giovedì 19 luglio 2012

Eugenio Grandinetti
Il grande fiume












Sto su una sponda del gran fiume e guardo 
l'acqua scorrere lenta e andare a perdersi 
tra le anse ed i salici e m'appare 
che un fiume non è altro che lo scorrere 
di vapori indistinti che da mari 
lontani una corrente 

raccolse in dense nuvole e le spinse 
contro i fianchi dei monti, dove caddero 
come piogge e si persero 
tra le erbe e i muschi e tra le fenditure 
delle rocce, e riemersero 
come polle sorgive e ora confluiscono 
per vie diverse tra la doppia sponda 
di questo fiume 
che ora s'attarda per ristagni ed ora 
s'affretta quasi per tornare ancora 
a farsi indistinta acqua di mare 
che al sole evapora, e nuvola 
risospinta dal vento, e pioggia e fiume 
e mare fluttuante ancora 
in una vicenda senza fine. 
E anche gli alberi e i rovi che s'assiepano 
lungo le sponde e i carici 
che trattengono gli argini rinnovano 
la materia che li compone e sono 
sempre gli stessi all'apparenza eppure 
sempre diversi pur se sempre uguale 
è la materia nel suo ciclo eterno 
di morti e di rinascite. 

Il primo grido è come la fatica 
di risalire dalla falda al cavo 
della polla sorgiva e sollevare 
dal fondo la sabbia che ricade 
presto però sul fondo e che una nuova 
spinta solleva 
in un ininterrotto ribollire 
torbido e provvisorio. 
Anche la vita è sempre in sospensione 
come la sabbia in acqua che rampolla. 

Poi uscita dalla conca si fa rivo 
minuscolo che protetto 
da cuscini di muschio ed erba folta 
procede per il bosco ancora incerto 
se uscire allo scoperto ed affrontare 
le rapide e le cascate che l'aspettano 
dopo aver superato il mondo mitico 
d'alberi ed elfi e maghi ed incantesimi, 
ma pure col pericolo che magre 
che si protraggono lo dissecchino 
o che mandrie ed armenti ne sconvolgano 
il letto fragile ed il terreno mosso 
ne riassorba 
ancora le acque e le sprofondi ancora 
in mondi sotterranei per morire 
come fiume palese e riconfluire 
nella corrente silenziosa e oscura 
della materia amorfa 
che per chine invisibili s'affretta 
per altre strade ad una stessa foce. 

L'acqua che scorre rapida s'impenna 
agli ostacoli e accavalla 
l'una sull'altra le onde che contendono 
per sovrastarsi. Uomini 
dalla faccia arcigna lottano 
l'uno contro l'altro e ognuno contro tutti 
per sopraffarsi. E quando la pendenza 
dell'alveo si fa ripida e sprofonda 
scoppia allora palese la battaglia 
e l'acqua s'intorbida e gorgoglia 
come per sangue che si versi a fiotti 
da una ferita. 
Poi dopo un tormento aspro il fiume torna 
a farsi quieto all'apparenza, a scorrere 
con onde ineguali verso il mare. 

Scorre la nostra vita dentro gli argini 
di un torrente ora in secca ora rigonfio 
di pioggia. Vanno nel cielo parallele nuvole 
che il vento ora addensa ora dirada 
come la vita in noi che a volte gonfia 
di pensieri la mente mentre a volte 
la lascia nuda, disvuotata ed arida. 

I giorni che non hanno consistenza 
passano via fugaci e si dissolvono 
in una corrente torbida d'abitudini. 
Ma i momenti diversi, almeno quelli 
per cui pareva che la vita avesse 
un senso, cadono sul fondo 
pesanti come ciottoli e rimangono 
presenti agli occhi, pur se la corrente 
li leviga a poco a poco, che non abbiano 
più spigoli vivi che ne ostacolano 
il lento rotolio verso la foce. 

S'arresta 
su un fremito di giunco una libellula 
ma solo per un attimo: riparte 
poi rapida a cercare 
tra mille voli la sua preda e fame 
nuova materia di sé, dimentica 
del suo antico essere, cellula 
di un altro organismo, non più ostile 
a sé ma sempre infesta 
a quella che era prima la sua specie. 
Tutto è mutevole: il pollo che razzola 
nel cortile ha assunto la materia 
del grano e del lombrico che ha mangiato, 
e la faina furtiva che di notte 
s'insinua nefasta nel pollaio 
assimila al suo essere la materia 
del pollo e del lombrico. Tutti siamo 
materia indefinita, come il fiume 
che acquista identità e si denomina 
soltanto dalle sponde entro cui scorre, 
e la duplice elica che si svolge 
e si duplica e ancora si riavvolge 
è quella che assimila alla nostra 
la materia che era d'altri corpi 
e tornerà molecola indistinta 
a farsi materia d'altri corpi.  
Il tutto indefinito, la materia 
indistinta ma pure disponibile 
ad ogni mutamento è il solo 
essere eterno e indeperibile 
da cui si generano 
tutti gli esseri contingenti, la cui vita 
altro non è che la vicenda breve 
di un ininterrotto divenire, un grumo 
di materia che si stacca 
dal tutto indefinito, che s'aggrega 
provvisoriamente a una memoria 
e si fa parte di una vita che ci pare 
unica e irripetibile. 

