martedì 3 luglio 2012

PER UNA POESIA ESODANTE
Ennio Abate
La poesia passata a contrappelo.
Un nodo: Montale-Fortini-Mengaldo



La voce Montale, una delle Ventiquattro voci per un dizionario di lettere[1] scritte da Frannco Fortini e pubblicate nel 1968 contiene un giudizio sintetico e ostile, in seguito ribadito e approfondito,  sul poeta poi premio Nobel. Fortini lo presenta così: è un poeta intellettuale, con una formazione spiritualista e positivista, un amante da sempre degli «aromi dell’umanesimo alto-borghese» e, dunque, con  scarso senso della storia (definita una volta da Montale «sterminio di oche»); la sua poesia è lirica e laica; mira a costruire una corrispondenza (in termini più  dotti  gli studiosi parlano di «correlativo oggettivo»[2]) tra esterno (la realtà naturale, ad es. della arida costa ligure) e interno (stati psichici di atonia);  ha strofe brevi, ritmi robusti, abbondanza di rime e assonanze, lessico espressionista.

Resta centrale, in tale giudizio che, come si vede, non si ferma al piano estetico, l’accusa rivolta a Montale di una sorta di cecità (voluta, auto-procurata) verso la storia. Egli, scrive Fortini, da giovane guarda il mondo da sotto la «campana di vetro» della sua Firenze letteraria  e, più tardi, la osserverà attraverso uno schermo di ironia e di paura.[3] Con parole appena diverse questo sarà il giudizio altrettanto severo di Giovanni Raboni sul “personaggio-Montale”: a causa del suo «conservatorismo» e della sua «repulsione del nuovo e del presente», il poeta non ha osato né «pensare, per ragioni di sopravvivenza, le ragioni vere (storiche, oltre che metafisiche)» né vivere[4].
Montale, per entrambi, è colui che rimuove i conflitti della storia e li sostituisce con il tema «eterno» dello scacco e dell’incomunicabilità dell’io. Per lui la vera malvagità non sta nella storia, ma nell’esistenza. Questa è per Fortini la «verité noire», negativa insomma ma profonda, della sua poesia.
Fortini riprende e sviluppa il suo giudizio su Montale a distanza di tempo in un saggio intitolato Satura nel 1971,[5]  durante una lezione tenuta su invito di Guido Almansi all’università  del Kent, Canterbury, dove arriva ad un vero e proprio  “rendimento di conti” con Montale, svuotando il sacco e manifestando tutta la «viva, irritata e motivata» sua «antipatia» per Montale. Non esita a onorarlo: è il maggior poeta tra i viventi che scrivono in italiano per «unanime riconoscimento». Ma poi va giù duro:
- già nel titolo della raccolta vede maliziosamente più «farsa»  «sazietà» che poesia;
- insinua che il libro è stato «in parte dettato avendo ben presente una certa qualità di destinatari»;[6]
- Montale, secondo lui, sopravvaluta l’«importanza sociale della letteratura e della poesia nella società presente»;[7]
- cede in tarda età alla mitologia della vecchiaia vedendola «come ironia, saggezza, leggerezza, tristezza» e si adagia in una sgradevole imitazione di Goethe;[8]
- rinuncia a un attributo fondamentale della poesia, l’ambiguità («alibi ideologico e storico cui ha diritto, in un primo momento, qualsiasi poeta»);[9]
- scende alla prosa di un mondo alto borghese fatto «di miserabile snobismo e sfruttamento; e, per giunta, pretendendo di non farne parte;[10]
- riduce il suo lessico al «quotidiano», al livello ‘basso mimetico’ (Nortop Frye);
-  e di peggio c’è che recita: Montale fa «la parte del topo e dell’imperfetto per non pagare il dazio del dovere storico ma nello stesso tempo [è] certo di non essere stato in alcun modo corresponsabile dello sterco e del fango in cui si è trovato a vivere».[11]
La prova principale della sua malafede sta in un motto per Fortini insopportabile: «ognuno riconosce i suoi». È, dice, il distintivo pseudo-religioso di chi fonda il proprio karisma sulla «inverificabilità della grazia».[12] È «l’affermazione centrale di tutte le antropologie reazionarie» (ermetiche, esoteriche o zen e della massoneria da Mallarmé a Pessoa).
Fortini sa che, così dicendo, la sua posizione apparirà «ideologica o magari moralistica»,[13] ma la rivendica orgogliosamente. Secondo lui,  si può e si deve fare un «buon uso» di Satura solo se si è in grado di non essere indulgenti di fronte a  un «piccolo borghese truccato da grande borghese»[14]. Bisogna, cioè, saper distinguere il poeta dalla classe da cui proviene.[15] (Che è poi il criterio con cui valuterà coerentemente anche l’opera di Pasolini).[16]


