venerdì 21 settembre 2012

Giorgio Linguaglossa
Su "Con l'inchiostro rosso"
di Giuseppina di Leo



Giuseppina Di Leo Con l’inchiostro rosso  Sentieri meridiani, Cosenza, 2012

Se c’è una tendenza in atto nella poesia contemporanea questa è senz’altro la tendenza ad allungare il verso oltre i limiti anticamente stabiliti dal verso libero; voglio dire che il verso della poesia recentissima sembra essersi liberato della libertà che faceva del verso libero una propria bandiera. Del resto, questa continua proliferazione della lunghezza della versificazione, come nel caso della poesia di Giuseppina Di Leo, significa anche un’altra cosa: la difficoltà ad afferrare il «reale», la difficoltà a racchiudere il «reale» nella scatola metrica e acustica della metrica tradizionale di novecentesca memoria. Di qui la pratica della Di Leo di un concetto di lirica come «cronaca privata», «diario libero», libera tematizzazione di oggetti, poesia di «occasioni» con la correlativa abitudine a fissare il giorno, l’anno e, spesso, anche gli orari delle composizioni.
Questa attenzione ai particolari temporali nella Di Leo riveste grande importanza, perché essi sono gli unici appigli ai quali questa poesia post-lirica si può ancora avvinghiare. Non vedo particolari difficoltà da parte del lettore ad entrare in questa poesia, e se il lettore vi dovrà entrare «in punta di piedi» come scrive nel risvolto Daniele Maria Pegorari, ciò però lo si potrebbe dire anche di tutta la poesia, contemporanea e non. Di fatto, è una poesia indifesa, e lo si nota nei momenti in cui i testi rivelano una sottile matrice ironica. È una poesia che è rimasta priva di una iconologia, di una religio, di una religione del senso. E forse questa è la sua giustificazione, direi.
La Di Leo mette insieme in un medesimo contenitore le proiezioni dell’io e gli inserti narrativi insieme alle statuizioni di quadri inerti, still life, in un linguaggio esemplato sul piano basso del parlato variato mediante intermezzi con altimetrie di toni e di registri come nell’esempio del brano che segue:

La rosa più tenue era stata aperta dall’ultima pioggia
quando ancora nella mattina aveva mostrato la fila delle cinque lingua:
cinque per ogni fila; ora nutriva con la sua linfa le piccole gemme
nate intorno a lei, boccioli pazienti davanti ad un altare.
L’ultima faccia di pietra è un profilo sul pavimento: pensoso
l’occhio fisso in sé, in lontananza attesa:

La luna intanto, dopo aver passato in rassegna gli ulivi
sostava tra i rami della felce.
Luna piena. Concerta di dare voce
all’universo cane.

Ed è proprio negli «scambi» da un registro all’altro, è grazie a questi cambi di velocità che i testi della Di Leo funzionano alla lettura, non sono dei monoblocchi che impongono al lettore le proprie leggi interne, pongono dei problemi, delle interrogazioni che il lettore deve provare a sciogliere (come nella poesia «Provare ad essere specchio»):

Provare ad essere specchio
fuori da ogni possibile definizione
nel rovesciamento delle apparenze/realtà
la poesia coglie il senso del ribaltamento delle certezze date.

“crearsi fra il caos universale la via luminosa”, Carlo Michelstaedter ricerca utopie/ sogni/ irrealtà/ immaginazione.
Diventare specchio
non già per riflettere
la mia persona nello specchio, bensì guardare
nitidamente
freddamente
come uno specchio sa fare da fuori
dentro me il mondo mi accoglie.
Lo spartiacque tra vissuto interiore e vita
con le implicazioni di carattere pratico, sembra più tollerabile.
Altre volte
ogni cosa
diventa impossibile da sopportare.