I giorni che si sgretolano procedono 
ognuno per suo conto, come fossero 
di vite diverse. 
Per giorni riarsi il fiume si frantuma 
in rivoli minimi che scorrono 
tra rive di giunchi esili ed isole 
di ciottoli che emergono dal greto. 

Bisogna dedicare alla speranza 
più tempo, bisogna darle forse 
più importanza, come se fosse 
possibile scegliere, costruirsi 
la vita a propria immagine, percorrere 
strade inusuali e farsi 
creature di se stessi. Il fiume passa 
per luoghi prevedibili e, se lascia 
il vecchio percorso, scava un greto 
parallelo. La meta ultima 
è il mare ed il pendio 
è la strada obbligata.

Passano in cielo nuvole che paiono 
offuscarci la vista. Non c'è più 
davanti a noi lo scorrere lineare 
di un fiume: c'è un vortice 
di materia che si agita in un vuoto 
intermine 
come lama di luce che attraversano 
innumeri sciami di pulviscolo 
che s'agitano incomposti e poi svaniscono 
nelI’ombra.                                                

Che senso ha allora la vita che s'arresta 
ai margini dell'apparenza e non ha forza 
di perseguire il vero oltre l'intoppo 
del primo ostacolo? 
E che senso ha lo scorrere incomposto 
di vite che cozzano o s'alternano 
per rapide impetuose, per ristagni 
fermi da cui evaporano 
nebbie e anofeli che intorbidano 
l'aria intorno e gli sguardi? Oppure forse 
un più vasto organismo 
di cui noi siamo solamente parte 
manterrà la memoria degli eventi 
in cui più o meno consapevolmente 
fummo coinvolti, 
sia quelli che contribuimmo 
a realizzare con le nostre azioni 
sia quelli che subimmo 
senza avere la forza di evitarli, 
come quando per accidente crolli 
un singolo albero 
e la foresta ne rimanga mutila 
senza l'ombra più delle sue fronde, 
senza i nidi ed i canti ed il via vai 
del picchio muraiolo lungo il tronco 
in cerca di larve che si celano 
tra le crepe della corteccia scabra, 
e non c'è più tra ramo e ramo il salto 
del ghiro e nella notte 
il canto assiduo dell'assiolo. lntanto 
il rodio delle larve dei cerambici, 
l'assalto silenzioso dei polipori 
corrodono il tronco che diventa 
umo fertile per altri accrescimenti. 
Il bosco si alimenta 
degli alberi che muoiono, e ogni volta 
si rigenera e pare 
diverso eppure uguale, perché resta 
sempre uguale la memoria 
del bosco in cui di passo in passo 
attenti ci inoltriamo, mentre ci ostacolano 
la vista i cespi d'eriche e di felci, 
sì che cerchiamo incerti di trovare 
luoghi noti, dove tra ceppaie mozze 
di castagni recisi c'era il posto 
delle fragole e dove nell'autunno 
nascevano a capo chino i fiori rosei 
dei ciclamini 
e quello ancora dove nell'inforcatura 
di un ramo alto da terra si costruiva 
con pochi sterpi ammonticchiati il nido 
la pica diffidente. Ma ora 
l'albero di una volta non c'è più: tra breve 
nascerà al suo posto un altro albero 
che a poco a poco crescerà, e una pica 
andrà a fare il suo nido sopra un ramo 
alto,che non lo insidiino 
le creature senz'ali: il tasso 
dal passo cauto o il biacco
predatore delle uova.

E siamo disorientati: il bosco 
non è lo stesso che conoscevamo. 
La volta alta dei rami è meno folta 
e la luce del sole giunge al suolo 
e fa infittire le erbe gli arbusti e i muschi 
del sottobosco. 
Cerchiamo invano il posto dei boleti 
che ora copre un roveto dilagante 
come acqua di palude, mentre il picchio 
s'affanna a ricercare il tronco cavo 
dove aveva il suo nido. Pure 
il bosco è uguale nella sua memoria 
diversa dalla nostra, ché ogni cosa 
che vive non è immota ed immutabile, 
ma ha vicende di accrescimenti, 
di morti e di rinascite, solo che 
ogni cosa ha il suo tempo che è diverso 
da quello delle altre cose che non 
riescono 
a misurare che col proprio metro 
sì che a noi pare 
fugace la vita dell'effimera 
ma fuori del nostro metro ed immutabile 
la vita delle rocce e delle stelle. 

