domenica 19 agosto 2012

Rita Simonitto
Prosa, poesia ed altro...


Riprendo il commento di Rita Simonitto (da qui) con quattro sue poesie di accompagnamento e di provocazione alla discussione tra i membri della "scialuppa" dei moltinpoesia. Mi pare un modo di favorire il dialogo già intenso tra alcuni dei commentatori di questo blog. [E.A.]

*… di qualcosa si dovrà pur morire, prima o poi, ed è impensabile che si possa fare affidamento sul suicidio dei poeti*. Così dice Mayoor.
Mi ha fatto venire in mente un commento che, al liceo, ci fece il ns. Prof. di Filosofia, quando ci introdusse allo studio della stessa:
“la filosofia è quella disciplina con la quale e senza la quale, il mondo resta tale e quale”.  Lui sapeva bene che non era così (ce l’aveva più con i filosofi parolai che con la filosofia), ma per noi fu un duro colpo (o, almeno per me, lo fu) circa la messa  in moto di spinte idealizzanti sui cambiamento del mondo che, in realtà, ben poco avevano a che fare con lo studio della filosofia. E così è anche per la poesia: se d’un colpo sparissero i poeti, non sparirebbe certo la poesia e la funzione importante che essa ha nel metterci in contatto con il reale.
La sperimentazione, il gioco, pur essendo una delle sfaccettature della poesia è più una necessità del poeta che utilizza quel ‘genere’ per dire qualche cosa e, a maggior ragione, ha bisogno che ci sia qualcuno che *salva i bambini [= i poeti che giocano] afferrandoli un attimo prima che cadano in un burrone mentre giocano in un campo di segale* (secondo la bella citazione di E. Giarmoleo).
Io vorrei che qui, in questo Blog, si mettessero a frutto le competenze singole per mettere in comune, come in questo ultimo scambio di battute, esperienze diverse:
perché è anche lì che si ‘intriga’ la poesia.
Anche in merito all’idea di Mayoor di far approdare la poesia *come corpo indipendente ( ma non estraneo) in ogni altro luogo possibile* mi piacerebbe capirci un po’ meglio perché non credo che voglia introdurre una replica dei ‘Baci Perugina’. In che rapporto starebbe il ‘cosiddetto linguaggio innovativo (o sperimentale)’ con la realtà che dovrebbe rappresentare? La *difficoltà a scrivere poesia oggi*(Mayoor) non ha forse a che vedere anche con la difficoltà a interpretare la realtà oggi in quanto non funzionano più le usuali chiavi di lettura?
Faccio un esperimento (‘in corpore vili’, cioè il mio). Scrivendo questi versi a seguire, riuscirei o no a rendere il senso del discorso fatto qui sopra in prosa?

Ad limina (01.05.2012)

Scrivere versi per vivere o per non morire no
non fa lo stesso.

Qui di tempi vani ingravidate le piume
le tenere vibranti del sottogola
irrigidita la voce dell’uccello canterino
che ancor più di sangue impiglia
gli stecchi inariditi.

Là nel flusso vento l’ala si distende
anche se poi precipite ma di sua sponte.
Ecco da lontano il tuono dello schioppo
fa battere il cuore all’impazzata
ma non è lo stesso, no, la scampata pena.

Partirò da qui (05.02.12)

Partirò da qui. Da te poeta partirò.
Ecco bricchetti come ostensori
i mefitici bastioni del delirio
a illudere i presenti, bocche aperte
per suggere idiozie, incapaci di resistenze.

Ma resistere a chi, all’oscuro forse, o all’enigma
che fin dalla Sfinge ci accompagna?
Che mi dici poeta, sei tu che hai
seguito il fantasma che non dà pace
alle tue notti di inevase domande.
Tu hai riempito caverne di sensi
astrusi e poi rimpolpati dagli applausi.

Poetare oggi (31.12.2011)

Povera fiammiferaia di parole
che subito si spengono
e altre poi
non ce ne sono
che durino a lungo!

Passanti sfiziosi
oziosi buttano uno sguardo,
ça ne tient pas,
sentenziano  e come tacchini
ridono nelle loro gorgiere
rivedute e corrette
perchè utili a tenere
la testa lontana dal corpo.

Hybris (05.02.11)

Perché vuoi sapere di me, lettore,
che dai versi mi spii ed entri
tra le fessure
dei miei spasmi
e non vuoi sapere di te
che a me ti rappresenti
nella tua sdrucciola miseria?

Certo che sono irriverente,
dio ha cambiato ormai dimora
anche se da lontano mi guarda e
sogghigna: prima o poi tornerò
all’ovile.

Conoscessi la strada!


Memore di quanto G. Linguaglossa ha risposto ad ‘Anonimo per prova’, anche questi possono essere presi come esercizi, sui quali, credo, contrariamente a quanto da lui affermato, siano importanti le sue osservazioni. Oltretutto, il corpus che sto esponendo è il mio!
Grazie per l’attenzione.




32 commenti:

Anonimo ha detto...

Secondo me questi tuoi versi hanno il pregio di innalzare il tono della lettura, come se leggendo ci si sentisse attratti da un misterioso recitativo. E' una lettura tonale che si mantiene alta e impegnata, dall'inizio alla chiusa dell'ultimo verso che sembra corrispondere all'uscita di scena in teatro. "Tu hai riempito caverne di sensi / astrusi e poi rimpolpati dagli applausi."
Sei fortunata, o brava, perché trovi il senso con grande facilità, almeno così mi è sembrato leggendo. Sul dialogo col lettore non saprei che dire, mi sembrano casi estremi quelli in cui si rivolge al lettore in modo così diretto. Lo si fa spesso nel teatro moderno, quello che è più esperienziale che recitato. Ne viene una visione della realtà, della realtà del pensiero che si presenta come oggettivo, che si potrebbe toccare con mano. E lì finisce perché oltre quel reale c'è il nulla "Conoscessi la strada!".
Se ne può parlare, Bertoldo ci ha scritto un libro, sul Nullismo (puntando su una ripartenza possibile in contrapposizione, o come superamento, del nichilismo, mi pare). Ma questo può dipendere dal fatto che mettiamo il senso dovunque, anche su se stesso. Come se "giocare" col linguaggio non fosse già di per se' una manifestazione empirica, emozionale, di ciò che il senso vorrebbe significare. In un post precedente Francesca Tuscano scriveva: ..."Poeta della Rivoluzione (le chantre de la Révolution) e poeta rivoluzionario – due cose diverse. Si sono incontrate solo una volta: in Majakovskij." Rivoluzionario nel linguaggio e della rivoluzione... "Ma era coerente: era comunista, aveva fatto (materialmente) la rivoluzione, e dunque ‘obbediva’ al suo comunismo, che era libertà e “amore” . Trovo che la collaborazione tra queste due componenti, del gioco e della responsabilità, sia assai difficile da ottenere, e probabilmente deriva da una capacità di sintesi adulta, prima ancora che per assecondare una qualsiasi interpretazione ideologica.
mayoor

Anonimo ha detto...