                        Giorgio Linguaglossa

§ -Vita e romanzo
La farsa

Al pari delle api
dopo un bacio
lei si gira e scappa via
e non sa che l’uomo la teme
mentre l’osserva nell’occhio chiuso
da padrone di un’osteria.
Intanto
Camus, quondam madre,
piazza un no inedito sulle pagine del domenicale
Voltaire s’ingegna nell’ingenuo cercando
restando fedele a se stesso
Ginsberg urla altra vita, un tu non lo sai
tra sotterranei segugi del dharma
sugli altri, Sciascia prende in parodia il Candido
in un sogno triangolare, altrove Bodini
continua il giro sulla luna
assaporando la sera in un paese che sa di tappo.
E tutti nella calma con gli avanzi marciranno
nel sole insieme all’ultimo avventore.
L’amico rovinato dal suo vizio
informerà il gendarme armato, così, all’uscita
stretta tra l’intransigente e l’oppositore
lei urlerà e sacrificando il proprio credo
nel nome di un affetto mai sopito
dapprima indicherà l’importo sul tavolo
infine, bisbetica quanto basta 
come un’attrice dimenerà il suo dito
contro chi l’avrà tacciata di esser stata mal pagatrice.
- Naturalmente, non stavo penzolando sul credo di un affetto -
chiuderà l’ostico amico nella battuta del finale ad effetto.
(giov. 01.03.012 – h.: 9,15 - 29.03.012 - h.: 18,30)



§ - Volti di pietra

 [A pietre d’ambra]

A pietre d’ambra
il sole ultima il pomeriggio
sulla facciata del duomo

sognando nel talamo ad occidente
lo allettano nuvole schizzate d’arancio
spingendosi fino a schiacciarne l’orlo
per svoltare infine nel ventre del vento

direzioni infinite in variazioni del passo d’ombra nella stanza

adesso il cielo è un velo grigio
e una magia m’investe dentro
d’improvviso:
sono il nunzio
la polvere d’oro caduta dalle mani
la palla lasciata nel cortile.
Il calore mi tiene compagnia
contro la solitudine del cuore.
Mi perdo per un po’.
(19.08.010)



[Traspare nel sogno]

Traspare nel sogno una stanza di luce.
In confessione del nuovo giorno
mentirei se dicessi che preferisco sognare.
(Venerdì 7 maggio – h.: 3,15 – mattino)



Riandando splendido

Il sole non riposa nemmeno oggi che è domenica
scansa nuvole a più non posso, entra da me
seducente come un’ombra e con un’ombra scappa via

ritorna poco dopo albeggiando un muro
tra il rosa e il blu manda un segno di affinità
nei colori diaframma coglie un fiore di cristallo.

Ora l’ombra è preannuncio di vento e un freddo improvviso
mi sfiora la punta delle dita; in contrasto con la temperatura
esterna il calore del mio corpo avverto come una febbre.

Noi siamo angeli, angeli di neve nel sole.

Aspetto di assopire la voglia, quella di fuggire.
Tanto poi ritorno, come sempre tornerò a cercarti.
Siamo angeli di parole.
(domenica, 07 febbraio 2010 – h.: 12,45)


[Nella misura del vento]

Nella misura del vento
il pensiero torna ad essere spazio
umida immagine in pietra nel sole
scarabocchio in calce sul muro nudo

posandosi dentro, lo sguardo, come dita
ripassa le linee curve del volto e del naso
sugli occhi le arcate, la piega mentita del labbro
spavaldo, nido di formica.

Su nessun vino oggi brindo al dolore
lascio correre la vela aperta dentro il diaframma
la lascio aprirsi nel torace diomedeo

soffia piano un respiro, approdo di bocche avide
fino all’incontro col tumido germoglio.

Mantiene fermo il passo il martire del giorno:
questo amore bambino stringo, per non farlo morire.


Oltre la mezzanotte

Oltre la mezzanotte tutto sembra un gioco
tra moltitudini  assenti giunge l’eco dei fuochi
il calabrone dai lunghi sospiri abbandona la scena
escono le facce di pietra dai timidi sorrisi
il grillo si riserva un finale da manuale.
Non sempre la voce denota il corpo
il russare piano - silenzioso a parte -
del camminare a fianco; oltre e nell’altro, lei è il buio.

