mercoledì 26 settembre 2012

Flavio Villani
Il buon pastore


Ecco il secondo racconto del filone narrativo che di tanto in tanto verrà  offerto all'attenzione dei commentatori di questo blog. [E.A.]

E voi domandate cosa Dio possa far di voi?
Chi son io pover'uomo,
che sappia dirvi fin d'ora che profitto
possa ricavar da voi un tal Signore?

(A.    Manzoni)


………………è mai possibile che non mi lasci
agire…umanamente, neanche per un attimo?

(M. Puig)

Il treno iniziò a rallentare quando il sole era ormai alto nel cielo. Erano partiti dalla Centrale intorno alle sei, in ritardo di una buona mezz’ora rispetto al previsto, e c’erano volute più di sei ore per coprire il tragitto. Sei ore per poco meno di centocinquanta chilometri, o forse poco più.


I due uomini se n’erano rimasti seduti nell’aria arroventata dello scompartimento senza muovere un muscolo. Non s’erano alzati neppure per pisciare. Seduti uno di fronte all’altro, mentre il treno avanzava a passo d’uomo sotto il cielo lattiginoso di luglio, non sembravano avere fretta: circondati com’erano da una massa compatta di gente accaldata e vociante, i loro sguardi erano rimasti distanti, affondati nel sudore che gl’imperlava i volti pallidi, e nei loro pensieri. Immobili.

Il più vecchio, quello che il Monsignore aveva raccomandato di chiamare “dottore” (per rispetto, s’intende), si mosse per la prima volta in quel momento: all’improvviso sembrava che cercasse qualcosa oltre gli alti muri di cemento che delimitavano i binari. Si sporse verso il finestrino con un movimento rigido, e prese a fissare senza troppa curiosità i panni stesi, immobili nella calura di quella giornata senza vento, e gli sfaccendati in canottiera, affacciati alle finestre dei decrepiti palazzi della periferia, decorati come generali in pensione da troppo tempo.
Quelle erano le immagini che il dottore certamente vide scorrergli accanto, mentre il treno avanzava lentamente verso la stazione di Genova.

Quando il dottore si mosse l’altro uomo sembrò svegliarsi dal torpore in cui era piombato all’inizio del viaggio, e prese a guardarlo con insistenza. Era proprio come se lo vedesse in quel momento per la prima volta. Accennò ad un sorriso che sul suo viso magro parve una smorfia di dolore.
Nessuno dei due aprì bocca.

Il treno avanzò piano ancora per alcune centinaia di metri, poi si fermò con un lancinante stridore di freni nel mezzo di una galleria. In pochi istanti il caldo torrido della tarda mattinata si trasformò in un freddo umido che penetrava nelle ossa. Dopo una decina di minuti la gente iniziò ad agitarsi, e quelli che se ne stavano accampati nel corridoio abbassarono i finestrini per sporgersi verso il buio, ma nessuno accennò a una protesta. C’erano abituati. Alcuni iniziarono a scartare le cibarie per il pranzo, e un odore di fritto rancido si diffuse in tutta la carrozza. Ma il treno riprese ad arrancare subito dopo, senza dare il tempo a nessuno di completare il pasto.

Dopo quell’accenno di movimento il dottore non si mosse più fino all’arrivo. L’uomo (che si chiamava Giovanni) chiuse gli occhi e attese. Aveva pensato di rientrare con il rapido delle sedici e trenta, ma in caso di eccessivo ritardo non gli sarebbe dispiaciuto fermarsi una notte a Genova: guardare le navi nel porto e sognare il Sud America, la meta finale di quelli che lui scortava da Milano. Le spese erano coperte; una serata in trattoria e la notte in pensione erano parte di una vacanza fuori programma, pagata dal Monsignore fino all’ultimo centesimo. Non era tirchio, il Monsignore, e se doveva capire capiva. Cazzo se capiva: apriva il portafogli e via, senza battere ciglio. Non chiedeva nulla. Sorrideva. Allungava una banconota grande come un lenzuolo, pronunciando un bravo figliuolo a bassa voce, e non pretendeva neppure il resto. Certo, non era roba sua, ma lo stesso era un gran bel segno di quei tempi, e poi c’era sempre da considerare  che i preti non sono mai stati troppo generosi verso i loro dipendenti. Ma di certo il Monsignore faceva eccezione.

Lui quel tipo, il dottore, se l’era studiato, e non ne aveva ricavato un gran che. Anzi, forse qualcosa aveva colto, ma lo stesso non era riuscito a elaborare un pensiero chiaro su di lui. Negli altri casi era stato più semplice. Con qualcuno di quegl’uomini aveva perfino scambiato quattro chiacchiere, e se n’era fatto un’idea sua, concludendo che in fondo si trattava di persone, esseri umani a tutti gli effetti. Poco da discutere al riguardo, qualunque cosa avessero combinato. Ora invece provava una sorta di vago disagio. Un malessere che proprio non riusciva a comprendere. Quel tipo, se si escludeva il titolo accademico (ma forse proprio per quello), lui faceva fatica ad attribuirlo ad una categoria umana ben precisa. A partire dalla mimica, quasi peggio delle parole in italiano che gli aveva sentito pronunciare quando l’aveva raccolto a Lambrate: poche e stentate. Anche gli occhi non sembravano esprimere qualcosa che lui potesse capire. E quando il treno si arrestò nella stazione, prese a sentire un gran vuoto. Una sensazione strana, gli venne da pensare, quasi fastidiosa. Era come se quelle sei ore di viaggio, l’arrancare nella pianura assolata nell’aria già spessa di prima mattina, le fermate continue, l’estenuante lentezza, fossero state niente. Quasi un vuoto di tempo e di spazio. Da non considerare. Voghera, Pavia, Tortona…nomi. Ripensandoci gli sembrarono parole prive di senso. Ad ogni fermata aveva guardato la gente salire. Ogni volta nuovi individui accaldati, uomini in maniche di camicia, i fazzoletti sventolanti fra le mani a detergere il sudore, donne in modesti abiti sbracciati, la pelle abbronzata solo sugli avambracci pelosi. Era quello l’unico legame con la realtà, con il fatto che le cose che accadevano, minuto dopo minuto, fossero le parti tangibili di un tutto, e non semplicemente un vago sogno.

Il treno si arrestò, e la gente si mosse all’improvviso come una massa unica, compatta e fradicia. Il dottore rivolse lo sguardo verso Giovanni che disse ci siamo, a bassa voce. L’altro rispose grazie, con la gi che suonò come una ci dura. Lui sorrise a quella pronuncia, ma poi si disse che non c’era nulla da ridere, e che quell’accento l’aveva sentito in altre circostanze, per lo più piuttosto spiacevoli. E non che quella la potesse considerare una situazione piacevole. Si sarebbe forse accontentato di pensarla come neutra. Un po’ come quel tipo. Come il suo abito grigio chiaro e la camicia bianca stazzonata. Come i capelli radi e grigiastri. Come gli occhi azzurri, acquosi, privi di profondità. Come gli occhiali dalla montatura spessa. Nera.

