lunedì 25 giugno 2012

Giorgio Linguaglossa
Su "Il secondo dono"
di Sabino Caronia


Sabino Caronia Il secondo dono Progetto Cultura, Roma, 2012

Il secondo dono,  così semplicemente si intitola questa plaquette di Sabino Caronia, quasi a celare un pudore inespresso o a dissimulare una ritrosia più che manifesta, quasi a chiedere venia per tanta improntitudine di apparire quale autore di un mannello di liriche. E liriche d’altri tempi, quando ancora c’erano i bambini che giocavano con l’aquilone su nel cielo e calciavano il pallone ad ogni cantone del trivio o del quadrivio. Ma oggi che l’arte della simulazione si manifesta con la singolare propaggine della scaltra dissimulazione di massa, dico, oggi, che altro dire di una lirica che si rivolge ad altra lirica del passato come ad uno sconosciuto elitario interlocutore che mai più vedrà la luce se non nel segno di un altro segno o in una cosa chiamata sogno, che forse mai più incontrerà il proprio interlocutore?
Ma la «simulazione» messa in opera da Sabino Caronia che cos’è? La simulazione del poeta di Corte? La simulazione del saltimbanco? La simulazione del carnevale? O quella del lirico intonso che fruga nel cassetto della memoria quanto sia sfuggito alla memoria? Né l’uno né gli altri, credo, ma soltanto un segno che cita un altro segno, un sogno che cita un altro sogno come un segnale di fumo che risponde ad un altro segnale di fumo, o un movimento del sopracciglio che risponde al tremore di lontanissimi sussulti delle foglie di un bosco lontano. Sì, dalla nostra epoca dell’oblio tutto il passato appare lontano, transeunte (o forse lo è davvero), tutto ci invita a cogliere l’attimo, come quando Adamo si convinse che fosse giunto il momento di addentare la famigerata mela. E così, Sabino Caronia si è deciso ad addentarla la mela, si è deciso a lanciare nel vento queste esili liriche nell’epoca che ha visto tramontare, e forse per sempre, la grande lirica del Novecento, lanciarle con la riluttanza e l’incredulità con cui oggi i bambini trattano gli aquiloni.
Giacché invano si cercherebbe in queste liriche il timbro originale, il marchio, la voce del poeta del nostro tempo, perché quella mandel'štamiana «bocca d’argilla» non può profferire, oggi, nient’altro che segni semantici di un’altra epoca poetica, quasi a volersi schermire dell’odierna. Forse, la simulazione è oggi l’unica innocua arma a disposizione del poeta per gareggiare con l’impossibilità dell’utopia, Caronia «parte dalla negazione radicale del segno come valore» ci dice Baudrillard, parte dalla reversione e messa a morte di ogni referente. È l’edificio della «rappresentazione» che qui è caduto senza alcun fragore, in quanto «falsa rappresentazione». È la «simulazione» che confligge con la «rappresentazione». La citazione diventa simulazione, e viceversa. Simulazione della poesia che avvolge l’«edificio della poesia» con una cortina di sottilissima nebbia, con aure e atmosfere che la distruzione dell’aura ha sancito dopo Baudelaire.
È la poesia moderna che parte dalla presa d’atto della caduta dell’aura e di ogni corona di alloro dalla fronte dei poeti. È un gioco puro, un puro gioco che si sostituisce al grande gioco di quella che fu un tempo lontano la grande poesia lirica del Novecento. E, in una certa misura, queste poesie di Caronia sono la liturgia di una tradizione scomparsa, epicedi di un lutto che portiamo al petto di una inestinguibile malinconia... e in ciò soccorre il poeta di Terracina la sagacia del verso dei crepuscolari, l’andamento da confessione, tra la filastrocca e la ballatetta, dell’io che si autoconserva mentre pronunzia la propria disparizione, tra rimandi impliciti ed espliciti alla recente tradizione tra Corazzini e Cardarelli, i preraffaelliti e i sopravvissuti poeti dell’evo moderno.
Ciò che svia il discorso poetico di Caronia dal soliloquio dell’io, ciò che lo distingue non è il suo smarrirsi tra le pieghe di una interiorità rastremata ma il suo sottrarsi alle pieghe avvolgenti e carnivore di un Hinterwelt reificato (e deificato) e posticcio che non seduce altri che gli odierni cannibali dell’interiorità rastremata e frastagliata, i falsi affittuari dei dolori dell’io, così posticci e fasulli da intimidire il lettore intelligente. Non c’è il quotidiano ma le reliquie del quotidiano. Direi che non c’è alcun paludamento in questi versi, nessun ricorso alla seduzione e all’incanto da vendere all’ingrosso, tranne la melanconia della rima che si maschera con quel poco di cerone che le rimane.   



