giovedì 27 settembre 2012

Pietro Peli
Poesie



Nelle maglie di un esodo
c’è da farsi acuminati
feroci

c’è da tornare indietro
e ripassare la corrente,
capire

senza animo di profeti
disarmati, offendere
il corpo

dell’intoccabilità.
Questo non scappare
ritorna

più potente in ogni
ardore perduto, in ogni
volontà,

in ogni presenza di sangue
di storia. Il rifiuto
è vivo

e tra le maglie dell’esodo
tra le ferite alle mani
rimane

da fissare più avanti
la parola che ancora
non vedi.




*

C’erano i tuoi figli
paese straripato dai confini
richiuso nei tuoi orli
di civiltà di confine
cattolica e marinara:
c’erano e non lo sapevi
e piangevano in silenzio
la miseria di secoli
piangevano una bandiera
che non avevano stretto
tra le mani. Ora saranno
duecento e ancor più anni
che vedono e non sanno
come parlare al mondo.
Sono scappati per terre
di conquista dei bianchi
sui neri, sui gialli, sui rossi
(categorie di una pelle positivista)
portando la loro miseria
trasportando per mari
le loro sole avvizzite mani
le loro sole pupille
di popoli cotti dal sole.
Hanno viaggiato e perduto
la loro radice piangendo
su navi di ferro e di carbone
hanno inteso altre lingue
i loro figli li hanno chiamati
con un nome straniero
e con una divisa lontana
hanno cercato salvezza
nelle buche di trincea
di paesi mai visti.
Cento milioni di passi
lontano i tuoi figli
lasciati partire nel mondo
e che oggi ritornano
dalle onde spumose
del Mediterraneo:
hanno i loro occhi
la voce dell’oriente,
dei fratelli lontani
ritornati, coi capelli ricci
e il viso stralunato.
Loro di poche parole,
loro di lacrime asciutte,
loro di braccia segnate,
di maglie ritrovate
nei cascami d’Europa
hai lasciato interdetti
tra le dune dei porti
o tra i flutti roboanti
tra il sale e le ultime cartacce
lasciate dalle navi.
Hai strappato dai petti
le storie sentite dai nonni
le hai lasciate cadere
sui piedi dei loro figli
e nulla hai spiegato loro.
Mai un paese
traboccante di memoria
ha guardato i suoi fratelli
come si guarda la luna.
Tu non guardarli negli occhi
potresti ascoltare parole
che da troppo tempo non senti.

*

Dal basso in su
le luci delle case popolari
le tavole sconosciute

eppure così familiari
i loro pensieri: «le ricevute
da pagare, poi domani… magari…»

La spesa che sembra un po’ passione
ai lumi di luna dei bonzi paludati
dell’economia, poi la televisione

coi programmi serali, sprofondati
su incolori poltrone lise di anni
di piccoli pensieri: semplicità

che è gioia per i semplici.
Su quella chiave nella toppa
(l’armadio semichiuso) una gruccia

una camicia prima di dormire
ci si appoggia già stanchi del lavoro
di domani; eppure sa apparire

quella cura misteriosa che solo
il domani dona all’abituarsi
dei giorni e dei decenni. Ma loro

che con le dita il mutarsi
hanno compreso della vita allegra
di un tempo, ridestarsi

domani non sarà peso.
Ti diranno, è vero, «lascia stare…»
ma più umili e caparbi lo stesso

il sole livido sapranno guardare:
è degli umili il piccolo coraggio
che signori non imparano a rubare

È qui più desta la città,
di provincia dell’Impero accumulo
di cemento ruvido, di postmodernità

e di offesa al cuore ingenuo,
che i vinti dagli anni trascorsi
miseri o stupendi (strenuo

baluardo di una guerriglia perduta)
ritrovano per poche ore la pace
su di letti per notti passate
a custodire una pura voce
del mondo


*

Non c’è nulla da sapere

La verità è banale, ridicola
può avere suono d’offesa:
non c’è nulla da sapere.

L’uomo come realtà storica,
le sue abitudini, le sue credenze,
le sue astrazioni e le concretezze
prendono le mosse da accadimenti
da fatti, dalla storia.

