domenica 28 ottobre 2012

Cosa chiediamo alla poesia?
Due esempi:
Romano Luperini e Francesco Di Leno


Lucian Freud, Autoritratto

L’accostamento dei testi di due autori - così diversi per cultura, condizione sociale e coscienza dello strumento usato per esprimersi (la poesia) - non sembri incongruo  o bizzarro. Li accomuna il ricorso alla poesia in momenti di estrema difficoltà, personale o politica che sia.  Entrambi ripropongono così l’irrisolta  domanda  su cos’è la poesia. Perché ad essa ricorrono un noto studioso di critica letteraria - come Romano Luperini, e un oscuro scrittore come Francesco Di Leno, ex impiegato che si presenta come “poeta politico”? Non lascerei cadere la questione e ci rifletterei  tre volte prima di rispondere. [E.A.]

Poesie. Reparto di oncologia
di Romano Luperini

Ho passato mesi da una clinica all’altra.  Per combattere l’insonnia feroce ho scritto di notte dei versicoli che riporto qui non per esibizione letteraria ma per documentazione diaristica. Solo il distacco della forma mi ha consentito di vincere il pudore della confessione e la coscienza del necessario inganno della letteratura.

Reparto di oncologia

I.
Con spavento

Con spavento lo specchio riflette
improvviso l’immagine di un lemure.

Oh, una notte di grilli,
e l’odore dell’erba, della terra smossa.

Nel giro ondulatorio dei poggi
s’alzerà il cerchio giallo della luna
e in quello dello specchio
pallida luce di lampada illumina
il lemure disfatto.

II
Risveglio

Il chioccolìo delle taccole sui cornicioni
fuga gli ultimi grumi di sonno
 rattoppati a fatica nella notte.

Passi nel corridoio, un lamento di donna.
Aspetto che in camera balzi
 l’infermiere Massimiliano
col suo  sorriso allegro di neoassunto, l’uscio
si spalanca ed appare alta alta e spettrale
l’infermiera cattiva.

III
Le stagioni

Dopo i rulli dei tuoni
nel trambusto del cambio turno, all’alba,
sui cornicioni scroscia la pioggia.
Da una clinica all’altra
ho sentito passare le stagioni
senza sentire sulla pelle l’aria,
la brezza della primavera, il solleone d’agosto.
Ora è l’autunno, e fosse solo suono e concetto,
non lama, non scalpello!


IV
Dopo le dimissioni

Se ala  di vento transita,
distilla il tiglio lamine d’oro,
eliche a vortice calano nel prato,
spicchi d’azzurro oscillano nel verde
tenace delle fronde.
Dolcezza disperata di settembre.



***

Poesie politiche
di Francesco Di Leno

PARTITA A SCACCHI

DA QUALCHE TEMPO L’OCCIDENTE CAPITALISTICO
HA INIZIATO UNA PARTITA A SCACCHI
CON IL TERZO MONDO: SI SENTE SICURO,
CON IL SUO MONARCA E LA SUA CONSORTE,
CON LE DUE TORRI ALTE FINO AL CIELO,
CON DUE ALFIERI MAESTOSI E FORTI,
CON DUE CAVALLI PUROSANGUE BIANCHI
E CON L’ESERCITO DI VALVASSINI PUR’ESSI BIANCHI.
IL TERZO MONDO HA SULLA SCACCHIERA PEDINE
PIU’ MODESTE: LA FAME, LA MISERIA, LE MALATTIE.
IL RISULTATO DELLA PARTITA SEMBRA SCONTATO!
MA, AD UN CERTO PUNTO, IL TERZO MONDO
MANGIA LE DUE TORRI ALL’OCCIDENTE DEI CAPITALI
E METTE SOTTO SCACCO IL RE FACENDO TREMARE
LA SCACCHIERA E TUTTE LE PEDINE, BIANCHE.
SI SA: NEL GIOCO DEGLI SCACCHI,
MUOVE PRIMA IL BIANCO, MA QUESTO
NON SIGNIFICA CHE LA PARTITA SIA SEGNATA.
INFATTI, STA AVVENENDO CHE IL TERZO MONDO STIA
PRODUCENDO RISORSE CHE LO SCHIERAMENTO BIANCO
NON POSSIEDE: LA GIUSTIZIA SOCIALE, LA FRATELLANZA
TRA GLI UOMINI, GLI ANIMALI E LE ALTRE BELTA’
DELLA NATURA, CHE, INCONTRASTABILE PERMETTERA’
AL TERZO MONDO NERO DI DARE SCACCO MATTO
AI BIANCHI, ISTUPIDITI DAL VILLAGGIO GLOBALE
DELLA LORO INFORMAZIONE, SCRITTA BIANCO SU BIANCO.

CONSTATAZIONI

NEL 1989, CADDE IL MURO DI BERLINO.
TUTTE LE TELEVISIONI DEL MONDO
TRASMISERO UN NUMERO IMMANE
DI REPORTAGES RIGUARDANTI L’ACCADUTO.
MA, AL CONTEMPO, TRASMISERO LA PUBBLICITA’.
NEL 1991, GLI STATUNITENSI MOSSERO GUERRA
ALL’IRAQ DEL DITTATORE SADDAM HUSSEIN,
RIPRENDENDOSI IL PETROLIO DEL KUWAIT.
TUTTE LE TELEVISIONI DEL MONDO
TRASMISERO UN NUMERO IMMANE
DI REPORTAGES RIGUARDANTI L’ACCADUTO.
MA, AL CONTEMPO, TRASMISERO LA PUBBLICITA’.
NEL 1993, BORIS ELTSIN FECE BOMBARDARE
IL PARLAMENTO RUSSO, UNICO CASO NELLA STORIA.
TUTTE LE TELEVISIONI DEL MONDO
TRASMISERO UN NUMERO IMMANE
DI REPORTAGES RIGUARDANTI L’ACCADUTO.
MA, AL CONTEMPO, TRASMISERO LA PUBBLICITA’.
NEL 1999, GLI STATUNITENSI (SEMPRE LORO)
ATTACCARONO MILITARMENTE LA JUGOSLAVIA,
PROCURANDO MIGLIAIA DI VITTIME INNOCENTI.
TUTTE LE TELEVISIONI DEL MONDO
TRASMISERO UN NUMERO IMMANE
DI REPORTAGES RIGUARDANTI L’ACCADUTO.
MA, AL CONTEMPO, TRASMISERO LA PUBBLICITA’.
POI, L’11 SETTEMBRE 2001, AL QAEDA
DISTRUSSE LE DUE TORRI GEMELLE DI NEW YORK.
TUTTE LE TELEVISIONI DEL MONDO
TRASMISERO UN NUMERO IMMANE
DI REPORTAGES RIGUARDANTI L’ACCADUTO.
MA, AL CONTEMPO, TRASMISERO LA PUBBLICITA’.
ANCHE LE TELEVISIONI STATUNITENSI FECERO CIO’.
POI, GLI STATUNITENSI TRUCIDARONO CIVILI
IN AFGHANISTAN E ANCORA UNA VOLTA IN IRAQ.
TUTTE LE TELEVISIONI DEL MONDO
TRASMISERO UN NUMERO IMMANE
DI REPORTAGES RIGUARDANTI L’ACCADUTO.
MA, AL CONTEMPO, TRASMISERO LA PUBBLICITA’.
PENSATE, GLI SPOT PUBBLICITARI TRASMESSI,
PROBABILMENTE, FURONO PIU’ DELLE PERSONE
UCCISE DALLE VARIE GUERRE E GUERRIGLIE.
MORALE DELLA FAVOLA: VIVA LA GUERRA
MA, SOPRATTUTTO, CONSUMATE I PRODOTTI
CHE IL CAPITALISMO VI FORNISCE
INCARTATI ACCURATAMENTE NEL SANGUE.

PER LA BORGHESIA

SPIACENTE, SIGNORA CARA,
MA IO NON POSSO ACCONTENTARLA!
SPIACENTE, CARA SIGNORA,
MA IO SONO UN PESSIMISTA!
D’ALTRONDE LUCREZIO E LEOPARDI,
CHE COSA ERANO?
E KAFKA E VERGA, CHE COSA ERANO?
GLI OTTIMISTI PENSANO CHE QUESTO
SIA IL MIGLIORE DEI MONDI POSSIBILI.
I PESSIMISTI SANNO CHE PURTROPPO LO E’.
SPIACENTE, SIGNORA CARA, MA IO NON POSSO
POETARE CON IL SOLE E CON LA LUNA,
CON LE STELLE DELLA VOLTA CELESTE,
CON GLI UOMINI, LE BESTIE E I FIORI.
SPIACENTE, CARA SIGNORA, MA IO DEVO
POETARE CON I MORTI IN MEDIO ORIENTE,
CON I MORTI PER DENUTRIZIONE DI TUTTO IL MONDO,
CON LA PROSTITUZIONE INFANTILE, CON LA MORTE
DI UN CRICETO SOTTOPOSTO AD ELLETROSHOCK.
E NON MI VENITE A PARLARE DI BICCHIERE
MEZZO PIENO E BICCHIERE MEZZO VUOTO.
IO VEDO SOLO MILIARDI DI BICCHIERI
COMPLETAMENTE VUOTI, COME I PIATTI
CHE VUOTI LI’ APPRESSO GIACCIONO.

RAGAZZA GRECA

SI SA, L’AMORE ESISTE PER I RAGAZZINI E PER I POETI.
LA PERSONA ADULTA E RAZIONALE LO RITIENE STUPIDO.
MA LA RAGAZZA GRECA SEDUTA AL TAVOLO DEL BAR,
SORSEGGIANDO LA SUA GELIDA BIRRA CON DUE ERRE,
MI PORTAVA ALLA MENTE EROS E LA SUA CAPACITA’
DI FAR NASCERE L’AMORE IN TUTTI GLI ESSERI UMANI.
IO LA GUARDAVO ATTENTAMENTE, DIREI CHE FISSAVO
ADDIRITTURA IL SUO SGUARDO CARICO DI MISTERO.
SI SA, UNA RAGAZZA GRECA HA IL CUORE PIU’ PULITO,
UNA RAGAZZA GRECA DISCENDE DAGLI DEI DELL’OLIMPO.
ED IO MI PERDEVO NEL SUO MISTERO, MI PERDEVO
NELL’IMMENSITA’ DEI SUOI OCCHI SCURI E DOLCI.
VOI AVETE MAI INCROCIATO GLI OCCHI SCURI E DOLCI
DI UNA RAGAZZA GRECA SEDUTA AL TAVOLO DI UN BAR?
VOI AVETE MAI CONOSCIUTO IL MISTERO DI UNA RAGAZZA GRECA
CHE CON I SUOI OCCHI ARRIVA SINO AL CUORE?
ARRIVA IL CAMERIERE E PORTA IL CONTO DELLA BIRRA.
RAGAZZA GRECA, TI PAGHEREI IO IL CONTO DI TUTTA UNA VITA,
MA TU FA’ SI’ CHE SE NE VADA QUEST' ORRORIFICA TRISTEZZA
CHE DA SEMPRE ALBERGA NEI MIEI OCCHI E NON MI FA VIVERE
UNA VITA, SEPPURE UNA SPORCA VITA, SEPPURE SPORCA.
FA’ SI’ CHE ANCH’IO MI POSSA PERDERE NEL MISTERO
DEI TUOI OCCHI SCURI CHE EROS TI HA DONATO
PER RESTITUIRLI AD UN UOMO SOLO IN QUESTO MONDO,
SOLO IN QUEST' UNIVERSO, SOLO NELL’IMMENSITA’.

DIO

I PALESTINESI ASPETTANO INUTILMENTE
DA DECENNI UNA TERRA DOVE VIVERE IN PACE:
EPPURE MOLTI CREDONO ANCORA IN DIO.
I BAMBINI DELL’AFRICA (E NON SOLO)
STANNO GIORNI SENZA MANGIARE E SONO
A LORO VOLTA MANGIATI DALLE MOSCHE:
EPPURE MOLTI CREDONO ANCORA IN DIO.
LE DONNE NIGERIANE (E NON SOLO)
SONO OBBLIGATE A PROSTITUIRSI OGNI SERA
CON QUEI PORCI DEGLI OCCIDENTALI:
EPPURE MOLTI CREDONO ANCORA IN DIO.
TRENTA MILIONI DI BAMBINI BRASILIANI
VIVONO PER LE STRADE, SENZA FAMIGLIA:
EPPURE MOLTI CREDONO ANCORA IN DIO.
MOLTI DICONO CHE DIO SIA MORTO, UCCISO:
EPPURE ALCUNI CREDONO ANCORA NELL’UOMO.
IL MONDO, COSI’, NON VA PER NIENTE BENE:
EPPURE ALCUNI CREDONO ANCORA NELL’UOMO.

