martedì 31 luglio 2012

Giorgio Linguaglossa
Sul problema della "libertà" del poeta

Eugène Delacroix, La zattera della Medusa

Per la ricchezza di domande cruciali contenute, evidenzio in un post autonomo  questa riflessione-commento di Giorgio Linguaglossa, estraendola dal post in cui la discussione sul problema è iniziata (qui). [E.A.]


Cari amici della scialuppa
...ancora al tempo del periodo blu e rosa Picasso era un pittore del tutto tradizionale che non aveva detto nulla di nuovo. La sua pittura non si era presa alcuna «libertà» nelle condizioni date del suo tempo. Con "Les demoiselle d'Avignon" inizia il periodo cubista, Picasso decide di prendere la rotta della «libertà» del pittore sulla tela. È il periodo delle avanguardie storiche, un proliferare di avanguardie in tutta l'Europa. «Libertà» contro «necessità», dereglement contro il ritorno all'ordine. Quando Rilke vide per la prima volta i quadri di Picasso ne rimase profondamente sgomento e atterrito. Dove poteva andare una simile arte? questo si chiedeva Rilke che qualche anno dopo avrebbe prodotto i suoi capolavori poetici (Le elegie Duinesi e i Sonetti a Orfeo)ma in direzione inversa rispetto a quella intrapresa da Picasso.
Non credo che in poesia (e in arte) esista una «libertà» ab-soluta ma una libertà condizionata, tanto più condizionata quanto più grande è la fetta di libertà di cui si impossessa l'artista. Tanto più il poeta (e l'artista) punta in alto quanto più dovrà fare i conti con la libertà condizionata concessa all'artista. E allora? Allora al poeta non resta altro da fare che decidere la direzione da prendere. E quale sarà la direzione da prendere? Alcuni scelgono la via meno problematica, meno dolorosa e meno accidentata, quella che dà frutti subito; altri scelgono una via in salita che darà i suoi frutti molto tempo dopo che le loro opere vedranno la luce. Quest'ultima via sarà quella intrapresa da un poeta come Mandel'stam; la prima via è stata quella intrapresa da un poeta come Majakovskij. Poi ci sono i poeti che scelgono un campo poco zappato: tipico esempio la poesia post-dialettale che si è sviluppata in Italia dagli anni Ottanta ad oggi. Un terreno boscoso e (apparentemente) adatto ad essere disboscato. Tale è la via scelta dai due maggiori poeti in dialetto degli ultimi 30 anni: Dante Maffìa e Franco Loi, ma il primo dopo la quadrilogia degli anni Ottanta (da "I ruspe cannarute" a "Papaciòmme") deciderà di porre fine alla esperienza della poesia in dialetto calabrese mentre Loi deciderà di continuare a disboscare il terreno della sua koiné milanese fino ai giorni nostri. Quale dei due ha avuto ragione? Quale delle due vie sarà ritenuta dai posteri quella di più lunga gittata? E qui credo che rientra in campo il problema della «libertà» del poeta rispetto al proprio linguaggio. Quale legittimità può avere il linguaggio poetico dialettale dopo la scomparsa delle comunità parlanti in dialetto? Questo è il vero interrogtivo sul quale i poeti dialettali non si sono ancora pronunciati. Maffìa mi disse una volta che si era stancato di scrivere in dialetto e che non aveva più nulla da dire con il dialetto, che ciò che aveva da dire non poteva più essere scritto in dialetto. Mi disse anche che riteneva tutte le opere pubblicate in dialetto una via di mezzo tra il folklore e la curiosità. Sarei curioso sapere da Franco Loi qual è la sua opinione in proposito visto che continua a scrivere opere in dialetto. Un altro problema è quello posto dalla poesia di Valentino Campo appena postata nel blog. Qual è la «libertà» concessa al poeta di legiferare con la propria scrittura poetica a ridosso di un evento luttuoso come la morte della propria madre? È possibile prendersi la «libertà» o è la «libertà» che ci prende in ostaggio? Restano problemi aperti, credo. Di fatto, la poesia (e l'arte) ha a che fare sempre con un «lutto». Resta da decidere quale sia però il «lutto» oggi. E non è un problema da poco.

66 commenti:

Anonimo ha detto...

Molto chiarificatore quesio post, ma la ricerca della libertà in poesia è strettamente legata al concetto di libertà del vivere in società? O meglio il lasciare che le parole fluiscano senza il freno delle regole, può irrimediabilmente rovinare la poesia o meglio l'idea che si ha di essa? Pare di sì, pare di no. Vorrei poter pensare che no, non la rovina, ma poi leggo Leopardi e mi resta il dubbio, nessuno sarà più come lui? Emy

Moltinpoesia ha detto...

Ennio Abate:


Trovo troppo statuario e astrattamente romantico questo Picasso che «decide di prendere la rotta della “libertà” del pittore sulla tela».
Basti pensare al clima storico che respirava («È il periodo delle avanguardie storiche, un proliferare di avanguardie in tutta l'Europa») per correggere quest’accentuazione sul genio “che decide” (ricordo Fortini che invitava ad essere guardinghi: «Meno genio, per favore!» …).
Sì, decide, non c’è dubbio. Ma può decidere solo quando sono mature certe condizioni. Non a capriccio, non volontaristicamente, non come un demiurgo creatore dal nulla (o quasi).
Del resto - è bene ricordarlo - succede così anche nelle scienze: la scoperta da Nobel avviene a un certo punto, quando eserciti di scienziati ( i “moltinscienza”?!) hanno accumulato ricerche e dati che permettono al singolo di cucinare la pietanza (ah, Marcella la gran cuoca!), che poi viene presentata come “scoperta sensazionale” o nuovo paradigma, non più trascurabile dai posteri.
Insomma c’è l’accumulo (paziente, persino noioso, cieco come il lavoro di una talpa) e poi lo scatto, il salto. La “decisione” dunque è relativa.

Interessante questo ricordare il Rilke «sgomento e atterrito» davanti ai quadri di Picasso e la sua produzione di «capolavori poetici» che muovevano «in direzione inversa».
Ma che lezione, allora, trarne, Giorgio?
Non voglio fare il malizioso invito ad essere meno drastici quando si parla di poetiche che non condividiamo (o che ti fanno inorridire, come quelle dei “quotidianisti” o dei “minimalisti”). Però una considerazione realistica sul fatto che la poesia o l’arte possa nascere da poetiche incompatibili (a prima vista o anche meditatamente) tra loro, questo accostamento di Picasso e Rilke lo suggerisce…Del resto, ricordo che Fortini, pur criticando le neoavanguardie per le loro poetiche corrosive e “slogatrici” della sintassi e del significato, sapeva riconoscere il valore poetico di un certo Sanguineti.
Se siamo d’accordo, allora, sul fatto che « in poesia (e in arte)[non] esista una «libertà» ab-soluta ma una libertà condizionata», sarebbe il caso di indicare con la massima precisione possibile i condizionamenti, che per gli uni possono essere di un tipo e per altri di un altro tipo.
Si ha un bel puntare «in alto» o, come tu spesso inviti a fare, “alzare l’asticella”. Questa intenzione o gli inviti non automaticamente permettono di scegliere «la direzione da prendere». Specie quando siamo nel caos (o nella «selva oscura») e la scelta è ardua. Molti, siccome sono dei pigri, degli opportunisti o dei vili, « scelgono la via meno problematica, meno dolorosa e meno accidentata, quella che dà frutti subito»? Non ci credo. È che a volte , anche chi sceglie «una via in salita», può sbagliare lo stesso. L’ambizione di per sé non garantisce nulla. Spesso, solo dopo che si è avanzato un bel po’, ci si accorge di aver imbroccato una via che vale la pena di percorrere fino in fondo.
Mi fermo qui per ora.

Anonimo ha detto...

Una nota 'a margine' - Majakovskij non scelse affatto "la via meno problematica, meno dolorosa e meno accidentata, quella che dà frutti subito", e Mandel'shtam sarebbe stato il primo a inorridire di fronte a una tale riflessione/giudizio...

F. Tuscano

Anonimo ha detto...

Liberamente liberiamoci o liberi
da quella libertà che libera
i liberi della loro libertà.

Emy

Anonimo ha detto...

Di recente ho letto un saggio illuminante sul "dimenticato" Edoardo Cacciatore: la "Libertà"-mi verrebbe da dire dopo tale lettura-è condizionata dalla scrittura letteraria che fornisce il "visus" e l'alterazione che fornisce il visto. Il "libero" viaggio successivo è condizionato dalla prima che deve rappresentare la seconda, e questa che mina e caria quella. Viaggio, dunque grande narrazione. Scrittura letteraria dunque rime omofonie allegorie metri e smetri, forme formule e suoni; alterazioni dunque la congerie ammassata e ammatassata dell'incasinato. Libertà ferocemente condiziinata di trovare un fulcro che non sia una composizione lenitiva. Libertà che Cacciatore sapeva prendersi per attrezzarla alle bisogne del "poiein" "all'antica". Libertà necessaria di sapersi impossessare di questi esempi, di individuare questi testimoni, voglia e capacità di provare a raccoglierli.
paolo b.

enzo giarmoleo ha detto...

Credo che il tema proposto vada letto all'interno del contesto che vede la "crisi" della poesia e il cammino più propizio da scegliere, pena la facile critica cui si presta la questione.
Il Picasso/Kilke non va preso alla lettera poiché sarebbe facile smontarlo date le preoccupazioni diverse dei due artisti. Rilke ancora un poeta legato alle tematiche dell'ottocento è più assorto in problemi di carattere esistenziale, privo di certezze basilari, con un occhio rivolto alla secessione viennese ma meno disposto a cambiamenti profondi di stile come poteva essere Picasso più aperto alle nuove istanze rivoluzionarie della pittura cubista. Kilke deve ancora fare i conti con Nietzche, Picasso sbaraglia i segni tradizionali e più fisicamente ci accompagna nel 900 nella lotta contro il potere.
Un esempio opposto!
Senza andare nei dettagli vi sono innegabili affinità stilistiche e di contenuto tra Turner pittore e Shelley poeta ed è certo che il poeta, a differenza dell'esempio Picasso/Rilke, non si era mai imbattuto nell'opera di Turner. E' evidente allora che le affinità siano da addebitare ai problemi dell'epoca in cui hanno vissuto, non hanno cioè scelto il panteismo piuttosto che le filosofie neoplatoniche ma le hanno acquisite perché facenti parte delle spinte culturali del tempo.
E' vero però che si può parlare di scelta nel caso di Shelley
Shelley fa parte di quella generazione di giovani per i quali la fiamma liberatrice della rivoluzione francese rimaneva viva attraverso gli anni mentre le ceneri dei suoi eccessi si erano dispersi.
Nel suo “Defence of poetry” , egli considera i poeti come i "legislatori misconosciuti del mondo” prende posizione contro il potere proponendo un cambiamento del mondo con strumenti che scandagliano l’ignoto per una maggior conoscenza del mondo e passano attraverso un processo di affrancamento fornendo alla poesia un compito profetico di palingenesi fra etereo e razionale che ricorda un po’ quel concetto pasoliniano a difesa del sacro perché difficilmente raggiungibile dalle manipolazioni del potere. Non so se Shelley avesse sbagliato nella sua “scelta” ma è incontrovertibile il fascino che suscita, ancor oggi, tra i giovani e fra i movimenti antagonisti stanchi di fascismi, stalinismi, liberismi e neoliberismi.

Enzo Giarmoleo ha detto...

Errata corrige : Ovviamente Rilke non Kilke.

Giuseppina Amodei ha detto...

Scusa Giorgio, scusate tutti, ma credo che questa discussione sia pura e oziosa accademia. Se si mette in dubbio la libertà del poeta, allora significa che non esiste - a mio avviso modestissimo - la poesia stessa(o almeno la vera poesia).

Giuseppina Amodei

Moltinpoesia ha detto...

Ennio Abate a Giuseppina Amodei:

Infatti, non sempre la libertà o la poesia (la vera libertà e la vera poesia) esistono. Ci sono feticci che le sostituiscono. E non ce ne accorgiamo o fingiamo di non accorgercene.

giorgio linguaglossa ha detto...