Secondo me questi tuoi versi hanno il pregio di innalzare il tono della lettura, come se leggendo ci si sentisse attratti da un misterioso recitativo. E' una lettura tonale che si mantiene alta e impegnata, dall'inizio alla chiusa dell'ultimo verso che sembra corrispondere all'uscita di scena in teatro.
"Tu hai riempito caverne di sensi / astrusi e poi rimpolpati dagli applausi."
Sei fortunata, o brava, perché trovi il senso con grande facilità, almeno così mi è sembrato leggendo. Sul dialogo col lettore non saprei che dire, mi sembrano casi estremi quelli in cui si rivolge al lettore in modo così diretto. Lo si fa spesso nel teatro moderno, quello che è più esperienziale che recitato. Ne viene una visione della realtà, della realtà del pensiero che si presenta come oggettivo, che si potrebbe toccare con mano. E lì finisce perché oltre quel reale c'è il nulla.
"Conoscessi la strada!".
Se ne può parlare, Bertoldo ci ha scritto un libro, sul Nullismo (puntando su una ripartenza possibile in contrapposizione, o come superamento del nichilismo, mi pare). Ma questo può dipendere dal fatto che mettiamo il senso dovunque, anche su se stesso. Come se "giocare" col linguaggio non fosse già di per se' una manifestazione empirica, emozionale, di ciò che il senso vorrebbe significare. In un post precedente Francesca Tuscano scriveva: ..."Poeta della Rivoluzione (le chantre de la Révolution) e poeta rivoluzionario – due cose diverse. Si sono incontrate solo una volta: in Majakovskij." Rivoluzionario nel linguaggio e della rivoluzione... "Ma era coerente: era comunista, aveva fatto (materialmente) la rivoluzione, e dunque ‘obbediva’ al suo comunismo, che era libertà e “amore” . Trovo che la collaborazione tra queste due componenti, del gioco e della responsabilità, sia assai difficile da ottenere, e potrebbe derivare da una capacità di sintesi adulta, prima ancora che per assecondare una qualsiasi interpretazione ideologica.
mayoor

Anonimo ha detto...

l'ultima poesia mi sembra la meglio riuscita "Hybris", qua e là ci sono delle ottime impennate, ottime soluzioni singole ma è nella costruzione che le composizioni difettano. È la costruzione la cosa più difficile. Il primo verso ce lo da Dio... ma poi il secondo e il terzo li dobbiamo fare noi. E qui entrano in azione strumenti come il calibro, la cesoia di Atropo, il metro di Lachesi, il fulmine di Zeus, il martello e i chiodi, l'incudine... pochi strumenti ma l'uso dei quali deve essere inflessibile e abilissimo. Bisogna imitare la fucina di Efesto. Stare tra lapilli, scintille e spruzzi di vapore sulfureo.

Vorrei citare in proposito un brano de "Il Libro dell'inquietudine" di Bernardo Soares (Pessoa):

L'arte consiste nel far sentire agli altri quello che sentiamo, nel liberarli da loro stessi, proponendo loro la nostra personalità come liberazione speciale. Quello che sento, nella vera sostanza con cui lo sento, è assolutamente incomunicabile; e tanto più è incomunicabile, quanto più profondamente lo sento. Dunque, perché io possa trasmettere a un altro ciò che sento, devo tradurre i miei sentimenti nel suo linguaggio, cioè, dire tali cose come fossero quelle che sento, in modo che lui, leggendole, senta esattamente quello che ho sentito io. E siccome questo altro è, nell'ipotesi artistica, non questa o quella persona, ma tutte le persone, cioè quella persona che è comune a tutte le persone, in fondo quello che devo fare è convertire i miei sentimenti in un sentimento umano tipico, pur pervertendo la vera natura di quello che ho sentito».

giorgio linguaglossa

Anonimo ha detto...

Signori,
informo che su poesia 2.0 si è sviluppato un dibattito molto interessante sulle sorti della poesia che ha preso luogo da un mio articolo sulla poesia di Milo De Angelis. ci sono 70 commenti. avrei piacere che chi se la sente possa prendere la parola anche lì. è importante. credo.

giorgio linguaglossa

Anonimo ha detto...

Da Rita Simonitto

@ G. Linguaglossa 20.08.2012 10:28
Sono molto curiosa e interessata e quindi andrò a metterci il naso. Grazie dell’informazione.

@ G. Linguaglossa 20.08.2012 9:58
La ringrazio per le sue osservazioni, per me sempre molto preziose. Fra l’altro, il brano da lei citato, come anche altro di Pessoa, fa parte del mio ‘breviario professionale’. Sono d’accordo con lei che la ‘pars construens’ è la più difficile, anche perché se, materialmente, può essere fatta a tavolino, mentalmente è come stare su un crinale esilissimo con il rischio di cadere in un di qua solipsistico o in un di là Umanistico. La lotta, in poesia, è anche tra il dire troppo (per paura di non essere capiti) e il dire troppo poco (per stimolare l’interesse, o l’arguzia, del lettore). La poesia lavora molto sul dire e non dire, sull’enigma.
Facendo ricorso al Mito, bisognerebbe avere la capacità (facile a dirsi ma difficile a farsi) di ondeggiare tra l’Enigma della Sfinge (lì i dati ci sono tutti, basta interpretarli come fece Edipo con logica tracotanza) e l’Enigma di Tiresia che disse alla madre di Narciso, “morrà quando si conoscerà” (e qui il campo interpretativo si allarga a dismisura).
Tenendo conto del periodo enigmatico in cui viviamo penso che dovremmo essere un po’come Tiresia (ciechi e veggenti).

Anonimo ha detto...

Ho letto. Accidenti gli intellettuali, che vipere! Non ho affinità con la poesia di Milo De Angelis, ma gli riconosco l'importanza che ha avuto il suo modo di scrivere all'epoca dello sperimentalismo. Può essere che sia invecchiato, e ad un mito non si perdona la sopravvenuta "normalità", tantomeno quel suo scadere dalla complessità dell'indagine introspettiva, fatta di filosofia e psicanalisi, verso un insospettato sentimentalismo. A volte può servire, più che leggere Kierkegaard o Lucrezio, la frequentazione con uno psicanalista ( ad una certa età sarebbe anche meglio un maestro spirituale). Ma lo scrivo qui dove il dialogo è ancora, e per ora, possibile per me. Grazie comunque, è stato interessante.
mayoor

Anonimo ha detto...