SUONI E RUMORI

IL MIO VICINO DI CASA E’ VENUTO
ANCORA UNA VOLTA A COMUNICARMI
CHE IL SUONO DELLA MIA MUSICA
GLI DA’ FASTIDIO, LO DISTURBA.
IL MIO VICINO DI CASA
NON E’ INFASTIDITO DALLE BOMBE
INTELLIGENTI CHE GLI STATUNITENSI
GETTANO A MIGLIAIA SULL’IRAQ,
PROVOCANDO RUMORI E MORTE.
EGLI NON E’ INFASTIDITO DAL RUMORE
CHE PROVOCANO I KAMIKAZE IN ISRAELE,
ESPLODENDOSI E PROVOCANDO MORTE
TRA LA FOLLA INERME, INCOLPEVOLE.
IL MIO VICINO DI CASA NON E’ INFASTIDITO DALLE
SCEMPIAGGINI RUMOROSE CHE LE TELEVISIONI
GLI PROPINANO AD OGNI ORA DEL GIORNO
E DELLA NOTTE, SU QUALSIASI CANALE,
SATELLITARE O NO CHE SIA.
EGLI, PURTROPPO, NON SENTE
GLI ULTIMI RANTOLI DEI BAMBINI
DEL RUANDA O DELLA NIGERIA,
CHE MUOIONO DI FAME,
CON LE MOSCHE SULLA FACCIA,
NON AVENDO MAI ASCOLTATO UNA MUSICA.
IL MIO VICINO DI CASA SENTE SOLO LA MIA MUSICA.



* Romano Luperini è nato a Lucca nel 1940.
Insegna letteratura italiana moderna e contemporanea a Siena dal 1971.
È professore aggiunto all'University of Toronto, Canada.
Ha pubblicato numerosi libri di storia e critica della letteratura e storia degli intellettuali.
Ha insegnato nelle Scuole Medie Superiori per 10 anni.
Dirige le seguenti riviste:
Allegoria,  rivista di teoria letteraria, metodologia e critica della letteratura, pubblicazione quadrimestrale.
Moderna, pubblicazione semestrale.
Chichibio, il giornale degli insegnanti, pubblicato da Palumbo.


*FRANCESCO DI LENO (Milano 1963), laureato in Scienze politiche ha lavorato  presso vari uffici e si definisce poeta politico. Ha al suo attivo  quattro raccolte di poesie: “Anima e corpo” del 1993, “La maratona” del 1998, “Terzo mondo” del 2006 e “Barbarie del terzo millennio”. Ha vinto il premio “Italia letteraria” nel 2002 e nel 2004. È stato recensito da varie testate, tra le quali spicca la rivista internazionale “Poesia”. Ha avuto le sue opere presenti al “Salon du livre” di Parigi e alla “Fiera del libro” de L’Avana.

88 commenti:

Anonimo ha detto...

Cosa intende Luperini con la frase "solo il distacco della forma"? Per forma intende il proprio corpo e la sofferenza? Perché si dovrebbe ricorrere al "necessario inganno della letteratura" ? Secondo me Lucian Freud non sarebbe d'accordo.

Francesco Di Leno: che valore ha una critica che non avanzi la propria soluzione?

mayoor

Anonimo ha detto...

Le poesie di Luperini hanno un respiro meraviglioso e semplice l'emozione non raggiune solo il cuore ma scuote e fa pensare. I versi così contenuti riescono a sottrarci dal patetico , la confessione diventa non una liberazione ma quasi una denuncia alla vita che spinge verso la fine, un non morire che riesce a farci capire la caducità della vita, come poteva non piacermi tutto ciò!

Per quanto riguarda Di Leo mi sembra che le sue poesie siano più un riversamento di fatti politici , anche se scritti con grande impegno, che una poesia politica, che dovrebbe , secondo me, essere più significativa nei confronti di una eventuale riflessione che porterebbe a far pensare in modo diverso, insomma, più sottile , nascosto, poetico ma d'importante comunicabilità (e qui penso a Fortini). Emy

Unknown ha detto...

Ciao Mayoor, spero di non farti arrabbiare ( lo dico nel senso buono) parimenti mi auspico non ci batosti Ennio.
Ti dico come ho inteso le relazioni o collegamenti, interni ed esterni , quasi labirintici, messi in gioco e voluti in questa pagina da Ennio . Mi scuso fin d'ora con lui, e anche con te, per la mia interpretazione..

l"immagine" scelta da Ennio è centrale rispetto a tutto il resto, nel senso di chiave all'enigma dentro l'enigma che Ennio pone all'autentica e non burlesca diplomatica " viva e vibrante" questione senza soddisfazione.

Io questa pagina del "diario" dei "moltinpoesia" la vedo come la ricerca (frammentaria e/o continua) e la denuncia (lieve e/o profonda) del vero e autentico volto della realtà.
Ciò produce quell'insonnia , fisica pratica o allegorica, che è in costante allerta, con ogni senso(RE) acceso, per la pratica poetica, in pre-versi o chissà quali altissime liriche, risultato delle proprie sonde..che poi partoriscano a loro volta in pennelli o penne, "le forme" del praticante homo poeticus, non ha alcuna importanza, perché ciò che conta è aver lasciato traccia di lettura del vero volto della realtà. In questo ritratto di lavoro più o meno innato, più o meno allevato, più o meno faticoso,ma comunque introspettivo, si è consapevoli come per Lucian Freud, tanto come per Luporini in un modo e Di Leno in un altro, che non si avrà mai senso compiuto della mappa e del senso del genere umano ed è per questo che si è disposti a perdere il sonno visto il fiume di secoli che peggiora di secolo in secolo la ragione e la sua ricerca.

Vedo questo post estremamente connesso all'altro in cui grazie a Marcella non abbiamo "inziato" a sviluppare la domanda di cosa sia "poesia", ma semplicemente grazie a Marcella abbiamo ripreso a chiederci quale sia l' "identi(tà)-kit" di quell'essere che vuole esprimere la sua " relazione " con la realtà , che nel caso specifico di questa comunità, è l'uomo poetico che voglia o meno essere chiamato "poeta".

Credo che "al di là delle forme" ( più intimistiche o più politiche), i quattro autori messi in gioco in questo post ( i 3 poeti compreso E.A.+ un pittore),abbiano impostato tutta la loro vita, nell'impegno senza mai fine, del vero volto del senso della realtà.

Unknown ha detto...

scusa tutti i refusi tipo Luperini e altro. ciao:-)

Anonimo ha detto...

Secondo me in poesia il senso non andrebbe cercato, però lo si dovrebbe seguire con attenzione quando si affaccia. E forse si può far di più che prestargli il monolocale di un verso. Non sto a dire della realtà perché s'è detto già molto di quanta possa essercene nelle parole... perché le parole sono afrodisiache (sirene), tanto più se son belle. Quindi dispero sul fatto che in poesia si possa stare nel reale con facilità, a meno che non si abbia a disposizione almeno una comoda sedia. E sarebbe quanto. Sono sicurissimo che Dante, tra una terzina e l'altra, si faceva delle gran risate pensando alla veridicità dell'Inferno...
Le br motivavano le loro azioni con slogan sulla vittoria del proletariato, tutto qui: e se avessero vinto? Avremmo un partito che pensa lui a tutto? boh.
"...UN UOMO SOLO IN QUESTO MONDO,
SOLO IN QUEST' UNIVERSO, SOLO NELL’IMMENSITA’."
sembrano versi dolorosi, ma forse fraintendo. D'istinto penso a Don Backy, poi al fatto che 'ste cose indigeste andrebbero comunque scritte ( e bravo Di Leno!). E ora sto pensando a quando, mangiando una minestra, pensavo agli ogm, al ricatto delle multinazionali sui bisogni primari della gente, e a quanto m'incupivo, m'incupivo e neanche me ne accorgevo. Ma ero tanto più giovane, a mala pena sapevo dell'esistenzialismo, non vedevo che la mia casa era come nei quadri di Froid, malata e piena di polvere ( tutto suo nonno).
mayoor

Stefano Bosi ha detto...

Ridicolo Luperini. E' raro trovare tanto patetisno impudico, "Dolcezza disperata di settemre": sembra Adriano Celentano!

Stefano Bosi

Anonimo ha detto...

Ennio Abate a Stefano Bosi e Roberto Russo:

Voi non avete contato neppure fino a due prima di parlare.
Vi auguro di non passare per certe esperienze, di godere sempre ottima salute e di imparare ad usare meglio la retorica anni 2000.

Anonimo ha detto...

Freud
m.

Stefano Bosi ha detto...

@ennio abate

Non faccia il maestro, Ennio Abate, non ne ha l'autorevolezza. Lei scrive: "vi auguro di non passare per certe esperienze". Quali esperienze? Bastano le esperienze per fare la poesia? Lei mi augura "ottima salute"? Detto così, sembra che si auguri il contrario. Facciamo le corna, come si usa qui a Napoli. Lei vorrebbe morto il qui presente Stefano Bosi? Perché mai? E anche il censurato Roberto Russo? Lei crede all'enfasi mielosa di Luperini e alla dolcezza disperata di settembre?

Anonimo ha detto...

rileggendo: "Solo il distacco della forma mi ha consentito di vincere il pudore della confessione e la coscienza del necessario inganno della letteratura".
Credo che la forma sia quella poetica e che la frase significhi che ha potuto vincere il pudore della confessione attraverso il distacco (dalla sua esperienza) che il mettere in forma di poesia la realtà comunque comporta. Naturalmente Luperini è cosciente che la letteratura è un necessario inganno, necessita di in qualche modo 'tradire' la realtà (anche per questo aveva pudore a "confessarsi").
ciao
marcella

Roberto Russo ha detto...

Eccomi qua, sono Roberto Russo da Roma e confermo che i versi di Di Leno sono cronaca di giornale, semplice protesta politica senza ricerca e senza stile. "I Palestinesi aspettano inutilmente/da decenni una terra dove vivere in pace". D'accordo. Ma cosa significa, poeticamente, una frase come questa?

Robi

Anonimo ha detto...

Ennio Abate a Stefano Bosi e Roberto Russo:

Difficile intendersi di questi tempi, eh!
Prevedendo di essere subito impallinato da cecchini del vostro calibro, avevo fatto una premessa all'inizio del post( sopra in blu).
Ponevo la questione del perché, in momenti difficili (esistenziali e storici), persone di cultura e formazione diversissime ricorrono alla poesia.
E invitavo a rifletterci su.
Macché!
E chi non lo sa oggi, tra i tanti professorini improvvisati, che solo le esperienze o la cronaca di giornali non fanno poesia!
Ma che un illustre professore universitario come Luperini, in un momento della sua vita particolarmente pesante ( leggi la premessa ai "versicoli"...), senta il bisogno di ricorrere alla poesia per dire di un'esperienza di sofferenza e di annichilimento della sua figura pubblica ridotta a quella di lemure mi pare innanzitutto un fatto su cui riflettere, senza fiondarsi subito ad abbaiare e a sbeffeggiare. E a chi può venire in mente, innanzitutto e soprattutto, di accostare il verso "Dolcezza disperata di settembre" a Celentano?
Quanto ai versi cronachistici di Di Leno davvero c'è solo quello che si trova sui giornali?
Cari amici (o nemici) io non vi conosco, ma vedervi così sbrigativi e perfidi m’ìnfastidisce.
E se la preoccupazione della poesia o dell’accertamento di cosa sia o non sia poesia rende così accecati: abbasso la (ideologia della) poesia!

Anonimo ha detto...

L’urlo di Gozzano, o meglio di guidogozzano, all’affronto gratuito ai temi della malattia e della morte, per lui che ne aveva ricevuto il biglietto, è nelle parole inviate al critico Giulio De Frenzi con lettera del giugno 1907 (un paio di mesi dopo la notizia della sua malattia polmonare, la tubercolosi). Nella lettera, Gozzano prende le distanze dal poeta Stecchetti che in una raccolta di versi si era finto tisico e disperato. Dice Gozzano: «Ma come si vede che il poeta aveva sanissimi polmoni! è tutt’altra cosa l’idea di morire, tutt’altra cosa! Si resta lì: non saprei dire come. Ma non si mormora, non s’impreca, non si dicono cose brutte. Si aspetta sorridendo la morte: si sta quasi bene. E per questo trovo, invece, fraterna l’antica saggezza dei Sofisti […]. E appunto alla serenità socratica innestata e fecondata da tutte le tendenze moderne, vorrei informare la mia nuova poesia: la poesia di colui che si sente svanire a poco a poco, serenamente, e sente il suo io diventare gli altri.»
Rileggevo del tutto casualmente qualche giorno fa questo mio vecchio appunto su Gozzano e mi è sembrato pertinente in merito al tema proposto da Ennio Abate, al punto da trascriverlo.
Non condivido affatto il sintetico commento di Bosi, perché troppo sbrigativo.
Parlare con i mezzi della poesia della malattia (la propria o quella di una persona cara), o di un profondo disagio morale è sicuramente difficile, come difficile è farsi portavoce di chi subisce un disagio.
C’è uno stacco sensibile tra Luperini e Di Leno, per gli argomenti trattati; e tuttavia, entrambi, nonostante le diversità di approccio allo strumento poesia, sono accomunati dal sentire il dolore della perdita d’identità.
Giuseppina Di Leo

Roberto Bertoldo ha detto...