... è molto semplice, Giuseppina, c'è libertà fin quando non si sceglie davanti a due o più possibilità (o direzioni); una volta che si è scelta la direzione da prendere la libertà scompare (e si ricade nel regno della necessità). Quindi il poeta (l'artista), una volta che la sua libertà lo getta nella situazione di "necessità", deve riconvertire quella "necessità" in "libertà". Questa è la dialettica tra libertà e necessità a cui la poesia non può sottrarsi. Pensare che esista una poesia che goda di libertà assoluta è come pensare all'esistenza degli Angeli che possono volare in ogni parte dell'Empireo. Tal che la teologia cattolica, ben sapendo che non può esistere una libertà assoluta neanche nell'Empireo, assegna loro a ciascuno una particolare "orbita", insomma, una zona di competenza e di pertinenza. Non solo, ma la "libertà" dell'artista è sottoposta a una molteplicità di limiti e di ostacoli, che vanno dai problemi di lingua a quelli ideologici, da quelli di classe a quelli afferenti il tipo di sviluppo sociale della società a cui appartiene.
Per concludere vorrei tradurre il problema della "libertà" in quello della direzione da prendere. Se noi chiediamo a un poeta o a un romanziere o a un pittore quale direzione (di scrittura) ha intenzione di imboccare, essi daranno la loro risposta che, per la stragrande maggioranza dei casi sarà agnostica o negativa: cioè quasi sempre gli artisti non sanno quello che fanno, nel senso che non ne hanno coscienza, intendo coscienza teorica, ma questo non significa che non sappiano quale significato e quale ripercussione avrà lo scegliere una direzione di ricerca piuttosto che un'altra. Insomma, non tutte le direzioni si equivalgono e non tutte le strade portano a Roma. Ci sono delle strade che portano verso il burrone e altre che portano in un bel prato verde con sopra i fiorellini, come fa tanta poesia al femminile di oggi.
Quando io indico che la direzione presa dal minimalismo nostrano è una non-direzione perché porta inevitabilmetne verso il post-minimalismo e verso il post-post-minimalismo, non credo di dire delle cose così stralunate. La via del minimalismo contemporaneo non è una via, è un porto dove stazionano una moltitudine di navigli all'ancora. È una condizione di immobilità che ha le proprie cause in quella condizione di immobilità "esterna" che afferisce ad es. alla Moda e alla Politica, considerate, nel tardo Moderno, al pari di entità invariabili.

Francesca Diano ha detto...

Da "Limite Azzurro" Scheiwiller 1976


Dal punto ov’io siedo

volgendo intorno lo sguardo pigro

partono infinite vie:

nella disperazione di seguirle tutte

contemplo il cielo.


(C) 1974 Carlo Diano

Francesca Diano ha detto...

Indirizzo web errato, scusate!

Anonimo ha detto...

Majakovskij, che pure aveva scritto con ubbidienza sulle tematiche poste dal comunismo, allora in costruzione dopo la rivoluzione d'ottobre, s'era posto il problema della libertà e l'aveva risolto definendola come valore nel suo farsi. Sfuggiva quindi alle interpretazioni manierate, e lo fece a proprio rischio e pericolo. Si era dato delle regole: che il contenuto non prevaricasse il piacere estetico della parola, che le due cose andassero insieme o quantomeno che il poeta non perdesse di vista il senso, la direzione della scrittura. E poi contava la scelta di campo, farsi capire da contadini e operai, e farsi capire dagli intellettuali. Scelta non facile, comunque subordinata al rendersi comprensibili.
Il senso logico delle parole agisce in poesia come un calmiere, un approdo che rassicura il lettore sul fatto che non ha tra le mani un non-senso. Ma la logica non sempre va d'accordo con il piacere estetico ( emotivo, filosofico...), e non è per niente garanzia di verità. Ne deriva che la libertà, intesa come valore primario a se' stante, sia priva di fondamento se non è accompagnata da molte altre componenti. E non è un valore assoluto perché la si congelerebbe, perché c'è solo la pratica della libertà e non può esserci una sua definizione... se non all'interno di un progetto che, per forza di cose, esula dalla scrittura nel suo farsi, pena la non-poesia.
Mayoor

ps. Il cubismo fu una felice invenzione dalla critica ( principalmente nella persona di G. Stein). Questo decretò la fortuna di Picasso. Molti anni dopo accadde anche con gli artisti della trans-avanguardia, grazie a Bonito Oliva. O no? :)

Anonimo ha detto...

sì, è parecchio confuso. Forse Linguaglossa, quando definisce la libertà come possibilità di scelta, si riferisce ad una libertà concettuale che non mi sembra abbia attinenza con la sua manifestazione nell'istante. Il pensiero concettuale è oggi assai moderno e diffuso tra le arti.
mayoor

Anonimo ha detto...

A Linguaglossa:

E' la libertà che deve essere una necessità- Anche il non scegliere può essere una scelta ma lascia spazio all'artista di esprimersi come meglio crede nel momento in cui compone. Certo questo atteggiamento così confacente all'arte, porta l'artista spesso se non sempre a rinunciare ad una vita ordinata dal "ceto medio", ma questo non interessa ai veri artisti nè oggi ne ieri e spero neanche domani, e per dirla alla Mayoor (o no ?). Emy

Anonimo ha detto...

da Rita Simonitto

Emilia scrive: *quando inizia e quando finisce la libertà in poesia?
…. proprio perchè si tratta di poesia la libertà deve starci e sempre. il limite non lo danno certo i poeti e secondo te [Ennio] neanche i critici, forse la società?*

A prescindere dalla sua forma apodittica (come sottolinea Ennio), il problema sollevato da Emy non è di poco conto e meriterebbe un trattato.
Ma intanto prendiamo l’ intervento di Linguaglossa che ci dà almeno due coordinate entro le quali poter articolare dei pensieri.
La prima * Non credo che in poesia (e in arte) esista una «libertà» ab-soluta ma una libertà condizionata, tanto più condizionata quanto più grande è la fetta di libertà di cui si impossessa l'artista*
Questa affermazione esonda da una mera applicazione all’arte ma è un principio valido per ogni situazione del vivere. Sembra un paradosso, ma è così. E’ solo l’onnipotenza infantile che crede che ci sia la libertà di fare e di esprimere ciò che si vuole senza condizionamenti di sorta. Oltretutto, se ci rifacciamo alla mitologia (anche se oggi, scioccamente, si tende a mettere il mito sotto le scarpe, come se si trattasse di faccenda superata e non invece di una narrazione continua che, con tutte le innumerevoli sfaccettature, parla di noi anche al presente), vediamo come la punizione divina si sia sempre abbattuta sulla *hybris*, intesa come sfida prevaricatrice, così come recita il detto: “gli Dei mandano Ate a coloro che vogliono perdere”. Ma, senza andare tanto lontano nel tempo, basti pensare anche al più recente (si fa per dire) mito della Torre di Babele.
Ci sono dunque degli ‘indicatori’ che ci avvertono dei rischi che corriamo quando cerchiamo di oltrepassare i limiti e che ci suggeriscono, quindi, di non operare con spavalderia bensì con cautela.
La seconda * È possibile prendersi la «libertà» o è la «libertà» che ci prende in ostaggio?.... Di fatto, la poesia (e l'arte) ha a che fare sempre con un «lutto». Resta da decidere quale sia però il «lutto» oggi. E non è un problema da poco*.
Il campo del dire poetico è potenzialmente illimitato poiché illimitate sono le esperienze umane e il loro svolgimento. Per poter tradurre integralmente il passaggio (movimento compreso) dall’*essere dell’esperienza* alla *rappresentazione dell’essere*, ci sono stati i tentativi del ‘futurismo’ e del ‘cubismo’. Proprio per non arrendersi di fronte al limite di non poter dire tutto contemporaneamente, ricercando fino allo spasimo una contrazione spazio temporale.
Di questo tipo di condensazione abbiamo esperienza nel sogno ma poi, non a caso, quando lo dobbiamo raccontare lo ri-dispieghiamo nel tempo e nello spazio. La poesia è come un sogno ma un sogno di tipo particolare. Non può essere soltanto espressione dell’individualità come lo è il sogno, che è un affare privato, ma deve, come il mito, rappresentare anche le relazioni corali nella loro attualità. La poesia, inoltre, si affida ad un linguaggio che dev’essere di tipo particolare: essere canto (ritmo), visione (simbolo, metafora) e trattare con l’astrazione e la trascendenza (dal particolare al generale e viceversa, e dal limite all’illimite e viceversa).
La poesia non gode quindi di una libertà illimitata, ma la sua libertà è condizionata dalla sua stessa costituzione e di questo deve farsi carico e responsabilità.
Così come accade all’essere umano il cui pensiero può sfidare i limiti ma è comunque condizionato dal suo limite corporeo (almeno finora. Domani, chi lo sa).
Questo per quanto riguarda il mio pensiero sui limiti della poesia.
Per quanto riguarda invece i limiti dell'artista-poeta credo che Linguaglossa li abbia ben rappresentati nell'intervento più sopra, attraverso il gioco dialettico dei continui rimandi tra libertà e necessità.

Unknown ha detto...

il problema dunque,rifletti che ti rifletti, pensa e ripensa potrebbe quasi essere... sarebbe quello... forse , chissà , magari... parallelo e comune ad altre arti , mestieri e professioni:

chi, perché, cosa , come ci s'autoinveste o si viene investiti di essere "vigilante"? come d'essere chi sorveglia e realizza PRATICAMENTE "la costituzione "?

chi, come, perchè, su quali regole etc etc direbbe :ocio hanno truccato il gioco, quella/o sta barando, l'hanno dopato o fa finta di correre, invece è fermo immobile steso ko in parole addormentate o a carrozzella,
oppure al contrario:
caspita che geni, dna di fisicità poetica reale, etc etc
-----
la sbarra e la libertà vigilata da chi, come , perché

Anonimo ha detto...

Cara Rita, ho parlato di libertà come concetto non perseguibile ma da realizzarsi nell'istante, in ogni istante. E la libertà non ha a che vedere con la realizzazione o meno dei nostri più o meno capricciosi desideri, quanto piuttosto con la conoscenza di noi stessi. Riuscire ad essere noi stessi è affermazione di libertà. Chi non conosce se stesso non può dirsi libero perché vive in una condizione riflessa, costantemente reattiva e dipendente dagli altri o dalle circostanze esterne. E la libertà non a che vedere con le regole ma le comprende, e questo vale anche per la poesia dove le regole si possono scegliere, appunto liberamente, e liberamente modificarle. In altre parole, personalmente rifuggo l'idea che ci possa essere una libertà da perseguire, una libertà da rimandare a chissà quando. Naturalmente questo non significa che non ci siano situazioni oggettive di privazione della libertà che andrebbero combattute assolutamente, questa è questione sociale. Chiunque, ad esempio, abbia soggiornato almeno un giorno a sanvittore lo sa bene. Ma preferisco qui parlare di "pratica" di libertà, perché credo che sia una prassi e non un obiettivo.
mayoor

Anonimo ha detto...

Cara Rò e cari amici,

leggendo i commenti e cercando di dare ad essi alla fine un unico significato, mi vien da pensare che il concetto che abbiamo noi di libertà non è libero dai condizionamenti della nostra storia e di conseguenza anche la poesia subisce in questo senso una forte penalizzazione. Resta comunque da evidenziare e da tenere sempre in considerazione l'essenza di tutto ciò che esiste in questo mondo e della sua vita primordiale , rivestita e sottolineo rivestita di modernità. Nelle poesie in dialetto, che io ogni tanto amorevolmente scrivo, cerco sempre di non tradire questo mio pensiero che mi giunge libero e liberamente trova spazio nel mio animo. Non voglio assolutamente pensare che la poesia possa essere anche uno scarabocchio pur di uscire dagli schemi. La poesia deve restare poesia e per esserlo dovrà sempre avere quella caratteristica che fa della parola un'arte. Per me la più bella delle intuizioni. Ciao Emy

Anonimo ha detto...

(continuo)

Per quanto riguarda le varie asticelle, sbarre, punti, virgole, a capo, spezzato ecc. ecc., ai critici l'ardua sentenza ,ma spero tanto che prima di considerare qualsiasi testo abbiano conosciuto il poeta che c'è in loro, altrimenti è (scusate l'espressione), un bel casino. Emy

Anonimo ha detto...

Il dialetto: per me ha senso se ci si rivolge con lingua parlata a chiunque ne faccia uso. Altrimenti non ne vedo la ragione. Pasolini in Ragazzi di vita... ma appunto voleva comunicare a certi livelli, e poteva farlo perché comunque aveva uno sguardo alto, altissimo direi (se si considera alto il linguaggio del padrenostro o simili...).
mayoor

Anonimo ha detto...