Due parole


Dal telefono ascolto la tua voce.
Dici: «Sabino». Poi dici: «Un bacione».
Ed è come nascessi in quel momento.
Senza di te, lo sai, non sono niente.
Solo perché tu esisti io pure esisto.


Camarina


Più non portano in dono le sirene
perle rosate e rami di corallo,
fredda è la primavera e a mio favore
non ho il verde sorriso dei tuoi occhi,
le ninfe son partite e solo resta
il rimpianto del passo che innamora.


Fuente Vaqueros


Deserta Andalusia che il cuore pungi
come pensiero di donna lontana,
io lo so che non più di cavalieri
erranti è tempo e di perduti amori,
perciò fuggo le lunghe strade rosse
che vanno dritte verso nessun dove
e tengo chiusa la porta di casa
di fronte all’invadenza delle stelle.


La stanza


Altra cosa non chiedo dalla vita
che una stanza per me dentro al tuo cuore,
povera, niente lusso, ma pulita,
poco spazio mi basta e poco amore.
Un oceano di stanze interminato
è l’immenso palazzo del tuo cuore,
non lasciarmi di fuori col passato,
non chiudere la porta al mio dolore.


La passeggiata


Anima mia, stasera
va’ a Parigi, ti prego,
e con la tua candela,
timida, di nottetempo
fa’ un giro; e, se n’hai il tempo,
perlustra e scruta, e scrivi
se per caso mai Dina
è ancor viva tra i vivi.
Deluso in questo giorno
da Parigi io ritorno.
Ma tu, tanto più netta
di me, la camicetta
ricorderai sottile,
e la spilla gentile,
dai riflessi verdini,
che sul petto brillava,
e un poco s’appannava.
Anima mia, sii brava
e va’ in cerca di lei.
Tu sai cosa darei
se la incontrassi per strada.


Il sole del mattino


Quella camera, sì che la ricordo!

A sinistra la porta e il mobiletto
marrone, di buon legno, coi cassetti,
di fronte il bianco armadio con lo specchio
e l’altro mobiletto, pure bianco,
poi, lì, a destra, di lato, la finestra
e giù, di fuori, il bel lampione nero
sul marciapiede, tra gli alberi spogli.
Al centro della stanza c’era il letto,
il grande letto colore del cuore.
Poveri oggetti, ci saranno ancora?
Al centro della stanza c’era il letto
e lo lambiva il sole del mattino.
… Quel mattino, le sette: quel saluto
come per pochi giorni… Ahimè, quei giorni,
quei giorni, ormai, son divenuti eterni.


Giardino chiuso


Anche se nuova terra e nuovi cieli
troveremo al risveglio
irripetibile è la nostra storia
- quel mio venire lontano a cercarti
quel tuo portarmi in piena notte a casa –
unica fu e resta. Cancellato
è il bicchiere di vetro con i fiori
ch’era sulla tovaglia. Cancellato.
Orto concluso e i fiori suoi dispersi.
Concluso: non più nostro, anche se a noi
galassie di giardini
offrissero pietosi gli universi.


Villa Sciarra


Son tornate le fate a Villa Sciarra
presso il bianco tempietto e lungo i viali
e le foglie degli alberi al tramonto
 brillano a terra come lame d’oro.

Ecco viene Natale come un sogno
di mezz’estate e mi riporta indietro
e ripenso a mio padre, a certe sere,
lì, pei vialetti, tra i cedri odorosi.

Io ti cammino accanto e già mi sento
da me lontano, libero e felice,
e m’inebrio nel tuo dire soave

come di una promessa di futuro
che ritorna da un tempo ormai lontano
e il cuore scalda e l’anima innamora.




1 commento:

Anonimo ha detto...

Non so... non trovo coraggio,non trovo forza sarà che non riesco a vedere altro ma cercherò . Emy