Un giorno scrissi che “la morte / smaschera i poeti”. Intendevo proprio questo, ossia che la morte è l’argomento più delicato e difficile da trattare poeticamente e solo il poeta autentico riesce a non cadere nell’ordinarietà, che in poesia è sempre volgare. Però non sono d’accordo con l’affermazione che “chi ha sanissimi polmoni” non possa comprendere e dire “l’idea di morire”. Che poi in verità è la sensazione, non l’idea. E difatti Gozzano dipinge la propria morte, non produce poesia. Perché c’è sempre un leopardiano “ch’eterno io mi credei” nell’ultimo rantolo di ognuno di noi.
Scrivere a polmoni sani della morte non è tuttavia il “necessario inganno della letteratura” di cui parla sciaguratamente Luperini. E infatti nelle sue poesie risulta palese il tentativo di fare letteratura senza inganno – guardate le parole che usa e le immagini: non sono versicoli, sono versi, brutti o belli, scontati o
singolari, patetici o meno, lascio decidere ad altri, ma versi letterari e con qualche Carducci di troppo.
Versicoli, credo e spero volutamente, sono quelli di Di Leno, che mi ricorda Ferruccio Brugnaro. Mi chiedo anch’io, come Russo, dove sia la poesia. E’ vero che la Beat Generation anticipava la musica Rap, ma la protesta aveva intensità, ritmo e poi ogni tanto fioccavano versi potenti, soprattutto in Gregory Corso. Oggi questa scuola ripetuta risulta abulica, senza smalto.
Vorrei però che quanto dico fosse inteso con tutto il rispetto che si deve alla scrittura di Luperini e di Di Leo.
Approfitto per salutare Mayoor, con il quale concordo, come quasi sempre del resto.

Roberto Bertoldo

Anonimo ha detto...

Bosi e Russo hanno espresso il loro parere, embhè? Passiamo oltre, quell'oltre che serve alla poesia e soprattutto ai poeti. Bertoldo insegna. Emy

Unknown ha detto...

forse, di fronte a certe cose che ripropongono nel mondo dell'arte il resto dei conflitti di tutti gli altri mondi, parrocchie e parrocchiette e paraocchi, non conviene richiamarsi a identi-kit specifici, di questo o quel cerchio, forse prima che letterati, o pittori, o poeti, o compositori etc etc conviene andare al concetto di Essere..essere uomo anzichè bestie che si consolano con una mera appartenenza a una comunità x, piuttosto che y. Le "guerre" sulle forme, delle diverse espressioni di dolore, si riducono sempre in scontri di religioni senza andare alla sostanza ,le mappe, il senso e il non senso, delle cose della vita singola o plurale..tutte cose che prima di appartenere a poeti o poesia, erano dell'uomo se le avesse volute prima che gliele esternalizzero e/o se le facesse alineare vieppiù nei secoli, o al contrario, con semplice coraggio, continuasse a volerle interiorizzare per esprimerle,al di là che siano di poeti o poesia.

Anonimo ha detto...

Qualche verso..quando "si passa" vicino alla sofferenza
Furtiva

Furtiva
apriva spiragli
a veglia
di sonni agitati,
di lacrime solchi
sul trucco maltolto.
Non dire la pena
è negare che ci sia.
Carezza degli occhi
cercava nel buio
la sagoma informe
nel letto,
respiro placato
nell'ombra
e al primo chiarore
al muro rasente,
lo scampolo di un breve
riposo.
Maria Maddalena Monti



Anonimo ha detto...

La bambina è morta. No, l'hanno intubata.
Le infermiere ci scherzano, è il loro modo per proteggersi
per non gridare alla finestra, al giardino dell'ospedale
al cielo grigio che non sa decidersi.
E' morta. Scherzano.

Non gridare, difendi, stai lì.
E' il cielo dell'ospedale, quello delle infermiere.
E' questa la morte: la finestra, il cielo che non sa decidersi.
Tempo d'attesa, cielo del corridoio.
Chi salverà le infermiere?

mayoor

Anonimo ha detto...

A Maria Maddalena :

Non mi sorprendi certo, perchè conosco bene i tuoi scritti e il tuo animo, ma come sempre mi lasci , leggendoti, quel benessere che solo i grandi sanno trasmettere. Grazie e complimenti . Emy

Roberto Russo ha detto...

@ Emy

Ma guardi, Emy, che Bertoldo ha ribadito (con la sua consueta intelligenza e il suo stile) ciò che avevo appena detto di Di Leno: versicoli di propaganda ideologica, senza nessuna ricerca, una specie di volantino degli anni 70. Diverso è il giudizio su Romano Luperini. Il quale Luperini è un marxista di fronte alla morte, dunque totalmente sprovveduto. Abituato a ragionare per classi, epoche e movimenti, ora si trova di fronte a un evento singolare e incommensurabile. E come reagisce? Nel modo peggiore: si aggrappa al già detto e al già saputo. Diventa letterario, eloquente, addirittura carducciano, come suggerisce Bertoldo.

Roberto Russo

Anonimo ha detto...

mi ha colpito una frase di Roberto Bertoldo, che non mi sembra di capire bene, è l'avverbio che gli chiederei di motivare: Scrivere a polmoni sani della morte non è tuttavia il “necessario inganno della letteratura” di cui parla sciaguratamente Luperini.
perché sciaguratamete?
marcella

Anonimo ha detto...


Ennio Abate:

Chiarito che si deve rispetto (finora mancato) alla scrittura di Luperini e Di Leno, rimane aperta la discussione del «dove sia la poesia» in questi «versicoli» dichiarati del primo (Luperini non è uno sprovveduto che s’improvvisa poeta dopo una complessa carriera di critico, che, tra l’altro, non è riducibile al marxismo: la sua è stata una ricerca intessuta prima di materialismo alla Timpanaro e, più di recente, si è avvicinata in modi originali all’ermeneutica; ed ha presentato esplicitamente questi suoi testi, che io ho preso dal suo blog, come «documentazione diaristica») e del secondo, Di Leno, che si vuole poeta politico.
Ora io vorrei ricordare che qui siamo in un blog che si chiama MOLTINPOESIA. E se posso condividere la preoccupazione di Bertoldo, di Linguaglossa, di altri (chiarendo che in buona parte è anche la mia), che cercano di delimitare con un serio ed encomiabile lavoro critico cosa sia poesia e alta poesia, condivido sempre poco quelli che pongono steccati netti ed escludenti nei confronti di scritture diciamo pure parapoetiche o, come mi disse una volta Kemeny, di “poesia espansa” o di “similpoesia” (Raboni). Non mi hanno mai convinto gli appelli vagamente intimidatori che prima di mettersi a scrivere poesie bisogna leggere tanta di quella poesia, ecc. La gente scrive e ricorre ai versi per mille ragioni e fa di testa sua. Posso, dunque, condividere la critica a quanti passano troppo alla svelta dall’esercizio di scritture brade o emozionali o passionali all’esibizione dei loro testi o alla pubblicazione. Condivido pure le critiche ai troppi che si fanno dichiarare poeti andando per le spicce. Ma considero l’esercizio costante e persino nevrotico o quello saltuario e motivato da urgenze esistenziali e umanissime qualcosa di legittimo, da non disprezzare, da considerare con molta attenzione. Se oggi non desse frutti maturi, potrebbe darli domani. Se oggi zoppicasse, domani potrebbe procedere più spedito.
E il blog io lo penso come un luogo dove molti esempi di questi esercizi devono trovare accoglienza e anche critiche. Dialoganti però e non sbeffeggianti. Mi va bene il drastico giudizio di Bertoldo («versi letterari e con qualche Carducci di troppo») che può aprire a delle valutazioni pro o contro. Per nulla quelli irridenti e saputelli di Bosi e Russo. Essere molti in poesia per me è un programma. In esso rientrano anche le bacchettate. (E quando è funzionato un “gruppo critici” all’interno del Laboratorio Moltinpoesia, non sono mancate). Ma che siano bacchettate ben pensate, che inducano a riflettere, ad approfondire, a rivedere modi di essere e di scrivere troppo fatui o impetuosi. Perché una vera élite poetica non ha bisogno di sbattere la porta in faccia se non agli arroganti e ai presuntuosi. Non mi pare proprio il caso né di Luperini né di Di Leno.



Roberto Bertoldo ha detto...

Un momento: il termine ‘letteratura’ per me non ha mai avuto la connotazione negativa che spesso si trova ad esso veicolata. Con “versi letterari” intendevo quindi dire che non credo a un Luperini improvvisatosi poeta, con esiti tra l’altro a volte anche piacevoli. Sono convinto che egli pratichi da sempre la poesia, lo leggo in filigrana. Quindi, per rispondere a Marcella, non vedo perché in letteratura l’inganno debba essere “necessario”. E’ solo che Luperini, da docente universitario, pone alla propria vocazione poetica e alla propria poesia gli stessi limiti che molti docenti universitari pongono alla propria saggistica per evitare di essere biasimati dalla comunità scientifica dei colleghi. Ecco dunque che la poesia di Luperini è ingessata e certi versi di sapore carducciano (solo due esempi: “sui cornicioni scroscia la pioggia” e “il verde / tenace delle foglie”, ma soprattutto l’abuso di gradazioni sia intere sia sospese) o pascoliano (“ala di vento transita”, “lamine d’oro”, “spicchi d’azzurro”) lo dimostrano.

Roberto Bertoldo

Anonimo ha detto...

questa messa in dubbio di una convinzione largamente presente in chi fa letteratura 'istituzionale' mi sembra condivisibile... lo sciaguratamente stava dunque a significare in modo sottolineato il rammarico per questo convincimento... grazie
(marcella)

Anonimo ha detto...

A Roberto Russo:
Infatti, io ho detto lasciamo esprimere il loro parere , perchè prendersela? Bertoldo con la sua intelligenza lo ha espresso in modo più corretto e con più stile non le pare? E questo anche lei lo ammette. Emy

Anonimo ha detto...

A Ennio:
Davvero bello il Blog come tu lo pensi, ma la bacchetta dai...mettiamola via!Emy

Moltinpoesia ha detto...

Ennio Abate a Emy:

Metter via la bacchetta significa eliminare la critica e distribuire complimenti a tutti e sempre.
Lo si faceva nel paradiso terrestre. Lo si farà nel mondo di Utopia. Qui e ora non è possibile.
Senza dimenticare che, oltre alla bacchetta, c'è chi usa il randello, il pugnale, le bombe e riesce a rendere insignificante persino la bacchetta della critica.
(Cfr. articolo di Dinucci che ho inserito sopra)

Unknown ha detto...

OT
http://www.ritornoalmondonuovo.com/search/label/Dinucci%20Manlio

segnalo nel link , l'intera raccolta dei pezzi di Manlio Dinucci con cui sto accompagnando il mio diario . Ad oggi è aggiornato al 16 ottobre, ma è completo (quando per motivi di altra programmazione, saltassi una o piu settimane travaso i suoi scritti, della rubrica del martedì" L'arte della guerra", in più articoli come farò il prossimo 6 novembre per gli ultimi due della seconda parte di ottobre)

grazie per l'attenzione.


ps
il suono "bacchettare" , a mio avviso , esprime impropriamente e malamente, il senso profondo e SENZA POTERE che è insito nelle guide,se vogliono essere tali, che siano sub, alpine, o poetiche. Non siamo in una sala zen, dove il "maestro" prende a mazzate la spalla dell'allievo , a meno che si accetti la contraddizione di non volere religioni o ideologie di poesia, ma poi invece a due pesi e due misure le si rivendichino dando luogo quindi alle mille e piu dissociazioni e schizofrenie dell'occidente senza filosofia pratica dei comportamenti.

Moltinpoesia ha detto...