I due si alzarono. Il dottore prese la valigia di pelle dalla reticella. Doveva essere piuttosto pesante. Si avviarono lentamente verso l’uscita. L’uomo non aveva neppure una borsa, e se si fosse fermato per la notte avrebbe dovuto dormire in mutande e canottiera. Fa caldo, pensò, del pigiama non c’era davvero bisogno, ma ciò contrastava con la sua necessità di sentirsi sempre a posto, ovunque si trovasse. Ne aveva abbastanza di sporcizia e di cimici. Il mattino dopo non sarebbe stato in grado di farsi la barba: lo disturbava l’idea che qualcuno potesse confonderlo con un barbone qualsiasi, uno dei tanti che di quei tempi infestavano, privi di una meta precisa, le stazioni di mezza Italia.

Camminarono sul marciapiede affiancati, cercando di non farsi travolgere dalla fiumana che si trascinava verso l’uscita, il tipo con la sua valigia pesante nella destra, lui con la giacca piegata sul braccio sinistro. Uscirono dalla stazione e si fermarono sotto i portici. Giovanni si guardò intorno alla ricerca del contatto, mentre il dottore rimase con lo sguardo fisso in avanti, verso il centro della piazza, quasi che ciò che stava avvenendo intorno a loro non lo riguardasse affatto.
“Aspetta qui”, disse Giovanni, e s’allontanò verso la discesa di via Andrea Doria, alla destra dell’ingresso.
Il dottore annuì senza distogliere lo sguardo dal centro della piazza.
“Puoi appoggiare la valigia. Non so dove si sia cacciato quello”
Il tipo appoggiò la valigia alla sua destra.
“Avrebbe dovuto essere già qui”, aggiunse, poi lentamente prese ad avanzare guardandosi intorno. Il ragazzo in realtà era lì già da un pezzo, e se ne stava appoggiato con la schiena ad una delle colonne, quasi sull’angolo. Era un tipo alto e un po’ curvo, e doveva avere una ventina d’anni. Vestiva una camiciola azzurra a maniche corte e un paio di pantaloni di cotone pesante che sembravano appartenere a qualcun altro dato che gli arrivavano di un bel po’ sopra le caviglie bianche e ossute. Non portava calze, ma i sandali erano di ottimo cuoio intrecciato, lucidi, e dovevano costare un occhio della testa.
“Che fai qui?!”, disse Giovanni fermandosi a circa un metro dal ragazzo.
“Fumo”
“Bravo, e io non ti vedevo”
“Volevi che stessi impalato davanti all’ingresso?”
“Be’, almeno un po’ più visibile”
“La prossima volta”
L’uomo scosse il capo e fece una smorfia: “se ci sarà”
“No?” fece il ragazzo, cantilenando quel no in tono preoccupato.
“Vedremo, ora non so”
“Il Monsignore?”
“Non dice nulla”
“Spero che si continui ancora un po’”
“Perché?”
“Che ti credi?”
“…”
“Ci campo, idiota”
“Be’, immaginavo”
“Ti va così bene, a te, che puoi farne a meno?”
“…”
“Allora ti faranno comodo anche a te ‘sti soldi, o no?”
“Sì, certo, molto”
“Allora?”
“Allora, niente”
“Sai che sei un tipo strano?”
“…”
“Si vede che ti piace faticare”
“…”
“No?”
“Come a chiunque”
“E quando ci ricapita un lavoro così, facile, facile, di nessuna fatica, eh? Ora mi prendo ‘sto tizio, e a San Teodoro ce lo porto col filobus. Dicono di prendere il taxi, ma chi me lo fa fare. Risparmio”
“Fai bene”
“Che tipo è ‘sto tizio?”
“Boh, e chi l’ha capito…”
“Cioè?”
“Non ha aperto bocca. Mi sa che a parte grazie, buongiorno e buonasera, non sa una parola d’italiano”
“Se lo fermano peggio per lui”
“Ehi, ricordati di chiamarlo dottore, il Monsignore ci tiene”
“Dottore o non dottore, se ci beccano io lo mollo. Faccio finta di niente e me ne vado. Non mi può denunciare, sa mica come mi chiamo. Sparisco e basta”
“Può succedere?”
“No, macché. La polizia se ne fotte”
“Pensavo che a qualcuno potrebbe interessare. I carabinieri?”
“No. Non gliene fotte niente a nessuno. I carabinieri? Be’ quelli sono militari”
“E…che dici?”
“Militari. Capisci?”
“No, non capisco”
“Ma dai! Fra militari…lo sei stato anche tu. Dovresti capire”
“Essere coscritto non è mica essere militari”
“Ah, no?”
“È la testa. È quella la differenza”
“Comunque l’ho fatta anch’io ‘sta guerra. Su, in montagna, che ti credi”
“Che guerra?! Ma se scappavate come conigli”
“Stronzo, avevo sedici anni”
“Vabbé, eroe, mo’ lo vado a prendere”
“V’aspetto. Mi finisco la sigaretta. Ne vuoi una?”
“No. Cerco di smettere”
“Perché?”
“Costa troppo”
“Vedi? ‘sti tizi servono”
“Almeno mi levo il vizio”
“Fa’ un po’ come ti pare”

Giovanni decise di piantarla lì. Si voltò e si diresse verso il tipo che se n’era rimasto impalato davanti all’ingresso della stazione. Ben visibile. Lo guardò e scosse il capo, poi, mentre allungava il passo, scorse dal centro della piazza una coppia di carabinieri che si stava dirigendo verso di lui.
Che stronzo!, pensò accelerando ancora il passo. Così, fermo davanti all’ingresso, aveva attirato l’attenzione di quei due. E ora lui non poteva lasciarlo. Mica per altro, il Monsignore non avrebbe gradito per niente. In un attimo gli fu accanto, e senza dire nulla afferrò la valigia e lo prese per un braccio. I carabinieri continuarono ad avanzare, e li avrebbero raggiunti subito se un filobus non si fosse messo in mezzo bloccandoli. L’uomo trascinò il dottore fuori dalla loro visuale. Quello non oppose alcuna resistenza facendosi condurre docilmente verso il punto dove il ragazzo li stava aspettando. Anche lui si era reso conto di quanto stava succedendo, e certo, se le cose si fossero messe male, sarebbe sparito in un attimo. Quando i carabinieri furono di nuovo in grado di avanzare loro già camminavano a passo spedito verso Piazza Principe, con il ragazzo allampanato a trottargli dietro bestemmiando a mezza voce. Poco prima della piazza all’improvviso girarono a sinistra nel budello di Salita San Paolo. Passarono una serie di negozietti polverosi e friggitorie da quattro soldi continuando a guardarsi indietro ma dei carabinieri non videro traccia, e quando raggiunsero via di Prè tirarono un sospiro di sollievo.
A quel passo in una ventina di minuti si ritrovarono al porto.