Non c’è nulla da sapere,
ribadirlo è per necessità
di continuare
a guardare con la testa dritta
senza il bisogno di girarsi.

Duecentotrentaseimorti e ottocentodiciassetteferiti
dirlo tutto in un fiato non sembra così infame.
Ecco la precisa ragione per cui
non c’è nulla da sapere
Tutto è perfetto
nella sua maledizione,
nella sua rozza cattiveria
e anche nel suo liquefarsi
al volgere dei decenni.

Non c’è nulla da sapere
compagni che ci siete
compagni che non ci siete più
cittadini, o come volete essere chiamati
per riguardo a voi lo dico
che non c’è da scavare
nelle ruvide zolle di un tribunale
o tra le montagne di carta
putrefatta o rosa dai topi.

Era chiaro allora
che una repubblica
si bagnava i piedi
nei catini dell’indifferenza
e del poco coraggio
tipico di un certo
credersi popolo.

Ecco
in questo nulla
e nella sua negazione
la chiarezza
che spacca
la pellicola crespa
d’alluminio
il viso di una menzogna
cui non si vuole credere.

Le prove di ciò che affermo?
Voi stessi le conoscete.
Meglio: siete voi la prova
che non c’è
nulla da sapere.

Dite pure
che
quello che ho detto
non è vero
preparatevi
poi
a non cadere
nel vuoto
come un urlo
che fa male
a chi urla.

Voi, prodotti della storia,
del dolore che è stato
dite che così
è stato
che non c’è nulla da sapere.

Il giorno
è meno chiaro
oggi,
(a parte
qualche
defezione).

Io sapevo



*

VIII

C’è ancora umanità
se tra le vie
riscattate alla polvere
allo scuro
a donare luce
tornano scie
di lucciole. Facciate
di un muro
contadino, sfondo
di scorrerie
di amori dal ventre
immaturo.
Parleremo ai silenzi,
alle afasie
dei giovani e dei vecchi,
ancora duro
sentiremo il cuore dentro
che sfonda.
Ci saranno ragazzi
sui selciati
d’ogni paese riemerso:
vedranno
sul viso di ciascuno
come un’onda
(gli occhi sereni
di pianto rigati)
per la lotta finale
marceranno.


XVI

Il senso degli altri, di me che solo
muovo il passo e il mondo attorno
attorcigliato ripete il falso volo
lo vedo rotolare lungo il giorno.

Uno, di gocce finite sul dorso
d’una mano, sono i sassi scabri
raccolti in una estate; il corso
(un altro) incerto dei cinabri,           

la patina di cretti di luce
conserva una grazia ancora
che è miseria, nascosta.

Ora chiudi il pugno, una sosta
tra due momenti: uno logora
e ti consuma, l’altro ti produce.

XVIII

Una casa, non la tua per forza,
ma che sembra essere parte
della tua carne, della tua scorza:
un grammo dopo l’altro,

cede a un vento che non sai
da dove viene. In tutto il mondo
oggi si scortica il tempo del mai,
una merce che non si vende…
                   
Con le chiglie imperfette della sera
le ombre sono venute a dire
le verità di un ottobre
                             
per tornare ai giochi di primavera.
Ora sono a sedere su me stesso
«E adesso? Io?»


XX

Un’ ombra dietro le spalle ho lasciato
a rincorrermi (o far finta di farlo):
nulla di quanto perso ho ritrovato
nemico non è un tarlo,

è la stessa memoria che insegna
la disgrazia del martire. Testimoni
per vita di un tempo che consegna
la libertà di esser falsi, a tastoni

ricercano il passato. Pensare
e dire e fare: l’ideologia
sprofonda lieve e dolce tra le bare

del progresso. La materia umana sia
plasma docile dell’ottuso andare
avanti, un lacerto di pazzia.