Di tutt’altro tono - benevolo e  elogiativo - è invece il commento a Satura di Mengaldo, uscito per la prima volta su «Sigma» nel 1972.[17] Per lui si tratta di «un’opera poetica manifestamente nuova», che conferma l’opinione di «chi aveva insistito sugli aspetti narrativi e di “durata” dell’affabulazione montaliana».[18] Mengaldo vi vede una volontà di costruire il «libro»  e di testimoniare non solo «una storia individuale» ma anche una «storia in qualche modo esemplare», che a suo parere s’intravvedeva già nelle Occasioni  e nella Bufera.[19] Tuttavia, malgrado le «affermazioni di una volontà  di resistenza, di conservazione del proprio io», la raccolta comunica il negativo; e cioè «il grigiore condizionato e coattivo dell’esistenza normale».[20] Perché intatta resta «l’ignoranza intorno alla Verità finale», «il vuoto esistenziale».[21]  Tutto sommato, Satura per Mengaldo è un apprezzabile «esercizio di resistenza».[22] Mengaldo non ha nessuna delle riserve di Fortini. Accoglie la funzione unicamente «interrogativa» della poesia montaliana (parla di «interrogazione quasi allo stato puro») su un “qualcosa”  che «esiste, sepolto da qualche parte e forse [è] incomprensibile a noi stessi».[23] Colloca Satura  «al culmine di tutto un processo storico: quello per cui la grande poesia ha cessato da tempo di proporsi come proclamazione affermativa di qualche verità presente, e si è sempre più istituita come asserzione negativa di un vuoto e di un’assenza». Montale, «parlando d’altro, può alludere all’Altro». E si avvicina così alla «teologia  esistenziale e negativa, in particolare protestante, cui Montale non ha mancato di professare comprensione e simpatia». Smarrimento e mancanza sarebbero nient’altro che una metafora di Dio.[24] Da qui la valorizzazione della «balbuzie», del «mezzo parlare», conseguenza dell’impossibilità di «parlare interamente» (di Dio s’intende). E da qui pure lo sradicamento e l’estraneità totale di Montale alla storia. La vanità  della storia (un medesimo «scacco storico» coinvolge sia il periodo del fascismo - la «lunga prigionia nelle “stalle” fasciste» -  sia quello della «prolungata delusione del dopoguerra»).[25] Tra condizione umana e storia il divorzio, l’estraneità è assoluta. E anche i «miti privati» con tutta la loro ambiguità, se salvano il poeta dallo spreco della storia,  dall’altra lo condannano a una prigione da cui non si evade, quella esistenziale.
È evidente  il contrasto polare tra il giudizio di Fortini e quello di Mengaldo. Il primo parla di pseudo-religiosità di Montale. Il  secondo apprezza questa «continua emersione del motivo del Dio nascosto e perduto, sviluppo coerente  della religiosità laica della Bufera».[26] Fortini parla di cedimento al «quotidiano». Mengaldo, a differenza di Fortini che lo ritiene problema trascurabile,  apprezza il «processo di demetaforizzazione, di razionalizzazione e scioglimento analitico della metafora», che ha condotto Montale dalla poetica delle «occasioni», quando parlava di un oggetto tacendo «l’occasione spinta», a una «evocazione e rappresentazione» proprio dell’occasione, in modo che «i dati aneddotici restano nella pagina in quanto tali, con una ricchezza prima sconosciuta».[27] (Fa l’esempio degli «ellittici e istantanei porcospini» della chiusa di  Notizie dall’Amiata: lì assumevano subito significati simbolici; in A pianterreno di Satura, invece, diventano  «protagonisti di una piccola e  iterata favola familiare»).[28]
Mengaldo nega poi che ci sia in Montale quell’atteggiamento «postumo», retrospettivo su cui  Fortini  tanto ironizza.[29] Egli anzi ci sente un atteggiamento  vitale e proiettivo, proprio dei «poeti del negativo» (come ad es. Leopardi). La propensione del vecchio Montale al «divertissement mentale e verbale», all’epigramma, proverebbe, dunque, la sua capacità di «scatto e rinnovamento». E perciò l’affiorare di «dati privati e quotidiani»  fa emergere una «nuova misura ritmica e formale» tendente allo scherzo musicale o alla filastrocca. Se il testo poetico prima appariva autosufficiente, ora richiede di essere completato «riportandolo nel contesto di Montale uomo».[30] Il «taglio narrativo, diaristico, quotidiano, prosaico» di Satura svela, dunque, una mutata concezione della poesia.[31]
Montale esce  così dal «solco della grande tradizione simbolistica e decadente», che comportava «la stessa eclisse della persona privata del poeta» e arriva a una poesia come «strumento quotidiano e quasi immediato, valido accanto ad altri, di osservazione e riflessione». Per cui  è facile  «l’emergere in filigrana della figura privata del produttore di versi» accompagnata da uno spostamento «verso l’angolo visuale del lettore». Il fatto che Montale  faccia entrare in poesia «un materiale poetico composto in un giro di tempo molto breve, documentando senza timore lo svilupparsi di un’attività diaristica  di scrittura nel suo decorso quasi giornaliero e nell’eterogeneità dei risultati»[32] non comporta per Mengaldo un «abbassamento della qualità e del controllo critico».
In questa sorta di ideale “processo a Montale”, che l’accostamento  delle posizioni di Fortini e Mengaldo permette, Mengaldo “assolve” Montale:  egli,  poeta grandissimo ma non sordo «alla ricerca letteraria dei suoi contemporanei e alla situazione storica che la sottende», avrebbe accolto  le istanze della «nuova poesia» e condiviso con essa l’attacco sia alla «poetica dell’evasione individualistica e aristocratica, che in essa si esprimeva» sia agli «usi prevaricatorii di una struttura sociale e politica del dominio».


Come spiegare questa divaricazione di giudizi così netta tra Fortini e Mengaldo? Un discorso lungo e complesso mi è impossibile. Mi limito a offrire un spunto generale di discussione. Ritengo che, nella valutazione di Montale e, in questo caso di Satura, prevalga da parte di Fortini l’ottica del ‘noi’ maxiano e comunist;, mentre in Mengaldo quella dell’ ‘io’ borghese e moderato. Storia, politica, morale, ideologia sono concetti fondamentali sia in Fortini critico sia in Fortini poeta; inoperanti o sotto traccia, invece, nella lettura di Mengaldo che, come si vede, “si tiene al testo”, non “lo forza” (ma sorvola sugli aspetti politici e ideologici). E si potrebbe dire che è in piena sintonia con la visione di Montale. Semplicemente “non vede” i problemi che Fortini si pone.[33]
Mengaldo giudica la poesia dal punto di vista dell’ ‘io’ borghese,  separato dalla società e dalla storia, che vorrebbe possibilmente  immobili e a debita distanza. Fortini la misura dalla posizione del ‘noi’ (un ‘noi’ storico e politico che è in azione per affermare uno Scopo o una Grande Causa).
Michele Ranchetti, un altro amico-antagonista (non casualmente filo-pasoliiano) di Fortini, anche lui più a suo agio nella posizione  dell’ ‘io’,  parlò di Fortini critico come di un giudice che sottoponeva i testi ad un vero e proprio «giudizio universale».[34] Va precisato, però, che la forza e anche la durezza delle critiche di Fortini nascono proprio da una adesione drammatica a un ‘noi’  in continuo e contraddittorio divenire («la lotta per il comunismo è il comunismo» scrisse) e non al ‘noi’ apparentemente più statico e tranquillizzante che si compatta in una istituzione o partito o comunità.
Se ci collochiamo, come Fortini,  dalla parte di quel ‘noi’, non possiamo che dargli ragione. Se ne diffidiamo, se diciamo che quel ‘noi’  in divenire non è  tutto reale o “non si vede” (ma  lo diceva lo stesso Fortini, che lo considerava  solo possibile), che è “doveristico”,  che rischia direprimere in sé l’io, l’individuo, il singolo, troveremo sicuramente più ragionevoli e sensate le valutazioni di Mengaldo e dello stesso Montale (e non trascurabili le obiezioni di Ranchetti).  Specie oggi che la sconfitta storica subita dal ‘noi reale’,  a cui Fortini  rivolgeva il suo messaggio (la sinistra, l’umanità sofferente), nella speranza che diventasse ‘Noi’ pienamente storico e rivoluzionario, è innegabile.