“Qui vi lascio”, fece Giovanni di punto in bianco, arrestandosi sul posto.
Il ragazzo, che era rimasto due o tre passi alle loro spalle, gli si affiancò e disse: “‘’sto stronzo deve stare più attento. Parla solo ostrogoto, bagascia puttana, e ora ci dobbiamo pure prendere il tram. Digli di stare attento e di non mettersi in mostra se vuole imbarcarsi”
“Va bene, buona fortuna”
“Macché, la fortuna non esiste”
“Sei vecchio per la tua età. Lo sai?”
“Ho visto tutto quello che c’è da vedere”
“Forse hai ragione”
“Che mi resta?! Tu me lo sai dire che mi resta?”
“Cosa vuoi che ne sappia”
“Cazzo, che dovrei fare?!”
“Qui ci sono un sacco di navi”
“Sì, vabbé, le navi...”
“C’è n’è un sacco, per dove cazzo vuoi. Pensaci”
Il ragazzo scosse il capo: “me la dai tu la grana? A me il Monsignore non me la dà mica tutta quella che ci vuole, e poi non voglio andarmene. Voglio starmene qui, è casa mia questa”
“Allora smettila di lamentarti”
“E chi si lamenta? Con questi qua va tutto benissimo, spero solo che continua”. Poi aggiunse: “andiamo dottore”, e disse quella parola con un tono che suonò vagamente sarcastico. Il dottore sgranò gli occhi, poi rivolse lo sguardo sull’uomo. Il sudore gl’imperlava la fronte bianchiccia.
“Manca poco”, fece lui. Il dottore annuì anche se era chiaro che non aveva capito. L’uomo ripeté le stesse parole per la seconda volta, e il tipo disse crazie.
“Tu vai con lui”, aggiunse, scandendo bene ogni sillaba e indicando prima il ragazzo, poi la città arrampicata alle spalle del porto.
“Sei al sicuro”, disse stringendogli l’avambraccio con una mano. Il tipo guardò la mano per qualche secondo, poi ritrasse il braccio e ripeté il crazie.
Il ragazzo e il dottore si allontanarono subito dopo, fianco a fianco, a passo spedito, senza mai guardarsi indietro. L’uomo rimase fermo dove si erano lasciati, continuando a fissarli fino a che non sparirono fra la folla diretta alla fermata del filobus.

Giovanni si guardò intorno, senza più un pensiero in testa. Poi fissò il quadrante dell’orologio. Avrebbe avuto tutto il tempo di ritornare alla stazione per prendere il diretto delle sedici e trenta. Ma era stanco, e non ne aveva alcuna voglia. Oramai s’era messo in testa di rimanersene lì e di passarci la notte. Alla faccia di chi mi vuole male, pensò.
Conosceva una trattoria a buon mercato da quelle parti, dove avrebbe potuto mangiarsi una frittura di pesciolini. Pesce azzurro. Roba da poco. Ma pesce comunque a casa non ne vedeva mai, neppure da lontano, e l’idea lo allettava. Quel sapore gli ricordava la Grecia. Lì c’era stato bene. Bene davvero. Nonostante le schioppettate a casaccio, che ogni tanto qualcuno ci restava secco. Nonostante la lontananza. Poi era cambiato tutto, e lui se l’era vista brutta, brutta davvero in mezzo a tutto quel fango, e poi il cambio di fronte e la neve. Distese infinite. Mai vista tanta neve tutta insieme in vita sua. S’era ripromesso di non vederla più, quella cosa orrenda, così bianca e gelida, e aveva preso a odiarlo quel colore. Il bianco. Il non colore. Mai più, s’era detto. Mai più.

Con calma, decise di raggiungere una delle signorine che praticavano il mestiere intorno al porto, piene di scolo e sifilide fino alla punta dei capelli, ma con un condom non ce n’era di problemi. Così, svuotato per bene e con la pancia piena, avrebbe fatto una nanna tranquilla, pacifico con sé e con il mondo. Anche se in mutande e canottiera.

L’uomo camminò per i carruggi per una decina di minuti senza incrociare nessuna delle ragazze che stava cercando. Solo quando aveva deciso di lasciar perdere gli si affiancò una tipa. Doveva avere passato la quarantina, e non si poteva certo dire che fosse bella. Anzi. Un donnone, privo di grazia. Capelli tinti malamente, biondo platino. Probabilmente a poche lire, quello sì. E lui di soldi da spendere non ce ne aveva mica tanti.

“Ciao bello, andiamo?”
Lui si fermò e scosse il capo, “non ne ho tanti”, disse.
“Ti tira?”
“Quello sì. Sempre”
“Allora ‘sta tranquillo che ti faccio godere. E anche risparmiare”
“Quanto?”
“Non mi devi nemmeno pagare la camera. Tutto compreso”
“Perché?”
“È casa mia. Anche doppia, se riesci a fartelo rizzare veloce. La seconda l’offro io”
“Dove?”
“Qui dietro”
“Dov’è? Fammi vedere”
“Venti metri”, dietro quell’angolo, rispose lei indicando il fondo incerto del carruggio.
“Ce li hai i condom?”
“Certo”
“Andiamo”, fece allora lui.