@ G. Linguaglossa: ….informo che su poesia 2.0 si è sviluppato un dibattito molto interessante sulle sorti della poesia…

Da Rita Simonitto
Quello che mi aspettavo di trovare, nei ben 70 commenti a quanto scritto da Linguaglossa (che non riguardava soltanto la poesia di Milo De Angelis), era uno sviluppo di sue osservazioni che mi erano sembrate stimolanti: a) * La poesia deve proporsi la raffigurazione di oggetti (condizioni rapporti) non quella dei sentimenti. Quanto maggiore è il consenso sui fondamenti della commozione tanto più l’atto lirico è confermativo del sistema* e, a seguire, b) * Voglio dire che certo «consenso» «sui fondamenti della commozione» (come diceva Fortini), è rimasto immutato (e destinato ad essere immutabile) perché sono rimasti immutati i sottostanti fondamenti, appunto, della «commozione»
Ciò che vi ho trovato invece è stata la replica del ben noto panorama parlamentare in cui due opposte fazioni, i pro e i contro, incentrati questa volta su M. De Angelis, tranne poche e meritevoli eccezioni (R. Bertoldo fra queste), si sono combattute visceralmente cercando proseliti a destra e a manca.
Da questa particolare tenzone nulla di nuovo è emerso se non il constatare che una ‘falsa commozione’ (o anche ‘buonismo’) sta diventando lo spettro che si aggira e falcidia ogni possibilità di visione altra. In questo panorama, un pensiero ‘critico’, quale che sia, ma che presupponga una differenziazione tra sé e altro da sé, è assolutamente deficitario. Assistiamo a identificazioni per procura, a identificazioni legate a difficoltà ad avere una propria identità.
La poesia di De Angelis “Ho saputo, amica mia”, più volte ripresa nel susseguirsi dei commenti, rappresenta il vertice esplicativo di quanto sto affermando. Per questo (non posso dire “solo per questo”, perché non ho le competenze letterarie per affermarlo) questa poesia è importante. Perché è lo specchio di come l’interpretazione dell’altro passi tout court attraverso i propri moti interiori, il più delle volte supposti intellettivamente e non attraversati dalla esperienza del tragico. Perché la tragedia diventa ‘un fatto’ da comunicare e non un tassello che fa parte di un processo della cui complessità ci si deve fare carico. Da qui nasce l’iperbole: essa va a coprire le assenze, gli iati, le cesure.
Leggendo la prosopopea di certi interventi, per me è stato come replicare l’esperienza avuta dopo la visione del film “La meglio gioventù”, osannato in lungo e in largo. Ri-sperimentare la sofferenza rispetto all’abuso dei falsi sentimenti, esibiti in quel film come nelle soap; l’irritazione per le sistematiche violazioni della realtà non sostenute da alcuna necessità ‘artistica’, da nessuna ‘libertà interpretativa’ o ‘di penna’, ma soltanto da un avvilente tradimento della storia in onore ai vincitori, è stato pesante. E’ stato pesante ascoltare certe dichiarazioni dissociative da parte di alcuni spettatori, partecipi sia pure a margine di quella stagione, al punto da far rispolverare il sospetto pasoliniano del seme piccolo borghese che covava sotto quelle proteste.
E ancora più pesante ascoltare quei ‘cattivi maitres à penser’ i quali, pur consapevoli di questo tradimento della storia e della memoria, si sono trincerati dietro un immorale “piuttosto che non dire nulla, meglio comunque dire qualche cosa”.
E quello che rattrista ancor di più è il fatto che ‘noi’, che avremmo dovuto avere una funzione critica, anche ‘noi’ ci perdemmo dietro un “ostinato ottimismo della volontà”, forse quello stesso che, come dice E. Masi, “impedì a Fortini di riconoscere la catastrofe sociopolitica [che stava prendendo piede], pur avendola intuita”. (cit. Ennio Abate, in Ripensando al Convegno “Dieci anni senza Fortini”, Poliscritture).
Per queste ragioni non ho ritenuto opportuno prendere la parola in quel contesto.



Francesca Diano ha detto...

Cara Rita, che apprezzo sempre per la misura e la saggezza del parlare, anche io sono andata a leggere il pezzo di Linguaglossa su Poesia 2.0 e sottoscrivo ogni tua parola. Pare impossibile oggi in Italia trovare un blog letterario di un qualche spessore - a parte eccezioni rarissime di cui Moltinpoesia è una e per questo mi ci trovo così bene - in cui non si scateni una lotta fra dinosauri, o, per fare un omaggio a Linguaglossa, come nell'Ippodromo di Costantinopoli, dove le diverse fazioni politiche, contrassegnate da nomi di colori, si scontravano in aspre tifoserie. I toni beceri e aggressivi di chi non riesce con la ragione a mettere a tacere una diversa opinione - peggio se espressa in toni pacati, informati e urbani, che danno tanto fastidio - di questi professionisti del disturbo, rendono impossibile ogni commento. Mi era già successo su LPLC e me ne sono andata nauseata dai professorini montati in cattedra con tutta la spocchia degli infilati che non perdono occasione di fare la lezioncina o ti ignorano se con eleganza scopri i loro giochetti.
Mi è successo oggi quando, ingenuamente, mi sono avventurata a commentare su minima&moralia un post sulle testimonianze della figlia di Svevo. Nel mio commento su quanto traspariva in controluce dalle sue parole, testimonianza molto interessante, mi sono azzardata molto en passant ad accennare che a mio parere Svevo è un autore molto sopravvalutato. Ma era davvero solo un inciso in un discorso di tutt'altra natura. Ecco spuntare subito uno di quei ben noti - per quanto sprovveduti - professionisti della provocazione che aleggiano sul web, travisando completamente sia il senso dei miei commenti sia quello del post, si lancia in una serie di attacchi. Inutile rispondere che non ha letto quello che ho scritto o che lo ha travisato a suo uso e consumo. Non riuscendo ad avere la meglio ha concluso con altri insulti. Poi si è aggiunto un altro suo degno e ben noto compare, che è arrivato a dire che "se Joyce non avesse scritto Ulisse e Finnegans Svevo sarebbe stato molto più grande di lui e Joyce lo sapeva"... siccome all'idiozia non c'è rimedio, ho deciso che non era più il caso di perdere tempo e di dar loro soddisfazione alla loro professione. E anche per quanto riguarda minima&moralia, come per NI smetterò di perdere il mio tempo.
Quanto a Milo de Angelis, mi appare un mediocrissimo epigono di un cocktail tra Ungaretti e Montale con una spruzzata di lombardismi vari. Non certo uno su cui perdere il sonno. Mai come nel suo caso:
"Ecco bricchetti come ostensori
i mefitici bastioni del delirio
a illudere i presenti, bocche aperte
per suggere idiozie, incapaci di resistenze."

Ma, e chiedo ai frequentatori di questo blog se ne sanno qualcosa, ho scoperto che in Italia, a detta di Manacorda, abbiamo un poeta immenso, gigantesco, tal Massimo Bocchiola, classe 1974, attivissimo traduttore di pesi massimi ma soprattutto massimo e glorioso poeta tra i maggiori viventi, pubblicato da Guanda. Un piatto e asettico scolaretto del peggior De Angelis.

Anonimo ha detto...

