in circostanze avverse, riscattare dalla morte. E mi sembra che si tratti di una rivendicazione di altissimo profilo, ben lontana dai crucifige e dai lai della pseudo poesia di Marialgela Gualtieri e delle sacerdotesse del tempio dell'io.

Francesca Diano ha detto...

Ennio, nessun duello, con e senza virgolette. E' solo che ho una mia visione delle cose, che può o meno trovare consonanza, ma se questa consonanza non c'è, non è importante. Perché questa è la mia riposta alla mia ricerca. La mia visione delle cose è che - per quanto mi riguarda - io ho trovato il mio futuro in un lontano, lontanissimo passato. Non è un passato morto, perché è fuori dal tempo, dove regnano gli archetipi. Lì nulla muore. Non è immobile, perché è il fondamento, l'origine e genera continuamente forme, immagini, mondi. Si manifesta in moltissimi modi, perfino quando non si manifesta.

Se Madonna non ha pubblicato nulla nella sua vita, non è detto che sia perché quello che scriveva non interessava o non aveva alcun valore, ma magari perché non era una povera malata di mente come la Merini, che ha trovato la sua fortuna solo perché la bieca industria culturale ha pensato che un caso umano facesse vendere e l'ha sfruttata e usata in modo vergognoso. Magari non aveva l'amico importante, o introdotto, come molte altre e altri che invece hanno trovato un editore e una fama, o magari non gliene importava niente di sgomitare per avere qualche libretto col suo nome sopra. Non è la sola (o il solo) che abbia scritto delle cose completamente ignorate in vita.

P.S.Platone non parla di demonio, ma di dàimon, o "genio" che ciascuna anima ha in questa vita e che la guida e la conduce. Un po' come il dharma indiano.

Unknown ha detto...

Era da tempo che non leggevo uno specchio così..non c'è bisogno di prove per la visione nitida al " lago " e "il vapore" contenute in queste tue parole. E' un peccato per me dovertelo dire a parole, ma dovevo condividere ..sarebbe piu facile farlo sulla riflessione piu "tecnica" , correttamente da te sviluppata sulle tre emme di madonna mercato merini senza madonna. Ci si dimentica spesso, anche per le cose piu banali o quelle piu innocenti, o che nulla hanno a che fare con imperi mediatici ed altre trame ed entrature, che importante è essere al posto giusto nel momento giusto, basta un secondo di più o uno di più per fotterti la vita in più che potevi avere almeno da vivo. Però, c'è anche da dire che se lo hai interiorizzato e vuoi continuare a voler sentire questa logica non logica, ti ritrovi in un attimo in quel lago sopra il lago che hai trasmesso e tutto fila liscio ( fila liscio si fa per dire eh eh eh )
:-)

Francesca Diano ha detto...

Ti ringrazio rò,attingendo a una visione bellissima che il tuo lago e le tue M hanno evocata: quella dei tre laghi irlandesi di Killarney, nel Kerry. Poco prima dell'alba del Primo di Maggio, la grande festa di Bealtaine, il buon re O'Donoghue emerge dal lago Lean con tutto il suo corteo di cavalieri che, con canti, sublimi musiche, festoni e stendardi, attraversa il lago sul pelo dell'acqua, sul suo destriero bianco, per poi immergersi di nuovo nelle acque sulla sponda opposta e svanire, lasciando solo una scia di spuma.
A volte occhio umano ha la ventura di vedere il prodigio e allora non dimentica l'incanto della visione e la sua eterna fuggevolezza.
Grazie rò.

Moltinpoesia ha detto...

