mercoledì 18 luglio 2012

PER UNA POESIA ESODANTE
Ennio Abate
La poesia passata a contrappelo.
Sulla ex-piccola borghesia
o ceto medio in poesia. (1)

Tabea Nineo 1990

Pubblico, suddivisa in varie puntate, una lunga riflessione sulla crisi della poesia e sul soggetto che oggi  maggiormente se ne occupa, confrontandomi soprattutto con gli scritti dell'amico Giorgio Linguaglossa. [E.A.]

 Divergevano due strade in un bosco
ingiallito, e spiacente di non poterle fare
entrambe uno restando, a lungo mi fermai
una di esse finché potevo scrutando
là dove in mezzo agli arbusti svoltava.

Poi presi l’altra, così com’era,
che aveva forse i titoli migliori,
perché era erbosa e non portava segni;
benché, in fondo, il passar della gente
le avesse invero segnate più o meno lo stesso,

perché nessuna in quella mattina mostrava
sui fili d’erba l’impronta nera di un passo.
Oh, quell’altra lasciavo a un altro giorno!
Pure, sapendo bene che strada porta a strada,
dubitavo se mai sarei tornato.

Io dovrò dire questo con un sospiro
in qualche posto fra molto molto tempo:
divergevano due strade in un bosco, ed io…..
io presi la meno battuta,
e di qui tutta la differenza è venuta.

(Robert Frost, “La strada non presa”, Traduzione di G. Giudici)

 

 

1. Coincidenze

 

Sul sito (cuginastro?) di "Le Parole e Le Cose" ho letto «Il romanzo nell’epoca della postletteratura» (qui). Il saggio - una introduzione di Carlo Carabba  a L'inferno del romanzo  del francese Richard Millet - sfiora appena il tema ‘poesia’, ma ho trovato delle coincidenze non casuali tra i suo concetti di «epoca della postletteratura» (la nostra d’oggi) o di «estetica postletteraria» e i discorsi sulla «post-poesia» o sul’«epoca della stagnazione» spesso accennati, sul questo blog e altrove, da Giorgio Linguaglossa.

Per  farsi un’idea, vediamo nella sintesi di Carabba  cosa si intende per «postletteratura». Per Millet:

 

«Postletterario è chi «scrive senza avere letto» (af. 277), la sua principale caratteristica è scrivere senza rendere conto di trovarsi in una tradizione: «Nei postletterari, tutto risiede nella postura, vale a dire nell’ignoranza della tradizione e nella fede nei poteri di immediatezza espressiva del linguaggio» (af. 346), o anche «postletteratura come confutazione dell’albero genealogico» (af. 233). L’autenticità data dall’immediatezza è obiettivo dello scrittore postletterario e prova della sua validità: «L’ignoranza della lingua in quanto prova di autenticità: ecco un elemento dell’estetica postletteraria» (af. 3); «il romanziere postletterario scrive addossato non alle rovine di un’estetica obsoleta ma nell’amnesia volontaria che fa di lui un agente del nichilismo, con l’immediatezza dell’autentico per unico argomento» (af. 92). […] In poche parole l’autore postletterario è quello che considera la letterarietà come un disvalore, che rinuncia a interrogare la tradizione a favore di uno spontaneismo compositivo, in cui l’atto creativo può rispondere a certe regole più o meno apprendibili e formalizzabili, ma mai a uno sguardo sull’«abisso come principio di conoscenza» (af. 290)».

 

          Ed ecco come (sempre nella sintesi di Carabba) vengono indicati i dilemmi dell’estetica (o del gusto) nell’«epoca della postletteratura» e si potrebbe aggiungere senza forzare troppo della «post-poesia»:

 

«E la domanda regina che comprende tutte le altre è: nell’epoca del «totalitarismo della democrazia» chi decide del gusto? Una maggioranza sovrana, un capitalismo che manipola una maggioranza bovina, sfruttandone le pulsioni più basse, un establishment culturale fintamente indipendente e colto ma in realtà profondamente superficiale e «postletterario» o un drappello di uomini coraggiosi e nobili che oppongono una sapienza dolente e dolorosamente acquisita alla stoltezza dei tempi? O è ancora possibile pensare, almeno in qualche misura, a un buon gusto cartesianemente diffuso in parti simili tra gli esseri umani? In un motto è la questione irrisolvibile degli arbitri elegantiae e delle preferenze irragionevoli del pubblico.

L’oggi del blog e il domani dell’ebook portano con sé la paura di cui Millet parla, di una cattiva orizzontalità (come la proverbiale notte delle vacche nere di Schelling su cui ironizza Hegel) in cui tutti i romanzi avranno pari dignità e sarà impossibile tentare di ristabilire gerarchie che non siano quelle del mero dato commerciale.