Dal "pubblico della poesia" alla "Community", mi sembra che il passo sia stato breve, e decisamente imprevedibile ai tempi di Berardinelli. Forse sto dicendo niente di nuovo, ma non credo si tratti solo di definizioni. E mi piacerebbe capirne di più (se non altro per smetterla di confondere il blog dalla chat, il confronto con la comunicazione, come capita spesso a me).
Quanto a Milo De Angelis: al di là degli scadimenti, qualcuno mi dimostri che il suo linguaggio non abbia apportato elementi di indubbia novità. Dopodiché si potrebbe tornare ad una critica priva di acredine.
mayoor

Anonimo ha detto...

e a proposito di definizioni: non molti anni fa erano parecchi i giovani poeti che se la prendevano con Raboni. Magari come critico no, ma come poeta mi sa che è stato dimenticato. Quand'era in voga nessuno lo perdeva di vista perché aveva in mano praticamente tutto. Ora tocca a Milo De Angelis, un "giovane" di allora, mi sa che è sempre successo e succederà ancora. E' sempre difficile distinguere tra onesti intellettuali e leccaculo.
mayoor

Anonimo ha detto...

da Rita Simonitto

Cara Francesca, mala tempora currunt.
A maggior ragione il riconoscimento che mi dai è ancora più prezioso. Va da sé che è anche ricambiato, per parte mia, sia per i tuoi lavori e sia per quelli di tuo padre. A dire il vero, più che di lavori, si tratta di sue citazioni con le quali ogni tanto mi imbatto nelle mie varie ricerche sul Mito.
Quello che tu racconti della tua ‘sveviana avventura’ (*mi sono azzardata molto en passant ad accennare che a mio parere Svevo è un autore molto sopravvalutato*) è significativo ed esula dalla mera denuncia di una diseducazione che potremmo trovare presente anche in altri tempi storici e in altri contesti.
In questo caso, e particolarmente oggidì, è peggio perché non si tratta del solito ‘moccioso’ che dà fastidio, ma di un silenziamento sistematico verso chi osa cantare fuori dal coro. Questo è il ‘fascismo silenzioso’ imposto dall’establishment che utilizza vari giannizzeri per operare il mantenimento dei poteri acquisiti . Tu hai commesso due errori in uno: hai espresso un tuo parere (e, fin qui, passi) e, cosa gravissima, hai attaccato ereticamente la Verità conclamata, che è Una e Una sola, e lo hai fatto ‘dall’interno della Chiesa dei Poeti’. Tutto questo prescinde da quanto tu affermi perchè esso non viene nemmeno ascoltato. *Inutile rispondere che non ha letto quello che ho scritto o che lo ha travisato a suo uso e consumo*.
Il cambiamento profondo che io vedo in questo stato di cose lo posso rappresentare (molto sommariamente, sia chiaro) attraverso il racconto mitologico. Una volta il *basileus* metteva in conto ciò che gli poteva capitare nel coprire quel ruolo. Oggi ci sono soltanto Proci che vogliono farsi ‘re’, senza pagare nessun conto. A questo si affianca il fatto che costoro non sono ancora riusciti a stabilire dei rapporti maturi con i ‘padri’, ma sono ancora fermi al loro bisogno di ‘papà’. Sono solo i bambini piccoli che hanno bisogno di dire “il mio papà è migliore del tuo, più grande, più potente, ecc. ecc”. E dove per “papà” si intendono non soltanto le persone fisiche ma anche le costruzioni ideologiche. Perché solo in questo modo riescono a compensare (e, giustamente, all’età infantile) il loro sentirsi piccoli. Ma poi, vivaddio, si cresce. Questo fatto di non poter mai ‘ridimensionare storicamente’ (che non significa ‘rinnegare’) esprime appunto la difficoltà a pensare in termini, appunto, storici. Ognuno porta (o cerca di portare) il suo secchiello d’acqua. Dice Mayoor: *Quanto a Milo De Angelis: al di là degli scadimenti, qualcuno mi dimostri che il suo linguaggio non abbia apportato elementi di indubbia novità*. Voglio sperare che sì. Però poi Mayoor generalizza: *[Raboni] Quand'era in voga nessuno lo perdeva di vista perché aveva in mano praticamente tutto. Ora tocca a Milo De Angelis, un "giovane" di allora, mi sa che è sempre successo e succederà ancora*.
Non succede “così” perché è destino, perché la vita è una ruota che gira, ma succede così quando si entra nel gioco delle illusioni. Quando vengono utilizzati i superlativi, o la iperbole, *abbiamo un poeta immenso, gigantesco, tal Massimo Bocchiola, classe 1974, attivissimo traduttore di pesi massimi ma soprattutto massimo e glorioso poeta tra i maggiori viventi* (così F. Diano riporta una citazione) siamo già nel campo dell’illusione.
E se è umano il fatto che ognuno di noi ha bisogno di illusioni, è anche importante rendercene conto.

Anonimo ha detto...

linguaglossa

August 18, 2012



ripropongo qui quanto già scritto in un commento alla rubrica “Come si riconosce una buona poesia” perché ritengo che lì vi sia tracciata, come in diagramma, la linea di pensiero dalla quale guardo la poesia contemporanea.

Pessoa all inizio del Novecento scriveva che la sua opera era un insieme di frammenti e che la tradizione ” e una nota a margine di un testo completamente cancellato”. Passato un secolo quasi da quelle parole noi oggi sappiamo di poter scrivere soltanto frammenti. Noi sappiamo che nell’epoca del declino delle «Grandi narrazioni» è avvenuta la moltiplicazione delle piccole narrazioni in una miriade di racconti miniaturizzati. La «Grande narrazione» si è risolta in una «Piccola narrazione», nella narrazione di piccoli mondi: il mondo dell’affettività privata, la rammemorazione del vissuto e la rivivibilità del «privato» nel presente «attualizzato». La modalità, il modus che nella poesia del pre-moderno aveva a che fare con il «soggetto trascendentale» è stata sostituita dalla pluralità dei soggetti empirici e dall’egoità dell’attualità. Se ancora in Hölderlin e in Leopardi soggetto trascendentale e soggetto empirico coincidevano, noi oggi possiamo prendere atto che abbiamo accertato con evidenza assoluta che il «soggetto puro», in altri termini, il «soggetto trascendentale» che aveva ancora «coscienza di sé», ha compiuto oggimai la sua traiettoria concettuale ed ha esaurito le sue potenzialità «narrative», lasciando il pensiero estetico alle prese con i problemi derivanti dall’eclisse del «soggetto».
Ormai non vi sono più che soggetti empirici: sul piano dell’etica questo significa il conflitto delle volontà (Nietzsche) e l’ideologizzazione della morale; sul piano dell’estetico ciò comporta che non vi è nient’altro che uomini empirici, l’uomo come soggetto scompare per diventare soggetto di scienza, soggetto del politico, soggetto della sfera artistica, soggetto del religioso, soggetto della divisione dei poteri e del lavoro all’interno dello Stato democratico. In una parola: soggetto della democrazia. Presto però si è scoperto che il soggetto democratico che scriveva poesie o che colorava le tele o che scriveva i romanzi del nostro tempo altri non era che un complemento ideologizzato del «globale», insomma, che il «locale» altri non era che il riflesso (feticizzato) del «globale» Così, nell’agone democratico, al conflitto degli impulsi mimetici della sfera artistica corrisponderebbe l’ideologizzazione inconsapevole dell’estetico. Giorgio Linguaglossa

Roberto Bertoldo ha detto...