Ennio Abate a In soffitta:

'Bacchettare' sta per 'criticare', l'ho sottolineato.
Tutti/e (uomini e donne dunque)in modi soavi (con un fiume di complimenti) o bruschi (andando al nocciolo spesso tragico delle cose) pratichiamo quest'arte anche su questo blog. Sia che ci sentiamo guide o maestri sia che ci poniamo nella postura dei ribelli.



giorgio linguaglossa ha detto...

il problema è che non bisogna chiedere niente alla «poesia», non dobbiamo chiederle (nemmeno indirettamente) che essa sia il riscatto dallo stato di soggezione, che essa sia la CONSOLAZIONE per un nostro dolore o altro. La poesia come consolazione di una nostra malattia, stato d'animo o stato psichico, per quanto atto sommamente nobile, non coincide con quello che la poesia è (quale atto ontologico) nè con quello che noi le chiediamo. Dunque, alla poesia non bisogna chiedere NULLA; e già il chiedere è qualcosa che avvicina l'atto di chiedere alla richiesta di GRAZIA (atto sommamente degradato e pregiudizievole) o alla richiesta di DANARO (come molti pseudo poeti che fanno simil poesia o para poesia.
Fermo restando che la poesia è qualcosa di molto raro, ogni poeta di qualche valore sa che non bisogna chiedere NULLA alla Musa, pena la fuga di quest'ultima. Condivido l'esibizione di letteratura di cui parla Bertoldo e taccio sull'esibizione di politichese del Di Leno... se è legittimo essere molti in poesia è altrettanto legittimo riconoscere che in poesia si è in pochi, anzi, in pochissimi in un intero secolo. E che la poesia fugge via leggera come un alce e un aquilone dalle mani dei bambini che vorrebbero catturarla. E che la poesia fugge via spaventata anche dai pessimi critici e dagli scolaretti dei pessimi critici.

Anonimo ha detto...

Emy a Ennio:

Ma suvvia Ennio l'avevo capito che"bacchettare" sta per "criticare", ma non mi piace l'idea della bacchetta, mi ricorda il fascimo (e anche un po' dopo) quando a scuola gli insegnanti la usavano per calmare scolari "indisciplinati" . Io davvero non ho sicuramente nessun problema a farmi criticare , e l'ho già dimostrato.Certo le critiche negative non fano piacere a nessuno e penso neanche a te, ma bisogna tenerle in considerazione e meditare. La critica deve esistere è importante ma senza la bacchetta , insisto. Emy

Francesca Diano ha detto...

E' appena uscito il libro di David Grossman, "Caduto fuori dal tempo", in cui ha cercato con coraggio e per insopprimibile necessità di "capire" la morte di suo figlio. Capire nel senso di contenere, dunque accettare come parte di sé. La necessità di dire l'indicibile. Questa narrazione, di un essere di nome Centauro, che si avvia verso una direzione che lui chiama "laggiù", ha chiesto - lui ha detto - di emergere in forma poetica, nonostante lui intendesse scrivere in prosa. La forma poetica si è imposta, quasi gli si è forzata dentro, mentre scriveva.
La poesia come forma si impone quando le è necessario. C'è in essa una necessità. Non si può dire altrimenti che così. Il post di Ennio chiede perché ci siano eventi e momenti di particolare sofferenza in cui si ricorre alla poesia.
Io rovescerei la domanda: perché la poesia è la sola che può esprimere quei momenti? Io credo che sia perché la poesia è parola nella sua nuda essenza, nella sua universalità di ogni possibile significato e solo la ricerca dell'universale si avvicina anche se solo come un tendere, a quella ricerca. La poesia non offre, ma chiede. Non dà, ma prende.
Provo grande rispetto per Luperini e per Grossman e per tutti coloro che hanno cercato di dire quel luogo o quella dimensione per cui non ci sono parole. Che sono indicibili. E' cosa molto dura farlo. E non si può fare che con la nudità totale di se stessi e della poesia che la chiede. Luperini lo ha fatto.

Francesca Diano ha detto...

E c'è un altro motivo. La poesia è quella tra le espressioni d'arte che più si avvicina al silenzio. E nel regno del silenzio lei sola è in grado di accedere.

Moltinpoesia ha detto...

Ennio Abate:

La critica senza la bacchetta è scipita. Come un cibo senza il sale.

Anonimo ha detto...

Emy :
La critica con la bacchetta è come il sale sulle ferite.

Anonimo ha detto...

La dimensione del silenzio è precipua in Luperini, ma paradossalmente egli la esprime con i riferimenti ai suoni esterni - come nella poesia Le stagioni.
Il silenzio è una dimensione difficilmente esprimibile con la parola. Ma sono concorde con Francesca Daino quando dice che la poesia è forse l’unica forma d’arte che più si avvicina al silenzio, e vorrei aggiungere che la poesia è la porta che si apre su questo interrogativo, interrogandoci.
La perdita d’identità, di cui parlavo nel precedente commento, la percepisco come la condizione che caratterizza l’essere umano che attraversa il sentiero del dolore. Il dolore non è mai una scelta, lo si deve accettare e basta. Il vero problema diventa “come” lo si accetta. Luperini ha avuto il coraggio di confrontarsi con il dolore anche attraverso la poesia.
Riporto qui di seguito due mie poesie. Un modo, il mio, per rispondere ai “perché” posti da Ennio Abate. Se ciò sia esaustivo non saprei.
All’amico della partenza, inserita in “Slowfeet. Percorsi dell’anima”, è qui riportata con alcune modifiche; “Una stanza” mostra i due diversi registri di poesia e scrittura insieme, la presento al pubblico per la prima volta.

All’ Amico della partenza

Un pezzo di pane ha tagliato
la gola ad un ragazzo
tra pezzi di vetro masticati come caramelle
per rimediare al dolore con un altro senza rimedio
per sanare con colore a un dolore;
ti avrei conosciuto nel mio letto
come immagine coma
poco dopo o poco fa nell’indigenza
prima di me eri partito
portando via un biglietto di sola andata
per me speciale un ritorno hai prenotato
e un lasciapassare in-oltre-passare
un visto in oltre amore.
Oggi mi torni al cuore
amico di un viaggio silenzioso
amico della partenza senza parole.

[A seguire:
Una leggenda metropolitana racconta che nel letto del coma il turno prevede: per uno, solo andata; a seguire, garantito il ritorno, per una nuova tornata].

Una stanza

Ti aspettavo.
Immobile eri
incerto, a me vicino.

Fuori piove. Un novembre cupo. Così, scuri, sono questi giorni di dolore, di mestizia, intrisi di parole buone e amore, di sangue, muchi, sale operatorie, flebo, urla e lacrime.
Più vicino sentivo o meglio
percepivo un suono, un fremito
venire nell'aria azzurramente.

Nel vuoto del vetro cerco la mia casa
la stanza dove mi nascondevo
dove pareti e porte si aprivano
ai suoni della strada.

Le sole cose buone (in buona salute) sono tenute al di fuori, viste da qui sembrano distanti. E la loro distanza è rischio di perdita, pericolo di fuga.
La speranza permea il tutto.

A questa distanza
non sento altro che voci rotte dai rumori
continuano il buio delle ombre.

Stando qui non si respira
non c'è vento che trascini
lontano. Rivoli confondono
nuvole piangenti in lacrime.

Si è soli in molti in un ospedale.
Qui positivo/negativo, i concetti correnti nella realtà “normale” sono invertiti nel loro significato, appartengono ad una sfera “altra”, razionalmente esclusa.
Occorre reimpostare la propria vita, vivere meglio, non avere paura di vivere.

Di vetro sono ora le mie mani
che toccano ogni goccia
nel gelo riflesso, cercandoti.
Fuori,
dove sembra crescere il sogno
stretto nel pugno intravedo
il segno del tuo profilo
la linea del tuo colore.
(Dicembre '98)

Giuseppina Di Leo

Moltinpoesia ha detto...


Ennio Abate a Giorgio Linguaglossa:

Credo, al contrario, che alla «poesia» (meglio ai poeti) bisogna chiedere molto e porre molte, molte domande. Dalle più elementari alle più complesse (e non sofisticate, però). Non certo quella: cara poesia, sento tanto dolore (esistenziale, sociale, fisico), mi puoi consolare? Per una domanda del genere ci sono già le risposte delle religioni.
Credo pure - e qui vorrei approfondire il confronto con te - che la poesia non sia «atto ontologico», ma fatto storico. Banalmente: gli uomini sono esistiti ben prima che producessero quel “qualcosa” che oggi chiamiamo poesia; e tuttora milioni di uomini e donne vivono (o sopravvivono in condizioni brutali di sfruttamento) senza aver alcun accesso a quella cosa che sempre (cioè astoricamente) chiamiamo con la stessa parola: poesia.
Mi chiedo poi: perché mai ai poeti (non alla poesia, che non risponde) «non bisogna chiedere NULLA» (e da quale filosofia nasca una tale apodittica tesi).
Non ogni richiesta s’«avvicina alla richiesta di GRAZIA». E non disprezzerei mai la dura necessità di milioni di uomini di chiedere denaro (in minuscolo) in cambio di lavoro ( e non per sollazzarsi ma per vivere o almeno sopravvivere), anche se la richiesta, di cui qui parliamo, ai poeti (non alla poesia) non ha direttamente a che fare con quella di denaro.
Le Muse poi sono fuggite da tempo. Senza che, per questo, i poeti non continuassero a scrivere poesie. E infine, per essere sincero fino in fondo, non si può trovare legittimo «essere molti in poesia» e allo stesso tempo «riconoscere che in poesia si è in pochi, anzi, in pochissimi in un intero secolo».
La prima cosa (che è una possibilità) contrasta con la seconda (che è la bruta realtà e molto di negativo dice su questa società che permette anche questa divaricazione, tra le altre ancora più pesanti).
Bisognerebbe, dunque, specificare. Come ho tentato di dire nel precedente commento: se si riuscisse ad «essere molti in poesia», l’essere poeti in pochi o pochissimi perderebbe quell’aroma di eccezionalità, di sacralità, di sacerdotalità, di specialismo per privilegiati. Che per me è un disvalore, un feticcio da combattere.
L’«essere molti in poesia» (come programma, come progetto) non significa banalmente o utopisticamente che tutti gli scriventi poesia vanno dichiarati poeti e buonanotte ai suonatori ( ai critici, alle bacchette, alle polemiche, etc.). Ma significa allargare significativamente il numero di quanti s’interessano di poesia e imparano ad usarla ( anche scrivendone, anche esercitandosi come meglio possono) come STRUMENTO DI CONOSCENZA del mondo e degli altri, condizionando così con la loro pressione e le loro RICHIESTE quanti - o per talento o per condizioni materiali e culturali di maggior vantaggio - possono occuparsi di poesia più di loro e meglio di loro. Invece di inchinarsi a questi ultimi, ammirarli, imitarli, vezzeggiarli, diventarne cortigiani ossequienti.

…e a Francesca Diano:

Mi permetto di dissentire ancora: la poesia non ci chiede nulla, meno che mai «la nudità totale di se stessi». E, anche quando avesse accesso al cosiddetto «regno del silenzio», lo rompe, perché è poesia e, se si adeguasse a quel regno, s’azzittirebbe, scomparirebbe.
Luperini - e credo di non sbagliarmi - con questi suoi «versicoli» ha contrastato l’indicibile ( la morte presente come minaccia, secondo dopo secondo, in quel «reparto di oncologia», per tornare al tema su cui ci siamo confrontati qualche post fa). E l’ha potuto fare proprio perché non si è abbandonato alla « nudità totale di se stessi», ma, come ha dichiarato, ricorrendo al «distacco della forma».

Francesca Diano ha detto...

@Ennio
Vorrei rispondere prima di tutto alla tua osservazione sul fatto che gli uomini sono esistiti prima di quella che chiamiamo poesia. Se è per questo, sono esistiti anche prima della pittura, della scultura, della musica, dell'architettura, della filosofia, ecc. Pur se le testimonianze sulla volontà di decorazione, e cioè di qualcosa di non necessario all'uso pratico di un oggetto, sono antichissime e dimostrano che sono nate quasi contemporaneamente alla tecnica. Insieme all'homo faber. Non sappiamo però se anche molte centinaia di migliaia di anni fa non esistesse qualcosa che si possa paragonare a quella che noi chiamiamo poesia. Di sicuro è nato il mito. E il mito le è strettamente legato. Dunque esiste nell'uomo una spinta alla "bellezza", a qualcosa che non soddisfa un bisogno materiale, ma è altrettanto potente. Anche se è vero che ancora oggi milioni di esseri umani non hanno accesso a tutto questo, ciò non toglie che sia superflua.
Non sono nemmeno d'accordo sul fatto che non è vero che i poeti siano pochi. Temo che il fatto che per essere dei poeti basti carta e penna (o tastiera e pc) confonda. Nessuno direbbe che i veri pittori non sono pochi, o i grandi musicisti sono molti. La poesia è arte e come tale richiede, anzi esige, la conoscenza della tecnica e del mezzo. Non basta essere ispirati. Non basta nemmeno la tecnica. Ci vuole la tecnica e ci vuole l'idea. Inscindibili.