*
Pietro Peli nasce a Siena il 14 luglio del 1986 e vive a Colle di Val d’Elsa. Appassionato di letteratura e di poesia sin dai primi anni delle elementari, ha partecipato al primo concorso nazionale in 4a elementare. Laureando in Documentazione Storica presso l’Università degli Studi di Siena, ha pubblicato con Francesco Corsi e Stefano Santini il saggio storico L’Utopia della Base. Un Collettivo operaio nella Toscana tra gli anni ’60 e ‘70 (Punto Rosso Edizioni, 2011) e ha curato il volume di Paolo Cesarini Fogli di Diario 1945 – 1946 (Ass. Amici di Romano Bilenchi, 2011). Scrive poesie con una certa regolarità dal 2003/4. Il suo riferimento poetico, ideale e intellettuale è Pier Paolo Pasolini.





12 commenti:

Anonimo ha detto...

Le spaziature creano frammenti. I frammenti hanno la duplice funzione, di creare significati a se stanti e di stabilire una diversa attenzione alla lettura, più lenta e meditata perché rinnova gli inizi e le chiuse. A ben vedere si tratta della trasposizione in verso libero delle terzine, vedi Dante, ma un buon esempio sono anche gli Haiku.
Sinceramente, l'aspetto che a me non piace delle poesie impegnate socialmente è l'eccessiva serietà, la mancanza di ironia e in questo caso, neanche a dirlo, la difficoltà di porsi tra l'io e il noi dal momento che il noi manca perché sarebbe, secondo alcuni, in fase di ri-costruzione.
mayoor

Unknown ha detto...

Ciao Mayoor,(ti) prometto un mio commento, saltellante ma un meno di questo che ti lascio con una domanda o due: su quali temi, l'ingrediente che per te mancante in questi fili di pietra,è possibile? sempre? su tutti? e per quali invece sarebbe forse un altro, sotteso a questa matassa di "Peli" ed evidente come in una tela di Goya, ergo il sonno piu grottesco, che semplicemente ironico, del mondo senza io e senza noi? sarebbe vero solo quando si prendesse "la libertà" di non essere finto perché saprebbe ridere di se stesso, di questo mondo? come invece ha dimostrato di non saperne soffrire?

e per paradosso, nonostante "le incisioni" siano diverse, di autori diversi ma di generi "musica(li)" attigui, solleviamo le stesse obiezioni a Flavio nel suo racconto, simile a questo Pietro?
e se provassimo a riscrivere con l'ironia richiesta,sarebbe per costruire, veramente il noi smarrito da sempre? se si, come sarebbe possibile evitare che questo genere letterario, in versi o novelle o racconti o romanzi, non sia conforme al dentrificio o durbans, richiesto da un "mondo lieve", per incontrare certi gusti e controllare meglio che il racconto..della storia..mai giunga all'io e tantomeno al noi?

Anonimo ha detto...

Versi di grande rispetto e di passione. Libertà, miseria, ipocrisa, accuse senza sconti. Mi piace. Emy

da Emy:

Son io
son io
che racconto a noi
quando noi ci siamo
insieme a voi.

Anonimo ha detto...

Scusate i versi di cui sopra sono incompleti. Ve li ripropongo:

Son io
son io
che racconto a noi
quando ci siamo persi
insieme a voi.

Emy

Anonimo ha detto...