Ennio Abate a Giorgio Linguaglossa:


Caro Giorgio,
secondo me il tuo odio per i “quotidianisti” - la zizzania che ha invaso il fiorente campo di grano della poesia italiana degli ultimi decenni ? - vela invece di chiarire le cause ben più complesse della crisi della poesia, che non sono tutte imputabili a loro. Con una conseguenza pericolosa: stravedi e sei portato ad enfatizzare - permettimi di dirlo - tutto ciò che sfugge (o pare sfuggire!) al loro «balbutire». Ma andiamo con ordine:

1. Lingua viva/ lingua morta

Per me una lingua è viva, se usata - oralmente o per iscritto - da una comunità più o meno ampia (diciamo nazionale, per indicare il suo “parametro zero”: sotto ci mettiamo i dialetti, etc.; sopra le lingue usate in ambiti più vasti, europei o mondiali). Ed è proprio il continuo uso di tale lingua (nazionale), che permette di sviluppare funzioni individuali e sociali (da quelle pragmatiche a quelle poetiche) a renderla viva. (Precisazione: la “vita” di una lingua comporta che essa possa prosperare, fiorire; ma anche ammalarsi, degradarsi, sporcarsi, nevrotizzarsi, morire).
Di questa lingua viva di tutti/e i poeti fanno un uso particolare, specialistico. (Rileggiamoci Leopardi). Anzi fanno di più: possono usare (poeticamente) anche dialetti particolarissimi o quasi in via di scomparsa; e persino (!) lingue morte, come il latino ad esempio.
Leggo da Wikipedia che Giovanni Pascoli vinse per ben 13 volte il concorso di poesia in latino di Amsterdam; e lo vinceva il mio professore di italiano e latino Petruzziello al liceo Tasso di Salerno ancora tra il 1955 e il 1958, quando io ero suo studente. Ma esempi recenti di tali “usi archeologici” di strati linguistici sotterrati dal tempo si ritrovano pure in Sanguineti, Zanzotto e tanti altri.
Accordiamoci, dunque, se possibile, su un punto: in ogni caso - sia che si usi la lingua viva che si usi un dialetto o una lingua morta (o una delle sue varianti); sia che si faccia mimesi del parlato più quotidiano che di un linguaggio letterario divenuto cristallo - la lingua in poesia non coincide *mai* con quella parlata o scritta *fuori dalla poesia*. Anche quando si avvicinasse al massimo alla parlata di un camionista. Anche quando imitasse il “rigor mortis’ del latino o del sanscrito.

2. Metaforicità della tua terminologia.

Tu usi il termine ‘morto’ o ‘lingua morta’ in maniera estremamente soggettiva, capricciosa e paradossale. A me viene il capogiro. Perché all’aggettivo ‘morto’, ad es., tu attribuisci ora una valenza positiva (nel caso di Madonna) ora una valenza negativa (nel caso dei “quotidianisti”). Perciò, lodi la «glaciale compostezza del verso e delle strofe della poesia di Madonna», vedendoci «un segnale del «rigor mortis» che inerisce a quella lingua morta». Che però consideri «più viva» di quella dei minimalisti e dei loro epigoni. Che (è per te) una lingua «veramente morta».
Bisognerebbe sforzarsi di uscire dall’ambiguità (soggettiva) almeno quando svolgiamo un discorso critico. In sostanza, questa faccenda che i vivi sono (per te, per Madonna) dei morti viventi io la considero un paradosso, un’affermazione polemica, una metafora. Nulla di più. Non la confondo con la realtà, che mi sembra diversa da come la descrivono queste parole.
Se mi dici che Madonna usa una «lingua morta» come se fosse una cosa viva e ignora «la lingua dei vivi» (quelli attorno a lei), capisco. Se mi dici che questa lingua (per me) dei vivi - quella che io credo di stare usando in questo momento - «è morta, e morta per sempre, uccisa dalla telecomunicazione mediatica che maciulla e trebbia la lingua di color che furono vivi, e che ora non lo sono più», non capisco più.

[Continua 1]

Moltinpoesia ha detto...