Quanto al fatto che tu non sia d'accordo sulla mia affermazione che la poesia ci chiede moltissimo, va bene così. Tu hai la tua idea, io ho la mia. Io ho la mia esperienza, tu la tua. Scrivere per me, sia prosa che poesia, è un enorme sforzo, tutte le mie energie sono coinvolte e la concentrazione fortissima.
Tu non vedi nei versi di Luperini la nudità totale che invece grida da ogni parola. A me pare così evidente.
Quando dico che la poesia è quella, fra le arti, che più si avvicina al silenzio, forse ci si dovrebbe intendere su quello che si intende per "silenzio." E quello che si intende per "parola". Io intendo lògos. Non certo l'assenza di suono, ma il vuoto. L'abisso. Ma questo è un discorso troppo complesso per farlo qui in un commento.

"Tutte le arti tendono alla parola. La parola al silenzio". (Carlo Diano - Linee per una fenomenologia dell'arte)

Anonimo ha detto...

Non so se si tratti "semplicemente" di un mito, ma anche se fosse probabilmente, in profondità, ci deve essere l'inesauribile propensione alla speranza. Sapere che al mondo ci sono cose belle, fatte da persone capaci, porta a credere che non siamo (tutti) poi tanto male, che l'esistere non è soltanto quella m priva di senso che... naturalmente insieme all'amore in tutte le sue forme... e poco altro, perché sia gli alberi che il cielo, gli uccelli e gli arcobaleni, in fondo son sempre gli stessi. Cambia soltanto chi guarda, osserva o legge, un giorno ti sentirai indifferente al cielo, il giorno dopo lo stesso cielo ti sembrerà meraviglioso. Ma è lo stesso cielo. Tutto accade dentro, tutto cambia dentro in continuazione. Quindi penso che per l'umanità le arti abbiano un valore celebrativo ( che è stato perduto). Inoltre non è da escludere che le arti derivino dal gioco, e se il gioco si fa serio e difficile, se richiede grande sforzo invece di rilassatezza e fiducia, può significare che qualcosa non stia andando per il verso giusto. Quanto al silenzio, è vero ed è descritto nello spazio tra le parole, ad essere onesti non ci facciamo neanche caso. Accade anche parlando. E anche pensando. Ne deriva che le poesie altro non sono che ricordi di poesia, e che la poesia risieda principalmente nel suo farsi, mentre accade. Ma non è il parlarne che ci rende poeti, e nemmeno il saperne.
mayoor

Anonimo ha detto...

In questi giorni a Milano c'è una bella mostra, l'ennesima di Picasso. Picasso ha utilizzato ciò che sapeva della pittura per accostarsi alla pura attitudine. Tutto il novecento ne ha risentito. I nuovi sviluppi secondo me hanno a che fare con la tecnologia, più che con la restaurazione dell'accademia. Per completare precisando ciò che ho scritto sopra sulla poesia, mi riferivo proprio alla pura attitudine che andrebbe salvaguardata perché è allo stesso tempo punto di partenza e punto d'arrivo. La fatica e il lavoro fan parte del mestiere di scrivere, s'incontrano necessariamente nel percorso, ma secondo me sono il mezzo, non il fine della ricerca. Il mezzo serve per attraversare l'ultima porta (quella che non c'è, non c'è mai stata) pena il fatto che ci si fermi prima d'esserci arrivati.
mayoor

Moltinpoesia ha detto...

Ennio Abate a Francesca Diano:

La poesia o l’arte o la bellezza o la bontà non sono cose superfluee, ma fragili. Superflue (ma perché inaccessibili, fuori dalla portata, promessa più o meno vaga di felicità) appaiono - e io dire a ragione - a quanti non possono OGGETTIVAMENTE goderne. Se io ho fame, sono in prigione o sto morendo non sono nelle condizioni che permettono di apprezzare una poesia, un quadro, un bel paesaggio, un atto di bontà. L’aver sottolineato che «gli uomini sono esistiti prima di quella che chiamiamo poesia» ha per me uno scopo: non dimenticare quanto poesia, arte, bellezza e bontà appartengono, comunque, a un mondo di privilegiati, di gente con la pancia piena, che possono dedicare parte del loro tempo a queste cose. Se non lo dimentichiamo, guarderemo ad esse in altro modo e forse - Giorgio mi scuserà - chiederemmo qualcosa in più alla poesia (o ai poeti) invece che NULLA.
Una volta poeti e artisti avevano persino dei sensi di colpa misurando la loro condizione comunque privilegiata rispetto a quella dei poveri cristi, dei lavoratori manuali, degli operai, dei colonizzati. Oggi, visto che in molti possiamo aver accesso ai “tesori” della poesia o dell’arte (sia pur in teoria e sia pure in forme annacquate e distorte dalla gestione commerciale), i problemi interni a produttori e utenti di poesia e arte hanno preso del tutto il sopravvento rispetto a quelli che si porrebbero se valutassimo poesia e arte rispetto all’intera società.
Allo stesso modo, il problema dei pochi o dei molti poeti (o dei molti in poesia) o della competenza tecnica che l’esercizio della poesia o dell’arte richiedono, può essere posto *inter nos*, cioè in cerchie più o meno ristrette di persone ultracompetenti, semicompetenti o appena competenti; e allora la discussione si porrà in termini concorrenziali tra “conservatori”, che hanno solide conoscenza delle regole “di una volta”, spesso accademizzate e congelate, e vogliono che tutti vi si adeguino considerandole imprescindibili, e “innovatori”, che hanno nuove competenze, spesso maturate dalla pratica di nuove tecniche più “facili” o “di massa”.
Ma, in particolari circostanze storiche, il problema è stato posto anche *extra nos*. E allora si è riflettuto con più attenzione alla natura della poesia e dell’arte, viste come “fiori che nascondono le catene” (Marx). O con Benjamin sul fatto che «tutto il patrimonio culturale […] ha immancabilmente un’origine a cui non si può pensare senza orrore [poiché] esso deve la propria esistenza non solo alla fatica dei grandi geni che lo hanno creato, ma anche alla schiavitù senza nome dei loro contemporanei [e che] non è [=non si dà, nota mia] mai documento di cultura senza essere[= che esso sia, nota mia], nello stesso tempo, documento di barbarie» [Tesi di filosofia della storia].
Ricordarci e valutare questi due modi di porre le questioni non mi pare ozioso o pretenzioso.
Guardando dal secondo punto di vista, in particolare, e pur sapendo che oggi esso è finito quasi “fuori gioco”, a me pare risultino ridimensionati molti problemi che affannano quanti trattano di poesia e arte esclusivamente dal primo punto di vista. Anche se potrei ammettere che la poesia, a certe condizioni, potrebbe davvero essere, fra le arti, quella che «più si avvicina al silenzio». Ma quello vero, quello degli esclusi dalla poesia stessa e spesso anche dalle forme appena più civili di vita sociale. E anche questo “vuoto” o “ abisso” a me pare un discorso troppo complesso per farlo ora in un commento.

Anonimo ha detto...

A Ennio:

il tuo qui sopra apprezzabile pensiero, è un pensiero occidentale, in oriente le cose cambiano , anche con fame , prigionia, e disagi di vario genere, la poesia, la musica, la danza, la meditazione, vengono praticate con un'animo silenzioso e aperto alla serenità e alla conoscenza di quel sè che serve per vivere e per sentirsi uniti anche nel grave momento della vita dove l'abisso sembra tutti inghiottire. Emy

Moltinpoesia ha detto...

Ennio Abate:

In occidente come in oriente cambiano solo le forme - superficiali o profonde - di sfruttamento e oppressione; e poesia o arte o musica, al di là che vengano praticate serenamente o inquietamente da quelli che hanno il privilegio o la fortuna di praticarle, possono servire in due modi opposti: o a infiorare le catene o almeno a mostrarle.

Francesca Diano ha detto...

Giustissima osservazione Emy! Ci voleva. Purtroppo è proprio l'occidente che ha perso di vista il valore, il ruolo conoscitivo dell'arte e della pratica che essa richiede. L'ha relegata, da molti secoli, a divenire il fiore all'occhiello del potere. Certo che, quando si ha fame e freddo, non si ha un tetto né un lavoro, l'arte o le arti paiono lusso per pochi privilegiati. Ma fino a tutto il Medioevo gli artisti non erano considerati più che manovali e non firmavano nemmeno le loro opere. Così i grandi maestri pittori di icone, che si consideravano solo dei mezzi per la manifestazione della gloria divina e la loro pittura era una preghiera. L'armonia si rompe col rinascimento, quando l'artista diventa la star e, almeno nella maggior parte dei casi, dimentica l'umiltà del suo compito. Essere un mezzo, essere un tramite di bellezza e conoscenza. Il che richiede comunque un lavoro duro e una dedizione non indifferente.
La tecnica è il mezzo e non certo il fine, che è ben altro. La tecnica è solo il modo di acquisire la libertà di creare, innovare, rivoluzionare. Ennio pare intenderla solo come accademia e conservazione delle regole. Forse questo è ciò che accade oggi in occidente. L'enorme conformismo e vuoto che affligge le arti nasce dall'averle private dell'idea e di aver conservato solo la tecnica. Il che le uccide.
In due occasioni ho visto la Fracci danzare dal vivo. L'unica cosa che sa comunicare è una vuota, gelida perfezione formale, una cosa senza vita se non meccanica, priva di pathos. Così è finito, in ogni campo, l'occidente. E così finirà, se non si difende dalla nostra influenza mortifera, anche l'oriente.
Basta guardare che è successo alla Cina, millenni di cultura, sapienza, conoscenza, spazzati via e cancellati, distrutti per sempre dalla brutale ignoranza saccente della rivoluzione maoista e delle Guardie Rosse, proprio come i talebani. Per far posto a cosa? A una società più giusta? No. A una società altrettanto violenta, repressiva, di sfruttamento pari a quella precedente, ma in compenso molto più ignorante e bieca.
L'uomo è un essere infestante, tendente alla distruzione. Almeno in generale. Ma si salva per questa sua capacità, rara sì, fragilissima sì, di entrare in contatto con l'invisibile e di creare bellezza. Non sono in molti quelli che, nella storia umana, l'hanno fatto, ma sono quelli che Baudelaire chiama i Fari. Almeno guardiamo a loro.

Anonimo ha detto...

Emy:
Ancora una volta il tuo pensiero è occidentale , d'altra parte siamo in occidente e l'oriente, quello di cui io ho voluto parlare, è per noi molto lontano. Emy

Francesca Diano ha detto...

Ti sbagli Ennio, non è così. Questo è ciò che crede un occidentale. Chi pratica in India la musica, la danza, il canto, lo fa da un punto di vista talmente lontano da quello di cui tu parli, che se non lo si è visto di persona è molto difficile capire. Ti pregherei di non dare dei giudizi poco informati. In India ci sono molti musicisti che hanno aperto delle scuole per i bambini di strada e insegnano loro la pratica della musica, se vedono che c'è la predisposizione, per dar loro un'opportunità futura. Non è un privilegio, è una forma di consapevolezza di quel che l'arte significa nella vita umana.

Anonimo ha detto...

Il mio pensiero di cui sopra è rivolto ad Ennio in risposta al suo ultimo commento delle 15,17 . Emy

Unknown ha detto...

Penso che la sintesi della "fragile" contrapposizione fra Ennio da una parte ed Emy o Francesca dall'altra, sia superabile richiamando tante esperienze immaginarie poetiche o realisticamente poetiche ....la bellezza in ogni sua forma libera dalle catene della bruttezza tanto che chi vuole le catene del mondo, nelll'alt come le basso, vorrà sempre mantenerle uccidendo la prima ...

cito solo due esperienze, una cinematografica italiana, e l'altra musicale venezuelana ma che spero diventi italiana e di ogni luogo ....

1 Andrea Segre con il suo/nostro Io mi chiamo Lì...
2 José Antonio Abreu e Gustavo Dudamel con la loro/nostra orchestra giovanile Simon Bolivar

Francesco Di Leno ha detto...

Sono Francesco Di Leno. Sono stato zitto per cinque giorni. Mi avete detto di tutto. Soprattutto, mi è rimasto in mente il giudizio che liquidava le mie poesie come "volantini propagandistici stile anni '70". Vorrei sottoporvi un testo di Fabrizio De André e chiedervi: avete il coraggio di bollare anch'esso come "propaganda politica" ? ? ?