Caro Mayoor, il dialetto è la ragione di un passato che ci ha lasciato il piacere di scriverla e il piacere di leggerla. Per quanto riguarda l'utilità (se non quella della conservazione di una radice inestirpabile),direi che io la trovo solo quando voglio descrivere una magìa del tempo passato e presente che semplicemente vuole affiorare senza offendere la realtà. E' una mia idea e ripeto un mio grande piacere, discutibile, come del resto anche quel dipinto che ho appena visto , un bosco di alberi rossi e blu del quale il pittore mi ha detto che è stato un grandissimo piacere per lui dipingerlo , perchè gli ricordava un sogno che suo nonno spesso gli raccontava, ti assicuro un effetto grandioso! Emy

Anonimo ha detto...

da Rita S.
@ Mayoor

Caro Mayoor,
facciamo un esempio proprio a partire da questo tuo intervento.
Io leggo: *Cara Rita, ho parlato di libertà come concetto non perseguibile ma da realizzarsi nell'istante, in ogni istante* e il mio pensiero ‘libero’, all’istante, è stato quello di dire, dentro di me, “Ma che c…ate sta dicendo Mayoor”.
Ovviamente, questo mio pensiero può essere congruo con un mio sistema di valori, con quello che conosco di me, ecc. e quindi, in teoria, ‘è libero’. Ma ecco che mi si pone un limite. Non mi sento libera di comunicarti questo mio pensiero.
Dalla ‘libera’ conoscenza che ho di me, posso arguire che, se non lo faccio, non è per un quieto vivere, tanto chissenefrega, ognuno può pensare il cavolo che vuole. E nemmeno per paura di offendere la tua suscettibilità: se ciò accadesse, riguarderebbe più te che me, e cioè un tuo (altrettanto libero) modo di vivere l’accaduto. Può essere perché, per quel poco che ti conosco, mi stai simpatico e, in virtù di questa simpatia, sono disposta a limitare la mia libertà di espressione. Ragion per cui, anziché esprimermi con la modalità di uno scaricatore di porto, cercherò di esprimere il concetto cercando di limarne l’aggressività e dando più risalto agli aspetti interlocutori. Ora, tutto questo ‘lavoro’ che ti sto esprimendo occupando una ventina di righe, avviene, di fatto, istante per istante. In questi istanti la mia libertà si esprime nel mettere continuamente a raffronto la mia libertà di pensiero e di espressione con i suoi limiti. E’ da questo processo che mi posso rendere conto se, e quanto, calco più la mano nel perseguire una mia ‘libertà personale’, e quindi mi ‘sottopongo’ ad essa, al suo presupposto raggiungimento, o quanto, invece perseguo una libertà che allarga i suoi orizzonti contemplando appunto svariate possibilità. E questo secondo movimento può avvenire soltanto nella misura in cui mi confronto con il limite. Se dessi istantaneo spazio alla mia libertà tutto questo si perderebbe.
Ciao e grazie per i tuoi interventi (simpaticone!!!!!)

p.s. per Ennio o per chi gestisce il Blog: non sarebbe possibile numerare gli interventi di modo che sia più facile fare i riferimenti nelle risposte? Non sempre è possibile rispondere a tambur battente e quindi si deve prendersi la briga di andare a cercare il commento a cui ci si riferisce. Grazie.

Unknown ha detto...

Semplice e per questo grandissima Emy , all'insegna di questi giorni..fioretto preciso d'oro e rame a contatto del mantello fino al nucleo del suono

..Pensa che a me è dovuta bastare solo l'inflessione dialettale, perché lingua madre e padre m'entrasse nella carne ..letto nella prima poesia che ricordo:la ninna nanna di mio padre.La piu grande poesia dopodiché ex aequo tutte le altre, che capisco debbano avere prima di tutto il rispetto di tutti i generi, fili e filoni, come in musica è da quand'è nata con esclusione ovviamente delle puttanate melodramma, canzonette senza nemmeno leggere, etc etc.

La poesia fuori concorso funzionava così bene che mia sorella, molto meno tonta di me, invece di addomentarsi, si risvegliava.

Il poeta sveglia e risveglia oppure se proprio deve addormentare o addormentarsi lo fa cantando e facendo sognare, cosa che è necessaria tanto quanto imepegnarsi e ricrearsi...può farlo in tutte le lingue del mondo, per prima nel ritmo, tempo, segni e modo del pezzo di terra in cui è spuntata la sua prima corda. Non devi chiamarti "Pasolini" per poterlo fare.

ti/ vi lascio una traccia, in ringraziamento a poesia e ai dialoghi e le camminate che comunque libera e scatena
ciao:-)
r


A scuola la poesia costretta al servizio didattico

spinge all’arte di dubitare e sembra dimenticare la vita,

ma la meretrice dell’apocalisse, l’ultima Musa, strappa

sensazioni estreme di gioia disperata

ai poeti della parola in rivolta che si sperdono

nella risonanza cosmica, ultimi imitatori

della creazione. Il giudice istruttore, asciugandosi

le labbra bavose con un fazzoletto bordato di nero,

dichiara che questi, della parola in rivolta, sono morti

che dialogano con altri pochi morti. Majakovskij entra in casa

barcollando e lasciando impronte di fango in cucina

I suoi occhi sprofondano nelle orbite e da lì

scrutano il mondo esterno che ha assunto la forma di un caos

mercificato. Poi, ridendo esclama: Ogni poeta degno

di questo nome è scimmia di Dio, o dell’idea di Dio…

Tomaso Kemeny
da poemetto gastronomico ed altri nutrimenti

Anonimo ha detto...

beh, Rita magnifica, io non mi riferivo alla libertà nelle relazioni. Certo che in questo caso è bene dare spazio all'altro, tenerne conto, mediare un po', e quando possibile tentar farsi capire. Volevo solo dire che la libertà è pratica del vivere stesso, non un ideale (in polemica con il soledell'avvenire che ti fa morire imbufalito). E' qui, e lo sarebbe anche se fossimo imprigionati. Se mai serve di crescere in consapevolezza, e a questo proposito mi scuso per la mia mente che sta in baraonda per il caldo e se ho commentato a sproposito su quanto hai scritto sopra. Tornando alla poesia: temo le scelte teoriche su questo tema perché senza esercizio di libertà saremmo prevedibili, anche a noi stessi, e il "duro" lavoro di scrivere si complicherebbe ulteriormente. Ma certo, non siamo tutti uguali, io nella logica sono un pesce fuor d'acqua, ma se la logica s'inabissa allora va meglio. Dipende: Picasso diceva "io non certo, trovo", significa che il suo approccio al lavoro era leggero e fiducioso, sono certo che ci arrivava vuoto nella mente... cosa che non avviene ai sapienti, che si portano appresso valige piene di conoscenza, che va bene ma non quando si vorrebbe creare dal nulla. Mi si dirà che dopo le comprensioni del post-moderno questo crear dal nulla non è più possibile, ma ritengo che questo sia soltanto un pensiero dovuto a pessimismo. E il pessimismo è sempre fatto da buone ragioni, e poco altro. Figurati: scelgo e quindi resto legato alla mia scelta. Libertà perduta. Non senti quanto è teorica questa affermazione dell'amico Linguaglossa? E' solo logica, e naturalmente s'aspetta che gli si risponda su questo terreno. La libertà è un valore, va bene, anche collettivo, e si sa che non c'è niente di più fastidioso che incontrare una persona che fa sfoggio di libertà... è che alla libertà non ci si può abituare, il suo farsi non può essere ripetitivo. Non è cosa per i pazzi.
mayoor

Moltinpoesia ha detto...

Ennio Abate a Rita:

Non è possibile numerare gli interventi.
Però una stella polare per segnalare il commento a cui ci si riferisce è la data e l'ora del commento.

Ad es. con questo mio commento io rispondo a Rita 03 agosto 2012 15:49
Così chi legge può risalire al riferimento più facilmente.

Anonimo ha detto...

da Rita Simonitto

Libertà

Libertà va cercando, ch’è sì cara
come sa chi per lei vita rifiuta.

Nessuno sa quant’essa è amara,
tossica al par di segale cornuta.

(metà Dante e metà io)

Anonimo ha detto...

La falsa libertà
sta nel denaro
come la sete sta
in chi mangia troppo sale.

La vera libertà
sta nel pensiero
come la prima goccia d'acqua
sta nella grande nuvola.

Emy

Anonimo ha detto...

La libertà non sceglie
non separa le rose dalle spine.

(baci perugina)
mayoor

Federica Orsini ha detto...

Mi insinuo nella discussione dopo aver a lungo chiaccherato e rimuginato, complice un piacevole clima di otium vacanziero, con Giuseppina Amodei, su quanto detto e sono arrivata alla considerazione che la dialettica tra necessità e libertà è intrinseca all'agire stesso e tutti, poeti e non, ne sono sottoposti; la questione allora non è se il poeta sia o meno libero, ma di quanto ne sia consapevole e accetti il potere e il peso del suo privilegiato stato oppure si accontenti di essere semplicemente un uomo che sa scrivere versi.

Giuseppina Amodei ha detto...

...a completamento di quanto detto da Federica appena un minuto fa (filosofa con la quale sto per condividere un "libero" bagno di mezzanotte nello Jonio), vi prego: se mettete anche un minimo tarlo alla mia convinzione che la libertà del poeta è sacra e inoppugnabile, non chiamatemi poeta, per favore!!
Ciao Giorgio, baci.

Francesca Diano ha detto...

Nel 1970 esce un libro rivoluzionario del biologo e filosofo Jacques Monod, premio Nobel per la medicina. "Il caso e la necessità" che consiglierei a tutti di leggere anche perché scritto in modo limpido e divulgativo. In seguito alle sue scoperte sul comportamento di alcuni batteri e al ruolo e all'aggregazione delle proteine, che di fatto costruiscono l'organismo, Monod scopre che il caso è di fatto alla base dell'evoluzione degli organismi viventi ma, allo stesso tempo, queste alterazioni casuali, vengono poi conservate e riprodotte secondo uno schema necessario e conservatore.
Monod era un grande scienziato, ma anche un uomo di grande cultura umanistica e un musicista e le sue scoperte in campo scientifico furono alla base di una visione del tutto nuova della vita.
Ho parlato di Monod perché mi pare ci stia bene in questa discussione sulla libertà o meno del poeta. Come bene ha citato Mayoor, Picasso diceva: "non cerco, trovo" e così fa il poeta, così fa ogni artista e ogni essere umano che usi la creatività per vivere e capire il mondo. Ogni autentica creazione poetica è frutto del caso, cioè di uno scarto, di una deviazione dal percorso battuto. E'questa credo la libertà che a un poeta si addice e che gli è propria.

Anonimo ha detto...

Ecco, Francesca dice qualcosa che mi convince molto: la creazione è una "deviazione del percorso battuto" e non un andare contro corrente.L'andare contro corrente lo vedo come un rifiuto, una non accettazione del vivere che impedirebbe la creazione. Lacreazione ha bisogno solo di nuove strade che comunque scorrono in un presente che si vuole esaltare o condannare. Emy

Francesca Diano ha detto...

In effetti Emy, deviare dal percorso battuto e andare controcorrente (ricordate A' rebours di Huysmans?) potrebbero apparire la stessa cosa ma, come tu noti, non lo sono. Il primo è un percorso al buio, una cerca, un cammino solitario in territori sconosciuti e mai battuti, il secondo è un atto di sfida, di distruzione del già noto e giustamente dunque le energie sono impegnate in un'azione distruttiva più che creativa. E spesso riporta al punto di partenza. In effetti è poi da quel punto che si può ripartire. In molti casi però poi si tende a ripetere lo stesso percorso, come l'asino che tira la macina. Forse è questa assenza di scarti e deviazioni che caratterizza la poesia (e non solo quella) oggi in Italia?

Enzo Giarmoleo ha detto...

Monod l'avevo capito diversamente"! Negli anni 70 v'era stata una polemica che girava intorno al fatto che Monod considerasse "la struttura di un essere vivente .... il risultato di un processo ....nella misura in cui non deve praticamente niente all'azione delle sfere esterne , mentre deve tutto , dalla forma generale fino al minimo particolare , ad interazioni morfogenetiche interne all'oggetto medesimo." Ora questa considerazione mi sembrava tarpasse le ali a chi aveva una visione del mondo "dialettica" (così si diceva) nel senso che nulla mai veniva addebitato all'ambiente esterno e che l'individuo era solo essere biologico. La faccenda aveva risvolti seri poiché riguardava anche le afasie del linguaggio che venivano considerate in modo avulso dalla realtà quasi in vitro appunto come patologie biologiche. Oggi basterebbe pensare a quali possono essere le modifiche al codice genetico nei territori diossinati o all'uranio impoverito.

Certo ci sono sviluppi interni e autonomi chè altrimenti salterebbe la stessa nozione di genetica. Voglio dire però che c'è una differenza tra il fatto che gli abitanti dell'Africa sono scuri di carnagione che è un dato genetico e un cambiamento del DNA indotto da cause esterne non dovute al caso. Ma forse sto banalizzando !
Tradotto in poesia si capisce così che le eventuali scelte del poeta sono a volte necessarie , non vengono neanche fatte per avere dei frutti in futuro, sono scelte libere e soggettive.
Se i poeti, che so io di New York, decidono di scrivere qualcosa in forma di poesia che necessita una lettura anche al contrario, sottolineando il carattere ermeneutico di una scrittura che ribalta ogni figura autoritaria e rendendo attivo l'ascolto del lettore, credo che stiano facendo una scelta che non è una costrizione .

Francesca Diano ha detto...