Hanno fine le nuvole o ritornano 
da lontananze estranee a popolare 
questo cielo d'immagini mutevoli 
che s'inseguono ostili e si fagocitano 
reciproche coprendo 
tutto lo spazio d'una massa amorfa 
o cercano via di scampo oltre la linea 
estrema ove s'estraneano 
dai nostri sguardi? 
E pure quelle immagini d'altri uomini 
che vivono con noi magari solo 
per brevi tratti della vita andranno 
anch'esse inerti a perdersi 
oltre una linea estrema e avranno 
ancora vita senza i nostri sguardi 
senza corrispondenza 
di pensieri e di affetti, 
senza voci che parlino, senza mani 
che l'una con l'altra si ricerchino. 

Davanti agli occhi passano parole 
già dette, e la corrente 
inquieta le trasporta 
in qualche luogo occulto ove la mente 
si smarrisce e tornano 
come da un fondo opaco incerte immagini 
e si fanno memorie provvisorie e vaghe. 

Oltre queste parole forse vanno 
pensieri inespressi che rimasero 
inappagati e sparsi, senza farsi 
discorsi, per timore 
di rimanere inascoltati, di scorrere 
sotterranei e lontani dagli sguardi 
e perdersi 
indistinti ed anonimi nelle acque 
ondeggianti del mare. 

Si dismemora il fiume e si disperde 
in un'acqua fluttuante in uno spazio 
vasto e senza sponde 
parallele che limitano e individuano. 
Inquieta ed incomposta la materia 
s'impenna al vento e tumida sommerge 
rive di sabbia e sbatte alle scogliere 
violenta e si frantuma 
in rivoli che esausti poi ricadono 
e ritornano a farsi ondeggiamento 
vano e inquietudine. 

I pensieri ora annuvolano il sereno 
di una vita incosciente che s'appaga 
solo d'esistere, come essere insensibile 
ed inerte, non animale selvatico 
che pure sa soffrire ed offrirsi 
sia che viva nel branco, sia che passi  
i giorni in un'attiva solitudine 
cercando il cibo tra sterpaglie e fratte, 
sia che risponda rapido al richiamo 
di afrori inconsueti quando si ridesta 
la natura, e i tepori 
della stagione sciolgono già le acque 
rapprese nei ghiacciai, e si rigonfia 
di nuove linfe il fiume e torna a scorrere 
turgido, a fremere 
di brezze e di libellule mentre penduli 
lungo le rive i salici disperdono 
nell'aria inquieta turbini di polline. 

Tutto ci porta al senso del trascorrere: 
l'acqua, il vento, la voce. Ritornano 
echi e riflessi e rami smossi. 
Tutto è continuo e sofferente 
in una vita che è squilibrio e moto 
incessante, che dissipa 
pensieri e sentimenti 
lungo un percorso astruso di vicende 
insensate che tornano a ripetersi 
indefinitamente.

Per sentieri silenti lievi vanno 
come fruscii parole, si confondono 
lungo sentieri d'acqua con le fronde 
che muove il vento o dissone si sperdono 
per sentieri diversi. 
Ma il fiume scorre uguale e indifferente 
perché il pendio lo porta ineluttabilmente 
verso il mare. 

E alla foce rallenta il corso l'acqua 
ora torbida per lunga percorrenza 
di luoghi frequentati 
ed a fatica cerca di inoltrarsi 
nel mare, mentre a volte invece 
è il mare che l'invade ad ogni flusso 
di marea e ad ogni mareggiata 
come quando negli anni tardi i giorni 
si fanno salmastri all'intrusione 
di pensieri di morte. 