Per concludere, in  questa sitazione di crisi confusa, prolungata e senza sbocchi certi, mantenendo aperte le domande che si pongono attorno al nodo Montale-Fortini-Mengaldo, in apparenza solo “letterario”, bisognerebbe riflettere di più sulla nostra condizione sicuramente inquieta (e esodante) di ‘io/noi’. Essa ha anche tratti ibridi, incerti e persino ambivalenti. Ma se facessimo seriamente e pazientemente la spola tra ‘io’ e ‘noi’ (anche nella parte psichica della nostra esperienza), i punti maggiori o minori di distanza (mai di piena coincidenza…) tra i due poli si chiarirebbero. Coglieremmo più agevolmente  le zone d’ombra sia della posizione di Mengaldo (e di Montale) che di quella di Fortini.
Certo, a fini pratici, che sono ineludibili, un accento va posto:  sull’’io’ o sul ‘noi’. A seconda della valutazione che sapremo dare dell’esperienza in cui siamo immersi. Amletici  per tutta la vita non si può essere. Non si scappa a una scelta. Ma, nella fase della ricerca (anch’essa non eterna), si deve essere anche  così liberi da non porre nessun accento…

3 luglio 2012




[1] F. Fortini, Ventiquattro voci per un dizionario di lettere, Il Saggiatore, Milano 1968
[2] Il ‘correlativo oggettivo’ è un concetto poetico elaborato nel 1919 da Thomas Stearns Eliot, che definì come "una serie di oggetti, una situazione, una catena di eventi pronta a trasformarsi nella formula di un'emozione particolare" (da Wikipedia)
[3] F. Fortini, Ventiquattro voci per un dizionario di lettere, p.232, Il Saggiatore, Milano 1968.
[4] F. Fortini, «Satura» nel 1971, p. 112, in Saggi italiani 2, Garzanti, Milano 1987
[5] Idem, pp.103-124.
[6] Idem, p. 107.
[7]  Idem, p. 110.
[8]  Idem, p. 111.
[9]  Idem, p. 113.
[10] Fortini accoglie i giudizi concordi di Raboni e Pasolini: Satura non è una «raccolta di liriche», ma un libro narrativo-parodistico, Idem, p.117.

[11] Idem, p. 118.
[12] Idem, p.119.
[13] Idem, p. 117.
[14] Idem, p. 123.
[15] Idem, p. 124.
[16] F. Fortini, Attraverso Pasolini, Einaudi, Milano 1993.
[17] P.V. Mengaldo, Primi appunti su «Satura», in La Tradizione del Novecento. Prima serie, Bollati Boringhieri, 1996
[18] Idem, p. 358.
[19] Idem, p. 359.
[20] Idem. p. 360.
[21] Idem, p. 361.
[22] Su un piano politico di destra, forse aggiungerebbe Fortini, ricordando il tipo di antifascismo liberale di Montale.
[23] Idem, p. 363.
[24] Idem, p. 363.
[25] Idem, p. 367.
[26] Idem. p. 363.
[27] Idem, p. 368.
[28] Idem, p. 368.
[29] «Ci  parrebbero inconcepibili, d’altra parte, un Leopardi o un Baudelaire che parlino da poeti  dl proprio passato di  autori pubblici. Di qui la sgradevolezza (a mio avviso, intenzionale), di quegli ironizzati atteggiamenti ‘goethiani’» ( F. Fortini, «Satura» nel 1971, etc. p.111).
[30] P. V. Mengaldo, Primi appunti su «Satura» etc, p. 371.
[31] Idem, p. 372.
[32] Idem, p. 373.
[33] Non ho potuto esaminare se in saggi successivi Mengaldo abbia “risposto” a Fortini magari indirettamente.
[34] «Ma il suo, cosi almeno mi pare, ora più che allora, non era un giudizio estetico, neppure un giudizio morale o un giudizio politico. Tanto meno, un giudizio religioso: era una sorta di giudizio universale privato che comprendeva tutti gli elementi, dove il bene e il male appartenevano alla sfera estetica, cosi come alla sfera morale, per cui una poesia non poteva in un certo senso essere bella, se non era anche buona o giusta». (Da Michele Ranchetti a Ennio Abate, 5 settembre 2005)


21 commenti:

Francesca Diano ha detto...

Mi fa un grande piacere trovare proprio in Fortini non solo una conferma a quanto ho sempre pensato di Montale, ma addirittura con le stesse parole che ho sempre usato parlandone! L'uomo mi ha sempre ispirato una forte antipatia, anche fisica. E lo definivo "un borghesuccio". Non tanto per i motivi che adduce Fortini, ma per la vuotaggine - elegante, elegantissima - dei suoi versi, per la loro inutilità, per il nulla che aggiungono all'esperienza di chi li legge. Ho sempre percepito, dietro quelle parole, così sapientemente sgranate, un'indifferenza, una mancanza di empatia, un'incapacità di attingere a strati profondi. Un'assenza di emozioni, un'ottusità. E non ho mai capito perché gli sia stato dato il Nobel.
Di tutt'altra pasta e natura era Quasimodo, di cui si parla pochissimo. E a cui la mafia moraviana (Moravia, di cui nessuno grazie a dio parla più) non ha mai perdonato il Nobel. Da quel momento è stato messo al bando.
La questione non sta nel decidere che l'io sia borghese e il noi non lo sia. Francamente questo mi pare risibile quando si parla di arte. L'io è autoreferenziale se non trascende se stesso. Ma all'universale si arriva dal particolare.
Se si dovesse giudicare il valore di un poeta dal rapporto che ha con la storia, la Dickinson, ad esempio, sarebbe da buttare dalla finestra, o giudicare come una donnetta nevrotica che curava il giardino, vestiva solo di bianco e scriveva versi che nessuno ha mai pubblicato.
Vorrei osservare però una cosa, che non smette di lasciarmi allibita. Abbiamo avuto, in Italia, uno dei maggiori poeti in assoluto dell'età moderna: Dino Campana. Un poeta che non ha eguali nel 900 e non solo italiano. Ebbene, non se ne parla mai. Si versano fiumi di parole e di critica su poetucoli che hanno tenuto banco e potere anche per troppo tempo e Campana, maltrattato in vita, poiché non si conformava ( e non si conforma) agli standard accettati da noi e perché la sua poesia è davvero troppo rivoluzionaria, innovativa, sovversiva (ma per davvero) è semidimenticato anche in morte. Isolato era e isolato resta.

Moltinpoesia ha detto...

Ennio Abate a Francesca Diano:

Dickinson,Campana SONO NELLA STORIA, come tutti/e, anche se non ne parlassero esplicitamente nelle loro poesie.
Sì, si tratta di capire "dal rapporto che un poeta ha con la storia" ( di accettazione, di rifiuto, di incertezza, ecc.) che tipo di poesia fa.
Questo, però, non vuol dire che chi non parla di storia o la sfugge, come Montale secondo Fortini, non sia un poeta. Come persona sarà stato antipaticissimo e irrimediabilmente un esempio della piccola borghesia “rampicante”, ma poeta fu. Anzi Fortini gli riconosce il primato tra quanti (allora) scrivevano in lingua italiana.
Sarebbe davvero interessante capire come la storia entri in modi non "ortodossi", non espliciti e come operi nelle stesse scelte di linugaggio sia in Campana che nella Dickinson.
Esiste un 'io' borghese e un 'noi' borghese. Come esistono o potranno esistere altri 'io' e 'noi' diversamente aggettivabili. Anche l''io' e i 'noi' SONO NELLA STORIA.

Anonimo ha detto...