Meno male che c’è qualcuno che ridimensiona Svevo, e ce ne sarebbe anche per Carducci, Foscolo, ecc. Ma si sa che la letteratura è in mano agli accademici, che per timore di perdere credibilità non osano ‘sforare’ dai giudizi acquisiti. Una volta mi sono sentito accusare di incompetenza (magari è vero, ma almeno discutiamone) per avere giudicato di basso livello letterario Juan Ramon Jimenez e Pedro Salinas. In letteratura non ci sono mostri sacri, non devono esserci, altrimenti si coltiva un atteggiamento di connivenza, questo si da sottobosco. Ogni giudizio è discutibile, tanto più che tutti noi possiamo essere afflitti da un danno cerebrale che ci fa sentire valido ciò che è pessimo e pessimo ciò che è valido (la lettura di qualche testo di neurologia può servire a renderci più umili, sia riguardo il giudizio su noi stessi sia riguardo a quello sugli altri). C’è un mio amico, laureato in storia del cinema, che guarda solo i film accreditati dal Morandini. Identici sono i critici di professione e, ahinoi, la maggioranza dei lettori.

Roberto Bertoldo

Francesca Diano ha detto...

@ mayoor
Tu hai ragione quando affermi che all'inizio il linguaggio di De Angelis abbia portato delle novità (anche se io nutro qualche dubbio e lasciatemelo nutrire). Il problema però, da come io lo vedo, non come critica letteraria, che non è il mio ruolo nella vita, ma come una che da sempre ha respirato arte e letteratura e trova nella parola lo strumento migliore per esprimere la verità di se stessa - la parola è lo strumento che meglio conosco e che meglio so usare rispetto ad altri strumenti - il problema dicevo non sta nella novità del linguaggio, ma della visione del mondo. L'arte deve essere il mezzo, non il fine, attraverso cui sfondare muraglie di buio, attraverso cui l'idea risplende e si fa viva. Fuochi d'artificio linguistici, se privi di sostanza, illuminano il buio per qualche istante e poi si spengono. Ma, se la parola diventa creatrice, perché la parola E' l'idea, allora non si tratta più di questa ossessione del nuovo formale che ammorba la postmodernità, ma di nuovi mondi che si spalancano davanti ai nostri occhi.

Per il resto, ti ricordi di un tizio di nome Enzo Siciliano, che per decenni ha avuto un potere incredibile e di cui - per fortuna - nessuno si ricorda più?

@Rita
L'analisi che fai è non solo precisissima, ma davvero illuminante. Ed è giusto dal Mito che si deve attingere, come anche magari in modo noioso sempre ripeto, per capire l'oggi. L'uccisione rituale - e quindi simbolica - dei padri, si è rovesciata nell'uccisione - simbolica e non - dei figli. E' impossibile compiere il processo di individuazione. Da una parte la dissennata corsa alla giovinezza perpetua, sostenuta da quella macelleria che è l'industria della chirurgia plastica e del business della cosmetica, all'omologazione di un concetto asettico e artificioso della bellezza, dall'altra il rifiuto di invecchiare, di accettare i cicli della vita e di lasciare spazio al nuovo, ma accettando anche di diventare punto di riferimento e di conoscenza. Dall'altra lo sbandamento dei giovani, che non hanno padri e madri ma "amici", dai quali imparano solo l'inconsistenza e il caos. Dunque, come tu dici, sono giovani privi di padre, Proci che però il padre lo cercano. Ma lo cercano male e dove non è.
Questo è il motivo delle terribili dittature del 900 - quei dittatori erano figure di padri forti. Ovviamente distruttivi. Ma anche le idolatrie ottuse e cieche di oggi per personaggi-simbolo. Il dramma è che in tutto questo il simbolo si è svuotato di senso. Non è più legame.
Dunque, affermare, come tu dici nella Chiesa dei Poeti, che uno dei loro vuoti idoli, dei loro fantocci, eretti sull'altare dell'abbaglio illusorio, è in realtà solo un fantoccio, più che altro scatena il panico. Le reazioni sono inconsulte, con l'aggressività propria di chi ha paura di precipitare nel vuoto.

Anonimo ha detto...

@Francesca
Posizione rispettabilissima la tua, ma ritengo che non sia un caso il fatto che Milo De Angelis abbia esordito negli anni dello sperimentalismo. Sebbene le sue erano, e credo lo siano ancora, tematiche esistenziali che lo differenziavano da Balestrini, Costa o dal Gruppo 63 in generale. Credo sia giusto tener conto del clima sperimentale di allora. Se la critica è rivolta al messaggio come novità, allora si buttino anche Sanguineti e Balestrini. Per quel che conta, considero quel periodo come parte della tradizione e non come cosa da buttare, che poi si passi ad altro lo trovo assai naturale. Non siamo orientali intenti a descrivere la Primavera nei secoli.
mayoor

Anonimo ha detto...

Correggo: Se la critica è rivolta al linguaggio come novità. Non al messaggio.

Francesca Diano ha detto...

@ Mayoor
Ma guarda che io Sanguineti non lo butto dalla finestra perché non gli ho nemmeno aperto la porta! Mioddio che pena quell'uomo. Gli mettevano in scena perfino certe oscene traduzioni di tragedie greche, zeppe di errori, in un italiano ridicolo. Una delle perle che ricordo: "le orme che camminano".
Io, Mayoor, ovviamente parlo per me. Rispetto le visioni altrui. Però vorrei ricordare che lo sperimentalismo di quegli anni approdava da noi - con parecchi anni di ritardo, come molte delle mode che attecchiscono in questa provincia dell'Impero - quando già altrove era storia.
Chi si ricorda quanto ti ammorbavano con lo strutturalismo, nato in Russia, emigrato negli USA e poi, quando già cominciava ad essere in disarmo, importato da noi come Il Nuovo che Avanza? Infatti ci siamo presi quello che era avanzato.

Anonimo ha detto...