@ Enzo Giarmoleo
Credo che le polemiche che si scatenano sempre attorno a delle posizioni rivoluzionarie siano appunto solo questo: polemiche uggiose e che nascano dalla difficoltà di guardare le cose da un punto di vista nuovo e diverso. Il giudizio che tu riporti ma senza citarne la fonte o l'autore, quindi impossibile da contestualizzare, chiarisce come di un discorso amplissimo e complesso quale emerge da "Il caso e la necessità", l'autore del giudizio abbia colto poco o nulla, riducendolo a un mero enunciato meccanicistico. Monod dice altro. Di fatto dice: natura facit saltus, che è l'opposto di quanto si affermava prima. E sono proprio quei salti, quelle deviazioni, quegli scarti improvvisi che determinano l'evoluzione. Che le reazioni creative delle proteine e conseguentemente la loro conservazione e trasmissione, cioè la loro "necessità"come parte del DNA siano innescate da agenti esterni o interni poco conta. Il fatto è che avvengono. Ciò che Monod nega - e lo fa dal punto di vista di uno dei maggiori microbiologi e scienziati, non in modo teorico dunque - è che nell'universo vi sia uno scopo preciso, un percorso evolutivo già segnato e immodificabile. Si tratta di un'evoluzione assai più complessa e raffinata del darwinismo, ma non certo di quella un po' facilona che ci legge la negazione delle interferenze dell'ambiente esterno. Monod va al di là di questo. Tali interferenze sono accidenti, casi che innescano quei mutamenti.

Non capisco invece molto bene cosa intendi con "scelte necessarie" del poeta se poi le dici "libere e soggettive". La necessità è l'opposto della libertà e della soggettività. Comunque io non ho scritto affatto che il poeta (o qualunque tipo di artista) sia costretto nelle sue scelte, ma che ogni autentica creazione nasce da una deviazione dai percorsi noti. Cioè il ruolo del caso - id quod cuique évenit (Linguaglossa sa di che parlo) - è un ruolo creativo. Gli antichi avevano una divinità, la Tùche a rappresentarlo, tanta era l'importanza che gli davano. In genere non sono molti quelli capaci di compiere queste rivoluzioni ed è per questo che Baudelaire definisce questi pochi individui i Fari, in quella sua meravigliosa poesia.
Diciamo che il discorso è molto complesso e meriterebbe un trattato.

Anonimo ha detto...

Cari tutti,

Lo spazio di liberta' che andiamo cercando potrebbe essere, nella pratica dei testi, quello che ci fa scegliere una soluzione testuale rispetto ad un'altra, cioe' lo "spazio della scelta" caro ad Umberto Eco. Possiamo discutere del fatto che le nostre scelte compositive (metrica, ritmo, rime, struttura, richiami) siano consce, perche' dettate da una poetica o da una ideologia, o inconsce, cioe' casuali, irrazionali o emotive.

Rimane tuttavia irrisolto il punto estetico (che e' comparativo e quantitativo), che alla fine rende alcune poesie migliori di altre o comunque accettate nel Canone. Voglio dire che i discorsi sul "gesto" in se', sull'"atto" , mi sembrano qui ispirati a criteri morali / etici (scriviamo per ribellarci allo scacco, scriviamo per elaborare un lutto, scriviamo per affermare una diversa verita' rispetto a quella mainstream) che in ogni caso non donano al risultato una veste accettabile a priori.

Saluti. Giuseppe Cornacchia

Moltinpoesia ha detto...

Ennio Abate:

A QUELLI CHE VANNO CONTROCORRENTE

Premessa. Rispondo in particolare a Mayor, Emy, Enzo, Giorgio (3 agosto) usando un Internet point. E nulla di quel che scrivi avrebbe senso se non fossi interessato al "destino della poesia".


Ennio Abate:

Ahimè, ancora! Ecco il paradosso di questi ultimi interventi: proprio come il barone di Munchausen, evocato da Rita Simonitto, singoli rappresentati della ex- borghesia oggi ceto medio (in via d’impoverimento) - e su ciò insisto! - si vogliono tirar fuori dalla palude (comune) tirandosi su esclusivamente per i propri capelli. Operazione “poeticissima” ma inefficace e un po’ ridicola.

@ Mayoor

Mayoor - mi scuserà per il tonon sarcastico - sicuramente è «una persona che osserva (e che lavora da anni nel campo della comunicazione)» ma “cede” «all'idea della globalizzazione come fatto reale, non come convegno delle superpotenze».
Potrebbe « parlare dei responsabili di tutto». Cioè: potrebbe prendersi la “libertà” di farlo. Ma se la censura subito lui stesso, perché «questo è pur sempre un blog di poesia» e - conseguenza di un atteggiamento “libero”? - non sarebbe bene parlarne qui. I poeti, come si sa, da quell’orecchio non ci sentono. E lui (in nome della libertà o dei “limiti” della libertà!) risparmia la sua voce.
Con tali premesse, sul medesimo blog di poesia, cosa si può fare? O, meglio, cosa è concesso fare o cosa ci si concede di fare?
Ci si può lamentare («Già ho dovuto penare…»; « già devo guardarmi dagli "ideali"…», etc.). O tentare di prendere in castagna il cetomedista di basso rango, cioè il sotto [o sopra]scritto Ennio («Sei mai stato in un autogrill dopo che…»; « Quante coppie felici, davvero felici e appagate…», etc), che osa ancora parlare di un ‘noi possibile’, da costruire attraverso un esodo (innanzitutto dai pregiudizi novecenteschi) o attraverso un progetto. Roba che ha dell’«incredibile»!
Quando dicevo che «siamo tutti ex -piccola borghesia o ceto medio» non era - ahi noi! - questa geremiade che auspicavo. E dell’ ambivalenza (reale) del ceto medio non intendevo sottolineare solo l’aspetto nichilista o catastrofista (che pure c’è).
Né riferendomi agli onori e ai disonori dei popoli intendevo far la lista delle disillusioni, ma invitare almeno a capire perché non regiscono più ai loro ricattatori con una bella rivolta, come ai vecch itempi.
Tu dici perché hanno smarrito il «senso della comunità»?
E se ti dicessi che i loro ricattatori sono diven tati più potenti che mai, inafferrabili? E che una volta fermare una fabbrica era possibile agli operai e oggi fermare la BCE o il FMI nessuno sa bene come si possa fare?
E che questa “piccola” difficoltà non si supera recuperando il «senso della comunità»?
Mayoor, un po’ aggredendomi e un po’ blandendomi, mi dice pure: « Il teorico sei tu, mettili insieme tu i pezzi, ma trova parole nuove che sei poeta, e dei migliori».
E io gli rispondo: No, caro mio, teorici, vista questa situazione, dobbiamo per forza essere un po’ tutti, se vogliamo capire in quali forme nuove e sottili il potere oggi si manifesta; e trovare (ammesso che ci si riesca) un modo per bloccarlo o limitarlo, vista l’estrema condizione d’impotenza in cui ci ha cacciato e non sognare “rivoluzione” (come fa la Emy).

[continua]

Moltinpoesia ha detto...

Ennio (continua):


Quanto a Fortini, non farmelo diventare un Amleto.
Lasciamolo pure, se non ci dice nulla più, a dormire il suo sonno eterno, ma per carità lasciamo dormire anche la «felicità incolpevole, soliale, intelligente», che , a differenza di Fortini, non è mai esistita.
E Bertolucci? Lasciamo dormire anche lui. In «Novecento» aveva mostrato (?) che la lotta di classe è «senza soluzione»?
Beh, facciamo una cosa. Siamo ancora più drastici, come lo è l’amico Gianfranco La Grassa. Prendiamo pure seriamente in considerazione l’idea che la lotta di classe non ci sia più, perché la lotta di classe non c’è più o è irrilevante ( uno scandalo!), ma vediamo però quali sono le lotte reali che, comunque, si svolgono. Ancora a colpi di bombe in certi disgraziati Paesi e muovendo capitali con un clic di mouse che mette in gionocchi interi Stati negli altri. Ez vediamo che ruolo in esse possono svolgere (se lo possono…) non il ceto medio, ma almeno le persone più sveglie che in esso ci sono.

@ Enzo Germoleo

È vero, il - concetto di ceto medio è vago (ho detto, riprendendo un luogo comune, che è un «concetto -contenitore», dove rietrano cose che non capiamo o non riusciamo a sistemare in un discorso coerente). Ma non capisco perché interrogarsi su di esso comporterebbe automaticamente « ripetere gli errori di interpretazione del passato». Quali poi? Spiegalo, se vuoi.

@ Emy

Non te la prendere, ma davvero le tue osservazioni mi paiono campate in aria e esempio della confusione che regna tra i “cetomedisti” sulla realtà odierna, che un po’ non si capisce e un po’ non si vuole capire.
Perché la protesta sarebbe pericolosa o per forza di cose «uno sfogo». Oggi vediamo proteste di tale tipo. Ma in passato ci sono state proteste “intelligenti” e, se ben guidate, efficaci (poco o tanto, ma efficaci). Perché non potrebbero essercene in futuro?
« Il gruppo organizzato , non fa più paura a nessuno», proprio perché non riesce a raggiungere il grado di organizzazione capace di minacciare chi oggi fa il bello e il cattivo tempo.
Il sindacato si sarà anche «venduto». Resta il fatto che, se i capitalisti oggi possono spostare impunemente una produzione italina o europea in Cina, il sindacato, anche se non fosse «venduto», non avrebbe nessuna forza per evitarlo, come si vede abbondamentemnte. È il suo stesso ruolo che è stato svuotato dallo strapotere (anche telematico) del Capitale.
Ed esiste una sitazione per cui il Capitale, per sopravvivere (pur continuando a distruggere), non ha neppure bisogno di un certo tipo di intellettuale (o di poeti o di artisti); o ne trova perfino in abbondanza di quelli da far lavorare secondo le sue regole (lavoratori della conoscenza precari e senza possibilità di reazione collettiva ed efficace). Però, se le conse stanno così, ai poeti non resta nessun cavolo di pensiero.
Il rischio è che resti loro in mano un gingillino, chiamato poesia, che possono usare soltanto come “premio di auto consolazione privata”.
Perdendo la loro dimesione pubblica, sociale e politica (e critica), i poeti sono nella stessa condizione dei tuoi « due o tre amici e una amica che alla bella età di anni 50 hanno perso il lavoro». Hanno cioè perso anche loro la loro funzione, sostituita da surrogati di vario tipo: dalle canzoni agli audiovisivi, ai videogiochi. E ci sarebbe da rabbrividire anche di questo. Però senza passare, automaticamente e sempre consolatoriamente, a discorsi velleitari sulla “rivoluzione”, visto che oggi mancano i mezzi minimi, elementari non solo per farla ma per PENSARLA. Altro che voglia o non voglia o di vederla o parteciparvi. Qui c’è ancora da capire a fondo quale sia la portata dell’ESPROPRIAZIONE (della vita, della poesia, ecc.)

[continua 2]

Moltinpoesia ha detto...

Ennio (continua):


@ Giorgio Linguaglossa

Capisco che Montale paventasse la cultura di massa. Il suo era l’orrore e il terrore di chi aveva un privilegio antico e lo vedeva minacciato o ridimensionato. Capisco anche Fortini, che viveva ancora in un’epoca in cui la possibilità del socialismo (diversa dalla «fede» nell’idea marxista, che è termine fuoriviante) sembrava pensabile, perché esisteva - sia pur logorato e devitalizzato, un movimento comunista mondiale e la Cina, distaccandosi dall’Urss, sembrava volesse o potesse fare una «rivoluzione culturale» e risvegliare dal torpore il “campo socialista”.
Ma noi, che non abbiamo un privilegio acquisito da difendere, né una rivoluzione ancora possibile in cui sperare? Noi siamo, però, una componente del ceto medio (dimostratemi per favore, se non siete d’accordo, quale sarebbe la nostra collocazione in QUESTA società).
Esso è oggi qualcosa di indeterminato sociologicamente e politicamente (non potendo - come ho detto - rapportarsi come una volta a delle classi precise - borghesia e proletariato - e definirsi rispetto ad esse).
E allora che facciamo? Né con Montale, né con Fortini o Pasolini. D’accordo.
Ma la soluzione che proponi davvero mi pare nichilista: accetta l’ESPROPRIAZIONE a cui sopra ho accennato.
Tu proponi in sostanza di “dimenticare” la Tradizione, quindi persino quelle che io ho chiamanto le «buone rovine», che sono sopravvissute nella nostra memoria; e che, nel mio modo di vedere, andrebbero conservate, confrontate con quelle di altri, che ne hanno di diverso tipo, per verificare se possano essere buoni mattoni entro il necessario (per me) nuovo progetto.
La Tradizione non sarà più una «cosa» di cui riappropriarci o di cui sia possibile riappropriarci. D’accordo. Ma perché dovrei rinunciare (solo per paura di abbandonarmi alla nostalgia?) a conservare quello che ricordo di quella Tradizione?
Perché dovrei ridurmi a lotofago (volontario per giunta)?
Più che « mutare visione della «cosa» e strategia», questo mi pare subire il ricatto cui si trovano di fronte tutti gli sconfitti della storia!
Significa dire in parole più povere e brutali: la rivoluzione telematica ha inghiottito nella sua voragina tutto quello che credevate vi appartenesse ( le vostre «verità», con linguaggio forrtiniano), avete perso ogni contatto coi vostri antenati, rassegnatevi e basta.
Altro che andare «controcorrente»! Come si fa ad andare controcorrente, a critica l’esistente, se all’esistente si accetta di essere ridotti?
Ecco un altro esempio della grande confusione che regna nel ceto medio anche non mediatico, in cui - ripeto - noi siamo.
No, ci vuole una scommessa. Un progetto e ciascuno porti entro di esso le sue «buone rovine» che in memoria.