Carissimi Francesca ed Ennio,
non posso giudicare Montale nè la Dickinson e neanche Campana, voglio dirvi che li ho letti (e chi non li ha letti?)così diversi fra loro , poeti certamente , per se stessi sopratutto ed è questo che mi affascina e mi appaga . Ognuno con la propria storia , le proprie nevrosi ma la loro poesia così "sana" per dire essenziale mi fa pensare a quanto ancora avremmo bisogno di loro. Per il resto sicuramente Fortini avrà ragione ma lui è Fortini ed io non posso che riflettere sulle sue parole continuando comunque a leggere i tre poeti con tanto interesse e ardore. Vorrei tanto sul nostro blog comparisse Quasimodo il nostro grande, chissà se Ennio vorrà accontentarmi. Vi mando questa di Montale per la quale io ho lasciato un posto d'onore nel mio cuore. Ciao ragazzi! Emy
P:S: e non ditemi che l'avete letta mille volte!Questa è la 1001

EPIGRAMMA

Sbarbaro, estroso fanciullo, piega versicolori
csrte e ne trae navicelle che affida alla fanghiglia
mobile d'un rigagno; vedile andarsene fuori.
Sii preveggente per lui, tu galantuomo che passi:
col tuo bastone raggiungi la delicata flottiglia,
che non si perda; guidala a un porticello di sassi.

E. Montale

Anonimo ha detto...

Scusate per il "soprattutto" la- t -l'ho lasciata nella tastiera...emy

Gianmario ha detto...

Io vedrei la questione da un punto di vista esistenziale e pratico. Mi chiedo che cosa siano i termini in causa, ossia questo benedetto “Io” che sarebbe in antinomia (non in contrapposizione) con un “Noi”.
In realtà l’Io è la capacità di “riflettere”, di rendersi conto. Di che cosa? Innanzittutto di esistere e stabilire una propria Id-entità. Ma questa operazione (che non è soltanto psicologica, ma ha a che fare con l’essenza stessa dell’essere pensante) di riflessione, necessita dello specchio del “noi”, senza il quale non esiste una id-entità. Io trovo molto presente questa concezione nei ragionamenti (e soprattutto nella poesia) di Fortini e poco nella poesia di Montale. Tranne sottolineare che, questo modo di vedere le cose, può diventare anch’esso ideologico, mentre la posizione montaliana dell’Io-di-fronte alla storia, è di per sé ideologica e figlia naturale non tanto dello spiritualismo ma proprio dell’idealismo ai suoi epigoni, quello che ha nutrito la grande illusione romantica e decadentista (e dico “grande” non a caso, perché davvero, pur nella sua sostanziale inaccettabilità (almeno per me), è stata una tradizione che ha raggiunto livelli di poesia altissimi). Fortini è (anche) ideologico quando fa una quasi religione di questa condizione esistenziale (tutto può diventare ideologia, anche l’anti-ideologia) negando ogni altra possibilità, mentre trovo che anche nella “borghese” anima montaliana, che inscena fatti e disagi ma non le responsabilità (storiche – e io credo che qui stia la freddezza e il distacco di questa poesia) vi sia una possibilità di riscatto o di lettura diversa, proprio attraverso la storia. E poi infine, questo “Io” è anche (e deve esserlo) a volte solipsistico, introspettivo, auto-referenziale, perché è un modo per affermarsi “diverso” pur se inscindibile dal “noi”. Il problema sorge quando questo è l’unico atteggiamento che conosce (tipico di tanta poesia contemporanea) o quando si estranea nell’elegante gioco di parole, nei petits rien della nostra poesia più laudata dalla critica, o quando si ostina a riscrivere la poesia del passato e diventa un io che non c’è, un Cavaliere Inesistente.
Rispetto all’obiezione su Quasimodo: totalmente d’accordo: è un autore da rileggere e rivalutare dagli ostracismi (non solo di Moravia ma proprio dello stesso Montale).

Anonimo ha detto...

Ecco Gianmario,
le sue parole sull'io/noi mi aiutano a capire meglio ciò che io ascolto nel mio pensare. Grazie Emy

Francesca Diano ha detto...

A Ennio e Gianmario
Oh, l'hai detto Ennio! TUTTO è nella storia, anzi nella Storia. Per il solo fatto di esserci, di essere hic et nunc. Dalle parole di Fortini parrebbe, come sottolinea Gianmario, che al di fuori di questo costante rispecchiamento io/noi non si dia poesia. Il che è appunto è una forma di ideologia, di aut/aut che non ammette deroghe e le infinite sfumature e ambiguità di cui la poesia (e tutta l'arte) si nutre. Ambiguità che invece lo stesso Fortini lamentava assente nella poesia di Montale.
E' ovvio che tutto è storia. Inclusa la povertà creativa, la piattezza, l'ossessiva ripetitività di un io vuoto e solipsistico che vediamo nei "petits rien" di cui parla Gianmario. Perché anche tutto questo concorre a formare l'immagine di un'epoca. L'arte è uno strumento di precisione per valutare il polso di un'epoca. E ciò che si fa oggi dà l'esatta visione dell'epoca in cui viviamo, anche nei suoi brandelli e scarti. Anzi, come si sa, è proprio andando a frugare nella spazzatura di una casa che si capisce moltissimo di quello che succede in quella casa.
Certo che Montale fu un poeta. Non l'ho negato, anzi. Ma poeta a metà, perché il suo poìein rimane appunto alla superficie e non la scalfisce.
Tu Ennio dici che sarebbe interessante vedere come la storia entri in Dickinson e Campana e aggiungi "in modi non ortodossi". Ma non c'è un "modo ortodosso" per queste cose. La loro poesia è immensa perché tratta non delle contingenze della storia, ma della condizione umana tutta. Questi sono sul picco di una montagna altissima e lo sguardo è amplissimo. Il che non significa che chi stia in pianura o su una collinetta pure non veda. Ma ha una visione breve e parziale.
Giustamente Gianmario specifica come la poesia ( e l'arte, aggiungo io) sia di necessità un io E un noi, perché è lì dove l'io individuo, che sente, vede e percepisce e rende la sua visione, trasformata da particolare a universale, è lì che avviene quel passaggio indispensabile perché l'evento diventi forma.
Quasimodo, così poco presente nelle nostre antologie scolastiche, così taciuto dalla critica, è invece una voce potente, forte e drammatica (il dramma che manca a Montale). Quando ebbe il Nobel e vide la reazione delle invidie, delle meschinerie e delle guerricciole che questo scatenò nelle camerette dell'Italietta provinciale, ne fu immensamente amareggiato. E disse: "mi vorrebbero morto". Molta di questa amarezza contribuì all'infarto che lo colse in Russia, dov'era per un tour e dal quale i russi lo curarono perfettamente.

giorgio linguaglossa ha detto...