Ma il tempo scorre senza soste. Annotta. 
Un buio senza rilucenze inghiotte 
tutto il mondo. Gli occhi restano vuoti. Pure 
si sente ancora il gorgoglio delle acque 
contro gli argini ed il fruscio dei pioppi 
se appena spiri un po' di brezza, e il passo 
timido dell'arvicola o il volo 
silente delle strigidi e l'opaco 
sciamare delle effimere e l'assalto 
obliquo delle nottole. 
Ed anche quando giungerà la notte, 
che noi chiamiamo ultima, a toglierci 
ogni residua consapevolezza 
d'essere stati individui in questo mondo 
non massa immutabile ma esseri 
in continuo divenire, non avrà termine 
la vicenda ciclica e la materia 
continuerà indistinta ad agitarsi
nel vortice intermine e avrà distacchi 
come di gocce che diventeranno 
individue ed avranno 
luccichii tra le foglie ad ogni fremito 
di vento, ad ogni alito 
di sole che le sfiori 
prima di cadere al suolo e perdersi 
per meati sotterranei e poi riemergere 
fuse con altre gocce ad altra nuova 
identità e percorrere
pendii ed ostacoli e farsi  
ogni volta più grandi  e più diverse 
fino a giungere infine a questa valle 
vasta a questa piana 
dove gli occhi dilagano, ed essere 
questo fiume che scorre  
davanti al mio stupore, ora dimentico 
di dislivelli e rapide e proteso 
verso un cammino ignoto ad una pace 
che è dismemoramento di sé e termine
ma solo di una parte 
minima, di un'individua 
vicenda che si perde
immemore nel mare
eterno ed infinito della vita.

* Eugenio Grandinetti, ex insegnante di origini calabresi, 
vive a Milano. Ha scritto numerose raccolte di poesie
quasi sempre autoedite.


*Il grande fiume è tratto dal libretto omonimo 
stampato nel dicembre 2005 presso le Arti Grafiche
Barbieri di Cosenza

12 commenti:

Anonimo ha detto...

Travolgente questo fiume di vita. La speranza non ha bisogno di tempo , la speranza siamo noi che lottiamo e ci adattiamo . Parole che scorrono efanno scorrere pensieri e immagini così ben descritte che tutto di noi non può resistere a questo inevitabile andare. Emozionante . Complimenti e grazie. Emy

Anonimo ha detto...

Un affresco, o per meglio dire un grande arazzo di parole a tema unico dove le immagini superano in quantità il messaggio che si palesa fin dall'inizio e non muta nel suo percorso. Ma nel viaggio s'incontrano piacevoli frescure e il non detto mi sembra sia lo struggente amore per la terra e per la vita. Visione alta che affida alle parole minute descrizioni del paesaggio, come le si raccontasse ad un cieco. La lungaggine è ipnosi, e potrebbe creare trasformazione nel lettore se lo portasse a scoperte inaspettate di se'. Ma non accade che un recitativo di ottima qualità, romantico e pre-ermetico. A parer mio, fatta eccezione per la lunga barba, la vecchiaia è periodo leggero della vita, e forse il migliore.
Grazie
mayoor

giorgio linguaglossa ha detto...

... a me sembra che l'autore dispieghi una notevole capacità di affabulazione, ottimo risulta il giro frastico, ottima la scelta lessicale, ottimi i tempi lunghi e larghi del verso, ottimi i moivimenti sinuosi da andante largo del componimento, ottimo il respiro e la durata... ma detto questo (e andava detto) passiamo ai rilievi critici: a me sembra che il livello estetico ne avrebbe guadagnato se avesse tagliato via i 5/6 delle parole, si ci fosse stata maggiore concisione e concentrazione delle parole, se vi fosse stata una maggiore concentrazione su alcune immagini, senza perdersi in una panica e fluviale rendicontazione dell'affresco (come lo chiama mayoor). Insomma, Grandinetti ha delle buone doti, un buon mestiere, un buon talento... ma direi che tutto questo non basta a fare una buona poesia. Perché? Ma direi anzitutto perché occorre avere consapevolezza dell'oggetto da mettere a fuoco, e andare "dentro", lavorare per profondità e non per larghezza (cosa difficilissima che neanche i grandi tentano!), perché la larghezza porta a perdere il contatto con la profondità e con il punto di fuga della visione.
Insomma, credo che in poesia funzioni un po' come nel salto in alto. Se tutti tentiamo di saltare 30 cm, probabilmente ce la faremo tutti quanti; ma se alziamo l'asticella a 70 o 80 cm. ecco che molti degli aspiranti saltatori dovranno rinunciare al salto; se poi alziamo l'asticella a 1.50 cm, vedremo che ben pochi salteranno l'asticella; se infine mettiamo l'asticella a 2 metri ecco che pochissimi salteranno. Che voglio dire? Voglio dire che Grandinetti finora ha saltato e 50 cm. ma adesso deve farci vedere che può saltare almeno a 1.70 cm., deve alzare l'asticella delle difficoltà. A 30 cm. dal suolo siamo tutti più o meno bravi ma a 1.70 ben pochi riescono. E per alzare l'asticella delle difficoltà lo aspettiamo alla prossima pubblicazione.

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