... e so che in pittura è stato così anche per molti astrattisti italiani del dopoguerra. Però nessuno aprì bocca (per ragioni facili da immaginare). Mi chiedo in cosa potrebbe consistere un eventuale cambio epocale se non sono le poetiche ad essere in discussione ma, come mi sembra, soltanto le tendenze. Si teme che sfuggendo al decorativismo della parola (perché in definitiva è a questo che s'arriva) la poesia s'appiattisca sul significato. Di conseguenza si metterà l'accento su quest'ultimo, ed è ragionevole pensare che ne otterremmo una nuova estetica del significato. Almeno finché, appunto, non si tornerà a parlare di poetica (spero anche nel caso di De Angelis!). Ma io ragiono in fretta, tra il pubblico che non c'è.
mayoor

Francesca Diano ha detto...

infatti non ho parlato del conformismo nell'arte per non appesantire il discorso, ma è lo stesso. Sempre di linguaggio artistico si tratta, seppur di diversa natura. Ho seguito in un certo senso dall'interno la bufala della Transavanguardia e so che nessuno di quei tizi poi diventati miliardari insieme al loro inventore era in grado di disegnare nemmeno una mano. Così avviene anche nel business delle varie star della poesia. Il cuore del problema è proprio quello che dici tu:la poetica che latita. Ma quella richiede di uscire dall'atomizzazione, dal frammento di cui parla Linguaglossa. Richiede una visione d'insieme e una capacità poietica. E' come se fossimo usciti da un mondo deflagrato i cui frammenti vagano nello spazio vuoto senza più i legami che li tenevano saldi. Credo che si stia vivendo un nuovo manierismo, ma assai meno rutilante di quello cinque-seicentesco, un manierismo pop.
Il pubblico c'è Mayoor, solo che non è quello che grida e scalcia e plaude per le strade o nei Festival delle poesie e delle letterature, dove si consumano riti osceni.
Ai festival della poesia non ci vado, ma mi è capitato di andare a quelli della letteratura di Mantova e di Roma come traduttrice di alcuni autori. Ogni volta è una sofferenza.
Dove questa poetica esista, i disponibilissimi editori di questi poetastri diventano all'improvviso reticenti a pubblicare, con la scusa che "la poesia non vende". La loro no di certo.

Anonimo ha detto...

Riporto integralmente un brano del pezzo critico di Sebastiano Aglieco dedicato alla poesia di De Angelis:

«È in questa urbanità periferica che si situa ogni nostra storia. Si tratta, più umilmente, di una cronaca, priva dei vessilli alti e lusinghieri dei grandi accadimenti; e il tono delle parole, quelle che tutti i giorni pronunciamo senza le formule della retorica, delle ricorrenze e delle parate, è la nostra intima lingua che ci lega al sentire. È solo in questa lingua bassa che possiamo trovare la formula della preghiera. Ma in un teatro moderno gli spettatori non sono accomunati dall’antico rito dell’Assemblea; non possono assistere allo stesso racconto in un tempo e in un luogo identico per tutti. Non sono più capaci di rimandare, in coro, la stessa domanda a uno stesso dio silenzioso.
La preghiera dei moderni è un atto semplice, personale, che solo un dio benevolo, nostro fratello, potrebbe accogliere. E così non è. Il luogo e il tempo sono quelli del nostro personale dolore, ma questo corteggia, o desidera, l’unione in una rosa, quel simbolo, altissimo dell’assoluto che ha attraversato tutte le culture. Nella contemplazione di una rosa c’è la richiesta di un pensiero immobile, fermato, «il luogo del fiore senza età» in cui l’ignoto non può che inchinarsi allo splendore del non accaduto, del mai donato al mondo».

E mi chiedo: di chi e di che cosa si sta parlando? A chi è indirizzato questo «pezzo» di squisita retorica? Che cosa significa (dico in termini critici) questa sublime apoteosi? Si vuole forse adombrare l'ingresso al sacro recinto delle Muse? Che significa tutto questo insistere sul «dolore», sul «simbolo altissimo dell'assoluto»? Che cosa significa questa fraseologia: «l’ignoto non può che inchinarsi allo splendore del non accaduto»? Che cosa significa, in termini critici, la fraseologia «è la nostra intima lingua che ci lega al sentire».? E via cantando.
È ovvio che qui Aglieco sia scivolato sulla buccia di banana delle frasi fatte per piacere al Poeta-vate. Ma non è un linguaggio critico, è un linguaggio liturgico, appunto, da carbonari, da indiziati ad un rito misterico, orfico, in onodre del Dio simbolico.
E vorrei dire, con tutta la semplicità possibile ad Aglieco che quel suo linguaggio ierofanico non conduce ad alcun luogo, non significa nulla. È un linguaggio che fa il pieno di formule liturgiche buone per tutti gli usi apotropaici e magici (per intimidire il lettore digiuno di cultura), è un linguaggio di accompagnamento al rito nuziale, al talamo nuziale dello sposalizio con la poesia numinosa e virginea di De Angelis. Insomma, non è una cosa seria da prendere in seria considerazione. È, al massimo, un'offerta votiva al Numen.
Il linguaggio critico è altra cosa. E lo dico io che non mi permetto di definirmi una critica. Il mio rispetto per il vero linguaggio critico è massimo. Il fatto è che è talmente diffusa la carenza di cultura critica presso i più giovani che essi non riescono neanche a fare un elementare distinguo tra un pensiero critico e un pensiero di«corteggiamento», di «accompagnamento», con la conseguenza di fare una terribile confusione tra i linguaggi della persuasione e della rettorica.
Ma la critica è un'altra cosa. Non me ne voglia il Sig. Aglieco.

Laura Canciani

Anonimo ha detto...

@Francesca Diano, abbia pazienza, ma da autore di questo stesso sito - seppure autore per caso, ospitato a mia insaputa dal gentilissimo Ennio Abate, peraltro spesso mio compagno di serie polemiche, ma nemmeno lui Giannizzero, come non lo è Dinamo Seligneri -, il suo comportamento io lo chiamo così: avere torto da una parte e andare a farsi dare ragione da un'altra. Il link alla discussione dove ci sono i suoi giudizi critici e i miei, sulla questione Joyce Svevo, è questo http://www.minimaetmoralia.it/?p=9082.

Ad ogni modo, non intervengo qui per ulteriormente discutere con lei, Diano, i cui giudizi artistici, mi rendo meglio conto da quello che scrive qui, sono poco interessanti (a proposito, è sicura che Chia, Clemente, Cucchi, tre dei maggiori esponenti della cosiddetta Transavanguardia, non sappiano disegnare nemmeno una mano?). Intervengo, invece, perché non è possibile farla sempre franca, qualunque carognata si faccia. Infatti, Diano, quando lei scrive quello che ha scritto sopra, ingiuria e diffama. Qui non si tratta più di polemiche culturali, ma di reati severamente puniti dal codice penale, il quale dà alle eventuali vittime 5 anni di tempo per ottenere soddisfazione in Tribunale.

Larry Massino

Anonimo ha detto...

Non ho ritenuto di dover far notare a Francesca Diano che questo suo commento sulla transavanguardia è tipico di chi ne sa di pittura, ma non dipinge. Anch'io per non appesantire inutilmente il discorso.
mayoor

Francesca Diano ha detto...