Pare che Alberto Arbasino osservasse che, con i criteri delle classifiche di vendita, il miglior ristorante del mondo sarebbe McDonald’s. Eppure laddove alla tirannia del mercato si è sostituita quella della critica letteraria, i risultati sono stati ancora peggiori. Lo stato della poesia oggi è miserevole. Non è letta, non è amata, anche molti lettori colti (e conoscitori dei poeti della tradizione) davanti a una raccolta scritta da un poeta contemporaneo storcono il naso e alzando le spalle si schermiscono con finta umiltà: «Sai, io la poesia non la capisco.» Così al poeta non resta, se vuole essere letto e apprezzato, che rifugiarsi in scuole e consorterie, che – più rigide dei corsi di scrittura creativa – impongono regole a cui non si può non rifarsi e da cui si ingenera un fiorire di poeti indistinguibili gli uni dagli altri, poesie di maniera, banalmente e interamente aderenti a un modello.

La letteratura, dunque, non può fare a meno di un pubblico. Può darsi che Millet abbia ragione, e da fare non resti nulla, se non contemplare, con la soddisfazione e il dolore di Cassandra, la fine già in atto.»

 

 

Noto che da più parti ci poniamo gli stessi problemi. Giancarlo Majorino» ha parlato di recente di «dittatura dell’ignoranza».[1] Anche il mio discorso sui “moltinpoesia”(qui)) rientra in questa cornice. Come vi rientra quello che Giorgio Linguaglossa va facendo da tempo sul «predominio culturale della piccola borghesia», sul quale concentrerò la mia attenzione in questo scritto, partendo da una domanda:  perché si oscilla tanto tra  disperazione, profetismi, piccole risse, ripetizioni  in farsa di vecchie contrapposizioni?

 

 2. Uscire dal pantano. Siamo tutti ex-piccolo borghesi, meglio cetomedisti

 

Provo a dare una risposta: perché stiamo parlando di noi stessi, delle nostre ambivalenze, delle nostre sudditanze convenienti e mascherate, delle nostre eroicistiche ma a volte inconcludenti solitudini. Perché, in altri termini, siamo tutti ex-piccolo borghesi, siamo i cetomedisti della poesia.

Non è un’affermazione qualunquista. Né vuole essere solo provocatoria. È che i discorsi inter nos tendono al moralismo (io sono diverso - e sotto sotto superiore - da questi a cui mi rivolgo) invece che alla politicità (siamo tutti io-noi diversi, discordi, in cerca di un noi possibile, ma non più garantito). E moralistico è stato l’uso della categoria  piccola borghesia, che da marxista è diventata  negli anni Ottanta del Novecento berardinelliana-enzensbergerghiana;[2] Il moralismo non ci fa vedere quanto sia cambiata la realtà della società né capire che il ceto medio, concetto sostitutivo, sia in effetti un ‘concetto-ripostiglio’ troppo vago: rimanda a una realtà che andrebbe indagata, ma che nessuno  o pochi indagano. Queste cose in parte le avevo già scritte nel 2010 a Giorgio Linguaglossa in una lunga lettera (qui); e avevo  citato pure una delle poche analisi serie del fenomeno, quella di Sergio Bologna (qui). Senza ricevere né smentite né approvazioni. E anche questo me lo spiego con la vischiosità della nostra condizione. Vivendola dall’interno, anche le differenze che tentiamo di stabilire (che io tento a stabilire, che Giorgio o altri tendono a stabilire) non  riescono a portare più a uno scontro chiarificatore neppure tra noi. Eppure è necessario uscire da questo caos calmo[3] Perché questa vischiosità? Procedo per piccoli passi…

 

 3. Non esiste un «paradigma stilistico-politico della piccola borghesia»

 

Se si potesse parlare di  un mandato affidato dal Capitale alla piccola borghesia (per me non più piccola borghesia ma almeno ceto medio), (come una volta si parlava di mandato della classe egemone o subordinata agli intellettuali, poeti compresi), il discorso potrebbe già diventare meno nebuloso. Ma tale mandato non esiste. Chiediamoci, infatti, se  il «predominio culturale»  sia oggi davvero quello della piccola borghesia, come sostiene Giorgio. Anche se  certi suoi rappresentanti  pubblicano con Mondadori e altri no, una differenza stilistica discriminante tra loro e i non pubblicati dalle grandi case editrici  non c’è. E non ritengo possibile parlare di stile internazionale  della piccola borghesia, come Giorgio ha fatto, ad esempio, nel post su Hass (qui).