[Fine]

Moltinpoesia ha detto...

MESSAGGIO DI FRANCESCA TUSCANO INVIATO A MAYOOR E MESSO DA eNNIO NEI COMMENTI:

Francesca Tuscano 4 agosto 16.35.17
Caro Lucio! Siccome non riesco a pubblicare questo commento in Moltinpoesia, e siccome era innanzitutto una risposta alle sue osservazioni su Majakovskij, mi permetto di 'spedirgliele' qui su fb...

"Insisto su Majakovskij perché, in una “conversazione” sulla libertà in poesia, è chiaro che l’esempio di Majakovskij in particolare e della poesia russa in generale (e non solo russo-sovietica, e non solo dell’avanguardia) è fondamentale. Marina Cvetaeva (in Poet i vremja, Il poeta e il tempo) ha scritto: “Per il fatto che Lunačarskij è un uomo della rivoluzione, Lunačarskij non è diventato un poeta rivoluzionario, per il fatto che io ‘non’ lo sono (della rivoluzione) non sono diventata un poeta conservatore. Poeta della Rivoluzione (le chantre de la Révolution) e poeta rivoluzionario – due cose diverse. Si sono incontrate solo una volta: in Majakovskij. E se ne è incontrata anche una terza: Majakovskij è un rivoluzionario-poeta. Per questo è il miracolo dei nostri giorni, il loro armonico estremo”. Majakovskij non è mai stato un “ubbidiente”, non si è piegato ad alcuna “necessità” tant’è che non era amato né da Lenin né da Trockij (e s’è ucciso quando ha capito che non avrebbe potuto più essere un poeta, nel clima che preparava allo stalinismo). Ma era coerente: era comunista, aveva fatto (materialmente) la rivoluzione, e dunque ‘obbediva’ al suo comunismo, che era libertà e “amore” (anche per quelli che adesso ci sembrano stereotipi dell’Ottobre). Ma era coerente anche alla lezione di Chlebnikov, ossia alle libertà del ritmo, della parola, della metafora. E quando scriveva per le piazze di Mosca, o per i circoli operai, non rinunciava mai ad una lingua ‘complessa’, che proprio nella non riduzione alla semplificazione manteneva la sua altezza ideologica (per questo dico che è assurdo pensare che Majakovskij abbia scelto vie facili). A Majakovskij non interessò mai, davvero, farsi capire dagli intellettuali – ai filologi suoi amici (Šklovskij, Jakobson) dava il compito di essere co-creatori della poesia, e solo in tal senso attribuiva importanza al loro giudizio, che non era, però, “intellettuale”, ma “scientifico” e ideologico.
[CONTINUA]

Moltinpoesia ha detto...

Francesca Tuscano(continua):

Certo, è fuor di dubbio che Mandel’štam abbia scelto una strada diversa non solo da Majakovskij, ma dall’intero futurismo (anche politicamente – sebbene il suo splendido verso, non a caso epigrafe di Petrolio di Pasolini, “con il potere non ho avuto che vincoli puerili”, lo accomuni moltissimo proprio a Majakovskij). Per lui libertà è stata coerenza alla classicità (anche dantesca) della logica, del pensiero che si rinnova con la parola, non quella – futurista – della libertà estrema della parola. Ma certo, lui, così come la Cvetaeva, Blok, l’Achmatova, Gumilëv e molti altri grandi della poesia degli anni a cavallo della Rivoluzione, non ha mai pensato che la strada di Majakovskij fosse quella facile.
La libertà, per un poeta, è, a mio avviso, innanzitutto coerenza, alla propria poetica (alla lingua) e alla propria ideologia (alla vita), e in questo Majakovskij e Mandel’štam hanno percorso una stessa strada, che li ha condotti ad una stessa fine tragica, di fatto inevitabile in tempi ben più alti, anche nell’orrore, rispetto ai nostri (in modo ben più elevato di me ha detto queste cose Jakobson, proprio scrivendo a proposito del suicidio del suo amico Majakovskij). Certo, la coerenza è una condizione, ed è evidente che non esista libertà che non sia condizionata (non fosse altro che dall’idea stessa di libertà che ognuno di noi possiede). Così come è senz’altro vero che la libertà (come ogni altro valore) esiste solo nella prassi, compresa quella artistica. Se la prassi della libertà e la coerenza portino un artista a strade senza uscita o meno, questo, normalmente, lo stabilisce il tempo (altra ovvietà), anche se è vero che un artista sente sempre quale strada sta percorrendo, e sa se sta percorrendo una strada propria (cioè coerentemente libera) o la strada (quella sì davvero comoda e facile) che indicano ‘gli altri’, cioè le mode e, nel nostro tempo, il mercato (la necessità…). E penso con orrore non solo ai porti-fantasma dove tutto è immobile, o ai prati con i fiorellini, ma anche ai falsi burroni del falso ‘épatage’ (parola francese usata dai russi) e del falso impegno. Bertoldo, nel suo Nullismo, scrive che “la sensazione, come esperienza individuale, e l’esperienza, come ipotesi da esprimere e successivamente da verificare o falsificare, sono di tutti. Un artista è solo colui che cerca di illuminarla rinnovando il linguaggio”. Ecco, in fondo non è che questa la libertà dell’artista, e dovrebbe essere la sua coerenza (Majakovskij e Mandel’štam lo hanno dimostrato fino all’estremo)."

Chiedo scusa per lo sbrodolamento...

[Fine]

Anonimo ha detto...

A Ennio:
Non ti preoccupare non me la prendo anche perchè sono stata molto sincera , anche se il molto non serve. Dopo aver riflettutto tutti quanti sull'ESPROPRIAZIONE seguirà sicuramente la RIVOLUZIONE altrimenti (scusa la parola) saremmo dei coglioni. Quando dico rivoluzione, come un giorno già ti dissi, intendo quella fatta dai poveri, con fame , povertà, malattie , cambiamenti drastici di vita. Penso che nessuno sia disposto a cambiare vita ora che le comodità , la televisione (che è stato l'oppio più efficace), le rate da pagare, ecc.ecc.hanno tolto alla maggior parte di noi il desiderio di cambiare soprattutto individualmente e sottolineo individualmente , tanto "ci penserà qualcun altro" (eccome se ci pensano!). Io le mie battaglie le ho fatte , ma avevo un lavoro , delle certezze che oggi non ci sono più- Credo nella tua voglia di cambiare le cose con intelligenza e forza, io non saprei davvero da dove cominciare se non da me stessa , riuscendo a togliermi dalla mio pessimismo. Per quanto riguarda Il fatto che ai poeti non rimanga che il loro cavolo di pensiero, non te la prendere, ma un cavolo di pensiero sarà il tuo! Ciao e piuttosto mandaci qualche verso tuo nuovo e sbrigati. Emy

Anonimo ha detto...

scusate correggo riflettuto. Emy

Anonimo ha detto...

Da Rita Simonitto

Un ‘grazie’ a Francesca per la segnalazione di J. Monod con il suo “Il caso e la necessità” perchè ci pone di fronte all’articolarsi dei processi rivoluzione/conservazione, e innovazione/istituzionalizzazione.
E quanto esso è pertinente con l’incipit messo da Ennio al suo “Per una poesia esodante”:
“……
Io dovrò dire questo con un sospiro
in qualche posto fra molto molto tempo:
divergevano due strade in un bosco, ed io…..
io presi la meno battuta,
e di qui tutta la differenza è venuta”.
(Robert Frost, “La strada non presa”, Traduzione di G. Giudici)

Le riflessioni, che si possono fare a partire dai richiami che vengono sia dal cotè scientifico che da quello artistico, ci portano ad analoghe considerazioni applicabili non solo alla poesia, campo della creatività, ma anche al campo del quotidiano, il campo dell’espressione.
Dal cotè psicoanalitico, W. R. Bion suggeriva, per accostarsi alla realtà esaminata (sia quella psichica che si dà nel rapporto clinico o sia quella vissuta nelle relazioni con il mondo esterno) di assumere un atteggiamento mentale caratterizzato dallo stare “senza memoria e desiderio”, una specie di *epochè* husserliana, in modo da poter cogliere non soltanto, o tanto, l’essenza della cosa in sé, ma anche e soprattutto, UN DIVENIRE NON ANCORA DIVENUTO. Come lui diceva, entrare in contatto con “un pensiero che ancora non ha trovato un pensatore”. Questa è la creatività (più attinente al campo dell’arte).
Rispetto alla Tradizione, che uno deve tenere ben conservata dentro di sé, essa non può starsene sempre lì tra i piedi e sempre richiamata, ma deve ‘apparire’ come se fosse la prima volta. Perché è la prima volta che essa appare nelle nuove circostanze. Come l’America, pur essendo stata sempre lì, ‘apparve’ nuova a Cristoforo Colombo. Questa è la scoperta. (più attinente al campo della scienza).
Quindi, non si tratta solo di fare un’esperienza decisionale (come suggerisce Giarmoleo) e cioè modificare una forma espressiva poetica per rappresentare un attacco alla sostanza (il non riconoscere più l’autorità, ad esempio) quanto di cogliere all’interno dell’autorità decisionale ciò che la rende tale. Non sarà il carattere ermeneutico della scrittura a poter ribaltare * ogni figura autoritaria*.
L’affermazione di Picasso (“io non cerco. Trovo”) è, metodologicamente, una grande affermazione perché esprime l’apertura mentale verso un ‘darsi alle possibilità’. Nello stesso tempo, e questo lo osserviamo molto bene nei suoi innumerevoli studi fatti prima di configurare la stesura finale delle “Demoiselles d’Avignon”, egli si prendeva la briga di ‘decostruire la realtà’ e poi, da questa libera decostruzione, si faceva prendere da alcune particolarità che lo colpivano e a cui dava un senso.
La trasformazione del mondo, a cui richiamava Marx (“I filosofi hanno finora soltanto interpretato il mondo in diversi modi; ora si tratta di trasformarlo”) avrebbe dovuto spingere ad una continua ‘decostruzione’ dello stesso per capirne i nessi costitutivi. Ma una volta che si è passati allo stato di necessità e si è costruita una ‘cattedrale teorica’ che, per svariate ragioni si è mantenuta per molto tempo, chi si può permettere la briga di scomporla con il rischio di decomporla? E, poi, tutte le cattedraline che si sono costruite a fianco della Chiesa Madre, con le loro schiere di fedeli, come si fa a scuoterle?
(continua)

Anonimo ha detto...

(segue)
Come si fa a prendere mattone per mattone, scrostarlo di calcinacci, muffe, muschi stantii, per poi dare a quel mattone un senso che permetta una costruzione altra? Quale progetto deve avere il capo-cantiere, perché immagino che ci voglia un capo cantiere, altrimenti ognuno farà liberamente di testa sua, magari seguendo criteri solo estetici anziché anche funzionali.
Da quale spirito collaborativo sarà guidato quel ‘noi’ che Ennio, tanto romanticamente, auspica? Ennio, perdonami, non è una critica la mia. D’altronde tu stesso sostieni “Ma perché dovrei rinunciare (solo per paura di abbandonarmi alla nostalgia?) a conservare quello che ricordo di quella Tradizione?
E’ sufficiente il fatto che, in quanto cetomedisti, siamo ridotti in povertà? Tutt’al più questo fatto produce degli aggregati temporanei, quand’anche non una spietata guerra tra i poveri.
Si dà il fatto che *esiste una situazione per cui il Capitale, per sopravvivere (pur continuando a distruggere), non ha neppure bisogno di un certo tipo di intellettuale (o di poeti o di artisti); o ne trova perfino in abbondanza di quelli da far lavorare secondo le sue regole (lavoratori della conoscenza precari e senza possibilità di reazione collettiva ed efficace). Però, se le cose stanno così, ai poeti non resta nessun cavolo di pensiero* (Ennio). No, infatti. Non resta nessun cavolo di pensiero perché esso è stato mangiato dalla capra che il traghettatore non doveva mettere assieme al cavolo! Ad ogni piccolo scossone del sistema, tutti a gridare che il capitalismo stava tirando le cuoia e ci si è adagiati in questa folle speranza!
Francesca Diano cita J. Monod. A questo punto, citerei Renè Thom con la sua Teoria delle catastrofi degli anni ’60, anche se oggi in parte superata da ulteriori approfondimenti. Ma doveva perlomeno insospettirci l’idea che “i punti di instabilità non sono soggetti a configurazioni caotiche, ma sono soggetti a forme topologicamente stabili e ripetibili, che peraltro, sono anche indipendenti dal substrato”. E non lo vediamo bene oggi nel gioco della Finanza, sempre lì sul baratro?
Qui non si tratta soltanto di ‘deviare dal percorso battuto’: dobbiamo andare ‘controcorrente’, non per sfidare ma per salvarci dalle rovinose cascate!
Ennio vuole una scommessa. Io farei una proposta.
Quali sono gli strumenti che i componenti delle varie scialuppe (eh, sì. Non c’è soltanto una scialuppa, come si evince dai commenti di questo Blog) devono salvare e non buttare in mezzo ai flutti o utilizzare come armi improprie?
Secondo me, essenzialmente due: la strumentazione scientifica e quella artistica.
(fine)

enzo giarmoleo ha detto...