“È piccolo ma ci sto bene. Casa e chiesa. Mettiti comodo”, disse lei entrando nella stanza buia, con la porta direttamente sulla strada e senza finestre.
“Fa’ come se fossi a casa tua”
L’aria era quasi irrespirabile. Il caldo insopportabile. Tutto sapeva d’ammuffito e di una vaga puzza di merda.
“Dovresti cambiare un po’ l’aria. Non si respira qui dentro”
“Mica c’è da respirare quando si scopa”
“Sarà…”
“Non sarai mica marinaio?”
“No”
“Quelli vogliono l’aria pura. E poi si fanno pugnette fra loro, quei porci”
“Non hanno torto, per l’aria, dico. Il resto non so”
“Dai spogliati. Vuoi che t’aiuti?”
Lui scosse il capo, “no grazie”, disse mentre iniziava a sbottonarsi la camicia. Lei si sedette sul bordo del letto e si aprì la camicetta fino all’altezza dell’ombelico.
“Non te la levi?” fece lui.
“Meglio non perdere tempo”, rispose lei tirando il grosso seno flaccido fuori dal reggiseno.
“Guarda qui ‘sto ben di dio…non te lo fa rizzare?” e mentre diceva quelle parole si sollevò la gonna alle anche, e si sfilò le mutande.
“Dai vienimi sopra bello, fammi sentire cos’hai fra le gambe”
“Lui si sfilò i pantaloni. Dammi un condom”, disse.
“Ecco”, fece lei allungandosi verso il comodino. “Prendi”, disse lanciandoglielo.
“Se non sei marinaio che ci fai qui?”
“Affari miei”, rispose lui, interrompendo a mezzo di levarsi i pantaloni.
“Va bene, va bene, fece lei. Sei un tipino permaloso? Ma anch’io mi faccio gli affari miei. Che cazzo vuoi che me ne frega?!”
“No. È che non mi piace rispondere alle domande”
La donna annuì e si stese sul letto. “Guarda qui”, disse mentre apriva le gambe.
Lui finì di levarsi i pantaloni e si avvicinò al letto. In piedi, davanti alla donna, s’infilò il condom, poi si distese su di lei.
“È bello grosso”, disse lei ridendo. “Dai muoviti, fammi godere”
Lui annuì, ma distolse subito lo sguardo dalla faccia lucida e dall’alito mortifero di lei. Iniziò a muovere il bacino piano, avanti e indietro, ma non sentiva un gran che. Si guardò intorno. La stanza era spoglia: un comò, il comodino e un piccolo armadio. Tutta roba vecchia e sgangherata, raccattata chissà dove. Sul fondo una tenda a fiori nascondeva il lavandino e il bidet. Si domandò se se il cesso fosse lì dentro o altrove. Lei continuava a blaterare. Pensava che l’avrebbe eccitato di più dicendogli un po’ di porcherie, e che così sarebbe finita prima. Lui però non l’ascoltava, e non riusciva neppure a guardarla in faccia. Iniziò a darle colpi con forza.
“Cazzo se sei duro! Muoviti dai! più forte!”
Lui non disse nulla, e continuò a darle colpi e a guardarsi in giro. Altri particolari: qualche foto sul comò, una gonna e un paio di scarpe abbandonati in un angolo. Una delle foto: un uomo in divisa, preso di trequarti. Esercito. Un posacenere pieno di mozziconi, per terra, accanto al letto. Un paio di calze rotte di nylon. Un crocefisso appeso sopra il letto. Altra foto: una ragazza che sembrava avere una vaga somiglianza con la donna che stava stesa a gambe aperte sotto di lui. Sorridevano. Altre persone. Cazzo, altri tempi! 

Poi tutto accelerò all’improvviso e lui si scaricò dentro di lei.

“Ti è piaciuto?”
“Sì”
“Se ricapiti da queste parti sai dove trovarmi”
“Chi è il tipo della foto?”
Lei fece una smorfia, ma non rispose.
“Bel marinaio, ti è piaciuta la scopata?”
“Sì. Chi è il tipo della foto?”
“E a te che cazzo te ne frega?!”
“Sei sposata?”
“Sei un figlio di troia. Non rompermi i coglioni!”
Lui si sollevò dal letto, si levò il condom e si tirò su i pantaloni: “ti spacco la faccia”, disse, senza modificare il tono della voce, calmo.
Lei capì subito che il tipo faceva sul serio. Dallo sguardo. Quella donna era convinta che gli sguardi non ingannano. Mai. E lo sguardo di quel tipo le diceva che l’avrebbe ammazzata, senza pensarci due volte, e senza un rimorso. Si sbagliava: lui era nauseato da tutta quella merda. Da tutta la merda che aveva dovuto ingoiare in quegl’anni, al fronte e a casa. Non le avrebbe torto un capello. Ma sapeva essere credibile, quando minacciava.
“Cazzo, ‘sta calmo. È che non mi piace parlarne”, balbettò lei mettendosi a sedere sul letto. Sentiva le mani tremare e il cuore correre nel torace tagliandole il respiro. Scosse il capo e, in un soprassalto di timidezza, si chiuse la camicetta con una mano. “Dove ho messo le mutande?!” fece guardandosi in giro. Sembrava confusa.
“Quando faccio una domanda mi devi rispondere. Chiaro?!” disse lui avvicinandosi con la bocca alla faccia di lei.
“Sì, cazzo, sì. Ma ‘sta calmo. Lavoro e basta, e non rompo i coglioni a nessuno”
“Allora rispondi, e me ne vado”
“Lui è partito e non è più tornato”
“Chi cazzo è?!”
“Mio marito”
“Dove?”
“Non so, da qualche parte”
“Da qualche parte, dove?”
“Che importa?! A est”
“Importa”
“Perché?!”
“Potrei essere io”
“Tu sei qui”
“No”
“Sì, ci sei. Ho anche sentito il tuo cazzo”
“Magari è ancora vivo”
“Ma va là, da quei posti sono tornati in pochi”, disse la donna contraendo la faccia per non piangere.
“Ti hanno mandato il telegramma?”
“No. Dicono che non se ne sa più nulla. Giù al distretto. Dicono così, giù al distretto”
“Al distretto non sanno mai un cazzo”
“Hanno detto diserzione”
“C’è gente che ancora torna. Sempre. Ce n’è sempre”
“Quando si sparisce così, no, non si torna”
“L’ho letto sul giornale: c’è n’è ancora che torna”
“Che cazzo dici?!”
“Ho sentito di gente che ha svernato in isbe calde e accoglienti, nella steppa, serviti e riveriti come pascià. Sono tornati più grassi di quando sono partiti”
“Sei sciroccato. Cazzo se lo sei…”
“Potrebbe tornare…perdio!”
“Lui no. Non tornerà. Da certi posti non si torna”
“Lo spero, cazzo. Grassi e felici. Che tornino così…perdio”
“Sei proprio matto”

Il viaggio di ritorno fu nettamente più breve di quello dell’andata. Si svegliò giusto all’alba. Si alzò e aprì la finestra. Era un abbaino, e dava sui tetti della città. In lontananza si riusciva ad intravvedere il mare. Appena uno spicchio, grigiastro e piatto, fra le gru arrugginite dei cantieri navali. Nei vicoli s’iniziava a sentire movimento. Rimase lì, in canottiera a guardare il sole sorgere sul golfo. Un altro giorno greve d’umidità, macaia, si dice da quelle parti. Due colombi tubavano sulle tegole a mezzo metro. Lui tossì e loro si alzarono in volo, planando verso i tetti un poco più in basso. Rientrò nella stanza che il sole era già visibile nel cielo, verso la Toscana, nella foschia, e si diresse al lavandino. Si sciacquò la faccia e le ascelle. Di sapone non ce n’era. Poi uscì nel corridoio e raggiunse il cesso. Non c’era ancora nessuno, anche se dietro alle porte delle stanze si sentiva qualche rumore. Urinò. Rientrò nella stanza e si lavò l’uccello. Poi si rivestì. Ripercorse il corridoio ancora buio verso l’uscita. Ora c’era un tizio in mutande, senza neppure la canottiera, che aspettava davanti alla porta chiusa del bagno. Saltellava sul posto come chi non è più in grado di trattenersi e rischia di farsela addosso. Quando l’uomo gli passò accanto si fermò, lo squadrò da capo a piedi per un attimo, e riprese a saltellare.