Ennio Abate (Continua):


Perché per me i vivi restano vivi anche se i mass media avessero “uccisa” la lingua in cui prima comunicavano (ma è poi così? Davvero la “lingua morta” imposta dai mass media ha “ucciso” - e del tutto - la lingua prima viva dei vivi?). O semplicemente perché credo di essere ancora vivo e di parlare con un vivo ancora in una lingua italiana viva.
A me, insomma, pare che assolutizzare una contrapposizione tra lingua dei vivi e lingua dei morti, tra lingua corrente e lingua poetica, tra lingua poetica di Madonna (o di altro poeta) e lingua dei mass media (che comunque sono gestiti da vivi, pur se in maniera anche per me inaccettabile e odiosa; e su questo concordiamo) sia un errore.
Più semplicemente si potrebbe dire che Madonna ha voluto ignorare *la lingua dei vivi come sua possibile base per la sua lingua poetica* per cercare una base alla sua lingua poetica altrove: in un tempo più lontano, in una famiglia di lingue letterarie più antiche di quelle moderne e oggi in disuso o «desuete» ( ancora una riverenza e un occhiolino a Francesco Orlando!).
Questa fu la sua scelta di poetica. Legittima. Addirittura normale, secondo me, e adottata quasi da tutti quelli che consideriamo poeti. (Se poi il ‘normale’ in poesia lo vogliamo chiamare ‘geniale’, facciamo pure, basta intendersi…). Scelta chiarissima, credo, almeno da quando la teorizzò Leopardi. E comunque continuamente contestata ( a volte con buone ragioni). Ma quella dei contemporanei di Madonna tra anni Ottanta e Novanta del Novecento o di noi oggi, che delle sue poesie stiamo a discutere, rimane lingua dei *vivi* o lingua *viva*. Per il semplice fatto che continua trasformarsi ( come ho detto prima). E solo per metafora o polemica - come fai tu - la puoi chiamare “lingua morta” o “uccisa” dai mass media.

3. Differenze di poetica non di lingua

Che differenza c’è, se non di poetica, tra il poeta che sceglie una lingua morta e uno scle sceglie una lingua viva per fare le sue poesie? E una poetica può essere superiore a un’altra, se non vengono esplicitate e discusse le ragioni di tale superiorità, da considerare presunta fino a prova contraria? Nel caso della poetica (non della lingua) di Madonna, perché essa sarebbe superiore a quella dei “quotidianisti”?
In altri termini, specie se sappiamo che la forma (anche quella linguistica) ha sempre in sé qualcosa che la rende comunque meno viva della vita (la quale muta continuamente le sue forme e a volte ci appare anche informe o caotica…), perché la forma “in lingua mortua” (di Madonna) sarebbe superiore a quella “in forma quotidianista” (di Sereni e Giudici, esempi da te fatti)?
Questa sarebbe una questione da sviscerare a fondo.
Tu questa superiorità della poesia (o della poetica?) di Madonna la spieghi in maniera insufficiente (ricorrendo come ho detto ad un uso un po’ ambivalente del termine ‘morto’). Lo fai, mi pare, in modo insoddisfacente in questo passo:

«E poi c'è una considerazione importante da fare (che ha conseguenze politiche, cioè che attengono alla polis) che l'adozione di una «lingua morta» da parte della poetessa palermitana significa che lei considera quella «lingua morta» più viva della lingua dei morti viventi che abitano la società del villaggio dei villaggi che crede di parlare una lingua di vivi quando invece utilizza una lingua di morti, di zombi, a-significante. E questo, davvero, lo considero un aspetto rivoluzionario del linguaggio poetico di Madonna».


Per contrasto a me pare chiarissima la spiegazione (politica) che Fortini diede della scelta da lui fatta di una sua “lingua morta” nell’epigramma rivolto a Pasolini:


Non imiterò che me stesso, Pasolini.
Più morta di un inno sacro
La sublime lingua borghese è la mia lingua.
Non conoscerò che me stesso
Ma tutti in me stesso. La mia prigione
Vede più della tua libertà.

(L’ospite ingrato , Marietti 1985, p. 116)

[Continua 2]

Moltinpoesia ha detto...