Caro Mayoor, dipingo, ma soprattutto disegno fin da ragazza, faccio piccole sculture in creta e per alcuni anni sono stata a bottega, imparando le tecniche dell'oreficeria (a partire dalla fusione del metallo fino alla burattatura finale dell'oggetto) nel laboratorio di un orafo di ricerca molto importante. Come ho detto altrove, il mezzo con cui mi esprimo meglio è la parola, ma conoscere le tecniche artistiche e le difficoltà tecniche che sottostanno alla creazione artistica è stato per me fondamentale per capire l'arte. Proprio per non fare come quei critici d'arte che parlano in astratto.

Anonimo ha detto...

Scusami allora, ma il tema mi sembra davvero molto vasto perché mi sembra che si voglia estirpare il modernismo ( De Angelis e a seguire...). Comunque un po' sono d'accordo: Clemente è una truffa anche per me, De Maria se la cava meglio nella scrittura (ma una poetica ce l'ha). Mentre la "pennellata" di Cucchi deriva da precise scelte estetiche che non si possono improvvisare, nemmeno copiando. Certo, siamo lontani dal virtuoso, ma è una scelta. Il discorso non è lontano dalla critica in oggetto.
mayoor

Francesca Diano ha detto...

No, giustamente non è lontano dalla critica in oggetto, perché, che si tratti di letteratura, pittura, scultura, architettura, musica, fotografia ecc e insomma di un qualunque linguaggio artistico, c'è sempre una coerenza in quello che Alois Riegl definiva il Kunstwollen di un'epoca, quella "direzione" comune, quel quid indefinibile che percorre come un fiume sotterraneo e unifica le espressioni artistiche, sociali, culturali ecc di una data epoca. E il Kunstwollen di quelli che noi oggi chiamiamo moderno e postmoderno è proprio questo svilimento dell'arte, ma non solo, a mera merce commerciabile, per cui si deve creare un mercato che non c'è. Per cui si devono continuamente inventare un movimento, una tendenza, una falsa rivoluzione, con relativi ronzini da far correre e su cui puntare. I critici insomma come brokers.
Vale a dire che il Kunstwollen del tempo in cui viviamo è una forza distruttiva, che ovviamente tende alla distruzione di forme passate, non distruttiva in sé e per sé. Poi verrà il nuovo, che nascerà dalle ceneri del moderno e postmoderno. Noi però non lo vedremo, perché sono movimenti epocali. Viviamo in un tempo di trasformazione, di passaggio di epoche e, come tale, difficile da vivere per noi contemporanei, ma anche entusiasmante in fondo.
Quel che volevo sottolineare, portando l'esempio della Transavanguardia, ma poteva essere l'Arte povera, o la Land art, o le installazioni, o la Body art, o l'arte minimalista ecc. è che più o meno sono stati tutti movimenti costruiti a tavolino da mercanti d'arte e critici consociati, per creare una domanda che altrimenti non ci sarebbe stata, insomma, mere operazioni commerciali, in cui le quotazioni delle opere sono del tutto arbitrarie e avulse dal loro obiettivo valore artistico. Ma questo valore artistico viene codificato e sancito da mercanti e critici in combutta fra loro. Il che sballa del tutto il mercato dell'arte. Basta pensare che un quadro di questi ronzini vincenti può essere venduto a vari milioni di dollari, mentre opere magari di Lorenzo Lotto e Perin del Vaga, l'uno un gigante della pittura e l'altro un grandissimo, non arrivano al milione di dollari! Ricordi la popolarità di un pittore come Guttuso, quotatissimo in vita e ora crollato? E in fondo Guttuso, che piaccia o meno il genere, sapeva dipingere eccome.
Vedi i testi dalla "Critica della modernità" al recente "L'inverno dell'arte" di Jean Clair, che proprio uno sprovveduto non è, dato il suo impegno di tutta una vita e il suo ruolo nel mondo internazionale dell'arte, che, per essersi azzardato a dire nero su bianco quello che chiunque sia un po' addentro al meccanismo/mercato dell'arte contemporanea sa, viene attaccato e screditato e vilipeso soprattutto dai critici d'arte/prestigiatori del nostro paese, perché si sono sentiti spogliati dei loro paludamenti.
Così avviene nel mondo della letteratura, non solo da noi, ma ovunque, però da noi di più.
Non si tratta di liquidare o estirpare il modernismo, ma di averne una visione meno annebbiata e più critica. In fondo è quello che tenta di fare Linguaglossa e infatti lo paga.
Diciamo che certe cose non le affermo così, tanto per aprire la bocca e darle fiato, ma perché vivo da tutta la vita dentro questi ambienti, ne vedo i meccanismi dall'interno, ho imparato come funzionano e capisco che, visti dall'esterno, a certe cose non si arriva a credere, perché sembrano impossibili.
Poi, ovviamente, ci vorranno forse due o tre generazioni per capire meglio in prospettiva il calderone in cui siamo immersi. Ci saranno i sommersi e ci saranno i salvati. E non credo che tutti quelli che oggi galleggiano sollevando rumorosamente gran spruzzi di schiuma saranno i salvati di domani.

Anonimo ha detto...

da Rita Simonitto

Cari scialuppanti, sempreché tra una bordata d’acqua ed una di vento (e una di improperi), possiate disporre di un po’ di attenzione ‘libera”, vorrei la dedicaste alla vignetta che segue e che può avere a che fare con quell’ ”altro” del titolo di questo Post: “Prosa, poesia ed altro”.

“Una volta c’era la Classe. Operaia, va da sé. E, ricordo, che si passavano ore e ore a discutere sul senso della “Classe in sé” e della “Classe per sé”, nonché della “Classe in sé e per sé”.
Nel mentre procedevano queste accanite discussioni, gli operai si *sClassificavano*, emergevano Nuovi (?) Soggetti (?) Rivoluzionari (?) su cui si tentava di applicare le obsolete domande di cui sopra, con l’introduzione di varianti ininfluenti (desunte da quelle applicate agli intellettuali) e cioè se e quanto essi fossero ‘organici’ al sistema. E intanto che procedevano queste discussioni – che, sia chiaro, non rinnego. Furono comunque utili a capire molte cose - , la realtà (soggettiva, oggettiva, di struttura, di sovrastruttura ecc. ecc.) veleggiava per i fatti suoi. I dominanti si scannavano tra loro, ma sempre da dominanti (e cioè sulla testa dei dominati), mentre noi si continuava a discutere, discutere.
E ribadisco tutto il mio rispetto per quelle discussioni e per chi discuteva.
Ma un bel giorno approdai davanti a quel bellissimo quadro di De Chirico il ‘Ritorno di Ulisse’. (“De Chirico, ti adoro!”)
L’Eroe è lì che rema dentro la sua barca, la barca naviga nel suo mare(tappeto) chiuso in una stanza, la stanza chiusa nella cornice del quadro, in un quadro che sarà contenuto in una stanza. E dissi, basta! Sarà certamente importante tutto il lavoro della ‘mise en abyme’, ma… ci vuole un po’ di mare aperto! Uscire da quella porta che De Chirico lascia aperta sullo sfondo, certo che ci pone davanti al buio, all'enigma...ma perchè non tentare!
Non vorrei che anche qui, ci si perdesse soltanto negli ‘spulciamenti’ sugli autori, che sono certamente dei phantasmata, ovvero portatori di certe ideologie (Bruto diceva, “potessi, anziché ammazzare Cesare, uccidere soltanto l’ambizione di cui egli è portatore”). Ma rischiamo di non entrare mai in merito alle ideologie stesse e alla loro funzione. Non vi viene da pensare che questo battibeccare tolga energie preziose ad un pensiero che potrebbe essere utilizzato diversamente?
Per farci capire quale funzione può avere la poesia, oggi, ad esempio? O anche altre forme artistiche?