Il tipo della pensione se ne stava su una sedia davanti alla porta della cucina, vicino all’ingresso.
“Che camera?”, disse, inclinando la sedia all’indietro.
“Quella in fondo”, rispose l’uomo indicando una porta in fondo al corridoio.
“Allora è la tre”
“Già, la tre. Quella”
“Dormito bene?”
“Tranquillo. A parte il tizio nella stanza accanto che russava come un trombone”
“Capita. Comunque sei riuscito a dormire un po’?”
“Sì, un po’ sì”
“Vai?”
“Sì. Ho pagato ieri sera alla ragazza”, fece lui.
“Mia moglie”
“Bella. Complimenti”
“Lo so. Bella e brava”
“Come fai a lasciarla sola qui dentro?”
“E perché non dovrei?”
“È giovane. Troppo”
“Sì, lo è. Ma non si è mai troppo giovani. È una qualità che non è mai troppa. Te lo dice uno che ha superato i cinquanta da un pezzo. Capisci?”
“Certo. Comunque una ragazza come lei potrebbe fare gola a molti, qui dentro”
“Vuoi un caffè? È sul fuoco”
L’acqua iniziò a gorgogliare in quell’istante, e il profumo del caffè si spanse nella cucina e nell’ingresso.
“Quanto?”
“Niente. Omaggio della ditta”
“Perché? Il caffè costa”
“Mi sembri un bravo cristo”
“Davvero?”
“Sì, davvero. Di solito non sbaglio”
“Sei gentile”
“Di questi tempi è raro, trovare un bravo cristo, sai?”
“Be’, non lo so se lo sono poi così bravo”
“Non importa. A me sembra così. Basta”
“Grazie”, fece l’uomo quando il tipo gli passò la tazzina.
“È che non siamo mica tutti uguali”, aggiunse il tipo. “Sono generoso con chi se lo merita”
“E chi se lo merita?”
“E chennesò!”
“Come, non lo sai?!”
“No che non lo so. Vedo. Di volta in volta. Guardo in faccia e decido. È così che faccio. Decido dopo che ho guardato bene la faccia. Gli occhi si devono incontrare, poi posso dire: a te il caffè sì, a te no. È così che va. Decido io. Mica sono tutti uguali, per me”
“Auguri, è difficile”
“Non sbaglio, sai”
“Ne sei proprio convinto?”
“Certo che lo sono”
“Lascio mia moglie da sola, qui, in mezzo a ‘sti ceffi. Lei lo sa. Lei mica la dà via al primo che passa”
“Sei convinto di un sacco di cose”
“Se sbagliassi lei sa che le sparerei, e poi mi sparerei. Non varrebbe un cazzo la vita”
“Ti auguro una bella vecchiaia, davvero”
“Sono tranquillo, credimi”
“Buon per te”
“Lo sapevo che sei un bravo ragazzo”
“Buono il caffè”, fece allora Giovanni, rigirando il fondo del caffè prima di finirlo.
“Grazie”
“Tieni la tazzina”
“Sì, dammela qui che la lavo. Devo dare un’occhiata ai prossimi che usciranno”
L’uomo annuì. “Ci vediamo”, disse mentre apriva la porta.
“Ci vediamo”, rispose il tipo.
   
Giovanni scese in Centrale che era quasi ora di pranzo. Non aveva fame però, e voleva sbrigare la faccenda dei soldi rapidamente. È meglio non perdere tempo quando c’è da intascare, pensava, e quello era un santo principio a cui cercava di attenersi sempre. Di quei tempi un’entrata fissa, e oltretutto di una certa consistenza, era una bella fortuna per uno come lui, tornato in città dopo sei anni d’assenza, senza arte ne parte. Senza conoscenze che contano, senza veri amici a parte il Monsignore. E poi quel lavoro era facile, davvero nessun rischio.
Scese lo scalone di marmo quasi di corsa, e si fermò nell’ingresso. Faceva caldo. Pensò per un attimo se prendere il tram o farsela a piedi, poi optò per il tram. S’incamminò a passo svelto verso il capolinea che era sulla sinistra nella piazza, dando le spalle alla stazione.
Attese sulla banchina sotto il sole a picco, mentre i pochi altri viaggiatori in attesa si erano messi all’ombra, sotto i platani, dietro alla fermata. Alcuni di loro dovevano provenire dal suo stesso treno, ed erano carichi di bagagli. C’era silenzio. Il caldo si fece opprimente.

Quando scese in piazza Fontana era passata l’una. Si domandò se il Monsignore l’avrebbe ricevuto. A quell’ora forse stava pranzando o riposando, e di sicuro non avrebbe interrotto per lui. Non aveva voglia di fare anticamera, ma decise di rischiare. Attraversò la piazza e si diresse in arcivescovado. La fontana era spenta. Un bel po’ di piccioni facevano il bagno nell’acqua stagnante spruzzandola da tutte le parti. Il cemento intorno era viscido d’acqua e di guano. L’uomo sollevò lo sguardo e vide le guglie del Duomo, protese verso il cielo caliginoso. L’immagine era attraversata dai cavi della corrente su cui altre decine di piccioni se ne stavano fermi in attesa del proprio turno per tuffarsi nella fontana. Di tanto in tanto ne partiva uno che sostituiva quello che se n’era appena andato. L’uomo girò al largo. L’abito non era un gran che, ma una cacata di piccione non l’avrebbe migliorato di certo. Si diresse verso il portone principale ed entrò.

La sala d’attesa era al secondo piano. A quell’ora era vuota. Nessuno dei soliti postulanti che aveva visto in altre occasioni. Poveracci ma anche gente in cravatta e doppiopetto. Tutti ad attendere il Monsignore per qualcosa. Cose importanti, si sarebbe detto dall’apprensione su quelle facce. A lui non l’avevano mai fatto aspettare. Era passato davanti a tutti, introdotto in una saletta più interna, come uno importante. I viaggi lo erano importanti, si vede.
C’era sempre un bel silenzio là dentro. Quiete e raccoglimento. Era proprio così che s’era immaginato i luoghi religiosi prima di conoscerli. Un po’ diverso dalla sala d’attesa, pochi metri più in là, dove la gente pensava a tutto fuorché alla religione. Eppure. Eppure il Monsignore non sembrava soffrirne: era come se nulla potesse turbarlo, farlo precipitare nella disperazione quotidiana. Ne era immune, si vede.