Il problema del primo e del secondo Montale va inquadrato e collegato con il problema dell'emergenza della piccola borghesia in Italia e con il suo riflesso/effetto nel linguaggio poetico, in particolare nella costruzione di un paradigma stilistico che fosse consono e adatto al predominio culturale della piccola borghesia con i corrispettivi partiti che dal dopoguera erano in via di consolidamento: la democrazia Cristiana, il partico dei cattolici, e il Partito Comunista. Detto questo è indubbio che la vittoria sia arrisa a Montale come quel poeta che ha saputo trarre vantaggio da questa situazione di incontro/scontro con una mossa da scacco matto: Montale si toglie dal campo del contendere della piccola borghesia adottando, da "Satura" (1971) in poi il punto di vista (anche stilistico) alto scettico-borghese. Sta di fatto che la soluzione stilistica di Montale poteva valere per lui solo e non per la poesia a lui coeva e successiva le quali si incammineranno, anzi, si affretteranno a correre dietro il veicolo in accelerazione della modernizzazione del paese nella speranza di apparire moderni e attendibili. Il problema stilistico è quindi nient'altro che la indicizzazione di un problema politico. In questa corsa sfrenata verso la piccola borghesia, in questa discesa in picchiata chi più ne ha avuto più ne ha messa di benzina sul fuoco.
Ma pongo una DOMANDA: ma oggi, in piena crisi di STAGNAZIONE e RECESSIONE c'è ancora il bisogno di conformarsi al paradigma stilistico-politico della piccola borghesia del Ceto Medio Mediatico?
Certo, tra i due contendenti: Fortini - Montale io mi schiero dalla parte di Fortini: è stata la mancata riforma del linguaggio poetico il vero discrimine negativo che ha condotto la poesia e la narrativa italiane allo stato di sopore profondo di oggi. Ma qui intervengono anche gli errori filosofici e poetici di Fortini il quale riteneva impossibile riformare il linguaggio poetico senza prima riformare i rapporti economici e sociali del capitale. Questo sì che era un errore.

giorgio linguaglossa ha detto...

oggi va di moda di porre un referenzialismo che poggia sullo zoccolo duro del linguaggio quotidiano e/o scientifico, con in più l'idea che le frasi-proposizioni esistano isolatamente e siano intellegibili in sé sulla base di una interpretazione interna; dall'altro, un anti-referenzialismo che parte dal discorso, (anche da quello di finzione come il discorso poetico), dal figurato invece che dal letterale. Così è nato il mito che il senso estetico dipendesse da un massimo di referenzialismo del quotidiano. Dapo "Satura", l'opposizione fra il letterale e quotidiano(Montale) e il figurato (Fortini) sarebbe stata una falsa opposizione, nel senso che tutta la poesia italiana si è avviata nel piano inclinato e nel collo di bottiglia di un quotidiano acritico e acrilico. Da ciò ne è risultato che dalla poesia italiana è stato espulso la metaforizzazione di base, il metaforico e il simbolico. Con le funeste conseguenze che sappiamo. Così, oggi, un poeta di livello estetico superiore come Maria Rosaria Madonna che poggia la sua poesia su una potente metaforizzazione di base,risulta quasi incomprensibile. Certo, la poesia di Helle Busacca come quella di Madonna (due poetesse ormai morte) è irriducibile a quel piano inclinato che avrebbe portato all'abbraccio con la piccola borghesia del Medio Ceto Mediatico.

Moltinpoesia ha detto...

Ennio Abate:

- a Emy

*Nessuno mi può giudicare/ nemmeno tuuuu! *(Coro di Montale, Dickinson, Campana e altre voci non distinguibili dall’aldilà).

«A me resta la ragione ma ai tre poeti il suo interesse e il suo ardore? Signora Emy, non le darò mai più ragione!» (Nonno Fortini sempre dall’aldilà).

«Ennio, sbrigati a ospitarmi nel tuo blog, sennò chi mi legge più!» (Quasimodo sempre da quel posto).

- a Gianmario e Francesca Diano

Mi pare di aver già chiarito che Fortini riconosce Montale come poeta e grande poeta. Ma forse un grande poeta è perfetto? Se Fortini lo critica, è perché ci sono vari tipi di poesia e anche di grande poesia. E a un poeta-critico come lui (sempre Fortini) la grande poesia di Montale non andava giù.
Proprio perché rimuoveva alla grande ( e quindi con maggior danno per il fascino che essa aveva per i lettori) una verità (certo valida per Fortini ed altri che la pensavano come lui): che esiste la storia, che essa non è riducibile a «sterminio d’oche» e che richiede in certe situazioni una scelta. Detto volgarmente in dialetto - il grande poeta Montale, negando quella verità ( sempre per Fortini etc.) «fa ‘o sceme pe nu ghì a guerre”[fa lo scemo per non andare in guerra] o , come dice Giorgio in modi elevati, «si toglie dal campo del contendere della piccola borghesia adottando, da "Satura" (1971) in poi il punto di vista (anche stilistico) alto scettico-borghese»; o, come diceva Fortini, fa «la parte del topo e dell’imperfetto per non pagare il dazio del dovere storico ma nello stesso tempo [è] certo di non essere stato in alcun modo corresponsabile dello sterco e del fango in cui si è trovato a vivere»:

Questo che a notte balugina
nella calotta del mio pensiero,
traccia madreperlacea di lumaca
o smeriglio di vetro calpestato,
non è lume di chiesa o d’officina
che alimenti
chierico rosso, o nero.

(Montale, Piccolo Testamento).

Lui è in alto, lassù! Quale modello per milioni di piccolo borghesi entusiasti della sua poesia quasi come per quella del Pascoli, prima quasi socialista e poi cantore colonialista della Grande Proletaria!

E se «TUTTO è nella storia» (meglio solo la minuscola), lo è suo malgrado anche la poesia, anche la Grande Poesia. E per questo Fortini, che non toglie la poesia di Montale (o di altri) dalla storia, ha pienamente ragione a giudicarla come ingannatrice. Sebbene- ripeto - poesia e grande poesia.(Come del resto grandi romanzieri furono Balzac o Céline. Solo chi parla senza riflettere può pensare che i grandi poeti o scrittori siano per forza di cose grandi uomini o quasi dei santi).
Sì, «l'arte è uno strumento di precisione per valutare il polso di un'epoca». Quella di Montale ci fa sentire il polso aritmico della piccola borghesia che ha paura e non se lo vuol dire.

Quando dicevo che la storia entra nelle opere di tutti poeti e in alcuni “in modi non ortodossi”, volevo intendere non immediatamente visibili o percepibili. Ci sono poeti che anche quando parlano di una rosa fanno intravvedere la storia ed altri che pare parlino solo della rosa, ma se scavi dentro il testo quella (la storia) viene fuori. Intendevo dire, allora che bisogna volerla cercare. E non tutti credono che sia necessario o giusto farlo. Anzi.
Ma se dico che c’è la storia in tutte le poesie ( ma si deve scovarla..), non la ridimensiono a ‘contingenza’ e non l’affondo nel mare magnum della «condizione umana». Dire «storia» con Fortini è altra cosa che dire «condizione umana» o esistenziale con Montale. Perciò i due sono l’un contro l’altro armati. Montale lo possiamo mettere anche sulla montagna altissima degli Spiriti Magni della Poesia, ma il suo sguardo non è affatto «amplissimo». È lo sguardo piccolo borghese (camuffato). Lui stava nella realtà «su una collinetta» ma fingeva di parlare da «una montagna altissima». Qui la truffa.

P.s.
Lascio da parte per ora la questione dell’io/noi, e quella della odierna piccola borghesia toccata da Giorgio. Sono questioni ben più complicate di come appaiono...

Francesca Diano ha detto...