@ Francesca Diano
La frase da me citata era tratta dal libro di Monod "Il caso e la necessità"Mondadori pag 22 . Uno di quei critici era Rossi-Landi che sul fronte linguistico era contrario all'idea che l'alienazione o il disagio(si parlava di disagio linguistico) esistessero per conto loro "in re". Nello stesso periodo su questo argomento, in prima fila v'erano sicuramente Basaglia , Guattari e per l'America Szaaz con "Blackness and Madness". L'approccio biologico aveva ripercussioni pesanti e negative sul trattamento del disagio. V'era anche l'impressione che si esagerasse da tutte e due le parti nel senso che una patologia non poteva essere addebitata esclusivamente alla natura o alla società.
La cosa interessante era la possibilità di trovare finalmente un valido argomento scientifico per attaccare tutte quelle teorie, come quella innatista, che caratterizzavano la cultura dominante.
Per quanto riguarda il mio esempio di performance poetica,
sono d'accordo con te che la necessità è limitante.
Nell'esempio che ho fatto parlo di performance dirette contro le figure autoritarie. Insomma se ho "necessità" di liberarmi di una cosa decido liberamente di farlo rispetto a chiunque altro per il quale non è necessario intervenire perché non sente quel problema. Uscendo dalle categorie linguistiche, è più un problema di livello di coscienza e quindi di libertà. Certamente non mi riferivo a te a proposito di costrizione, stavo solo cercando un legame con quello che si era detto nei vari interventi. Ciao

Moltinpoesia ha detto...

Ennio Abate:

1. «Rimane tuttavia irrisolto il punto estetico (che è comparativo e quantitativo), che alla fine rende alcune poesie migliori di altre o comunque accettate nel Canone» (Cornacchia 05 agosto 2012 15:20)

Eppure la valutazione estetica di un testo, anche se affidata a una comunità di competenti: critici, semiologi, studiosi di estetica (ma a volte viene il dubbio che si tratti di un esproprio!), non è mai risolutiva: è anch’essa una delle tante messe tra parentesi o contestazione dei precedenti criteri valutativi che presiedevano alla costruzione del Canone; ed ha ragioni storiche, alle quali non può sfuggire. Ad es. negli anni dello strutturalismo (anni ’60-‘70), semiologi vari ( tra cui Eco) hanno fatto pulizia di vecchie letture, ispirate a criteri morali/etici e politici ormai indeboliti; e li ha sostituiti con altri “scientifici”. Che però si sono rivelati ideologici. C’è, infatti, anche una ideologia della scienza. Non è che in quel “peccato” ci cascano soltanto i “vecchi” umanisti! Lo strutturalismo prevalse perché si andava rafforzando un blocco social-culturale legato soprattutto allo sviluppo dell’industria culturale ai danni della “vecchia” cultura umanistica borghese che era propria della sinistra progressista. Per capire quello scontro andrebbe riletta l’acre polemica di Cesare Cases «contro i logotecnocrati» (Cfr. Il poeta e la figlia del macellaio, in Il boom di Roscellino, Einaudi, Torino 1990)..

2. « un artista sente sempre quale strada sta percorrendo, e sa se sta percorrendo una strada propria (cioè coerentemente libera) o la strada (quella sì davvero comoda e facile) che indicano ‘gli altri’, cioè le mode e, nel nostro tempo, il mercato (la necessità…)» (Tuscano 4 agosto 16.35.17)

Ecco una visione tutta romantica, tutta individualistica della libertà (in questo caso del poeta) che sarebbe da discutere e forse da correggere. Messo il problema in questi termini (individualistici), il poeta appare troppo contrapposto agli “altri”, magari nei modi tragici, come nei casi di Majakovskij e Mandel’štam.
Penso che non sia così. Neppure per i due poeti russi. E lo dico anche contro le loro eventuali affermazioni in contrario, anche se essi avessero vissuto il loro dramma in questi modi individualistici.
Mi soffermo su Majakovskij, perché la chiave per vedere la questione diversamente la offrono le parole della stessa Tuscano: « Majakovskij era comunista, aveva fatto (materialmente) la rivoluzione».
Appunto. E le rivoluzioni non si fanno da soli! Egli non «’obbediva’ al suo comunismo», perché il comunismo non è una questione privata o “di coscienza”.
Majakovskij fu comunista *assieme ad altri* (detti allora ‘compagni’). E partecipò con loro ad un moto storico inedito e dagli sviluppi incerti. (Il comunismo per alcuni era una possibilità, una scomessa; per altri sicuramente una fede!).
Fortini, in una sua poesia del 1958, *Forse il tempo del sangue tornerà…*, dice qualcosa che si adatta bene a Majakoskji. Egli era di quelli che avevano osato:
« Cercare i nostri eguali osare riconoscerli
lasciare che ci giudichino guidarli esser guidati
con loro volere il bene fare con loro il male
e il bene la realtà servire negare mutare».

[continua]

Moltinpoesia ha detto...

Ennio Abate (continua):


Non da soli, dunque, non individualisticamente, si tentano certe imprese, nelle quali anche la poesia e i poeti trovano il loro spazio.
Pure la sconfitta di Majakoskji (il suo suicidio) non fu faccenda solo individuale. Assieme a lui fu sconfitta tutta una visione del comunismo. Sconfitti con lui furono una parte dei comunisti sovietici ( e di altre nazioni, perché il comunismo era un moto internazionale).

Un’altra obiezione sento di fare al punto in cui Francesca Tuscano scrive: « A Majakovskij non interessò mai, davvero, farsi capire dagli intellettuali».
Riaffiora qui il solito pregiudizio antintellettualistico, che contrappone i “buoni” (« i filologi suoi amici (Šklovskij, Jakobson)») e i “cattivi”, che sarebbero “gli intellettuali”.
Che non si capisce bene però chi siano. Si vogliono con uesti termine indicare i burocrati di partito? O gli iper-razionalisti del Diamat ( del materialismo dialettico staliniano)?
Fatto sta che Šklovskij e Jakobson erano intellettuali. Quei «concreatori di poesia» adoperavano l’intelletto. E lo usava anche Majakoskji. Lo usavano certamente in modi contrapposti a quelli dei burocrati forse, ma lo usavano. E allora la distinzione andrebbe fatta tra intellettuali di un certo tipo e intellettuali di altro tipo, evitando la semplificazione della contrapposizione (sottintesa) tra intellettuali e non-intellettuali (che sarebbero i poeti “veri” o gli artisti “veri”).

[Fine]

Anonimo ha detto...

ATTENZIONE ATTENZIONE:

Carissimi intellettuali (occidentali), come, perchè sì e perchè no, dove, collocate i sentimenti in poesia? O forse per voi non fanno parte della libertà? Tutto è razionalità, ragione e scienza, politica , strumentalizzazione? Facciamo finta di non aver mai scritto con il cosidetto "cuore", ci spaventa forse il sapere che può battere ancora e molto forte per un sentimento? L'amore ha preso un'altra strada forse voi sapete dove sta andando, forse voi gliel'avete indicato o "ce l'avete mandato"...fateci sapere dove sta andando a qualcuno può ancora interessare. Emyllusa?

Moltinpoesia ha detto...

Ennio Abate a Rita Simonitto (05 agosto 2012 23:13):

1. Puoi senza remora alcuna criticarmi (le critiche fanno respirare…), ma continuo a non capire perché trovi romantico il ‘noi possibile’ che vorrei si riuscisse a costruire. (Perché in passato ci si riusciti; e una CERTA tradizione ci conferma che questa via non è impossibile, magrado gli innegabili fallimenti).
È forse impossibile qualsiasi noi? È forse possibile solo un noi massificato e manipolato? È questo che vuoi dirmi?

2. Con tutto il rispetto per Bion o Husserl, nella mia idea di poesia esodante non ci metto un suggerimento del tipo « stare “senza memoria e desiderio”». Posso apprezzarlo come espediente provvisorio per chi - individuo o gruppo - sta elaborando un lutto. Ma un progetto è un progetto. E se penso a un progetto per un noi possibile ( che intendo forte e non debole come quando si è in lutto) memoria e desiderio, assieme ad altri elementi (intelligenza della realtà, prudenza nel valutarla, forza nel decidere quando certe cose sono chiare), sono essenziali.

3. Non sento (alla miaetà sarebbe ridicolo) il fascino per «la prima volta» o per le scoperte alla Cristoforo Colombo. E l’affermazione di Picasso mi pare una furbata da “genio” che aveva sfondato (il suo detto risale all’età matura, se non sbaglio…) o un luogo comune ripreso dai mitologi di quell’artista.
Non suggerisce, infatti, nulla a chi cerca “qualcosa” senza trovarlo affatto. Che è la condizione comune della maggior parte delle persone che suscitano il mio interesse (compresi i “moltinpoesia”). L’affermazione di Picasso ha un solo effetto: marcare individualisticamente la solita distanza. Come dire: io ho trovato, sciocchini, voi no.

4. Bisogna intedendersi sul «decostruire la realtà». La decostruisco io? La decostruiamo noi (inteso come gruppo col quale sono in sintonia o con cui collaboro)? O ce la decostruiscono gli altri e - guarda un po’ - troppo spesso i soliti: i più potenti, più ricchi, più forniti delle conoscenze e degli strumenti “giusti”?
Marx poi non mi pare possa rientrare tra i decostruzionisti. Io lo metterei tra i “progettisti”.
E sicuramente fu un «capo-cantiere».

5. In quanto ai cetomedisti, neppure qui capisco perché il discorso cauto e concreto che ho fatto finisca così stravolto. Non ho mai detto, ad es., che il ceto medio sia già ridotto in povertà. Ho detto «in via d’impoverimento». Né ho detto che, essendo in via d’impoverimento, esso sia capace di grandi imprese. O che più poveri si è e più si fanno facilmente le rivoluzioni, come ingenuamente Emy s’aspetta.
Ho detto che, essendo noi - per fortuna o sfortuna - dentro questo ceto medio, avremmo il dovere di rendercene conto; e di capire se qualcosa di buono possa venir fuori anche da qui. Senza aspettarsi un “capo-cantiere” salvatore proveniente dall’esterno.

6. Tradizione. Se ne sta «tra i piedi» e viene astrattamente richiamata come un “valore” solo quando non si vuole o non si sa scegliere qual è il pezzo di essa che vogliamo portarci addosso VOLONTARIAMENTE. Perché il suo rifiuto in toto è una finzione (futuristi docent: hanno finto di buttarla tutta nella spazzatura è hanno messo la spazzatura dei dominatori - vedi l’erotismo guerrafondaio di Marinetti - al posto del chiaro di luna sempre dei dominatori). Se problema di libertà si pone anche rispetto alla Tradizione, e che scelta libera significa anche riconoscimento del limite è bene che il limite ce lo poniamo noi invece di farcelo imporre dagli altri o dal Destino. Che sia un limite…che tenga conto della NOSTRA
Tradizione (io dico: scelta tra quelle dei dominati che si sono ribellati). Altrimenti, come dicevo a Linguaglossa, non si capisce come e cosa dobbiamo contestare. Azzerare la Tradizione=Azzerare anche la NOSTRA Tradizione. Ma così «senza memoria e senza desiderio», azzerati, saremmo degli zero…E non ci sarà più nessuna «prima volta».

Anonimo ha detto...

Ennio,cusa se mipermetto d'intromettermi, ma ciò che tu trovi un'idea ingenua io invece la vedo come un dato di fatto. I poveri quando non ce la fanno più s'incazzano e noi stiamo aspettando questo. Che sia una tradizione la rivoluzione? Tu nei miei pensieri vedi solo i sogni, ma ti assicuro che sono realtà verificabili e tu da storico qualesei dovresti saperlo. Il mio pessimismo solo quello potrebbe essere sottovalutato, infatti quello purtroppo è un affare solo mio. Ciao Emy
Picasso ed altri hanno avuto le loro belle trovate, ma loro potevano permetterselo e si divertivano anche ed hanno tutta la mia approvazione.

Anonimo ha detto...

Caro Abate,

Non volevo aprire una "tenzone" dialettica, che gia' prende pieghe consunte: io, scientista-strutturalista, Lei, ideologo-socialista, a rintuzzare le rispettive stoccate. La verifica sperimentale propria del metodo scientifico consente la tracciabilita' degli esiti, a scapito del "cuore" citato da Emy e che anima anche Lei. Ragionando sui testi come su un insieme di segni, se ne puo' cavare lo spettro estetico in rapporto a qualsiasi ideologia volessimo applicare. Linguaglossa ha il suo metodo e propone i suoi valori, giustificandoli coerentemente ad una puntuta pars destruens.

Cosa cerca Lei, dalla poesia: una comunita' di affetti o una collezione di esiti? Mi permetto di ribadire: la consapevolezza del proprio ruolo nella societa' (e di quanto questa societa' sia migliorabile) non rende automaticamente poeti. Rende cittadini, rende giusti, rende stimabili, crea appunto una comunita' con chi condivide tale attitudine. In tale comunita' si innestano dinamiche umane e relazionali che rispetto enormemente, ma che non mi coinvolgono. Ho bisogno di un altro tipo di linguaggio.