Non aspettò più di cinque minuti. Ma la figura che gli si materializzò davanti non era quella del Monsignore. Giovanni rimase in piedi a bocca aperta, sorpreso da quell’arrivo. Una figura smilza che aveva già visto accanto al Monsignore. Il prete era piuttosto giovane, altissimo e lievemente curvo, aveva guance rosee da montanaro, capelli chiari e lisci appiccicati al cranio con la scriminatura di lato. La tonaca, troppo corta, era stazzonata e aperta sul collo. Nelle altre occasioni in cui l’aveva visto gli era sembrato più ordinato. Ma quello era un giorno di caldo eccezionale.
“Buongiorno”, disse il prete aprendosi in un largo sorriso infantile.
“Il Monsignore?” fece l’uomo senza darsi pena di mascherare il suo disappunto.
“Sono il suo segretario particolare. È come se fossi lui”
“Non è lui, però”
“Mi ha detto che dobbiamo solo regolare un piccolo conto”, fece il prete tirando fuori il portafogli da sotto la tonaca.
“Vorrei parlargli, a dire il vero”
“È andata bene?”
“Sì, tutto bene. È che…insomma, mi ha sempre detto che se volevo potevo parlargli in qualsiasi momento”
“Può dire a me. C’è stato qualche inconveniente?”
“No, tutto a posto”
“Abbiamo sentito il padre di San Teodoro. C’ha detto che il dottore è arrivato sano e salvo. Ora attende solo l’imbarco”
“Vede? Nessun problema”
“Benissimo”
“Be’, pensavo che mi piacerebbe comunque parlare un po’ con il Monsignore”
“Gliel’ho detto non…”
“Ho capito, padre. Ma vorrei proprio parlargli. Posso aspettare”
Il giovane prete sembrò incerto sul da farsi, poi disse: “di che si tratta? Almeno questo dovrei saperlo. Altrimenti non posso…”
“Può dire al Monsignore che devo parlargli di certe cose. Certe cose che sono successe”
“Cioè?”
“Insomma, cose che forse è meglio che sappia lui. Lui solo”
Il prete annuì e risistemò il portafogli sotto la tonaca. Quando fu sulla porta, in fondo alla stanza, quella da cui era arrivato, si voltò di scatto e disse: “se si tratta di soldi, sono autorizzato a trattare”
L’uomo lo fissò per un attimo con gli occhi appannati di un ubriaco, poi distolse lo sguardo e lo diresse verso un grande crocefisso ligneo, sul lato opposto a dove sostava il prete.
“Bello”, disse.
Il prete si girò verso il crocefisso, “già, è bellissimo”, disse. “È del seicento, ed è appeso a quel muro da tutto questo tempo. È passato attraverso la peste e chissà cos’altro”
“Non si tratta di soldi”, disse l’uomo.
“Lo immaginavo”, rispose il prete prima di sparire dietro alla porta.  

L’uomo attese circa due ore in quella stanza, in un silenzio quasi assoluto. L’unica finestra si affacciava su un cortile interno, lungo e stretto, con al centro una aiuola ben curata e una piccola fontana. Camminò avanti e indietro pensando a come affrontare l’argomento, poi si sedette in una delle poltroncine allineate alla parete opposta al crocefisso.
A un certo punto sentì gli occhi farsi pesanti. I pensieri si fecero lenti, labirintici, poi sopravvennero immagini del giorno prima, in rapida successione, insensate. Ma lui non voleva dormire, voleva solo ricordarsi la faccia di quell’uomo, del tipo che gli avevano detto di chiamare dottore. Non ci riuscì. Era come se potesse vedere tutto con chiarezza, ogni luogo, ogni volto, meno quello. Vederlo, pensò, era fondamentale. Non sapeva per quale motivo, ma lo era. E quello gli sfuggiva. Gli sfuggiva tanto più quanto più lui s’applicava nel tentativo di ricordarlo. Si sentì cadere in avanti e, nello stesso istante, ebbe l’impressione che la porta si stesse aprendo. Tirò su la testa di scatto e aprì gli occhi. In fondo alla stanza era ricomparso il giovane prete con la faccia da montanaro, e gli faceva segno di seguirlo. Lo vedeva incredibilmente distante, molto oltre la reale dimensione della stanza, e ogni movimento gli sembrò di una lentezza esasperante. Fu allora che si alzò, e come un automa lo seguì oltre la porta.