***

Mi accasciai restando ferma
ma pensavo che nulla resta immobile.
Avevo dipinto la notte e la notte seguente
senza interruzione, se non di quelle che destano il sonno
e ne fanno archi da inviare al cielo.

Sul sentiero di pietra i primi volti cominciarono ad apparire
nitidamente uno ad uno. Avevo fissato quelle pietre
lungamente, per giorni e giorni
ma mai nessun cenno vi era emerso
- vi è come un riserbo anche nelle pietre
l’oggetto inanimato per eccellenza
(secondo l’ipotesi di molti) -.

Eppure, proprio nell’ora in cui cominciai ad intravedere i profili
 - la linea degli occhi, la piega del naso e della bocca -
capii che si stava avvicinando il tempo della nostalgia
che loro avevano capito e come me atteso tutto quel tempo.
Compresi così che mai più avremmo avuto fraintendimenti
che tra di noi il dialogo, la dolce parola, avrebbe ripreso a fluire
come miele nel liscio incavo del favo.

Alcune facce erano pensose, altre dormienti nel solco dell’occhio chiuso
ancora, altre mostravano un senso di abbandono misto all’appagamento
dopo l’amore, ma c’era chi si amava nel risveglio con bocche semiaperte
si baciavano. E fu dolce scoprire tutto questo.

La rosa più tenue era stata aperta dall’ultima pioggia
quando ancora nella mattina aveva mostrato la fila delle cinque lingue:
cinque per ogni fila; ora nutriva con la sua linfa le piccole gemme
nate intorno a lei, boccioli pazienti davanti ad un altare.

L’ultima faccia di pietra è un profilo sul pavimento: pensoso
l’occhio fisso in sé, in lontananza attesa.

La luna intanto, dopo aver passato in rassegna gli ulivi
sostava tra i rami della felce.
Luna piena. Concerta di dare voce
all’universo cane.


 § Il tempo dell’appartenenza

[A successioni diafane]

A successioni diafane la luce si infila nei fondi di bottiglia
incastrati lungo il muro intorno alla casa del custode
enfatizzando colori
avanzano le ombre del primo pomeriggio in processione

le stesse ombre, nell’ordine, ricadenti nell’ipogeo
accanto al dio pagano eretto a nuovo edificato

la chiesa rupestre in alto conserva due busti di santi:
un san Biagio della gruccia
un sant’Antonio dell’elastico o della locandina

sommano insieme i momenti di una inosservanza.
Correva l’anno del clero (o di chi per esso)
dimentico di ricordare
di onorare i santi assieme alle madonne
se per le seconde, ignorarono i primi.

Assolvendo
loro
lo sguardo elevano alle volte
nella casa paterna.
(h.: 16,31 - 12.04.012- h.: 18,11 21.05.012)



[Siamo al punto]

Siamo al punto in cui la poesia è tale se parla di naufragi
esordisce il presentatore della serata.
Forse, ma alla poesia non si può addossare tutto, replicherei,
perché la stessa letteratura è un naufragio, se non fosse
che forse è stato già detto. Non si vede nulla
le luci tra gli alberi mandano deboli bagliori luminosi
ma va bene così. Una donna assorta nell’ascolto
poco fa ha disfatto una rosa. Voleva solo toccarla, ma
una rosa è una rosa
c’è poco da toccare, anzi, è vietato
la rosa bianca ha ceduto sotto la ricerca di un motivo
nella pressione di due sole dita
una pressione leggera, un tocco appena
una rosa bianca sfatta rimane per terra
inutile tentare di riposizionare le unghie nel ricettacolo.