In Italia i poeti che egli colloca nel “quotidianismo” o nel “minimalismo lombardo-romano”, volendo accettare senza cavillare la giustezza delle categorie, non sono davvero  dominanti, non sono veri «funzionari del capitale» (La Grassa[4]). Hanno semmai un certo seguito e una funzione sociale minima (ne ha di più la narrativa alla Saviano…) e il loro ruolo è appena di prestigio, onorifico. Neppure il sistema massmediatico preferisce e potenzia  i “quotidianisti” o i “minimalisti” ma i reality show. Forse si potrebbe dire che “i quotidianisti” si siano adeguati al sistema massmediatico imitandone gregariamente quello stile emozionale, pubblicitario, spettacolarizzato. Non per questo ricevendo un mandato o svolgendo un’azione di evidente egemonia culturale, che è al massimo di nicchia.

Per me - e qui una ragione di dissenso con Giorgio - non c’è, non si è affatto affermato un «paradigma stilistico-politico della piccola borghesia del Ceto Medio Mediatico». La crisi della poesia non è dovuta all’affermazione di tale paradigma. La crisi, semmai, nasce dal non avere più questo ceto medio in poesia (ma operante anche in letteratura o nei vari saperi umanistici) la possibilità di autorappresentarsi  rapportandosi o a un noi borghese o a un noi proletario.

I dubbi perciò su questo primato sono tanti e richiederebbero analisi puntuali e documentate, che qui non posso  neppure tentare. Allora - direi - possiamo pure criticare un certo settore della poesia d’oggi - i “quotidianisti” o i “minimalisti” -, ma non perché abbiano vinto e imposto un loro paradigma, ma perché si sono adagiati nella “quotidianietà” e non si pongono di fronte al vuoto  che si è creato (quello che ho chiamato una volta del «Conflitto sconfitto»). Non sono in grado di nominarlo, dirlo anche in poesia, ma ci danzano su, ignorandolo, infittendo la rete dei loro pensierini poetici chiusi in un presente che non scorre, che è senza porte verso il passato e senza finestre verso il futuro; e che essi registrano nella sua “prosasticità” senza vie d’uscita.

Allo stesso tempo, però - questa è la mia convinzione - dobbiamo anche criticare i nostalgici della poesia premoderna, perché anch’essi sfuggono lo stesso vuoto magari finendo in qualche Arcadia artificiale o passato  mitico ridotto a culto privato; e rimangono  - per l’oggi - negli interstizi di questa società più o meno fieri  e imbronciati.

Da questa rimozione del vuoto (che è per me soprattutto vuoto storico, sociale, politico) complicazioni e  equivoci irrisolti e inediti. 

[Continua]


[1] Giancarlo Majorino, La dittatura dell'ignoranza, Marco Tropea Editore, Milano 2010

[2] Cfr.Alfonso Berardinelli, L’esteta e il politico. Sulla nuova piccola borghesia, Einaudi, Torino 1986

[3] Caos calmo è un film del 2008 diretto da Antonello Grimaldi e interpretato da Nanni Moretti,

[4] Gianfranco La Grassa, Gli strateghi del capitale, manifesto libri, Roma 2005.

11 commenti:

Anonimo ha detto...

Il Nuovo.

E' crollato un albero da frutta
carico come il mio stare
in questa terra dove il frutto
non sa per chi resistere.

Io e la mia angoscia osserviamo
il suo malandare, ma non so perdermi
come s'è perso il tempo del raccolto.

Io raccolgo quel succo quel fiotto
non ultimo sarà sulla terra.

Io con la mia mano che porta
un anello e unghie smaltate.

Lo strappo al passato, al venire
sarà di buon volere ,di un solo nocciolo
in questa mia terra ricca di suo.

EMY

Anonimo ha detto...

ma questo qua sopra che commento è?

Anonimo ha detto...

Qualcuno capirà. Emy

giorgio linguaglossa ha detto...