Camminarono lungo un corridoio privo di finestre, attraversarono altre stanze vuote fino ad un’altra porta. Il prete bussò, e senza attendere una risposta la aprì. Si mise di lato e fece passare l’uomo che iniziava in quel momento a riprendersi dal breve sonno che l’aveva scombussolato.
Era uno studio non troppo grande e piuttosto luminoso, arredato con mobili scuri e massicci. C’era un odore stantio che gli ricordò quello delle sacrestie, di cera e incenso e di libri ammuffiti. In fondo rassicurante. Gli ricordò per un istante l’infanzia e, chissà perché, suo padre. Tutto andato, perso da qualche parte. Per sempre.
Il Monsignore stava dietro ad una grande scrivania vuota con l’eccezione di un grosso libro, aperto circa a metà, e di alcuni fogli su cui stava scrivendo qualcosa. Il pavimento di legno scricchiolò. Fu allora che il Monsignore sollevò lo sguardo miope verso l’uomo che nel frattempo aveva raggiunto il centro della stanza. Per un attimo sembrò sorpreso, ma poi si aprì in un sorriso. Il sorriso che non lo abbandonava mai. Il Monsignore era un uomo pio. Lo era, senza alcun dubbio.
A giudicare dai rumori attutiti che provenivano da fuori, lo studio doveva essere affacciato sulla piazza. I vetri iniziarono a vibrare per il passaggio di un tram.
“Scusa Giovanni”, disse il Monsignore porgendo la mano inanellata che l’uomo baciò.
“Scusa l’attesa, ma come vedi oggi sono preso. Non sapevo che volessi parlarmi. Accomodati”, fece indicandogli la poltroncina di fronte alla scrivania.
“Mi spiace importunarla. So quanto è occupato”
“Caro Giovanni, non ti preoccupare. Come sta tua madre?”
“È alla Baggina”
“Da quando?”
“Un paio di mesi. Non si reggeva più in piedi, e la testa, be’, non ci sta più molto da quando mio fratello…È così dal giorno del telegramma”
“Mi spiace, Giovanni. Cercherò di andare a trovarla”
“Grazie, padre. Avrei voluto tenerla a casa, ma non posso starle dietro”
“Lei è una brava donna”
“…”
“Hai bisogno di qualcosa per la mamma?”
“No, non è quello, padre, è…non so, è difficile da spiegare”
“Lo so, Giovanni, lo so. Ogni percorso lo è ”
“Non credo padre che lei sappia, e io non so come dirglielo, ma riguarda il lavoro”
“Il lavoro?”
“Sì. I viaggi, padre”
“Be’, caro Giovanni, mi sembra che siano molto ben pagati”
“Padre, lo sono. Non è questo che le volevo dire. Non questo”
“E cosa, allora?”
“Be’, è che l’ultimo, il tizio che ho accompagnato ieri, l’ho guardato bene”
“Giovanni, il viaggio non è breve, e di solito non c’è nulla da fare…”
“È che…non so, all’improvviso ho sentito che c’era qualcosa di strano in lui che non mi piaceva”
“Si possono fare tanti pensieri…quando non c’è nulla da fare”
“Qualcosa che mi fatto stare male”
“Forse devi riposare un po’”
“Padre, mi sono sentito svuotato. Ho avuto paura. Come se mi fossi trovato all’improvviso sull’orlo di un precipizio”
“In fondo sei tornato da così poco, e dopo tutto quello che hai passato è normale sentirsi esaurito”
“È stato orribile. Il vuoto, padre, il vuoto sotto di me. E ora è come se non avessi più forza di fare nulla. Come se nulla ha più senso”
“Giovanni, ogni cosa su questa terra ha un senso”
“Padre, è così. Basta poco, un piede messo male e…la fine”
“Non c’è fine, ricorda. Per un buon cristiano non c’è fine”
“Ho letto certe cose, di recente, sul giornale, padre. Orribili. Non volevo crederci, ma poi ho guardato quell’uomo, e tutto è stato chiaro, ogni parola che leggevo…ho capito. Capisce, padre?! E ora mi domando cosa sto facendo. Cosa stiamo facendo?!”
Il Monsignore non disse nulla, ma lasciò la penna, parallela ai fogli su cui stava scrivendo. Sospirò e girò intorno alla scrivania avvicinandosi a Giovanni.
“Vedi Giovanni, posso capire. Capisco ogni tua parola, ma non c’è nulla di sbagliato in quello che fai”
“Padre, ho letto i giornali! Come possiamo fare quello che facciamo?! Li salviamo, quelli”
“È così”
“Allora è vero, li salviamo”, ripeté abbassando il tono all’improvviso.
Il Monsignore si avvicinò a Giovanni e sorrise, “sei un brav’uomo e un buon cristiano, ma vedi, il Signore ha un disegno che non sempre siamo in grado di capire, e ci obbliga ad un compito, un compito gravoso ma importantissimo”
Il Monsignore prese Giovanni per un braccio e lo trascinò dolcemente verso la finestra che spalancò. Una luce chiara inondò la stanza. La piazza sotto di loro brulicava di gente. Dovevano essere in larga parte impiegati che si avviavano verso il capolinea del tram. Da lì sarebbero rientrati nelle loro case della periferia. Un mucchio di gente.
Il Monsignore appoggiò una mano contro la schiena dell’uomo come se quel gesto potesse aiutarlo a vedere meglio.
“Guarda, Giovanni. Guarda tutta questa gente. Sei in grado di vederla? Intendo, vederla per com’è davvero? Ognuno di loro? Com’è realmente? Sono tutti uguali, Giovanni, agli occhi di Dio lo sono. Ma ognuno vive. Vive. Magari qualcuno potrebbe avere ammazzato oppure rubato, maltrattato i propri figli o i propri genitori, bestemmiato il Signore. Chi siamo noi per giudicare? Giovanni, credi che possa fare differenza agli occhi di Dio? Sono pecore. Né più né meno. Guardali bene, Giovanni, da qui in alto sono piccoli. Piccoli, Giovanni, indistinguibili l’uno dall’altro. Greggi di pecore. Vanno riportati sani e salvi all’ovile. Ogni sera. Ogni sera che il Signore ci dona. E noi siamo i pastori. Tu sei il pastore, Giovanni. Questo è il nostro dovere, giorno dopo giorno. Può essere dura, ma il pastore sa qual è il suo compito, non può sbagliare. Deve riportare le proprie pecore al sicuro, costi quel che costi. E le pecore riconosceranno il proprio pastore, sapranno quale è la via della salvezza. Lo sapranno, Giovanni. Lo sapranno. Le pecore riconoscono sempre la voce del loro pastore. È questo l’importante”
Giovanni rimase in silenzio, lo sguardo fisso sulla piazza gremita. Poi, lentamente si voltò verso il Monsignore e disse: “Padre, perdoni, posso chiederle un’ultima cosa?”
Il Monsignore annuì. Annuì un’altra volta e sorrise senza dire nulla.
“Padre, lei l’offrirebbe un caffè a quell’uomo?”  