Mettiamo prima in chiaro il fatto che il noi di cui stiamo parlando è un noi di parte, che ha una sua identità, e che è di schieramento. Poi mettiamo in chiaro che nel 1977 ( trentacinque anni fa) si chiusero i giochi del '68. E mettiamo anche in chiaro che le sezioni dei gruppi "d'avanguardia" extraparlamentari chiusero i battenti. Crollò il muro di Berlino che divenne un simbolo, e il posto delle vecchie care sezioni lo presero i centri sociali, a Milano accompagnate dall'instancabile voce di Radio Popolare. Questo fa capire che per qualcuno si trattò sì di una drammatica sconfitta, che però in profondità non li cambiò per niente, ne' li spostò di un millimetro dai loro convincimenti rivoluzionari. Ora, quando guardo al mondo con occhi diversi e critico l'ingessatura marxista, mi sento come un adolescente cattolico che si masturba tra assurdi sensi di colpa. Il giudizio che sento è lo stesso, la fede religiosa anche. Anche se è marxista. Se faccio appello all'ironia è per ragioni di sopravvivenza, perché non ho voglia di incupirmi inutilmente con nuove denunce perdenti, perdenti perché totalmente prive di prospettiva. Un noi così fatto per me è tempo perso, invece di dio sarà la storia a infondermi altri sensi di colpa? Il fatto che uno provi una solidarietà orizzontale, tra simili, è ovvio e si dovrebbe andare oltre. Oltre significa che in assenza di alternative dovremmo prendere atto di ciò che c'è e da lì guardare ad un cambiamento. Cambiare non è ri-formare o ri-costruire, è prendere un'altra direzione, radicalmente nuova e inesplorata. Il fatto che tu accomuni questo al dentifricio ( che usi quotidianamente) serve solo a creare altri sensi di colpa di cui non si avrebbe alcun bisogno. Oggi soffre chiunque abbia un briciolo di buonsenso. Chi ne avesse un po' di più potrebbe anche smetterla di darsi al comune lamento. Non servono persone incazzate, servono persone capaci di mettere in campo libertà e intelligenza. Non per obiettivi di là da venire, non per riesumare fantomatiche aspettative sociali, anche se basilarmente legittime... e non si cura il cancro ammazzando il paziente.
L'ironia è una qualità dell'intelligenza, e come ben sai si contrappone principalmente all'ottusità.
Mi scuso con Pietro Peli per questo opinionismo da quattro soldi, perché c'entra con le sue poesie come c'entrerebbe con quelle di tantissimi altri. La storia arriva fino a ieri, con il presente non ha dimestichezza, si confonde perché non ha orizzonte. E penso che se ne avesse sarebbe un'astrazione.

mayoor

Anonimo ha detto...

Ma Mayor, oggi l'incazzatura mi sembra proprio inevitabile... Emy

Unknown ha detto...


http://moltinpoesia.blogspot.it/2012/09/rita-simonitto-perdite.html

nel link di cui sopra, in data 21 abbastanza vicina a questo 27 per Pietro Peli, veniva "incorporata" quella di R.S. che, a mio avviso, crea una sigizia perfetta sia in retrospettiva che prospettiva fra figli e figli e padri che , molto umilmente vista la mia ignoranza,oserei da quel poco che ho immagazzinato e assorbito nella mia carne, pone una questione pasoliniana centrale. Così come di PPP non si poteva dire o collocarlo in un'area ideologizzata in modo netto, etichettabile, e riducibile o predigerito dai soliti format o contenitori(da cui infatti veniva respinto regolarmente finché in vita) , non credo si possa aver alcun fattore di proprietà transitiva verso tutti i suoi "Gennariello" più o meno ignoranti come me o più evoluti e colti come Rita o Pietro ed altri figli e padri.

Non so quanto pesi nella loro biografia essere stati, o tutt'ora essere, ed essere cresciuti, all'interno di comunità politicamente etichettabili di stampo o radice "marxista", per quanto mi riguarda ho avuto la fortuna, ma anche il peso, di non esservi cresciuta e di essermi custodita in una vita eremita in quanto allergica ad ogni ingreggiamento se non a sprazzi, di tipo trasversale a vari "recinti". Nella quale vita ho potuto vedere i millenni prima del secolo precedente ed incluso questo, con unico flusso di "sconfitta" di cui quella vera, più profonda ed estesa, è quella che ogni poeta come ogni artista, ha sempre cantato e deve continuare a "fare":il forte si divora il debole,in qualsiasi tempo,spazio, luogo. Il forte è mobile, il debole è immobile nella storia, tanto sia singolo, tanto si sia strutturato. Il forte è nel debole, laddove un meno si divora un altro meno diventando più. Può essere nella coppia, può essere in strada, può essere in uno scantinato ad incollare tomaie, può essere in una comunita culturale etc etc.