Per Ennio
Caro Ennio, abbiamo detto le medesime cose, tu col tuo linguaggio, io col mio, ma mi pare che i punti di vista coincidano perfettamente. E il fatto che Montale mi fosse e mi sia "antipatico" non è per la vita e l'atteggiamento da borghesuccio che aveva, ma proprio per quella truffa di cui parli. E' quello che io intendo per borghesuccio. Insomma, una meschinità che non c'entra nulla col fatto che i grandi possano essere persone piene di difetti e fragilità. Grandi sono e grandi restano. Leopardi non si lavava, si ingozzava di dolci e gelati fino all'indigestione, faceva le bizze, ma tutto questo non intacca in alcun modo la sua grandezza sublime, da antico eroe tragico, semmai rivela la miseria umana di Antonio Ranieri che, fingendo di celebrare l'amico, ne ha scritto una memoria velenosa e perfida solo per rubare un po' della sua luce. Leopardi rimane un gigante e lui un essere immondo.
So benissimo, per frequentazione diretta, quali e quante possano essere le debolezze dei grandi, ma so che le vicende della vita non sono importanti. E' importante quello che si lascia dietro di sé. Ho conosciuto Montale e Quasimodo e posso dirti che, mentre dal primo trapelava quello di cui abbiamo parlato, il secondo, pur con tutte le sue debolezze di uomo (aveva l'unghia del mignolo lunga, le donnine con cui si accompagnava, i capelli tinti ecc.) era in ingegno grande e autentico e ha sempre affrontato a viso aperto le battaglie e le sconfitte.

giorgio linguaglossa ha detto...

RICEVO E TRASCRIVO IL SEGUENTE POST:

Se dovessi conferire un aggettivo al Montale, farei uso del termine profeta "sollevandolo" dalla Storia e contemporaneamente "gettandolo" nel turbinio delle pagine scritte dal Tempo e mi guarderei bene dal procedere con le consuete etichette "borghesi" che oggi mi paiono codici a barre di prodotti scaduti sullo scaffale della poesia , della letteratutra, della "produzione" umana in generale.

Non è un caso che il Montale sia stato riproposto dopo il 2004 e dopo il 2008 in una delle tracce degli esami di maturità.
« Ammazzare il tempo» tratto da "Auto da fe" non è forse un esserne imbevuti fino al collo per poterne dire?
O forse, solo standone "fuori" si potevano profetizzare i mortiferi virus dell'era tecnologica e i rapporti dell'uomo proprio con il tempo.

L'arida terra ligure comunica più di qualunque oasi ben inaffiata e ricca di frescura. Se lo smacco è l'incomunicabilità allora, mi verrebbe da sussurrare in questo dibatitto, il rilievo di tale "rifugio" scaturigine di quesiti imperituri...

Cristina Raddavero.

giorgio linguaglossa ha detto...

...riguardo alla affermazione di Mengaldo secondo il quale Montale si avvicina «alla teologia esistenziale negativa, in particolare protestante» e che smarrimento e mancanza sarebbero una metafora di Dio, mi permetto di prendere le distanze. «Dio» non c'entra affatto con la poesia di Montale, per fortuna. Il problema è un altro, e precisamente, quello della Metafisica negativa. Il ripiegamento su di sé della metafisica (del primo Montale e della lettura della poesia che ne aveva dato Heidegger) è l'ammissione (indiretta) di uno scacco discorsivo che condurrà, alla lunga, alla rinuncia e allo scetticismo. Metafisica negativa, dunque nichilismo. Sarà questa appunto l'altra via assunta dalla riflessione filosofica e poetica del secondo Novecento che è confluita nel positivismo. Il positivismo sarà stto anche un pensiero della «crisi», crisi interna alla filosofia e crisi interna alla poesia. Di qui la positivizzazione del filosofico e del poetico. Di qui la difficoltà del filosofare e del fare «poesia». La poeia del secondo Montale si muoverà in questa orbita: sarà una modalizzazione del «vuoto» e della rinuncia a parlare, la «balbuzie» e il «mezzo parlare» saranno gli stilemi di base della poesia da «Satura» in poi. Montale prende atto della fine dei Fondamenti (in questo segna un vantaggio rispetto a Fortini il quale invece ai Fondamenti ci crede eccome!) e prosegue attraverso una poesia «debole», prosaica, diaristica, cronachistica, occasionale. Montale è anche lui corresponsabile della parabola discendente in chiave epigonica della poesia italiana del secondo Novecento, si ferma ad un agnosticismo, scetticismo mediante i quali vuole porsi al riparo dalle intemperie della Storia e dei suoi conflitti (anche stilistici), adotta una «positivizzazione stilistica» che lo porterà ad una poesia semrpe più «debole» e scettica, a quel mezzo parlare dell'età tarda. Montale non apre, chiude. E chi non l'ha capito ha continuato a fare una poesia «debole», a, come dice Mengaldo, continuare a «demetaforizzare» il proprio linguaggio poetico. Quello che Mengaldo apprezza della poesia di Montale: «il processo di demetaforizzazione, di razionalizzazione e sciioglimento analitico della metafora», è proprio il motivo della mia presa di distanze da Montale. Montale, non diversamente dal Pasolini di «Trasumanar e organizzar», di Giovanni Giudidi con «La vita in versi» e di Vittorio sereni con «Gli strumenti umani», era il più rappresentativo poeta dell'epoca ma non aveva la caratura del teorico. Critico raffinatissimo privo però di copertura filosofica. Montale, insomma, apre le porte della poesia italiana alla de-fondamentalizzazione del discorso poetico. Con questo atto compie una legittimazione dell'impero mediatico che era alle porte, legittima la ciarla, la chiacchiera, lo scetticismo in poesia. Autorizza il rompete le righe e il si salvi chi può. E gli esiti ultimi di questo comportamento agnostico sono ormai sotto i nostri occhi.
Il problema principale che Montale si guardò bene dall'affrontare era quello della positivizzazione del discorso poetico e della sua modellizzazione in chiave diaristica e occasionale. La poesia come elettrodomestico. Qui sì che Montale ha fatto scuola! Ma la interminabile schiera di epigoni creata da quell'atto di lavarsi le mani era (ed è) un prodotto, in definitiva, di quella resa alla «rivoluzione» del Ceto Medio Mediatico come poi si è configurata in Italia.

Anonimo ha detto...

A Ennio:

l'interesse e l'ardore perchè le separa dalla ragione?Nonno Fortini da lei non me l'aspettavo!

Il mio giudizio (inteso come critica) non lo so dare, in questi autori sento talmente tanto la loro grandezza, che il mio giudizio avrebbe poco senso e non è timidezza la mia, è solo una reale incapacità . Anche le vostre critiche mi interessano molto ,Francesca mi convince molto quando sottolinea il fatto che la condotta di vita non incide sulla grandezza dei poeti. Hanno scritto ciò che loro "erano" ed è forse proprio in questo la loro grandezza, non si sono allontanati da se stessi , è un modo come un altro per essere fedeli alla propria vita, alla propria scrittura alla propria storia.Certo avranno avuto ripensamenti, senso di ineguatezza,ma che importa anche questo è sè. Francesca ha avuto la fortuna di conoscere Montale e Quasimodo, che grande fortuna! Io a loro avrei fatto la difficile domanda:-Cos'è per voi la poesia?-
Montale mi avrebbe risposto così?