Saluti e buon Agosto a tutti. Giuseppe Cornacchia

giorgio linguaglossa ha detto...

Cari compagni di scialuppa,
in quanto compagni di scialuppa, siamo costretti dalla necessità a stare insieme e a remare in una direzione. Se ciascuno di noi remasse in direzioni diverse sarebbe la Babele e la catastrofe, la barca girerebbe a vuoto o, nel migliore dei casi, starebbe ferma in mezzo al guado. Quindi, se vogliamo raggiungere una sponda dobbiamo remare tutti nella stessa direzione (volens nolens). La sponda che abbiamo alle spalle è il Novecento, quella che abbiamo davanti è l'Ignoto, non sta a noi poter scegliere (ahi, dov'è finita la questione della "libertà"?), a noi è dato solo il potere di remare in una direzione: verso l'Ignoto (verso la sponda). A noi non è dato sapere che cosa ci sia sulla sponda dell'Ignoto, ma quella sponda dobbiamo raggiungere. La questione del "Progetto" sollevata da Abate non mi convince: oggi noi non disponiamo di alcun "Progetto", non c'è "Progetto" che ci garantisca il "Traghetto", ed è inutile, anzi dannoso, che gli abitanti forzati della "scialuppa" si mettano a litigare sulla questione se era nel giusto Majakovskij o Mandel'stam; di fatto la Storia li ha inghiottiti entrambi. Epperò Milosz nomina Mandel'stam come il suo maestro, e Brodskij nomina Mandel'stam e Milosz quali suoi maestri... e arriviamo a Noi. Io faccio mio il verso di Mandel'stam "con il potere non ho avuto che vincoli puerili" e l'altra frase pronunciata da Osip a una intervista degli anni Trenta quando disse che la Rivoluzione lo aveva lasciato "senza una biografia". Ecco, questo credo è il punto oggi. Il poeta del nostro tempo è rimasto "senza una biografia"; senza un "ruolo", senza mandato pubblico, senza un pubblico (sono rimasti i chierichetti i quali dicono che la poesia è come sbattere un uovo). Cos'altro vogliamo di più? Parlare di Tradizione quando è stata cancellata la tradizione che senso ha? Certo bisogna leggere i classici, sono intramontabili, ma di fatto oggi nella odierna società globale della comunicazione mediatica che cosa ne è rimasto della Tradizione? Le "buone rovine"? come scriveva Fortini? No neanche quelle, sono "rovine" e basta, senza "buone". È caduta tutta l'impalcatura della tradizione. Il Canone? - direte voi - E io rispondo: ma vogliamo prenderci in giro? non gliene importa nulla a nessuno di quella cosa chiamata "Canone", è soltanto una questione di Potere e di rapporti di potere tra le Istituzioni di poesia, cerchiamo di non essere ipocriti, ciascuno cerca di fabbricarsi in casa, con degli amici, il proprio mini-canone per poter stare in galleggiamento: poeti di vent'anni, di trent'anni, di quarant'anni... ma vogliamo essere seri? Che significato ha tutto ciò? "Parola plurale", "Parola singolare" ma che significato ha tutto ciò? (...) cerchiamo tutti di stare in apnea, di respirare con la cannuccia del sommozzatore sperando in tempi migliori. Ma non ci saranno tempi migliori. Le Rivoluzioni? Chi la farà la Rivoluzione? I poveri?, il Ceto Medio Mediatico? Ma vogliamo continuare a prenderci in giro? Qui ciascuno di noi cerca solo di rimanere a galla, cerca di nuotare: c'è chi ogni tanto si butta a mare sperando di raggiungere la riva a nuoto... e finisce divorato dai coccodrilli... Quando Cornacchia mi imputa di limitarmi a fare la pars destruens io mi limito a ricordargli qual è la situazione attuale della scialuppa, e che chi si butta a mare dalla scialuppa credendo di arrivare a riva da solo è un sognatore che finirà annegato...

Anonimo ha detto...

Gent. Sig. Cornacchia e tutti,
io di scientifico conosco solo ciò che gli altri mi hannoproposto e scoperto con fatica e ore di studio, della politica mi faccio le mie idee(forse superate , ma mie) i politici agiscono pernoi,gli intellettuali cercano nel nuovo in un presente che ci è stato propinato con cosi tanta violenza ed arroganza , che difficile sarà liberarsene. Così , in questo modo si cammina come robots in cerca di qualcosa che vada bene per l'umano , quel tizio che quando si cammina dentro si trova inadeguato, triste, privo di se stesso, ma prosegue., come fa la malattia cronica ed ogni tanto ha bisogno di antidolorifici.Anche qui la scienza ti aiuta, la moderna psicologia , nel suo studio ti dà tante risposte, ti aiuta , paghi ed esci quasi felice per un po' e se sei scrittore, scrivi e quello che sei risorge con tutte le sue sfumature dalle più scure alle più chiare, il lavoro dello psicologo lo senti ti fa deviare i concetti li rende magari più ottimisti, ma quello che cerchi dentro di te si sente, chi ti legge lo trova, sei tu con tutti i tuoi sentimenti la tue gioie e le tue forze cercate e vissute , le tue debolezze affiorano come affiora tutto ciò che senza peso si rende visibile. Nel caso della poesia , non importa chi tu sia e in che cosa credi , è il trovare le giuste parole quelle che affascinano e fanno pensare , riflettere, amare lo scritto e lo scrittore , quelle che ti fanno dire- Ma chi è questo, lo voglio conoscere!-. Poi , io ai grandi lascio molto spazio, anche quello di poter scherzare su un'umanità credulona ,speranzosa in quell'arte in cui il lucro è stato il solo scopo. A chi crede fermamente nel cambiamento e nella forza del pensiero individuale al servizio del pensiero comune, dico che li vorrei conoscere, mi faccio avanti, li ascolto con grande gioia e mi sembra che il mio pessimismo svanisca, mi sembra. Emy per tutti.

Anonimo ha detto...

da Rita Simonitto
@ Ennio
Non vorrei entrare in una ‘damnata quaestio’, ovvero in quelle discussioni che di cavillo in cavillo, di precisazione in precisazione ottengono il risultato paradosso di lasciare tutto come prima nella mente dei discettanti.
Personalmente non ho nulla contro il ‘noi’ né mi sento esaltata a favore dell’ ‘io’.
Ritengo solo che ATTUALMENTE questi due ‘soggetti’ (perché anche il ‘noi’ è un soggetto, un ‘soggetto collettivo’, diciamo) facciano molta fatica a definirsi in quanto, nella società magmatica di oggi, de-finire, mettere dei confini, è molto problematico. E’ una società in cui chi detiene il potere utilizza il caos, e i suoi disequilibri, per riassestarsi su equilibri altri, ma sempre di potere. Chi non detiene il potere – i molti - è condizionato, volente o nolente, a stare nello ‘sciame sismico’ nella speranza che, prima o poi, ci sia una remissione che permetta di fare qualche cosa.
Nel frattempo auspicare delle resistenze non solo è d’obbligo ma doveroso, come Ennio stesso richiede (anche se questa richiesta poi la dirige *dentro questo ceto medio a cui – per fortuna o sfortuna – apparteniamo*. Non sentendo io questa appartenenza al Ceto Medio per me si porrà un serio problema. Ma soprassediamo).

‘Resistenze’ che Ennio individuerebbe nella costituzione di un ‘noi’. Solo che per la costituzione (o progetto ‘forte’), di un ‘noi possibile’, da un lato avrebbe bisogno di una maggiore definizione, dall’altro si trova a dover navigare a vista perchè non sono più utilizzabili quei paradigmi che oggi hanno perso molto della loro valenza iniziale.
Non mi dice niente un ‘noi possibile’ se prima non mi pongo la domanda da quale idea di ‘noi’ sto partendo per poi ipotizzare a quale ‘noi’ voglio arrivare: il ‘noi’ religioso? il ‘noi’ politico? il ‘noi’ partitico? il ‘noi’ comunardo? il ‘noi’ istituzionale? il ‘noi’ di classe? il ‘noi’ di Ceto Medio? il ‘noi’ che ama la libertà, la giustizia e l’eguaglianza? il ‘noi’ che non vuole trovarsi adesso con il culo a terra, *massificato e manipolato*? il ‘noi’ della poesia? il ‘noi’ che si crea dal ‘movimento? il ‘noi’ della ‘polis’ (ma che cosa si intende per ‘polis’)?, ecc. ecc.
Quindi, ne possiamo dedurre che partire con questo piede (analisi, al passato, del soggetto – rivoluzionario? -) sarebbe come mettere il carro davanti ai buoi.
Ma anche se si partisse diversamente (analisi dell’oggetto) che succederebbe? Posso impostare un progetto (ma di che tipo? Quale oggetto - o finalità - dovrà avere? di attacco al sistema esistente? di studio? di analisi della società? di analisi degli strumenti interpretativi della realtà, scienza, arte) e vedere quante persone si aggregano. Ciò,evidentemente, andrebbe a costituire un’organizzazione, un ‘noi’ fondato sull’esistenza di un lavoro comune. Benissimo. Né più né meno di come avverrebbe per fondare una comunità scientifica, un partito, o una setta, o una comune ecc. ecc. Però, a questo tipo di struttura corrisponde una condizione abbastanza rigida: chi sta dentro, è dentro e chi sta fuori, è fuori.

Io credo che, al momento, umilmente, senza tante etichette preconfezionate e sventolate e senza tante insistenze sul ‘dover essere qualche cosa’ che non sappiamo ancora , sia importante fare delle esperienze legate a ciò che significa stare assieme (e il Blog Moltinpoesia è un luogo di esperienza importante che insegna molte cose, fra le quali proprio la difficoltà a pensare in termini di ‘noi’).
Continuo a credere (e a sperare) che comunque ci voglia un’analisi che riguardi questa realtà difficile perché non ha più le stratificazioni di un tempo: come dopo un terremoto tettonico ci troviamo con il sopra-sotto e viceversa. Dobbiamo passare questa esperienza che è in particolar modo soggettiva. Esperienza che possa tradursi (tradizione-traduzione) verso un ‘io capace di linguaggio’, poetico o scientifico che sia, e che da lì si possa arrivare ad un ‘noi’ affinchè si possa portar avanti una analisi che non rifletta soltanto un mero delirio soggettivo.

Anonimo ha detto...

In discussione c'è la perdita della coscienza di classe. E lo capisco perché questa è da sempre considerata dalla sinistra come la garanzia per non riaprire la strada a fascismi e nazismi vecchi e nuovi. Inoltre senza la coscienza di classe verrebbe meno anche la lettura della storia. E questa sì che sembra essere un'avventura inconcepibile. La discussione dell'IO/NOI ne è direttamente collegata, ma in definitiva mi sembra questione secondaria, dove è possibile che ciascuno possa trovare la soluzione che più l'aggrada perché mi sembrano scelte più legate alla prassi che alla teoria. Quindi non si tratterebbe di scelte da intendersi come definitive, di scelte assolute. Insomma un falso problema.
Sorge il dubbio che l'interpretazione classista della società si sia fatta inadeguata, perché schematica, rigida se vista all'interno dell'ordinamento sociale creato dalla globalizzazione. Per questo in un precedente commento avevo evitato volutamente di fare esempi di tipo economicistico, cercando sommariamente degli esempi trasversali, che possano essere condivisi da ogni classe sociale, senza distinzioni. Per me questa potrebbe essere una novità degna di essere presa in considerazione. Questo per me non significa che tutte le fondamenta del pensiero marxista debbano crollare, solo metterei in evidenza quelle appunto trasversali. Ad esempio: il lavoro non va trattato come merce, non lo è. Il lavoro non è di destra o sinistra, il lavoro è (dovrebbe) essere di tutti. Quindi tutti sono nella condizione di poterne discuterne. E' un contenuto reale.
La perdita della coscienza di classe diventerebbe messaggio trasversale se la stessa mutasse nei luoghi del privilegio, nel capitalismo dove sopravvive sull'opposto versante. Io ci punterei. Sanguineti sostenne che il programma della sinistra è già bell'e pronto: realizzare il dettato costituzionale.
mayoor

Anonimo ha detto...