[La luna piena di Valencia]

La luna piena di Valencia è una sfera di cristallo, radiosa di sole
«la luna verde» di Bodini ha riflessi d’ambra della più giovane stella.
Valencia è un uomo calato nel cassonetto della raccolta differenziata
visto sbucare all’improvviso nel passeggio sulla nitida avenida
è Lucrecia trasferitasi dall’Argentina con tutta la sua famiglia
un’aria di eterna primavera che senti dentro
lo sconosciuto che ti presta il suo tempo per farti sentire a casa.
Le miserie dell’altro sud dirimpettaio sono sprofondate nel pozzo.


[Dal menù especial]

Dal menù especial Riviera un panino non panino
con tanto di uovo fritto sopra a tutto il resto.
La ragazza mora al bancone se è del posto non si sa
sta servendo a uomini che parlano spagnolo
(in Spagna, si sa, si parla lo spagnolo).
Encantado! Le dice un tipo che, uscendo, dopo il sorriso
indossa in strada il suo viso triste. Nascondeva
una verità dietro una maschera.


[Nello scomparto]

Nello scomparto siamo tutti in pena per la giovane donna nera
con gli occhi pieni di pianto e le guance rigate urla al cellulare
parole in un crescendo di peace  (o please, non saprei)
I don’t know why do... A questa donna vorrei poter dire
please, don’t cry!
al mondo non c’è nessuno che meriti le tue lacrime;
quando, all’ennesima telefonata in quindici minuti
lei smette il pianto e prende a parlare con forza e decisione, come a
voler puntualizzare un pensiero lasciato sospeso. Lo stesso cipiglio
sentito dalla bocca del ragazzo che, a piedi nudi sullo scoglio, il braccio teso
urlava al mare: ti sfido, ti sfido! E un amico lo avvertiva: arriva l’onda!


Ubu roi nel cielo

Roi Ubu s’è fatto nuvola!
A spasso se ne va con un’amica
nuvola anche lei, naturalmente

la porta nel buco al centro della pancia
mostrandole dall’alto il mondo intero.
Con parole velate, amore in sé,
le dice:

«Vieni, cara, con me nel cielo
leggi con me, instancabilmente
insieme, proviamo a leggere

leggere, leggere:
leggère poesie d’amore».


6 commenti:

Anonimo ha detto...

Avete ascoltato CONSIGLI PER GLI ACQUISTI a cura di giorgio linguaglossa

Anonimo ha detto...

Gentile signore/a, perché non firmarsi?
Giuseppina Di Leo

Anonimo ha detto...

Ad una prima lettura queste poesie mi sono molto piaciute. Sia per l'uso liberissimo del verso libero che per l'originalità delle immagini e delle situazioni descritte. Dato l'indizio su Ubu roi avevo anche riflettuto sulla buona scuola di Jarry, sulla patafisica e il surrealismo. A memoria e senza una vera ragione, mi sono anche tornate alla mente le poesie del primo Neruda, quello delle poesie d'amore.
Poi, come un detective di provincia, ho approfondito qui e là con risultati che Linguaglossa ha comunque già ben spiegato. Prendiamo ad esempio questi versi:

"Il sole non riposa nemmeno oggi che è domenica
scansa nuvole a più non posso, entra da me
seducente come un’ombra e con un’ombra scappa via"

Un poeta diverso, diciamo uno normale se ce ne fosse, avrebbe scritto, butto lì:
Come ombra il sole scansa le nuvole / e con un'ombra scappa via.
Tredici parole invece di ventotto, meno della metà. L'economia non c'entra, ho solo notato un certo imbarazzo sul verso breve quando arriva ( perché se si è poeti arriva inevitabilmente), come in questo caso:

"sono il nunzio
la polvere d’oro caduta dalle mani
la palla lasciata nel cortile."