LA DOMENICA DELLE SALME

Tentò la fuga in tram
verso le sei del mattino
dalla bottiglia di orzata
dove galleggia Milano
non fu difficile seguirlo

il poeta della Baggina
la sua anima accesa
mandava luce di lampadina
gli incendiarono il letto
sulla strada di Trento

riuscì a salvarsi dalla sua barba
un pettirosso da combattimento

I Polacchi non morirono subito
e inginocchiati agli ultimi semafori
rifacevano il trucco alle troie di regime
lanciate verso il mare

i trafficanti di saponette
mettevano pancia verso est
chi si convertiva nel novanta
ne era dispensato nel novantuno

la scimmia del quarto Reich
ballava la polka sopra il muro
e mentre si arrampicava
le abbiamo visto tutto il culo

la piramide di Cheope
volle essere ricostruita in quel giorno di festa
masso per masso
schiavo per schiavo
comunista per comunista

La domenica delle salme
non si udirono fucilate
il gas esilarante
presidiava le strade
la domenica delle salme
si portò via tutti i pensieri
e le regine del ''tua culpa''
affollarono i parrucchieri

Nell'assolata galera patria
il secondo secondino
disse a ''Baffi di Sego'' che era il primo
si può fare domani sul far del mattino
e furono inviati messi
fanti cavalli cani ed un somaro
ad annunciare l'amputazione della gamba
di Renato Curcio
il carbonaro

il ministro dei temporali
in un tripudio di tromboni
auspicava democrazia
con la tovaglia sulle mani e le mani sui coglioni
voglio vivere in una città
dove all'ora dell'aperitivo
non ci siano spargimenti di sangue
o di detersivo
a tarda sera io e il mio illustre cugino De Andrade
eravamo gli ultimi cittadini liberi
di questa famosa città civile
perché avevamo un cannone nel cortile

La domenica delle salme
nessuno si fece male
tutti a seguire il feretro
del defunto ideale
la domenica delle salme
si sentiva cantare
quant'è bella giovinezza
non vogliamo più invecchiare

Gli ultimi viandanti
si ritirarono nelle catacombe
accesero la televisione e ci guardarono cantare
per una mezz'oretta
poi ci mandarono a cagare
voi che avete cantato sui trampoli e in ginocchio
coi pianoforti a tracolla travestiti da Pinocchio
voi che avete cantato per i longobardi e per i centralisti
per l'Amazzonia e per la pecunia
nei palastilisti
e dai padri Maristi
voi avete voci potenti
lingue allenate a battere il tamburo
voi avevate voci potenti
adatte per il vaffanculo

La domenica delle salme
gli addetti alla nostalgia
accompagnarono tra i flauti
il cadavere di Utopia
la domenica delle salme
fu una domenica come tante
il giorno dopo c'erano i segni
di una pace terrificante
mentre il cuore d'Italia
da Palermo ad Aosta
si gonfiava in un coro
di vibrante protesta

Unknown ha detto...

per Giorgio Lingualiglossa

la sua impostazione , estremamente elitaria aristocratica, non è la mia ...ma la capisco. Sarebbe come se in musica mi fossi messa in testa di poter ascoltare solo Monteverdi, Bach o Brahms, Led Zeppellin o Radiohead, Tom Waits o Sonny Rollins...e null'altro.

Lei, con i piedi per terra, ripsetto ad altri non è ipocrita, ha la visione non solo della perfezione ma, come in natura, non vuole confondere i brillanti con i quarzi piu volgari o le pietruzze piu comuni. Il suo gusto per la bellezza e dintorni non può consentirle di immaginare le fatiche e i sogni di queste pietruzze, che peraltro hanno sempre saputo di non poter mai essere e raggiungere i diamanti dai suoni più puri (ed è pure inutile ricordarglielo,lo sanno meglio di qualsiasi sublime poesia) ma non per questo hanno mai smesso di portare, nei loro sentieri, alla scoperta delle catene, e delle miniere, di quegli stessi suoni ante e post litteram.

Unknown ha detto...

Non ti hanno bollato tutti, diciamo quasi tutti , ma non tutti.
Grazie di questo tuo ricordo del Faber...e grazie a Ennio per aver fatto in modo che ti leggessi, prima non ti conoscevo.
ciao

Francesca Diano ha detto...

Proprio così. E la riprova è che più i regimi sono oppressivi e dittatoriali, più soffocano l'arte libera, il pensiero e la bellezza. I primi a finire messi a tacere con mezzi vari sono gli intellettuali (non venduti) e gli artisti. Che in Italia ci sia oggi una dittatura, anche se mascherata, è provato dalla inarrestabile politica di annientamento della scuola e dell'università, delle arti e della cultura. Si acclamano come artisti e intellettuali solo i più venduti o i più mediocri. Basti pensare allo scempio che un tizio come Benigni ha fatto di Dante, con i suoi commenti infarciti di disinformazione, di veri e propri svarioni interpretativi, di ignoranza becera e di come queste malinconiche esibizioni di uno che un tempo è stato un grande comico e ora è solo avido di denaro vengano fatte passare per cultura. Si dirà: ma almeno la gente si avvicina a Dante. Se questo è il modo di avvicinarglisi, meglio che ne stia lontana. Quelle meravigliose, ben precedenti, di Carmelo Bene o di Gassman, emozionanti, evocative, intense, di quelle no, non se ne parla. Il fatto è che quelli non erano servi di regime. E il regime s'è ben guardato dal reclamizzare la potenza davvero rivoluzionaria e dissacrante di Dante che da lì traspariva in tutta la sua forza.

Moltinpoesia ha detto...

Ennio Abate:

Caro Di Leno,
lasci stare De André. E non si offenda dei giudizi negativi.Faccia piuttosto presenti le ragioni delle sue scritture in versi politiche. Gli stessi volantini anni '70 oggi sono troppo facilmente ( i vinti sono sempre trattati a pesci in faccia...) liquidati come ideologici perché tutti credono di parlare fuori da "ogni" ideologia.
Esiste, per me, un'ideologia della poesia che rifiuta proprio certi contenuti politici e li vuole confinare fuori dalla poesia.
Resta però un problema serio e di sostanza: certi contenuti politici devono entrare in poesia con una forma (nuova) che non sia la stessa dei volantini o dei giornali. E che sia capace di farsi notare in questo presente che rifiuta certe verità.
Brecht, che di poesia politica ne fece parecchia, sapeva che c'erano molti ostacoli da superare.
In un interessante scritto, che vorrei riprendere su questo blog nelle prossime settimane, CINQUE DIFFICOLTA' PER CHI SCRIVE LA VERITA' (in SCRITTI SULLA LETTERATURA E L'ARTE, pp.118-131, Einaudi, Torino 1973) ne individuava cinque:
1. Il coraggio di scrivere la verità;
2. L'accortezza di riconoscere la verità;
3. L'arte di rendere la verità maneggevole come un'arma;
4. L'avvedutezza di saper scegliere coloro nelle cui mani la verità diventa efficace;
5. L'astuzia di divulgare la verità fra i molti.
Mi sembra un interessante pentalogo su cui riflettere...

Moltinpoesia ha detto...

Ennio Abate:

Se il mio «apprezzabile pensiero» è occidentale, anche il vostro resta comunque quello di signore occidentali invaghite dell’Oriente o che conoscono più da vicino pezzi della cultura orientale (nel caso di Francesca). Alla prova dei fatti e della storia le cose erano e sono molto più complesse dello schema Occidente= Male/Oriente= Bene che fa capolino nei vostri commenti.
E poi di quale corrente fa parte il mio apprezzabile pensiero Occidentale? Perché la sua storia non è affatto omogenea e unitaria: Galileo non sta a braccetto con Tommaso D’Aquino, né Rousseau con Hobbes, né Nietzsche con Marx.
Mi chiedo in che cosa «le cose cambiano» in oriente, se lì persistono «fame, prigionia e disagi di vario genere» (come con alcune differenze non trascurabili qui da noi). Cambierebbero perché lì poesia, musica o quant’altro verrebbero praticate «con un animo silenzioso e aperto alla serenità»? Ma anche in occidente non mancano poeti e artisti che praticano in modi quasi simili le medesime arti. Che tutto ciò serva agli artisti e a gente della loro cerchia «per vivere [anche nel senso materiale e non disprezzabile di cavarci il necessario o il più che necessario per campare bene] e per sentirsi uniti anche nel grave momento della vita dove l’abisso sembra tutti inghiottire [ma - attenzione! - non negli stessi modi e tempi, il che non è trascurabile: gli “inghiottiti” al momento sono quelli dei piani bassi o medio-bassi del Titanic, non quelli dei piani alti che ringhiosi o soavi li schiacciano…]» è evidente. Fa appunto parte dei privilegi e dai vantaggi assicurati a quanti partecipano, in varia misura e con ruoli dirigenti o subordinati, al Banchetto Capitalista.
E tutto ciò - l’insieme di queste condizioni materiali e i sentimenti e i pensieri e le ideologie ad esse collegati - vale per quote consistenti della popolazione occidentale e orientale. Lo deve confermare la stessa Francesca, quando accenna alle attuali, sconvolgenti trasformazioni della Cina.
(Qui brevi precisazioni storico-politiche: - la rivoluzione maoista portò alla fondazione della Repubblica popolare cinese nel 1948 e fu, secondo me, un grande progresso per i cinesi; - essa è altra cosa dalla rivoluzione culturale delle Guardie Rosse degli inizi anni ’60 del Novecento e non va messa nello stesso sacco nero; - quest’ultima, incoraggiata e indirizzata contro i vertici “revisionisti” del PCC, ma alla fine repressa dallo stesso Mao perché fuori controllo, fu però un estremo tentativo di bloccare proprio l’avanzata del blocco politico-sociale (la “linea nera”, il vento dell’ovest) che ha poi, vincendo lo scontro, prodotto uno strano regime “capitalistico-partitico”, che del comunismo ha conservato soprattutto la facciata e alcune liturgie).

[continua]

Moltinpoesia ha detto...

Ennio Abate (continua):

Però, intendiamoci bene. Se io sostengo che «in occidente come in oriente cambiano solo le forme - superficiali o profonde - di sfruttamento e oppressione; e poesia o arte o musica, al di là che vengano praticate serenamente o inquietamente da quelli che hanno il privilegio o la fortuna di praticarle, possono servire in due modi opposti: o a infiorare le catene o almeno a mostrarle», mi sideve rispondere a tono. Mi si deve dimostrare che non è così, Non ritengo sufficiente replicarmi che «in India ci sono molti musicisti che hanno aperto delle scuole per i bambini di strada e insegnano loro la pratica della musica, se vedono che c'è la predisposizione, per dar loro un'opportunità futura». Un fatto del genere non dimostra che l’India o l’Oriente siano superiori o abbiano regimi più umani di quelli occidentali. Il filantropismo c’è stato e c’è ( come fenomeno secondario e palliativo) in tutte le società. Nella storia dell’Occidente i sanguinosi stermini degli indios hanno visto sempre degli oppositori filantropi come Las Casas. Ma in Oriente non mi pare che esso cambi i rapporti sociali tra dominati e dominanti. E specie oggi, che non è più solo l’occidente ad essere «infestante [e] tendente alla distruzione».
Bisognerà, dunque, pur spiegarsi perché la storia abbia imboccato questa brutta direzione. E dire anche se è possibile invertirla, come, chi oggi può fare un tale tentativo. È un problema che dovrebbe assillare di più anche le menti dei poeti. Invece a me pare che il compito di «entrare in contatto con l'invisibile e di creare bellezza» sia un ideale quietistico; e, quando la spinta distruttiva è tanto forte, fare… i «Fari» mi pare troppo, troppo poco.

[Fine]

Anonimo ha detto...

Aspettavo una confidenza che non c'era, poi è arrivato questo DeAndrè e ho sentito che nelle sue parole ci siamo tutti, proprio tutti, perché nelle sue parole c'è universalità e il suo schierarsi arriva dopo, perché prima ti coinvolge. Dal poeta della Baggina ai trafficanti di cocaina in un passo. Non c'è costrizione di vedute.
mayoor

Anonimo ha detto...

... e poi siamo a 57 commenti (scuserai la deformità mentale che mi fa dare i numeri), e per un esordio su questo blog è un vero trionfo.
m.

Anonimo ha detto...



Io sarò una "signora invaghita dell'oriente" (anche se capire il loro pensiero richiede uno sforzo ed un ascolto enormi), ma tu Ennio,sei molto legato e sottolineo legato all'occidente. I tormenti e le persecuzioni le troviamo ovunque, ma è come ci si pone a queste disgrazie che fa di un popolo la differenza. Il mio discorso era molto staccato dal nostro modo di pensare, io non credo che noi siamo più preparati ad affrontare quei pericoli, ma l'insegnamente all'amore per l'arte può instradare un popolo ad una maggiore consapevolezza spirituale e/o morale. Anche le mie parole sono di una occidentale che alla fine razzola come tutti gli occidentali, ma non sono invaghita della cultura orientale anzi, mi ha aiutata a capirmi meglio e soprattutto a scegliere spesso strade che nessuno mi avrebbe mai indicato che mi hanno portato verso una consapevolezza che non ha niente a che fare con l'attaccamento a tutto ciò che in occidente troviamo indispensabile.Penso che la parola BELLEZZA racchiuda così tanti significati che resterà sempre lo scrigno in cui conservare tutte le parole che innalzano l'essere vivente alla più importante delle dimensioni: l'amore per la vita e di conseguenza al suo rispetto. Emy

Francesca Diano ha detto...