Ennio Abate (continua):


Sarebbe giusto motivare di più, dunque, perché la scelta di Madonna - geniale o meno - sia tanto distante da quella dei “quotidianisti” e superiore davvero a quella.
Ma tu te la cavi (troppo sbrigativamente per me) dicendo che Sereni o Giudici si sarebbero «illusi che utilizzando la lingua viva del quotidiano e della cronaca [si] facilitasse il compito di fare una poesia viva e significativa». Te lo dico schietto schietto: li fai più sciocchi di quel che furono. Davvero quello l’obiettivo? A me pare, come ho detto finora, che entrambi - come tutti i poeti di un certo valore: sia che usino una lingua morta (realmente o metaforicamente), sia che usino una lingua viva (nel senso che ho detto al punto 1) - facciano la stessa operazione - “normale” o “geniale” - che tu attribuisci in esclusiva a Madonna. Anche Sereni, anche Giudici - al di là dell’apparente mimesi del linguaggio quotidiano - comunque si distaccano dal linguaggio pratico o quotidiano.

Ps.

1. Dimostrami che quell’immagine usata da Madonna («il mare è un aquilone che un bambino / tiene per una cordicella» ) non è surrealista…

2. Dimostrami che quella del Pascoli non è “lingua morta” di un tipo non dissimile da quella di Madonna ( o di Fortini)…

3. «famuli» (cioè dei servi) i quali non possono che suonare il piffero del conformismo». Sarebbe stato meglio se avessi chiarito chi sono per te ‘sti famuli, come ho chiesto…

4. Gli occhiali di un «materialismo ateo» possono essere forse i tuoi. Non mi paiono quelli di Madonna…

5. Non mi pare di aver sbagliato a parlare per Madonna di una concezione (religiosa) della Poesia come “salvezza” (cercata nella Parola). No, la poesia, «anche in circostanze avverse» non può «riscattare dalla morte».

[Fine]

giorgio linguaglossa ha detto...

Maria Rosaria Madonna Inediti (1992 – 2002)

Caro Ennio, tu mi chiedi di spiegare al lettore in che senso parlo di una «lingua morta» per la poesia di Maria Rosaria Madonna e perché mai la poetessa palermitana abbia scelto di impiegare una «lingua morta» quando invece era disponibile, e gratis, una «lingua dei vivi»? E ancora mi chiedi perché mai una «lingua morta» debba essere superiore a una «lingua viva»? Qual sia la scala di superiorità tra queste due cose?
Ovviamente è un discorso complesso, forse il più complesso, che richiederebbe un commento verso per verso e immagine per immagine delle poesie di Madonna. Cercherò comunque di rispondere ai quesiti che mi hai posto senza ricorrere a lunghe e oziose perifrasi critiche che annoierebbero i lettori; chiedo solo ai lettori di rileggere le poesie lentamente, con la lentezza che quelle poesie richiedono. Ciò che dico nel prosieguo può forse aiutare il lettore ad entrare nella giusta sintonia di lettura.

Inediti (1992 – 2002)

Il merlo gracchiò sul frontone d’un tempio pagano
il mare sciabordando entrò nel peristilio spumoso
e le voci fluirono nella carta assorbente
d’una acquaforte. E lì rimasero incastonate.

Due monete d’oro brillavano sul mosaico del pavimento
dove un narciso guardava nello specchio
d’un pozzo la propria immagine riflessa e un satiro
danzante muoveva il nitore degli arabeschi
e degli intarsi.

*

È un nuovo inizio. Freddo feldspato di silenzio.
Il silenzio nuota come una stella
e il mare è un aquilone che un bambino
tiene per una cordicella.
Un antico vento solfeggia per il bosco
e lo puoi afferrare, se vuoi, come una palla di gomma
che rimbalza contro il muro
e torna indietro.

*

Con rumore di carrucola venne giù il temporale.
Città lituana, nitida e trasparente come un merletto di Murano.
«Ricordi?»; «sì, la ricordo come un altoparlante
che abbia inghiottito la voce… non più
di un secolo di luce fa. Forse più, forse meno…».

giorgio linguaglossa ha detto...