L'uomo nuovo non è ancora nato e questo ha riguardato anche la radice marcia su cui è nato lo pseudo albero "democratico" dell'ultimo settantennio di questo pezzo di mondo chiamato italia. Continuare a fare i cantastorie di questa sconfitta, consente alla memoria di non morire ed appartiene al pensare, più che al fare, ma è già fare qualcosa che non dmentichi mai, la ferita incisa nella carne di "popoli" diversi di cui è fatto anche il nostro e su cui continuamente proporre interventi chirurgici, come quello di Peli, o Villani o Simonitto e tutti gli altri. La cosa che personalmente mi ha fatto immenso piacere di questa lettura è, data l'eta, l'orgoglio di potere aver figli ideali come Pietro Peli, tanto come io ho avuto padr ideali come PPP, che mi ha segnato per sempre insieme ad altri padri che formando il vero io e il vero sé, potevano vedere quel noi "debole" di altri orizzonti.

Moltinpoesia ha detto...

Ennio Abate:

Se siamo convinti che in poesia non valgono gli obblighi e le prescrizioni, dobbiamo pure ammettere che serietà, ironia e persino incazzatura sono ingredienti come tutti gli altri leciti e, tra l’altro, ben presenti nella lunga storia della poesia tanto che si sono fissati persino in generi (epico, comico, satirico, ecc.). Non credo perciò che si possa tessere un elogio astratto dell’ironia a scapito della serietà o dell’incazzatura, come mi pare faccia Mayoor.
Chiedo: senza perderci in discussioni generali sulle poesie impegnate, queste di Pietro Peli mostrano davvero «eccessiva serietà», «mancanza d’ironia»?
Quanto al ‘noi’ che vi parla, lascerei davvero perdere la nostra storia di ex sessantottini o ex settantasettini e il suo strascico di lutti, pentimenti, cupezze, tradimenti, esorcismi.
Perché il ‘noi’ che parla nelle poesie di un giovane che è venuto dopo tutto questo ( Peli è del 1986!) non si richiamac né al ’68 né al ’77. Li salta e, pasolinianamente, si ricollega a un noi epico da primo dopoguerra, direi.
Se leggiamo la prima poesia, «Nelle maglie dell’esodo», troviamo delle raccomandazioni, degli inviti e degli incitamenti: ad essere spietati («c’è da farsi acuminati/feroci»); a rivedere la storia, il passato («c’è da tornare indietro / e ripassare la corrente»), la quale corrente può essere intesa in vari modi: gli eventi che si accavallano, le mode, le opinioni dominanti nel presente; a non collocarsi nella posizione dei «profeti/disarmati»; a criticare («offendere/ il corpo// dell’intoccabilità»); a «non scappare» ( dalla realtà, io intendo); a essere tenaci; a sperare («fissare più avanti / la parola che ancora / non vedi»).
Eccesso di serietà? Non direi. Piuttosto volontà di essere seri contro la coazione all’ironia, al disincanto, al distanziamento programmatici e qualunquistici di tanta cultura postmoderna.
Nel ‘noi’ di Peli c’è forse un’eco troppo forte di Pasolini, un’enfasi da epica neorealistica anni Cinquanta e una coralità che suona amaramente fuori tempo («compagni che ci siete / compagni che non ci siete più»). Tutto ciò porta con s’è il rischio di «eroici furori» populistici o astrattamente umanitari. Ma la serietà può arginarlo. Questa proprio non gliela rimprovererei.



Anonimo ha detto...

A mio modo di vedere, trovo l'ironia più seria della rabbia, la speranza mi è sempre sembrata qualcosa di impotente da riporre negli altri, perciò poco seria. La serietà intesa come presa di coscienza dei propri doveri , la trovo solo nella natura che ci circonda , per noi non vale siamo troppo pieni di quel sè che ci allontanerà sempre di più da quella intelligenza che serve per vivere in alleanza con tutto ciò che ci circonda. Siamo nati per migliorare , mi diceva, mentre con rabbia beveva l'ennesimo bicchiere di vino. Emy

Anonimo ha detto...