Caro Ennio, posso capire quale sia il modello di "signore occidentali invaghite dell'oriente". Ne circolano tante sia in Italia che in occidente in generale. Fanno il paio con signori occidentali invaghiti dell'oriente. Delle une e degli altri ne ho conosciuti parecchi. In genere sono ricchi, radical chic, fanno yoga (o quello che loro credono sia yoga) o aprono scuole di yoga (cioè quello che loro spacciano per yoga) dove vanno altri invaghiti dell'oriente. Fanno meditazione in centri appositi, fanno la spesa in negozi di prodotti naturali, magari sono anche vegetariani. (Gli indiani che lo sono, lo sono per motivi religiosi, di casta e di purezza. Fanno viaggi in India, organizzati o meno, spesso vanno ad Auroville, un posto dove spillare soldi ai ricchi occidentali creduloni, dove nessun indiano andrebbe mai e credono che quella sia l'India. Vanno in ashram pagati a caro prezzo dove si fanno abbindolare da guru (che significa anche solo maestro, oltre che Maestro) improvvisati che, più che giustamente, li mungono come mucche e li prendono per i fondelli. Ascoltano musica indiana senza capire di che si tratti e leggono romanzi di autori indiani che scrivono con successo in inglese appositamente per il mercato occidentale e che nessun indiano legge o apprezza. Insomma, della immensa e antichissima cultura e civiltà indiana poco o nulla conoscono né capiscono. Ma anche dell'India di oggi poco capiscono o sanno. Insomma, le signore e i signori invaghiti dell'oriente sono proprio come quella ridicola protagonista di "Mangia prega ama" e la sua autrice. E posso assicurarti che gli indiani gli ridono dietro e gli spremono un bel po' di soldi. E fanno bene. Poi ci sono gli occidentali che, per motivi di studio e di amore dormono anche in stamberghe con i topi pur di seguire un Maestro vero che insegni loro la tradizione musicale o di danza di cui sono portatori. In genere i veri guru non vogliono allievi occidentali, se non dopo essersi assicurati che non ci vanno per moda o perché sono "invaghiti" dell'oriente.
Io non ho affatto contrapposto occidente/male e oriente/bene. Questa è una tua deduzione, che del resto non tiene conto di tante altre cose che ho scritto nei precedenti commenti. Non sono così stupida o sempliciona. O ignorante.

Quanto al fatto che chi ha fame, o è in prigione ecc. non pensa alla poesia, forse ti sfugge l'enorme numero di poeti e scrittori e artisti che hanno fatto la fame eppure seguitavano a produrre bellezza, che vivevano in estrema povertà eppure l'ESIGENZA di fare poesia o arte non è MAI venuta meno. Quelli erano dei privilegiati? Dei fortunati? Cervantes, De Sade, Choderlos de Laclos hanno scritto i loro capolavori in prigione. Erano dei privilegiati? Dei fortunati?
Non pensavo che la tua idea di cosa sia davvero un artista fosse così rigida e piena di preconcetti.

Francesca Diano ha detto...

Abbi pazienza Emy. Magari Ennio ci ha prese per quelle sciùre della Milano bene che impiegano il loro tempo nei centri di yoga aperti da occidentali e sono in effetti delle macchiette. (Vedi il mio commento sotto) Non tutti sanno distinguere.

Unknown ha detto...

@ Emy/Francesca e Ennio
La vostra contrapposizione è solo apparente..risente a mio avviso di un'"universalità" che radicalizza in due forme diverse il sistema binario ...il paravento o lo scudo dietro il quale attaccare o difendersi può essere una maggiore o minore senzazione o sollievo di "consapevolezza"..da una parte politica, e dall'altra poetica...Tuttavia le due facce sono state divise dall'alto proprio per consentire che in basso ci si scanni, o quantomeno ci si senta separati o separabili, da quel bene comune che li legava insieme e tuttora è qui tale e quale nelle sue tracce in qualsiasi pezzo del mondo seppur in macerie...l'occidente ha tradito se stesso via via nei secoli tanto come l'oriente, con "il programma" del mondo/mercato iniziato ben prima del novecento o dell'ottocento.

Anonimo ha detto...

A Rò:
Io volevo aolo eaprimere il mio pensiero riguardo il fatto che l'arte in questo caso la poesia,come diceva Ennio, è per chi ha la pancia piena o comunque vive in condizioni che gli permettono di apprezzarla. In oriente per millenni non è stato così, l' arte è state insegnata come materia principali nelle scuole ed è tutt'ora importanti per il popolo (anch'io non so fino a quando...). Ripeto l'ingiustizia, la schiavitù e le guerre da sempre sono esistite in tutto il mondo , perciò anche in oriente, ma il mio pensiero era strettamente legato alla filosofia di questi popoli, se vogliamo fare politica è tutt'altra cosa, importante, ma un'altra cosa. Emy

Unknown ha detto...

La poetica non è( non era e non sarà) disgiunta dalla politica!!!!

L'homo poeticus è o non è tuttuno , semplicemente perché il centro di tutto e di tutta la storia dell'uomo, singola e plurale, è la sofferenza che egli infligge e si infligge, quindie COME viverla, combatterla, raccontarla, liberarne o al contrario pseudoliberarne l'uomo e le palle con cui l'hanno intortato nei secoli, OVUNQUE, al di là delle radici antropologiche , culturali, geopolitiche o geografiche.

NON E' POSSIBILE PER CHI AMA LA BELLEZZA (poesia, musica o arte in senso ampio) DISGIUNGERE L'ASPETTO POLITICO!!!

Unknown ha detto...

Esempio

quando tu Emy scrivi ad esempio la poesia del cantante o del lume o della rossa,
o quando Francesca scrive il racconto sul gelato piu buono dell'universo, anche se non vi sembra , fate politica...

potrà sembrare un verso o un racconto lirico personale, ma non è solo poetica, è politica..che poi abbiano voluto rimuoverne la coscienza, è un altro paio di maniche, infatti alcuni rispetto ad altri sono meno consapevoli della introspezione e sensibilità al fine di liberarsi della fregnaccia che siamo animali sociali, per poterli diventare sul serio rispetto agli animali stessi.

Anonimo ha detto...

... almeno Ennio esprime il suo giudizio universale, distinguendo tra sfruttati e sfruttatori non pone differenze tra oriente e occidente. E' semplice. Non è altrettanto semplice separare gruru da falsi guru, yoga da falso yoga (come lo si stabilisce, chi lo stabilisce?). Un tempo lo credevo anch'io, ma ogni volta che ho avuto modo di confrontarmi con qualche praticante mi sono dovuto ricredere, perché in tutti ho constatato un fondo di onestà che mi ha indotto ad essere più rispettoso. Anche i falsi guru possono essere d'insegnamento, tutto dipende dall'allievo e dall'onestà della sua ricerca. Anche per queste scelte, come per la poesia, conta l'onestà. O si è ricercatori spirituali, e poeti, o si è affaristi. Anche il mio giudizio universale è semplice.
mayoor

Francesca Diano ha detto...

Cara Rò, non vorrei che il mio discorso fosse inteso come una semplicistica opposizione oriente/occidente, che del resto non ho introdotto io. Ho concordato con Emy sul fatto che non ovunque la poesia (l'arte) è privilegio di chi ha la pancia piena. Non lo è stata nemmeno da noi. L'arte non è un privilegio, ma, da sempre e ovunque, una necessità. E' un fatto antropologico, storico e culturale incontestabile. Non lo dico io. Anzi, la nascita dell'arte è strettamente legata al sacro. Ritmo, musica, danza, poesia, decorazione, pittura, scultura nascono all'interno di una visione sacrale della natura e del mondo.
Quello che ancora sopravvive in oriente, lo aveva anche l'occidente. In oriente c'è ancora in parte perché non si è ancora del tutto occidentalizzato. Purtroppo lo sarà, ma è la forma mentis che è diversa. Non si tratta di opposizione, ma di diversità. E non riconoscerlo non serve a nulla. Seguita comunque ad essere così, che uno lo veda o meno. Che uno si tappi gli occhi o meno. In occidente abbiamo avuto mistici immensi, ma ora solo a pronunciare le parole "anima" o "spirito" o "trascendenza" ti guardano storto, quando non ti ridono dietro.
Certo che l'umanità ha sempre compiuto dei misfatti, ovunque e in qualunque tempo, poi negli ultimi due secoli di più. Ma è stato l'occidente, USA in primis, a imporre a tutti l'abominio della dittatura del denaro e del profitto ad ogni costo. Mai come ora.

Francesca Diano ha detto...

Cara Rò, io sono consapevolissima che qualunque atto reso pubblico (e forse anche non) è un atto politico. Nel momento in cui si scrive (o si realizza una qualunque opera), se lo si fa davvero non è solo per dare sfogo a delle emozioni. Tutt'altro. Era una vecchia discussione che avevamo già fatto. Lo si fa come atto conoscitivo e il suo scopo è quello di aggiungere anche solo una briciola alla conoscenza del mondo da condividere. Dunque è ovvio che è un atto politico. Cioè, nel suo significato originario, un atto comunitario.

Anonimo ha detto...

Anche il mio pensiero era semplice. Gli imbroglioni sono sempre esistiti. Emy

A Rò:

quando si dice che la poesia è per chi sta bene e non si trova in difficoltà , me lo dici dove sta la politica in poesia? Comunque io volevo solo mettere in confronto due culture e termino qui. Ciao Emy

Francesca Diano ha detto...

@Mayoor
Come ho specificato più sopra, non esiste una contrapposizione tra oriente e occidente e non l'ho introdotta io. Diciamo che Ennio, con la sua natura passionale che gli fa onore, poteva però risparmiarsi di tacciare Emy e me di sciùre fissate con l'oriente. Almeno per quanto mi riguarda, dato che posso parlare solo per me, non è così. I miei percorsi li ho fatti e li faccio e sono stati lunghi, tortuosi e molto utili. Ho preso ciò che mi era necessario dovunque l'ho trovato, che fosse occidente o oriente e ho spesso trovato moltissime similitudini. Ho sempre rifiutato i guru, perché sono convinta che nessuno ci possa insegnare nulla né noi possiamo insegnare nulla a nessuno. Però possiamo imparare moltissimo da tutti. E' per questo che apprezzo moltissimo Krishnamurti, che spazzava via tutto questo ciarpame. Ma esistono delle enormi diversità nella visione del mondo. Del resto si sa che le possibili forme di vita sono innumerevoli e quindi anche le possibili visioni e civiltà. Spesso non sono conciliabili e ne nasce un conflitto.
Per separare i guru dai falsi guru forse vale ancora il vecchio detto: per capire l'albero guarda il frutto. E hai perfettamente ragione che tutto dipende dall'onestà della ricerca dell'allievo. Perché è l'allievo che trova il maestro e trova esattamente quello che è adatto a ciò che gli è necessario per "imparare". Ma hai anche ragione che un falso guru insegna a volte più di uno vero, perché rispecchia una parte di quello che siamo. Un po' come quando ci si innamora della persona "sbagliata" e si compie l'errore di addossare all'altro la responsabilità. In fondo quella persona ha fatto emergere una parte distruttiva di noi stessi e le si dovrebbe essere grati perché ci ha permesso di portarla alla luce. L'importante è capirlo. L'importante è la consapevolezza.

Vedi però che anche te concordi sul fatto che si debba fare una scelta e che ricerca spirituale e fame di denaro non possono conciliarsi. Il che non significa che chi persegue lo spirito o la poesia non debba vivere dignitosamente.

Anonimo ha detto...

Scusate ...a confronto. Emy

Unknown ha detto...

@Emy
Ennio lo conosci più di me, s'insospettisce subito alla parola "universale" o "oriente" o " anima" o "spirito" ...pure di fronte Allah o Buddha, Cristo o Dio,se prendesse a frequentare questo spazio e gli scrivesse, gli darebbe mazzate.

Non si rende conto che come vuole fare per poesia (o qualsiasi arte) potrebbe e dovrebbe fare la differenza? fra commercianti di pseudoanima o pseudoarte e chi errante la porta seco cercandola dentro e fuori se stesso?
Cacchi suoi! chi ci perde o soffre di contraddizioni rimarrebbe lui! che però ha un grandissimo valore per chi invece , come scrive Mayoor, ha un altro spirito di ricerca, perchè Ennio o qualsiasi suo simile d'identica "rigida" postura , è necessario come il pane a chi è in un senso molteplice e non duale di ricerca tutta, compresa quella di anima...ogni sua obiezione, anche se malamente e certamente offensiva, è vitale per tentare la ricomposizione di un mosaico in macerie.

Moltinpoesia ha detto...