Forse non mi sono spiegata bene e perciò aggiungo qualcosa - a Majakovskij non interessavano gli intellettuali come categoria 'giudicante' la sua opera (se non, appunto, in termini scientifici e ideologici - come facevano i formalisti, che non erano i "buoni", ma semplicemente i più vicini alla sua poetica). Politicamente, ed esteticamente, l'unico giudizio che gli interessava era quello dei circoli operai, o delle piazze (che in quei pochissimi anni subito dopo l'Ottobre furono davvero democratiche). Io non ho pregiudizi antiintellettualistici, anche se devo dire che la spocchia intellettualistica mi ha sempre dato molto fastidio, e non ho mai pensato che gli intellettuali siano "cattivi" in quanto tali. Tutt'al più possono essere inutili, e talvolta dannosi. Da molto tempo, ahimé (e già da quello di Majakovskij) non sempre la definizione di intellettuale ha ancora legami con l'intelletto che l'ha generata...Quanto poi alla contrapposizione sottintesa tra artisti "veri" ed intellettuali - anche questo non solo non l'ho scritto, ma non lo penso neanche - non solo non ignoro che Jakobson e Sklovskij fossero intellettuali, ma lo era anche Majakovskij, come lo sono stati Pasolini o Fortini o Pavese o....o...Dunque, il punto è, certamente, la distinzione tra intellettuale e intellettuale, come tra artista e artista - ma questo non c'entra con quanto Majakovskij riteneva importante per la sua scrittura, o meglio sul giudizio che riteneva rilevante sulla sua scrittura.

Moltinpoesia ha detto...

Ennio Abate:



@ Emy

«I poveri quando non ce la fanno più s'incazzano e noi stiamo aspettando questo» (Emy)

Trovo falsa storicamente la prima proposizione e oscena la seconda.
I poveri purtroppo non ce la fanno quasi mai a “incazzarsi” in modi vantaggiosi per loro. Tutte le rivoluzioni a cui hanno partecipato i poveri (i contadini) non erano mai di soli poveri. E poi le coalizioni e gli inganni dei “ricchi” (aristocratici, colonialisti) - le prime benedette dai Papi (Albigesi etc), le seconde dagli intellettuali apologeti della Unica Civiltà (prima euopea poi occidentale) - hanno quasi sempre avuto la meglio sulle rivolte spontanee o “incazzate”. Sì, se la pensi così, sei una sognatrice. Ed è davvero comodo e, ripeto, addirittura osceno aspettare che le cose le cambino per noi quelli che stanno peggio. Ciascuno faccia la sua parte dove si trova e dove può.

@ Cornacchia

Meno male che lei vede in me un cuore, mentre alcune amiche anche su questo blog vedono solo intellettualismo...
Strutturalismo e marxismo sono, in effetti, almeno i nostri rispettivi “paesi di provenienza”. Proseguiamo pure la “tenzone” cercando di non essere scolastici.
No, non cerco nella poesia «una comunità di affetti», Ammetto facilmente che capire di appartenere al ceto medio non rende né esso in blocco né me come singolo «automaticamente poeti». Bisogna passare attraverso il linguaggio e saper valutare i risultati. Non ci piove. Adottate consapevolmente o semiconsapevolmente, le poetiche contano e portano a selezioni diverse di lessico, sintassi, immagini, suoni, ritmi. E a loro volta contano - forse qui la differenza dei nostri punti di vista - le filosofie, le ideologie, le esperienze reali o immaginarie che ogni poetica assorbe in sé.

@ Linguaglossa

Vediamo di ragionare e intenderci con quelli che sulla scialuppa ci sono saliti. Capisco che il Linguaglossa-naufrago respinga l’idea di progettare (che il Progetto non esista sono il primo a riconoscerlo). Ma si contraddice. Andare «verso l’Ignoto» non è forse almeno un abbozzo di progetto? A me pare di sì, perché esclude alcune cose ( come minimo di rimanere nel Noto, esclude in blocco, a suo dire, la Tradizione; e anche l’uso delle «buone rovine», che sarebbero rovine e basta... il Canone lasciamolo stare; nessuno per ora l’ha tirato in ballo…) e suggerisce/impone di farne altre ( da definire, da praticare: e non è progettare questo?
Ma anche sulla Tradizione mi pare che ti contraddici. Se ti richiami fosse pure a un solo detto di Mandel’stam, vuol dire che almeno quella scheggia di tradizione te la porta con te nella sua memoria di poeta e operi secondo quella. (Ed è proprio quello che io scrivevo. Nessuno di noi è davvero *tabula rasa*, manco Ivan Pozzoni…tantomeno tu…dico per scherzare…). Ciascuno avanza - prendiamo la tua metafora - verso l’Ignoto con alcune schegge di tradizione. E se- come suggerivo - invece di «stare in apnea… sperando in tempi migliori» confrontassimo come in parte stiamo facendo su questo blog, le nostre diverse schegge (Mandel’stam, Fortini, gli strutturalisti, etc…) e continuassimo, a ragionarci senza sgambetti inutili o impuntature o nuotate solitarie?

[continua]

Moltinpoesia ha detto...

Ennio Abate (continua):


@ Simonitto

1. Appartenenza al Ceto Medio. E come si fa a “sentire” ( cioè ad accettare a cuor contento, a identificarsi un po’…) di appartenere a una categoria- contenitore, né carne né pesce, ambivalente, in via d’impoverimento, con competenze ormai surrogate dai mass media (si pensi agli insegnanti delle scuole), bastonata da quelli che stanno più in alto e invidiata o azzannata (come il cane della poesia di Emy di qualche post fa) da quelli che stanno più sotto?
La tendenza spontanea è a distinguersene per imitare forse nell’immaginario figure più gratificanti. Vi ricordate gli afro-americani che si facevano stirare i capelli per somigliare ai bianchi? È difficile accettare questa collocazione OGGETTIVA. Ma se vogliamo ragionare sulla realtà, ci toccherà almeno dire da quale collocazione parliamo in questa società. O vogliamo dire che apparteniamo all’umanità e basta? O vogliamo dire che siamo soltanto degli io e basta?

2. I paradigmi per definire il noi. “Noi possibile” non dice nulla? Ma almeno indica una direzione di lavoro. Se la seppelliamo sotto un elenco asettico e noioso di tutti i noi in circolazione o chiedendo in astratto quale sarà la tipologia del progetto («Quale oggetto - o finalità - dovrà avere? di attacco al sistema esistente? di studio? di analisi della società? di analisi degli strumenti interpretativi della realtà, scienza, arte)») il discorso si blocca ben presto e non fa scattare alcuna molla. Anzi suscita un rigetto istintivo in quelli che hanno avuto una certa esperienza di comunità, partito, setta. Volevo evitare questi pericoli. Partiamo dal “noi possibile” concreto, quello alla nostra portata, quello, ad es., che si affaccia sia pur vagamente e pieno di contraddizioni tra gli interlocutori di questo blog. E coltiviamolo. (In questi giorni con degli amici abbiamo proposto e pubblicato sul sito di Poliscritturehttp://www.poliscritture.it/ una denuncia contro gli intellettuali silenti sul governo Monti e annessi. Non vi dico le obiezioni - persino ben fondate - che mi sono venute da vai ‘io’ che mi hanno risposto per non tentare di ricominciare a dire ‘noi’, appunto scommettendo e dove ancora si può. Eh, no, caro Mayoor la questione dell’io/noi è spinosa non secondaria…).

[Fine]

Anonimo ha detto...

da Rita S.

@ Ennio (09.08.12 - 15:15)

Sul punto 2) : volevo proprio portarti a dire questo e cioè * Partiamo dal “noi possibile” concreto, quello alla nostra portata, quello, ad es., che si affaccia sia pur vagamente e pieno di contraddizioni tra gli interlocutori di questo blog. E coltiviamolo.* solo che, personalmente, metterei la sordina alla fanfara su quel “noi possibile” al momento poco probabile. Proprio perché, che si voglia o no, richiama
elenchi (noiosi e inutili, come rilevi tu) di storie di appartenenze eccetera, eccetera. Non a caso ho fatto tutte quelle citazioni.
E, ovviamente, ogni discorso si blocca. C’è un Blog (Moltinpoesia), c’è Poliscritture… e allora che si muova questa benedetta scialuppa (come la chiama Linguaglossa) tenendo presente che ognuno, in quella scialuppa ha non solo i suoi remi ma anche la sua ciambella di salvataggio. E non possiamo chiedere ad ogni istante la verifica se siamo ‘io’ o se siamo ‘noi’: si rischia di intralciare un lavoro già di per sé difficile.
Quanto al punto 1). Non si tratta del non sentire, da parte mia, alcuna appartenenza col Ceto Medio attuale solo perché *categoria- contenitore, né carne né pesce, ambivalente, in via d’impoverimento, con competenze ormai surrogate dai mass media, bastonata da quelli che stanno più in alto e invidiata o azzannata da quelli che stanno più sotto*. O a distinguermene solo *per imitare forse nell’immaginario figure più gratificanti*. Non mi ci sentivo nemmeno una volta (nonostante fossero accreditati i requisiti di accesso). Forse sono soltanto una ‘esodante ante litteram’, senza nemmeno poter godere il lusso di considerarmi ‘anarchica’ (anche lì c’è bisogno del biglietto d’ingresso!!!).

Di verità si muore

Qua e là pilucco storie
acini succosi di nettarine uve
o melanconiche gocce di melograni
rossi come ferite aperte.

Polpastrelli umettati girano pagine
ciondolano i passi in sontuose dimore
fughe senza fine di lignei portali,
barocche storie e broccati d’altri tempi,
coppe dorate e torbidi veleni
bruscamente alzando i damaschi pesanti
eccoli al filo di lama gli onesti sicari.

Oppure viaggio senza programma, solo strumento
da cercatore d’acqua, rabdomantico compagno.
Ruscellare fecondo o striminzito uadi
il passo di ricerca. Dannatamente infinita.
Sarà così che morirò di verità?

Gennaio 2012
R.S.

Anonimo ha detto...

No, del mio applauso per questa poesia che ho letto per una volta senza usare il ritmo della mia lettura, ma abbandonandomi, credendo nelle immagini da strega che hai così ben mostrato. Un po' punk. L'inizio sa di risveglio, ma deve essere stato pulito parecchio, direi che brilla per quanto è perfetto: per emozione, visionarietà... la magia d'averci messo un soggetto (pilucco), che altrimenti senza, sistemata la metrica, l'avrebbe potuta scrivere Dante. Ma subito togli l'elemento figurativo (l'io), te ne separi nella seconda parte. Ad una mente ingenua come la mia, la chiusa in metafora non me l'aspettavo. E poi mi ha divertito l'aggettivo "rabdomantico" al compagno... ecco cosa sono gli ultimi versi: sono maschere della tragedia greca. Brava. E' troppo bello il finale, al punto che un poeta qualsiasi si domanderebbe se non stia esagerando. Ma tu sei meglio.
mayoor
mayoor

enzo giarmoleo ha detto...

enzo@ennio
Mi era sembrato che la tua concezione di ceto medio ricordasse quella molto rigida di classe operaia degli anni 80. Restare irrigiditi su posizioni arcaiche (ma non è certamente il tuo caso) non porta a capire come si sposta l'asse del sentire e con quale soggetto si interloquisce . C'è differenza fra la posizione dei soggetti della protesta di oggi (vedi Occupy Wall Street) e quella del 68. Oggi i nuovi soggetti e non si tratta di soli studenti (si parla di masse oceaniche che hanno preso parte alla manifestazioni di OWS) si schierano contro le banche non solo per una generale solidarietà con chi vive il disagio contemporaneo ma perché loro stessi soffrono del generale peggioramento delle condizioni di vita. Questi nuovi modi di concepire la protesta sono stati caratterizzati in America da una estetica poetica che andava dalle reiterazioni corali,la scansione ritmica alle performance salmodianti e ritualistiche. Una religione laica che sollecitava la poesia che aiuta a mettere insieme soggetti di generazioni diverse. E' venuto fuori un vociare poetico, un'azione poetica che si intrecciava con la protesta. Mantra collettivi, rap declamati a voce alta che si facevano penetrare dalle lingue delle comunità immigrate, accogliendo slang e slogan di voci collettive: il ribaltamento della lingua dominante. Più che aspettare il "nuovo che arriverà prima o poi, mi chiedo quanto i critici in generale siano interessati a queste manifestazioni "goliardiche" (così in genere vengono definite questi fenomeni dell'estetica poetica specie in Italia dove credo soffriamo di eurocentrismo poetico e non solo) . Il nuovo esiste ma pochi se ne accorgono.

Anonimo ha detto...

Pienamente d'accordo con Enzo. Aggiungo che l'oralità non è venuta meno in questi anni, anzi si è moltiplicata e si è data nuovi mezzi per comunicare. Ma ha carattere aleatorio, non resta come la parola scritta, è difficile da "capitalizzare" a meno che ci si metta in gioco. E i poeti noti, in Italia non ci si mettono ... e meno male se consideriamo le tediose apparizioni in tv tra gli anni '80 e '90. Anche per questo approvo l'iniziativa di Ennio Abate, anche se gliel'ho criticata, finalizzata a smuovere maggior partecipazione degli intellettuali al dibattito pubblico. La protesta in Italia (è cosa sorprendente!) ha oggi aspetti legalitari, è molto corretta: si vota, si firmano referendum. Insomma, siamo blindati.
mayoor

Anonimo ha detto...

A Ennio:
io sono per te una sognatrice,per quanto riguarda le mie idee e aspettative riguardo una Rivoluzione e spero che il tempo possa davvero darti ragione. Emy

Anonimo ha detto...

Signor Linguaglossa, farebbe (un) bene alla Poesia se non scrivesse più su di Essa. Ma scriva solo sulla poesia