Lo scarto è sul terzo rigo, come se il lirismo del secondo portasse ad una pericolosa mancanza di respiro, a qualcosa che si vorrebbe evitare. Così è la prosa che viene in soccorso, ma non una prosa qualsiasi, è proprio narrativa di qualità: originale, personalissima, spiazzante, creativa.
Ciò detto, non serve parlare di gradevolezza estetica, di bello o brutto, che sono i principali criteri che mi son scelto come lettore, perché, tornando a Jarry, dal momento che le interpretazioni sono infinite non bisognerebbe decifrare i fenomeni in un sol modo. Prosa e poesia quindi, se considerate entrambe come eccezioni, sarebbero tra loro in rapporto di equivalenza.
Se c'è un senso comune anche nell'interpretare la poesia, allora bisognerà provvedere perché ne va dell'unicità di ogni singola interpretazione. Da un'intervista alla Di Leo: "… se lo studio e la preparazione sono importanti, ritengo che importa ancor di più che la poesia deve essere libera da schemi, divisioni, libera da confini." Insomma libera di manifestarsi a piacere, tanto nella vita quanto nella scrittura prosastica.
mayoor

Anonimo ha detto...

Ubu roi è collerico e intransigente. E, in qualità di militare, ama comandare e farsi rispettare. Alfred Jarrry, pur non essendo il suo creatore, da creativo quale è stato, lo ha adottato prendendolo in prestito da un suo compagno di scuola il giorno in cui questi gli fa leggere una satira studentesca che il fratello aveva scritto qualche anno prima ispirandosi alla figura di un professore di fisica che tutti detestavano, il prof. Hébert, «detto anche Padre Hébert, divenuto in quella scuola simbolo del grottesco al punto di essere designato dagli allievi con svariati epiteti e nomignoli» (Enrico Baj, La Patafisica, Bompiani 1982). La commedia di Ubu re, «questa specie di macchina-mostro-marionetta» (Baj), simbolo della volgare grossolanità del potere, nasce dunque dalla fervida fantasia di alcuni studenti liceali, un ‘collettivo’, come lo definisce l’autore del libro, l’artista Enrico Baj.
Ringrazio davvero Majoor, innanzitutto per la curiosità che la mia poesia gli ha sollecitato e anche, rimanendo in tema di Patafisica - la scienza delle soluzioni immaginarie - per avermi dato la possibilità di poter fornire qualche ragguaglio sulla figura di questo personaggio teatrale, Ubu roi, e del suo autore, Alfred Jarry, entrambi oggi conosciuti solo agli addetti ai lavori ma ignoti a tanti. Impossibile per me nascondere a questo punto, che il mio re Ubu ben poco ha a che vedere con il personaggio di Jarry e non soltanto per la anteposizione dell’apposizione. La poesia parla di un innamorato che, navigando tra le nuvole, mostra alla sua bella nientemeno che la bellezza della poesia, e per giunta nella sua veste più autentica qual è appunto la poesia d’amore (leggerezza - che non significa banale - è, direi, la cifra della sua sincerità ). Ma è anche inutile negare il riferimento esplicito al despota, presentato però sotto una veste nuova quanto auspicabile. E tutto sommato, penso che lo stesso Jarry ne sarebbe soddisfatto, se è vero com’è vero quello che affermava a proposito della Medicina, dai patafisici chiamata Merdicina (sic!): «Questa scienza in ogni caso insensata di trattare esseri variabili e diversi mentre una scienza non può essere che di unità simili, di punti matematici o di sistemi di punti: e inapplicabile agli intelligenti, la cui struttura interna dei corpi, come degli spiriti, verosimilmente differisce, e che hanno il cuore a destra quando non l’hanno appeso al lobo di un orecchio: se lo portano a destra è per modestia. (Libro II, cap. III».
Sulla poesia “Riandando splendido”, il verso la palla lasciata nel cortile, nella sua successione, invita a uno sguardo al contempo esterno e di immobilità: nessuna verità né maiuscola né minuscola da annunciare.
Giuseppina Di Leo

Anonimo ha detto...

ERRATA CORRIGE: A pietre d'ambra.
Giuseppina Di Leo

Anonimo ha detto...

Tra le disattenzioni: Majoor anziché Mayoor. Chiedo venia a Mayoor.
gdl