Quando Giovanni si trovò nuovamente nella piazza buona parte di tutta quella gente, tutta la gente che aveva visto ordinatamente avviarsi ai tram, diretta in periferia, era sparita.
Si guardò intorno. Un tram era fermo al capolinea con le portiere spalancate. Il tranviere se ne stava a fumare lì accanto. I loro sguardi s’incrociarono per un attimo, poi il tipo diede un’occhiata all’orologio della piazza, scosse il capo, aspirò un’ultima lunga boccata di fumo e gettò la sigaretta in un tombino avviandosi al posto di guida. Giovanni gli passò accanto ma decise di non salire, e senza fretta s’incamminò verso casa. Passò sotto la statua del Beccaria e girò in Vittorio Emanuele che percorse fino a San Babila. Attraversò la piazza e prese corso Venezia. Abitava in fondo, in viale Monza, oltre Loreto, il piazzale dove avevano appeso quello là.
Camminava piano senza guardarsi intorno, senza curiosità, preso dalle parole del Monsignore che gli rimbombavano ancora nelle orecchie. Avrebbe potuto essere ovunque. Milano o Genova o qualsiasi altro posto non faceva alcuna differenza.
Arrivò all’altezza dei Giardini Pubblici in una decina di minuti. Quando intravide sul fondo i caselli di Porta Venezia, sgraziati e neri di smog, attraversò la strada e s’infilò nel parco. Si sentiva accaldato, e aveva la camicia appiccicata alla pelle sudata. L’aria lì dentro doveva essere più fresca. Attraversò il cancello. Incrociò alcune coppiette che camminavano mano nella mano o tenendosi abbracciati. Passò accanto al massiccio edificio del Museo, a quell’ora sbarrato. Quei ragazzi sorridevano. Nonostante tutto. Nonostante tutto sorridevano, e lui poco a poco riprese a respirare liberamente. Sentì la ghiaia scricchiolargli sotto le scarpe, trovando quel rumore familiare, e quasi piacevole. Dato che era assetato si fermò ad una fontanella a bere. L’acqua era fresca ed era delizioso sentirla fluire nella bocca riarsa, e scendere giù, attraverso l’esofago, fino allo stomaco, e quella in eccesso fuoriuscire dalla bocca come in un rigurgito, bagnandogli il mento e il collo e la camicia. Mentre beveva sentì il richiamo di un merlo sulla sua testa. Uno di quei grossi merli cittadini. Sollevò gli occhi in alto: fra il fogliame intuì il cielo che ora, con l’avanzare del pomeriggio, s’era fatto azzurro, diverso dal bianco perlaceo delle ore più calde. Per un attimo pensò a quanto fosse bello essere lì, nella frescura del parco, fra le coppie d’innamorati, in quel pomeriggio d’estate, con l’acqua che gli bagnava il mento e la camicia sul petto sudato.
Quel pensiero durò poco. Mentre riprendeva il cammino sentì alle spalle una voce che lo chiamava. La voce rauca di un ubriaco: “amico!” diceva, “dammi qualcosa amico. Vedi che muoio di fame?” 
Giovanni continuò a camminare senza voltarsi. Tirò fuori il fazzoletto e si asciugò la bocca e il collo. Ma quello continuò: “amico! ehi, amico, fermati e dammi qualcosa. Ne ho bisogno per mangiare. Fermati amico, ho combattuto per questo maledetto paese, porca puttana, e ora guarda come sono conciato. Tu sei fortunato. M’hanno abbandonato tutti. Dammi qualcosa, tu che sei fortunato” 
Giovanni si fermò e si voltò verso l’uomo che nel frattempo l’aveva raggiunto e lo fissava con occhi spiritati.
“Fortunato?!” disse lui.
“Già, amico, tu si vede…si vede che c’hai il vento in poppa, mica come me che ormai sono un relitto umano. Amico, mi hai guardato?”
Giovanni lo fissò per qualche istante, ed era come se all’improvviso si svegliasse da un lungo sonno.
“Hai ragione”, disse, “ho il vento in poppa”, e infilò una mano nella tasca della giacca. Il rotolo di banconote era lì, dove l’aveva messo dopo che il giovane prete gliel’aveva consegnato appena fuori dallo studio del Monsignore. Lo afferrò e lo tenne stretto, poi lo estrasse dalla tasca e lo appoggiò sulla mano tesa del barbone. Questi spalancò gli occhi e alternando lo sguardo fra le banconote e la sua faccia, balbettò qualche parola incomprensibile.
“Prendili”, disse Giovanni in quel momento.
“Amico, sei impazzito?! Non li avrai mica rubati?”
“No, prendili. Dai prendili, non avere paura”

L’uomo, il tipo che si chiamava Giovanni, disse proprio così. E prima che il mendicante potesse replicare si allontanò. Si allontanò verso la periferia, oltre il parco, oltre il corso, oltre piazzale dove c’avevano impiccato dei morti, senza più guardarsi indietro.  

7 commenti:

Unknown ha detto...

Caro Flavio, purtroppo non sono Dürrenmatt e non sono nemmeno Böll, ma tu lo sei eccome, eccome se lo sei!..hai una fortissima capacità di denuncia e scegli continuamente la tua strada per farlo su diversi linguaggi, poetici, teatrali e in questo addirittura aggiungi anche quelli cinematografici.

Per fortuna non avevo soffermato il mio sguardo sull'immagine prima del testo, la nazi-curia, così che il miracolo della "visione" lettura fosse senza alcun condizionamento d'immagine. Infatti per un po' sono stata nel " mistero" .... "La leggenda del santo viaggiatore" che sei stato così capace di scandire, ha unito la lentezza alla rapidità, di un andata e ritorno fra due mondi apparentemente distinti, mentre uno è dentro l'altro e per giunta ci tocca pure la morale dello pseudo-pastore.
Fra l'altro, sempre all'inzio(fino a poco prima del momento in cui Giovanni lasci gli altri due), questo doppio nel doppio, è stato fortissimo , così tanto che non so se da te voluto, o se causa un mio eccessivo assorbimento, non riuscivo più a distinguere i protagonisti l'uno dall'altro. Chi portava e chi era portato, chi scappava e chi rimaneva. Questa cosa è stata magica per il crescendo della trama sulla sua capacità di denuncia e poi, l'incastro finale, a quello pre inziale " è mai possibile che non mi lasci
agire…"
....

Mi auguro veramente che questo tuo racconto sulla ripetizione infinita della "Storia" tutta(fra cui quella del periodo storico,e spazi in cui hai scavato i tuoi personaggi, relitti e deh-relitti) sia preso da Olmi o simili per farne ancora un altro segreto, un altro villaggio o un'altra leggenda.

ciao e ggggrazie.. .

Anonimo ha detto...

Ciao Rò...grazie davvero per la tua lettura e le tue parole. Credo che il primo obiettivo di chi scrive sia quello di lasciare un segno, incidere la carne del proprio lettore, marchiarla a fuoco. Da lettore è quello che cerco. A volte succede. E' tutto qui il senso.
Flavio

Unknown ha detto...

ciao Flavio, si, in una parola o quattro, "carnalità poetica", "nudismo anima.le"..con questo suono "carne" sei stato stereofonico e polifonico, a una "nota incisa" qualche pelle-riga/commento fa, quando di getto cercavo di esprimere come vivere il flusso scritto dei propri "racconti" come plasma, materia, della propria carne ma che poi come per i figli rende loro..la vita p.rende e vive nella loro, altre vite, gli "altri" , tutti, autori o lettori..pertanto l'incisione a fuoco nel metallo, nel legno e nell'acqua che hai descritto ha tutti insieme i ped.ali e le canne del "sé(n)so".

Anonimo ha detto...

...
incidere dovrei, piuttosto,
le mie parole
ma non sul levigato marmo,
freddo e bianco, sepolcrale:

graffiare col mio sgomento la nuda pelle,
la polvere impastare nel mio sudore...
...

Ciao!
F

Unknown ha detto...

..dai venti a mille e più spine e più eventi accidenti incidere impastando frontali, incidenti io che divento pulviscolonoi.

ciao!
r
ps gggggrazie!!

Anonimo ha detto...

Caro Flavio,
il tuo racconto cosi ben scritto, mi ha lasciata emozionata e molto ben disposta a leggerne altri, spero presto. Grazie . Emy

Anonimo ha detto...

Cara Emy, grazie a te per la lettura.
Ciao
F