Gentili commentatori, volevo fare solo due appunti. Uno riguarda la presunta ironia o meno. Il registro dell'ironia sarebbe sembrato, a mio modo di vedere, fuori posto. Ho cercato di descrivere situazioni e stati d'animo che fossero condivisibili da una parte dei miei coetanei o da chi, comunque, potesse trovare dei raccordi di tipo emotivo all'interno di questo contesto sociale, politico ed economico in cui siamo. Onestamente non la so utilizzare l'ironia nel descrivere quello che pensavo ci fosse di là da una finestra di una casa costruita ex legge 167/62 e cercare di dare o ridare a quelle figure una dignità e un "affetto". Dico questo avendo scritto anche versi satirici pubblicati su "Il Nuovo Male": lì la rabbia o l'indignazione mi si è trasformata in un certo sberleffo. Però - ripeto il discorso vale per chi scrive e non è detto che sia erga omnes - farlo qui sarebbe stato stridente. Seconda questione, il "noi" cui adombrava Ennio Abate. Il plurale si richiama, in modo certo non organico, a quel senso di appartenenza non alla comunità umana tout court ma a una parte che sento più vicina a me nelle idealità, nelle esperienze e nelle aspettative. Sarebbe banale dire "il popolo", "il proletariato" e mettere dei paletti divisori. E' un noi informe anche se individuabile: un tentativo di ricostruire una unità che non sia la monade in cui trenta anni di individualismo neoliberista ci ha schiaffato. Scusate l'intromossione

Pietro Peli

Unknown ha detto...

Ho provato a rileggere gli interventi.. ringrazio anche di aver letto la partecipazione diretta dell'autore Pietro Peli..provvisoriamente concludo che come per altri precedenti analoghi a questo, sia ingrediente preliminare a qualsiasi gusto/genere letterario successvio, cosa distrugge o costruisce quel noi debole(per me) o informe (cit. Pietro Peli), o xxx per un altro....è un quid che non capisco quando e perché latita e che quindi non determina una struttura determinante del mitico diritto di critica.Credo sia una coscienza che è prima, una coscienza anticipata, una coscienza che non è semplicemnte quella sulla natura, le balene o i prati, ma una coscienza storica di radice profonda, con o senza studio e accademia, della quantità e qualità di sconfitte millenarie che ha accumulato l'essere rispetto all'avere. Cosa che per conseguenza dà quella bellezza che resiste se resiste ancora indomabile nella natura, tanto dei paessaggi esterni che di quelli interni all'animale pensante e a volte cantante/poetante.


Il lettore, tanto come l'autore, per prima cosa deve per essere tale,compenetrarsi nella mente dell'altro..la lettura infatti entra, ormai, come altre "strane" terapie (vedi pet therapy tanto come bliblioterapia), nella (ri)costruzione di quel flusso che fa uscire da se stessi, dai propri individualismi a prigione troppo stretta (anche laddove sembra il contrario)...confondere e contestare ad un'autrice o autore gli strumenti/generi letterari/leve o registri, fondando la critica su qualcosa che deve appartenere alla libertà di gusti come a tavola, rischia di fare il gioco di chi ha adottato per primo, intenzionalmente, la confusione di scopi con mezzi,e di punti G manipolando generi con gusti e viceversa(del tutto non confrontabili sul piano degli ingredienti richiesti)per modificare le proprieta "organolettiche" gusti e generi nei piatti(in ogni senso da intendersi) dei vari popoli/persone in semplici target.

Non c'è invece nulla di male(al contrario di chi vi si appella stile ingienisti e igieniste di vario tipo) nell'autoconfessarsi, prima...prima, di qualsiasi domatore di generi modificatore di palati e gusti, che la priopria natura e biografia, ha bisogno di certe letture e non altre, senza dover definire quelle che esclude, leggere o impegnate, prive di questo o di quello.

Anonimo ha detto...

Spiace che si sia posto l'accento sull'ironia mancante, il mio commento voleva essere una provocazione verso le tematiche del pugno chiuso per cercar di smuovere verso nuove direzioni (comunque non avverse!). Con ironia o senza, ho solo espresso la mia preferenza, ma è chiaro che le emozioni non si possono selezionare a piacere come si trattasse di oggetti. A Peli va il mio apprezzamento per la sua ricerca e l'impegno sociale che vi ho letto, e anche l'augurio di mantenersi libero e creativo... magari partendo da quell'io che stando sotto a se stesso si interroga sulla propria responsabilità:

"Ora sono a sedere su me stesso
«E adesso? Io?»

mayoor