Per Madonna poetare equivale a gettare un ponte sull’abisso, sull’abisso tra il passato e il presente. Una sottile e intricata trama di simboli è il passato che parla (dal poeta al lettore) attraverso una rete di immagini. È il modo di parlare del passato al presente, è il solo modo che può unire, mediante un ponte lastricato di immagini, lo «spettrale» spartito del passato al «vuoto» presente. Il luogo di questo eventualizzarsi è il colloquio dove colui che parla rimane pur sempre attaccato all’inferriata del presente. Il fatto è che nella poesia di Madonna la questione passato-presente non è affatto una questione pacificamente risolta che si può mettere tra parentesi ma un problema aperto che attende una soluzione poetica. E qual è la soluzione che un poeta può mettere in campo? La sua poesia, soltanto la sua poesia. Madonna sa che soltanto chi ascolta è la inafferrata fonte del senso. Il silenzio di chi ascolta (è ovvio che chi ascolta sia il lettore), il silenzio, dicevo, conduce (tende) al limite estremo del linguaggio. Il linguaggio poetico di Madonna viene teso come un arco fino all’estremo, al diapason delle sue possibilità «interne» affinché possa scoccare la freccia del senso. Ed il senso è sempre uno: il ricongiungimento tra il «morto» passato e il «vuoto» presente: c’è un ponte (interrotto) che unisce il «morto» del passato al «vuoto» del presente.
Ed ora passiamo alla questione del «tacere» delle immagini delle poesie di Madonna: il tacere è il limite interno del colloquio, così come il silenzio ne è il limite esterno. A rigore, nella poesia di Madonna, non si dà colloquio senza il duplice risvolto interno del «tacere» e quello esterno del «silenzio». L’«immagine» è la soluzione metaforica ad un problema del senso «interno» del linguaggio.
Se si rileggono le prime tre composizioni pubblicate nel blog si percepirà la cadenza delle parole che si librano sul «vuoto»; è il vuoto che abita il «silenzio» delle parole. Il «tacere» delle parole di queste poesie non è un tacere che si dà per decreto ma è un «tacere» che nasce dalla intercapedine delle immagini. In un certo senso, le immagini di queste poesie «denudano» il «silenzio», lo rendono trasparente. Ma qui ovviamente è necessario far ricorso a tutto l’addestramento del lettore alla lettura di poesie di tal genere, un addestramento che richiede tempi lunghi e letture lente.
In queste poesie il «morto» è il campo di macerie del passato che il presente continuamente ricrea mediante la sua produzione di merci; è la feticizzazione della merce che ha invaso, come un tessuto tumorale, il linguistico della Lingua della comunicazione. Questa problematica, questa sensibilità è talmente presente nella poesia di Madonna come forse in nessun altro poeta del tardo Novecento. Ma non è affatto semplice scoprire ciò all’atto della lettura. Io dico sempre che la poesia non si dà per decreto o per imposizione, richiede una educazione estetica del lettore che spesso il lettore non ha.
Quando Madonna scrive: «il mare è un aquilone che un bambino/ tiene per una cordicella» ha poca importanza se la matrice di questa immagine sia la cultura del surrealismo, l’aspetto rilevante è, a mio avviso, la leggerezza dell’immagine nella quale il gesto del bambino che tiene il filo dell’aquilone introduce un moto verticale (verso l’aquilone), e l’aquilone diventa «il mare».

giorgio linguaglossa ha detto...

C’è una trama di sottilissime lamelle di immagini che si legano le une alle altre, così sottili e leggere che formano una parete di fragilissimo cristallo. Questa è la poesia. La poesia è tutta qui. La poesia parla attraverso la fragilità delle sue immagini cristallizzate. E l’orma mestica della fragilità del cristallo si ripercuote e si riverbera nell’atto sensorio della fragilità del silenzio, e quindi dell’ascolto da parte del lettore. La estrema fragilità di una rete di immagini che vuole sottrarsi alla utenza feticizzata della Lingua di relazione. È questo il modo con cui la poesia di Madonna si oppone al feticismo della merce. Si oppone richiamando il «tacere» all’interno del suo sistema di immagini. È una modalità di difesa dal feticismo della merce che colpisce anche le immagini, le eidola, la circolazione delle segnaletiche del mondo mediatico.

Anonimo ha detto...

Bisogna ammetterlo: a tratti il poeta Linguaglossa prevale sul critico.
mayoor