Eugenio Montale:

La poesia.

L'angosciante questione
se sia freddo o caldo l'ispirazione
non appartiene alla scienza termica
Il raptusnon produce, il vuoto non conduce,
non c'è poesia al sorbetto o al girarrosto.
Si tratterà piuttosto di parole
molto importune
che hanno fretta di uscire
dal forno o dal surgelante.
Il fatto non è importane. Appena fuori
si guardano d'attorno e hanno l'aria di dirsi:
che sto a farci?

Vorrei tanto che qualcuno di voi criticasse una poesia dei tre autori....ve la sentite? Intanto vi mando un abbraccio ventilato. Emy

Anonimo ha detto...

A mio parere Montale ha colto nei segnali del linguaggio quotidiano una soluzione salvifica, un rimedio all'inclinazione verso il pessimismo esistenzialista che l'ha sempre accompagnato. Così facendo ha collaborato alla creazione del moderno, ma il suo apporto è stato essenzialmente estetico. In fondo era un paesaggista solitario, assai prolifico e dotato di gran mestiere. Sapeva tenersi in piedi senza ricorrere ad inutili virtuosismi. A suo modo un maestro nel secolo che si è concluso. Gli scossoni arrivano ora...
mayoor

Moltinpoesia ha detto...

Ennio Abate:

Cerco di spiegare come io vedo la dialettica io/noi.
Innanzitutto un po’ diversamente da Gianmario. Sì c’è il piano esistenziale e anche quello pratico (e poi storico, filosofico, sociale, politico, giuridico, affettivo-amoroso, etc.). Ma io mi vorrei muovere su quello poetico. Come si pone qua questa dialettica? E magari nello stesso rapporto che ho proposto in questo post, quello Fortini-Montale.
Se rileggete con attenzione la sintesi che ho fatto di questo rapporto dal punto di vista di Fortini (non ho idea sufficiente di giudizi di Montale su Fortini, se non da accenni indiretti trovati negli scritti di Fortini…), mi pare chiaro che l’’io’ di Fortini si rapportasse a un ‘noi’ storicamente preciso e rimasto sempre lo stesso nel periodo storico che gli toccò di vivere (1917-1994).
Posso dire che nella vita di Fortini il ‘noi’ (un ‘noi’ con cui si è identificato o che ha scelto come riferimento pratico e ideale al tempo stesso importante, anche quando l’identificazione piena era problematica come nel caso del comunismo, che ai suoi tempi era dominato dallo stalinismo) può essere indicato con nomi abbastanza precisi: la sua famiglia (padre ebreo, madre cattolica), i valdesi, la resistenza antifascista, il partito socialista, la “sinistra” (e poi già dai primi anni Sessanta i gruppi intellettuali che animeranno la “nuova sinistra”), la cultura marxista critica europea che si batteva per il comunismo (da Marx, a Lukács, ad Adorno, a Mao, ecc.).
Ed in poesia questo ‘noi’ Fortini l’ha fatto entrare in modi riconoscibili sin nelle scelte lessicali e metriche, senza timore di passare per ideologico o moralista. (Sulla presenza dell’ideologia anche in poesia forse non la penso come Gianmario. Mi pare che egli creda che la poesia ne prescinda o debba prescinderne al massimo. E possa riuscirci. Più sarebbe poesia e più non avrebbe dentro di sé ideologia. Io credo, invece, che l’indeologia vi si insinui sempre, in modi anche surrettizi; e che la forza del poeta non sta nel mascherarla o spiattellarla in faccia alla gente che legge le sue poesie, ma nell’essere abbastanza consapevole di quella che “ci mette” dentro consapevolmente… poi ce n’è sempre una parte inconscia che gli sfugge; e magari la troveranno gli altri e a distanza di decenni o di secoli…).

[Continua 1]

Moltinpoesia ha detto...

Un ‘noi’ diverso è quello che potremo rintracciare nella biografia di Montale: un antifascismo liberale e un’adesione ad una “aristocrazia dello spirito” (quel «ciascuno riconosce i suoi»…). E che entra anch’esso, in poesia, ma in modi che egli crede non di parte («non è lume di chiesa o d’officina/ che alimenti/ chierico rosso, o nero»), non storici (il riferimento svalutativo alla storia che è al massimo «sterminio di oche» da guardare con pietà mista a disprezzo), genericamente universalistici (la condizione umana, per cui “umano” sarebbe solo amare, morire, essere uomini o donne o omosessuali o giovani o vecchi, credere in Dio e non anche produrre, pensare, distruggere, costruire, etc. ).
Sarebbe interessante approfondire la dialettica di questi due ‘io’ nei confronti dei rispettivi ‘noi’ di riferimento ( e nei confronti del ‘loro’- nemici, estranei, lontani; ma anche nei confronti dell’«Altro», verso il quale l’ ’io’ fortiniano si dispone, ancora una volta, in modo diverso da quello di Montale, come mostra l’accusa di pseudo religiosità che egli muove a Montale).
Non posso farlo io qui. Ma potremmo pensarci in prossimi post.

Cerco di spiegare anche come io veda la faccenda della piccola borghesia, su cui insiste Giorgio.
Direi, innanzitutto, che c’è piccola borghesia e piccola borghesia. Sono contro ul’assolutizzazione della categoria ‘piccola borghesia’.
Montale e Fortini sono sicuramente dei piccoli borghesi per nascita, per estrazione sociale. Ma a me pare evidente che la consapevolezza di questa loro collocazione ( oggettiva e soggettiva) nella società (capitalistica) da parte di Fortini e da parte di Montale era guidata da scelte e riferimenti (torna ancora il ‘noi’ a cui ho accennato sopra) diversi e contrapposti.
Semplificando, da «Satura» in poi è evidente in Montale non più soltanto il suo penoso e sofferto “neutralismo” liberaleggiante, che lo portava a guardare con sospetto (e a disprezzare) «chierici» rossi e neri, ma il desiderio di piacere e integrarsi con la cultura alto borghese o radical-aristocratica. (O, come dice Giorgio, « si toglie dal campo del contendere della piccola borghesia adottando, da "Satura" (1971) in poi il punto di vista (anche stilistico) alto scettico-borghese»). Mentre è evidente in Fortini (e documentata in moltissimi scritti e prese di posizione) la scelta di un ‘noi’ da parte di un ‘io’, che si riconosce come piccolo borghese (per condizione sociale e anche come “dimensione culturale di partenza”) e si allea con quelli che “stanno in basso” piuttosto con quelli che ‘stanno in alto”: operai, poveri, oppressi dai colonizzatori europei e statunitensi poi; con quelli che lottano contro altri che li dominano e vogliono tenerli sottomessi; e che contestano per questo lo Stato o gli Stati; e non credono di appartenere alla «condizione umana» per il fatto di vivere in condizioni che umane non sono.
Persino nella polemica contro la massificazione o i mass media o l’industria culturale di massa
la posizione del piccolo borghese (ma marxista) Fortini è ben diversa da quella del piccolo borghese (ma liberale) Montale. Le parole che usano per dire la loro ostilità e il loro rifiuto verso la massificazione o il linguaggio dei mass media sono diverse, perché diverse sono le ragioni dell’ostilità e del rifiuto. (Non posso qui esemplifificare, lo farò in altre occasioni).