Quando Millet parla di «autenticità dell'immediatezza dell'estetica post-letteraria» del nuovo romanzo, noi possiamo estendere questa categoria anche alla poesia contemporanea. Anch'io parlo spesso di «post-contemporaneo e di post-poesia» intendendo sostanzialmetne un concetto molto simile a quello di Millet, ma nella mia analisi della poesia italiana ritengo di aver indicato (e dimostrato) la fallacia delle direzioni di ricerca di quello che ho indicato con le categorie di minimalismo, del post-sperimentalismo e del post-esistenzialismo milanese. Quello che mi sono sforzato di dire agli spiriti illuminati è che tutte queste diramazioni di ricerca peccano per l'essersi arenate in una scrittura poetica, come dire, dell'immediatezza, quasi che l'autenticità della scrittura poetica (e del romanzo) la si possa agganciare appunto con l'amo dell'immediato e del presente. Nulla di più errato e fuorviante!
Per quanto riguarda il paradigma moderato del Ceto Medio Mediatico, detto in soldoni, volevo alludere non al concetto di «egemonia» (fuorviante e inappropriato) ma al paradigma della riconoscibilità secondo il quale certe tematiche (della cronaca e del quotidiano) sarebbero perfettametne digeribili dagli stomaci della post-massa acculturata del Ceto Medio Mediatico. Vorrei anche stigmatizzare l'affermazione di «dittatura dell'ignoranza» usata da Majorino, ma non per contestare Majorino quanto per prendere le distanze da ogni approccio moralistico al problema del paradigma moderato che vanta però i suoi illustri antenati e precise responsabilità, voglio dire di quei poeti che negli anni Sessanta e Settanta hanno abdicato dal campo di una poesia che non accettava qul Modello culturale (Montale, Pasolini, Giudici, Sereni, Sanguineti). È un po' tutto l'establishment culturale che abdica dinanzi alla invasione della cultura di massa. Si è creduto che una sorta di neutralismo potesse essere sufficiente, ed invece proprio quel neutralismo ha finto per disarmare pesantemente la poesia delle generazioni successive le quali erano del tutto impreparate a fronteggiare la nuova offensiva demotica e mediatica. Inoltre, il ritardo storico della cultura di ascendenza marxista non permise di vedere con chiarezza quel nodo che, a tutt'oggi, non è ancora stato sciolto.
Io ritengo che una vera poesia di livello europeo e internazionale la si potrà fare in Italia soltanto da chi sarà capace di sciogliere quel «nodo». Diversamente, la poesia italiana si accontenterà di vivacchiare nelle periferie delle diramazioni epigoniche. Non escludo che ci potrebbero essere dei buoni poeti, quello che escludo è che fin'ora nessun poeta italiano è stato capace di fare quella riforma del discorso poetico nelle dimensioni dallo stato delle cose. Certo, ci sono stati Fortini, Ripellino, Helle Busacca, l'inedita Maria Rosaria Madonna, la bravissima Maria Marchesi... ma ancora c'è da scalare la salita più ripida, c'è ancora da sudare le sette fatidiche camicie...

Francesca Diano ha detto...

Trovo spunti comuni di verità tanto in Millet, che in Ennio che in Giorgio. Quel che resta, come fattore comune, è comunque questo vuoto, questa aporia che non porta in nessuna direzione. Non è la quiete in senso buddhista, l'immobilità di chi sa che tutto è illusione e apparenza, ma vero e proprio immobilismo, paralisi, risultato di incapacità, di mancanza di coraggio e di originalità. I canoni stabiliti da Pasolini, Montale, Giudici, Sanguineti e i par loro, vengono ripetuti ad nauseam ma privi perfino di quel guizzo di autenticità originale.
Credo davvero che, se si vuole tornare a un linguaggio delle origini, alla fonte, si debba fare come Picasso, che in apparenza disegnava "come i bambini" (o così qualche ingenuo ancora dice), ma lo poteva fare perché prima di tutto era un pittore e un disegnatore non inferiore a Rembrandt o a Velasquez. PRIMA si deve sapere, POI si può distruggere e ripartire nudi.
Credere di poter fare a meno dell'enorme peso del passato, del gigantesco bagaglio culturale che ci portiamo dietro, solo per ignoranza, e avere la pretesa che i belati siano odi pindariche è non solo ridicolo, ma è un atteggiamento da cui prendere le distanze con fermezza.

Anonimo ha detto...

A Francesca Diano:

le tue osservazioni fanno riflettere e credere nelle capacità di un passato che senza di esso nessun futuro avrebbe senso. Il linguaggio delle origini va rivisto come l'essenza del vivere che oggi viene trascurata a vanfaggio diun nuovo che vuole attingere da un pozzo privo di sorgente. Non voglio certo condannare un presente che si esprime come può, ma perchè chiedergli cose che non sa esprimere? Il cambiamento c'è stato e sempre continuerà ad esserci ma chi giudica deve anche sapere insegnare. Grazie ti seguo sempre. Emy

Francesca Diano ha detto...

Grazie Emy, anche io ti seguo e so la passione che metti.
Il problema sta nella rimozione. Le vie nuove, che non possono però essere programmate a tavolino (sempre per rimanere con Picasso, che affermava: "io non cerco. Trovo", ma ovviamente nulla si trova se non si esplora, se non ci si apre alla possibilità del nuovo)vengono tracciate dagli esploratori. E di esploratori ce ne sono pochi in ogni fase storica. L'esploratore si mette in viaggio e va. Ma non senza avere una bussola e un sestante. Cioè degli strumenti di orientamento. Magari cerca una tomba e trova una città sepolta, o cerca le sorgenti del Nilo e trova due laghi immensi.

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