Moltinpoesia ha detto...

Ennio Abate a Francesca Diano e a Larry Massino:

A fare da paciere m’è andata male spesso, ma non ci rinuncio neppure stavolta. Perché ho buone ragioni per farlo.
Sono andato a leggermi i vostri interventi su MINIMAETMORALIA (http://www.minimaetmoralia.it/?p=9082.) e mi sono trovato di fronte ad una bella e interessante discussione (soprattutto nella prima parte), condotta da persone che sanno di cosa parlano e lo fanno in modi piani e quasi avvincenti per un lettore che mastica un po’ il tema.
Gli accenti (di Diano su Joyce, di Massino su Svevo) tradiscono da subito le loro preferenze, del resto dichiarate. E con questo?
Nulla di drammatico, direi.
Solo che a questo punto, chiaritesi le posizioni divergenti, il dialogo-confronto dovrebbe fare un salto. E questo non è avvenuto. E, aggiungerei come elemento di riflessione, forse non è possibile su un blog o in una discussione da blog, che ha comunque una dimensione “improvvisata”. E allora ci si comincia ad avvitare in precisazioni, obiezioni, controbiezioni, svelando stanchezza e irritazione.
Resta un dato. I due veri nodi della contesa - il giudizio di valore sui due scrittori (in soldoni: vale più Joyce di Svevo?) e le interferenze le loro vicende biografiche (umanamente la famiglia Svevo è stata generosa o no con Joyce e sua moglie? Queste sono questioni da considerare o estromettere quando accostiamo uno scrittore?)- sono, secondo me, tanto complessi che non possono essere approfonditi in una (lo dico senza disprezzo) “conversazione da blog” in poche battute sintetiche.
La forma-blog fa sentire tutti i suoi limiti. (Gli stessi, ad es., che a volte mi hanno spinto, per rimediarvi, a prendere un commento - magari un “commento-lenzuolo”- e a farne un post, per dare così respiro alla questione lì affacciatasi).
Direi che bisogna sapere che c’è questo limite. E rinunciare - saggiamente credo - ad “averla vinta”, a far valere la propria preferenza o la propria convinzione. Arrestarsi al momento giusto fa fruttare il dialogo per quello che può dare. Meglio riconoscere le distanze, rifletterci e portare se possibile più avanti, in altra occasione, altri elementi di giudizio.

Lo strascico o l’eco arrivata sul blog di Moltinpoesia di questa discussione su MINIMAETMORALIA (attraverso l’accenno del tutto *en passant* di Francesca Diano e il commento “antagonista” di Larry Massino) è imbarazzante. Rischia da una parte di disturbare il tema del post di Rita Simonitto (abbiamo già avuto episodi spiacevoli in passato e vorrei evitarli senza fare il censore). E dall’altra di travisare il senso di una discussione seria tra persone - ripeto - competenti e da approfondire. ( Ad es. perché non coinvolgere anche Roberto Bertoldo, preparare dei testi di riflessione, riproporli a MINIMAET MORALIA o ad altro sito interessato?).

Per carità, perciò, Larry, evitami la disgrazia di pensare che il blog Moltinpoesia possa finire per diventare una sorta di anticamera con un corridoio laterale che acceda direttamente in Tribunale.
Se c’è un giudizio sbilanciato o meno sulla Transavaguardia, bilanciamolo, ma discutiamo liberamente di poesia o di romanzi o di intellettuali o di politica senza tenere il codice civile o penale sottobanco a portata di mano!

P.s.
In caso di repliche direi ad entrambi di usare la posta elettronica. Avete il mio recapito.

Anonimo ha detto...

Ho trovato una chiave d'oro
porca miseria,la vendo?
No
cerco la porta chiusa da tempo
dal tempo nel tempo col tempo
saprò tenerla nascosta finchè
arriverò a quell'uscio
Intanto
come un gabbiano
in un piatto blu
consumo l'ultima colazione.

Attendo il portiere.

Emy

Unknown ha detto...

Innanzitutto ben riletta cara Emy.. riletto almeno tre volte questa tua immaginando il mare, tondo tondo,raccolto negli orizzonti del bordo,per le onde sprofondate in questa tua favola dimensione, dimensione fondina, dimensione Sherazade. La scialuppa non ce la vedo, la visione è aladina, a meno che quel tuo cucchiaio d'oro sia un suo remo, ma la zattera si,c'è, però non è l'ultima, perdonami, è la penultima,la penultima vela latte , prima che diventi definitivamente quella che ....

Penso al suo vento argentato e alla pallanuoto con quelle porte, anzi con quel guardiano, allora il fotogramma d'attesa a lungo campo cinematografico si (s)compone in altre epifanie. Attorno all'orlo non si muovono le piume di un gabbiano, il mare sfuma e diventa campagna,trattendo il suo blu arriva una palombella contadina e antica, prima che la spennassero i macellai(dell'ordine mondiale della guerra per metterla nei tovaglioli della pace). La guardiana della chiave sei tu, appesa a un'altra soglia, affacciata ai tuoi balconi,di ferro,nudi, nessuna falsa bandiera a nascondere i disegni delle onde battute affacciate al parapetto. Tu,tu Arlecchino e come Picasso blu, e la tua chiave d'oro nei chiavistelli del pulviscolo del tempo e delle palombelle.

Anonimo ha detto...

Eh,eh,eh, Ro, ma tu mi scavi troppo! Era immagine, fantasia, sulle domande di Rita. Una chiave d'oro, difficile trovarla se non la cerchi con la mente libera, immagini per gli occhi, colore. Con la chiave in tasca mi arrendo? Aspetto il portiere , ma la chiave è mia.
Ora a tutti coloro che della fantasia non sanno che farsene regalo questa frase di SNOOPY:

"Tocco una nuvola con un dito , sò che è lontana centinaia di chilometri, ma voglio essere all'altezza della mia fantasia". Emy

Anonimo ha detto...

Scusate l'accento sul -so- . emy

Unknown ha detto...

La chiave d'oro è dentro te, gli sc'avi lo dicono, non io.