Giorgio [Linguaglossa] sbaglia, secondo me, nel parlare in maniera generica di un emergere della piccola borghesia in Italia.

[Continua 2]

Moltinpoesia ha detto...

Ennio Abate (continua):


Innanzitutto perché - come ho detto - non distingue chiarezza i comportamenti diversificati e persino contrapposti dei piccolo borghesi alla Montale dei piccolo borghesi alla Fortini.
Allora la categoria ‘piccola borghesia’, che ha un preciso significato, se usiamo un’analisi marxista ( è la classe che sta in mezzo alle due, che Marx riteneva fondamentali - la borghesia e il proletariato - e che sarebbero andate allo scontro fondamentale, disgregando la piccola borghesia che passava o con l’uno o con l’altro dei contendenti fondamentali e producendo il passaggio dal capitalismo al comunismo); che ne ha un altro se usiamo l’analisi sociologica ( è il “ceto medio”), rischia di diventare una categoria moralistica con una connotazione negativa, come accadde ad es. in Berardinelli. (O com’ è accaduto - in questo caso con una connotazione positiva - anche per gli operai o la “classe operaia”, ritenuta in blocco “rivoluzionaria”, mentre gli operai sono stati sia con i comunisti sia con i fascisti o i nazisti.
Né si può identificare la piccola borghesia esclusivamente con alcuni partiti. Non si può dire che la piccola borghesia dal dopoguerra in poi abbia avuto dei suoi partiti ( manco l’”Uomo qualunque” la raccolse per intero). O che i suoi partiti per eccellenza fossero il PCI e la DC, che erano partiti di massa ed ebbero, sì, al loro interno e magari in posizione di comando moltissimi piccolo borghesi, ma erano partiti con una dimensione “popolare” e “operaia”, da cui le scelte dei gruppi dirigenti non potevano prescindere. Almeno fino agli anni Settanta del Novecento.

È vero, invece, che i problemi di stile (come quelli di lingua) sono il sintomo o l’indice di problemi politici.
Ma cos’è e da dove nasce questa « corsa sfrenata verso la piccola borghesia»? E chi corre verso la piccola borghesia o i modelli di vita “piccolo borghesi”?
Non certo i borghesi, ma i figli dei contadini e degli operai (di solito tra più benestanti o qualificati o specializzati, meno tra i più poveri o proletarizzati o al rischio di sottoproletarizzarsi) che, tramite la scuola di massa, trovano il modo d’infilarsi nella piccola borghesia delle professioni, dell’insegnamenti, degli impieghi statali.
E perché rincorrono il diploma, la laurea, l’ingresso a un qualche livello nei mass media (radio, cinema, TV, ecc.)?
Perché in Italia si ha tra anni ’50-’60 un passaggio del Paese da agricolo a industriale e c’è domanda crescente anche di forza lavoro qualificata e intellettualizzata o, come si dice oggi, di “lavoratori della conoscenza”.
E quando questa rincorsa diventa “di massa”?
Quando l’agricoltura s’industrializza e i contadini diminuiscono di numero e i più poveri di loro (braccianti, etc) devono emigrare al Nord e trasformarsi in operai o andare all’esterno. E si ha “la morte del mondo contadino “ e la sua “apocalisse”, studiata da Ernesto De Martino.
O quando la “classe operaia” che pareva in crescita e vincente e potesse portare al governo i “suoi” partiti, finì sonoramente sconfitta alla Fiat nel 1980 dalla piccola borghesia (dei capetti, dei dirigenti, etc.) e poi perse i “paesi allegorici” o “comunisti” (Vietnam, Cina, Urss) a cui aveva guardato con speranza.

[continua 3]

Moltinpoesia ha detto...

Ennio Abate (continua):


Da qui in poi avanza quella crisi che Giorgio definisce « di STAGNAZIONE e RECESSIONE» e che, sul piano poetico-stilistico avrebbe imposto il « paradigma stilistico-politico della piccola borghesia del Ceto Medio Mediatico».
A me pare che questo paradigma non ci sia. Ci sia invece un pluralismo confuso, un caos stilistico, un epigonismo delle posizioni del passato, che certamente si sono imposte in ambito letterario in seguito alle lotte tra tradizionalisti e modernizzatori o neoavangurdie; e hanno poi avuto un’amplificazione tramite i mass media o hanno informato anche la produzione e gli stili dei linguaggi massmediali.
Ma non credo che il piccolo borghese Fortini, che criticava «Satura» e il messaggio poetico- stilistico e politico del piccolo borghese, camuffato da alto-borghese, Montale, potesse far di più. Potesse, cioè, fare quella «riforma del linguaggio poetico» auspicata da Giorgio; ed evitare così la valanga dei “quotidianisti”montaliani in proprio o quello che a lui appare oggi come un «stato di sopore».
Perché Fortini, secondo me, aveva ragione: una riforma del linguaggio poetico avviene solo in sintonia con profondi sommovimenti economici e sociali.
Come accadde con le avanguardie d’inizio Novecento. L’altra “riforma” - quella possibile, quella che è stata fatta approfittando della rivolta del ‘68’69 - camiffata da “rivoluzione” del linguaggio ( non solo poetico) fu quella della neoavanguardia. Quella, sì, ha cercato di essere o ha finito per essere il « paradigma stilistico-politico della piccola borghesia del Ceto Medio Mediatico». (E manco di tutta… i piccoli borghesi Fortini, Zanzotto, Giudici ecc e le loro aree di riferimento hanno seguito altre vie e sono stati ostili alla neoavanguardia).
Mi fermo qui, anche se vorrei affrontare molti altri spunti ( positivi e negativi) presenti negli interventi di questo post.
[Fine]

Anonimo ha detto...

a Ennio:

Grazie. Grande, approfondita lezione. I perchè che Ennio ci pone sono molto importanti , pensiamoci. Grazie anche per il tempo che ci dedichi con grande entusiamo , tempo che rende prezioso il mio quando ti leggo. Emy

Anonimo ha detto...

"...A me pare che questo paradigma non ci sia. Ci sia invece un pluralismo confuso, un caos stilistico, un epigonismo delle posizioni del passato..."
"...Perché Fortini, secondo me, aveva ragione: una riforma del linguaggio poetico avviene solo in sintonia con profondi sommovimenti economici e sociali."

Dal basso del mio punto d'osservazione, non potrei essere più d'accordo. Queste affermazioni rendono ragione dello stato di confusione in cui ci troviamo. E soprattutto spiegano i giudizi, a volte diametralmente opposti (a me quindi spesso incomprensibili), formulati dai critici (anche su questo blog) su questo o quel poeta.
Grazie Ennio anche da parte mia per queste tue riflessioni/analisi.
Flavio