Ennio Abate a Emy e Francesca:

È occidentale o orientale, in una discussione, soffermarsi su un aspetto marginale toccato dall’interlocutore e non rispondere sulle questioni di sostanza che egli pone?
Non lo so. A me pare semplicemente sbagliato. E ve lo faccio notare con calma. Voglio ragionare e credo che si ragioni ancora (non tutti, non sempre) sia in occidente che in oriente.
Penso che la contrapposizione occidente/oriente sia - non totalmente, ma in gran parte - fasulla.
Mi attesto sulle posizioni di Amartya Sen, che mi sembrano più produttive per chi voglia confrontarsi su analogie e differenze tra mondi FINORA molto diversi, ma ora di meno.
Una contrapposizione oriente/occidente esasperata non ci fa capire QUESTO mondo e non ci porta ad affrontare i problemi NUOVI e TREMENDI che si sono posti agli uomini con lo sviluppo del capitalismo ormai arrivato alla sua mondializzazione. Piuttosto tende a distoglierci da essi.

Ora non faccio fatica a togliervi dal mazzo degli invaghiti o invaghite della cultura orientale. Ho poi detto che la contrapposizione occidente/male e oriente/bene faceva solo capolino nelle posizioni tue e di Emy. Se non fa manco capolino, meglio ancora. Siamo su questo punto d’accordo.


Ma mi pare giusto però far notare che, se l’obbiettivo resta il raggiungere «una consapevolezza che non ha niente a che fare con l'attaccamento a tutto ciò che in occidente troviamo indispensabile», non c’è da andare in oriente o guardare soprattutto all’oriente (antico). Qui, in Europa, c’è stata tutta una tradizione eremitica, ascetica e poi francescana (o in generale della “Chiesa povera”) che di questa consapevolezza ha fatto il centro della sua riflessione ( e poi delle sue pratiche: organizzazione in ordini conventuali).

[continua]

Moltinpoesia ha detto...

Ennio Abate (continua):

E mi pare ancora più giusto però far notare che, se ci sono, oltre a ‘Bellezza’, tante altre parole ( libertà, giustizia, fraternità, etc.) che indicano valori che parrebbero innalzare « l'essere vivente alla più importante delle dimensioni: l’amore per la vita», molti di quelli che, ricorrendo ad esse, finora si sono “innalzati” (religiosi, filosofi, artisti) non hanno potuito impedire che milioni di altri continuassero ad “abbassarsi”: ammazzando, rapinando, ricorrendo alla menzogna per accumulare denaro e potere, ecc.
Il problema della efficacia in QUESTO mondo della diffusione o del culto (religioso o laico) di tali parole ( e dell’opera di religosi, filosofi, artisti che si sono “innalzati”) è irrisolto.
È questo il problema che ho posto e che viene evitato.

(Cara Francesca, no, non ti ho preso per una delle sciùre della Milano bene. E mi pare sprecato tutta la tua fatica a smarcarti da esse o a ironizzare su di esse. Io vorrei che ci confrontassimo sui giudizi che hai dato su rivoluzione maoista e rivoluzione culturale e sull’estensione di modi di produzione capitalistica in Cina, che il suo gruppo dirigente voleva fare socialista, ma anche in India o nei paesi della ex Urss. Quanto sta avvenendo OGGI rende, secondo me, non solo ancora più problematica la distinzione oriente/occidente ( che la si pensi come opposizione o diversità), ma più drammatica la ricerca di come opporsi agli aspetti distruttivi della trasformazione in corso.
Inveire contro «l’occidente, Usa in primis» non serve. Credere di poter attingere alle ultime riserve di pensiero autentico che ci sarebbero ancora in oriente? Dare all’arte o agli artisti o all’«homo poeticus» un ruolo guida o di Fari?
A me paiono idee vaghe e fondate su una nostalgia e un amore per civiltà del passato chedi per sé SENZA UN NUOVO PROGETTO POLITICO adeguato alla realtà trasformata possono ancora una volta solo “innalzare” alcune cerchie di intellettuali e consolarli della loro marginalità storica, mentre i potenti in ogni parte del mondo lottano tra loro e compiono i loro “misfatti” (Cfr. mia osservazione a Marcella Corsi e l’articolo di Manlio Dinucci: noi tutti presi dalla “vita quotidiana” e quelli a bombardare)..

È su questi dilemmi, non sulle sciùre, che vorrei si approfondisse la discussione (anche per tornare ai temi del post: della sofferenza esistenziale o politica che abbiamo sotto il naso.
Quanto alla condizione di artista, ho parlato in generale di privilegio della loro condizione sociale rispetto a quella di altri (lavoratori, plebe). Il che non significa che quel privilegio (meglio: quello stacco degli artisti dai lavori più pesanti) li rendesse tutti fortunati o ricchi o benestanti).

[Fine]

Anonimo ha detto...

Ma cosa c'entra tutto questo onorevole discorso con il confronto dell'insegnamento delle arti tra oriente e occidente.Emy

Moltinpoesia ha detto...

Ennio Abate a In soffittà:

Vedi che io non m'insospettisco quando sento parole come universale, oriente, anima o spirito, ma ci voglio ragionare e capire a cosa corrisponde l'uso di quelle parole in un singolo, in un gruppo religioso o di ricerca.

Alcune cose non le capisco. Ad es. non capisco il senso di questa tua frase: "Non si rende conto che come vuole fare per poesia (o qualsiasi arte) potrebbe e dovrebbe fare la differenza? fra commercianti di pseudoanima o pseudoarte e chi errante la porta seco cercandola dentro e fuori se stesso?". E chiedo spiegazioni.

Per ragionare (cosa che tento di fare) inevitabilmente si deve prendere una "rigida" postura, perché si deve scegliere. Chi non sceglie può sempre fluttuare e conciliare una cosa e il suo contrario. Ma solo nella sua mente. Scegliere è meglio che conciliare una cosa e il suo contrario? A volte credo proprio di sì. A volte ce lo impone - volenti o nolenti - la cosiddetta "realtà".
Beati i fluttuanti fin quando potranno fluttuare. Io non li invidio, ma spesso mi pare che facciano come gli struzzi.
Quanto all'essere pane per chi sarebbe "in senso molteplice e non duale", al di là della metafora a sfondo religioso, mi potrebbe anche andare bene, ma siete davvero sicuri di digerirmi?

Francesca Diano ha detto...

Sì Mayoor, diciamo esattamente la stessa cosa

Anonimo ha detto...

Anche i versi di Lueprini lo dimostrano: la poesia appartiene alla cura e alla salute più che al dolore e alla malattia. Con una poesia non ci curi nemmeno il mal di testa, e se hai fame non ti rechi di certo in libreria. I poeti scriveranno durante la degenza, come al solito quando si ritagliano i loro istanti di disoccupazione. E' in quei momenti che la poesia può fare qualcosa: serve a rianimare, consolare, incoraggiare, riflettere. E anche a perdersi, evadere dalle ossessioni, dimenticare, ricordare, trovare un senso, osservare l'esperienza che si sta attraversando, guardare oltre, infondere fiducia, guardare negli occhi un mistero, la morte, l'amore, la vita, la solitudine. Ed è anche ragionevole quando ti avverte e ti ricorda che non sei un numero, che hai dei diritti, primo fra tutti quello di essere te stesso, di non subire, di essere solidale, egosista, infido o altruista.
Tutte le poesie appartengono al mondo, è il mondo che ti sta vicino con le sua passioni e la sua esperienza. Ma se stai male davvero pensa prima a curarti, poi se ne scriverai o ne leggerai vorrà dire che le peggiori paure stanno passando.
mayoor

giorgio linguaglossa ha detto...

caro Ennio Abate,

con tutto il rispetto per le poesie di Di Leno e di Luperini, io credo che sarebbe molto più redditizio studiare le procedure e le immagini che un poeta come il Nobel Transtromer impiega nella sua poesia.
Quando affermo che non dobbiamo chiedere nulla alla Poesia non intendo certo dire che la poesia debba essere lasciata libera o che sia libera come una "pulchritudo vaga" e "disinteressata"... ma sicuramente volevo dire che non dobbiamo trattare la poesia come trattiamo la Preghiera (ad essa sì che chiediamo qualcosa: la guarigione da una malattia, la vincita all'enalotto, la conquista di una bella ragazza...); la Poesia va INTERROGATA ma non possiamo farle pagare il biglietto d'ingresso ai nostri organi percettivi, i quali sono molto di frequente (se non sempre) occlusi dal già noto e dalla cultura morta che ci si è sedimentata sopra.
E così quando una poesia parla della Morte, accade che la poesia parli della morte molto meglio quando evita ogni riferimento diretto alla morte: un eccesso di immagini sparate sulla sagoma della Morte (o della disperazione, o della felicità etc.), ammazzano la poesia. La Morte va appena evocata con correlativi e corrispondenti simbolici... le cose vanno convocate non chiamate, la poesia reagisce alla interrogazione rispondendo ma si sotttrae alla vile richiesta: "a che cosa serve?", che ne vuole disporre come di una meretrice.
Il concetto kantiano di "pulchritudo vaga" e di "disinteresse" coglie però, in modo eccentrico, il vero problema che una teoria estetica marxiana deve porre sempre di nuovo in piedi. È che oggi la poesia moderna è priva di supporto, di zoccolo filosofico... e allora si fa poesia come si respira, in modo ingenuo (o in modo artefatto)...

Unknown ha detto...

I ll tuo "ragionare " non serve alla digestione, ma al metabolismo, perlomeno il mio pancreas.
Ciao

Anonimo ha detto...

Detto e fatto, siamo passati di là, da Tomas Tranströmer. Un freddo su al nord che neanche s'immagina.
mayoor

Moltinpoesia ha detto...

Ennio Abate a Giorgio Linguaglossa:

Non credo di essere tra quelli che equiparano la poesia alla preghiera, né di quelli che vogliono sottometterla alle percezioni, intasate oggi qui da noi - è vero - da scorie e spazzatura. Ma nel tuo drastico «alla poesia non bisogna chiedere NULLA», che mi è parso quasi divinizzare quella che io considero una pratica storica, che porta sì ancora i segni della sua nascita dalle pratiche magiche e religiose ma non si è fermata a quelle, mi sono sentito di riportarla coi piedi per terra e, appunto, alla sua dimensione storica e, diciamo pure, istituzionale ( e conflittuale, dato il tipo di società con cui deve fare i conti).
In questa dimensione storica io trovo esempi di buoni poeti che la Morte la fanno entrare in poesia ora direttamente (realisti) ora indirettamente (simbolisti). Non credo che i primi ammazzino la poesia e i secondi la mantengono in vita. Poiché invece la poesia è molto malleabile, credo sopporti gli abbracci ( o gli strattoni verso l’alto o verso il basso) di entrambi. E mi pare che non disdegni neppure le domande di chi, sotto pressione di altri bisogni (alti o bassi anche questi), le chiedono a cosa serve.
A me pare una domanda pienamente legittima non solo per la poesia ma per tutte le pratiche che la storia umana ci ha messo finora sotto gli occhi.

P.s.
Quanto a Tranströmer io ho fatto per lui un nuovo post con la tua nota, ma per ora nessuno, tranne Francesca Diano, pare sia attirato.
I testi qui tradotti e pubblicati sono poca cosa rispetto alla sua produzione; e devo dire che non mi attirano tanto da impegnarmi nell’analizzarli, ma volentieri leggerei riflessioni che mi aiutino a superare la mia prima impressione di generica simpatia.

giorgio linguaglossa ha detto...

Caro Ennio Abate,

io dico semplicemente che il discorso poetico che si è configurato in Italia nel secondo Novecento ci ha lasciati ciechi e orbi rispetto ad altre tradizioni di poesia, rispetto ad altri modi di intendere la poesia; il fatto che Tranströmer non venga inteso in Italia ne è la riprova, è la conferma che la poesia it. da Sereni Giudici e Sanguineti in giù è una poesia di derivazione minoritaria. Tutta la poesia degli ultimi decenni del Novecento è epigonica e minoritaria (se vista nel quadro europeo). Tranströmer rispetto a Sereni o un Giudici è come paragonare un gigante ad un pigmeo. Bisogna quindi ripartire da una poesia che punta sul coefficiente altissimo di una poesia metaforica. Ecco il consiglio che mi sento di dare a chi voglia fare poesia di livello europeo in Italia; bisogna tornare alle nostre radici, ripartire da Ripellino, Ennio Flaiano fino a Maria Rosaria Madonna. So di dire cose difficili da digerire e accettare. La poesia da enigmistica e da soffio cardiaco che va oggi di moda in Italia (in specie delle donne Mariangela Gualtieri, Anedda etc.), la poesia da doping sentimentale, è, letteralmetne, qualcosa che non posso che rigettare al mittente: sono fatti privati che interessano soltanto un guardone, un voyer... non possono interessare alcun pubblico esigente ed evoluto. Sono modi di poesia minoritari se li consideriamo, ripeto, nel quadro europeo.
Una precisazione: la poesia va interrogata, alla poesia non bisogna chiedere Nulla... ma non per una sua presunta "superiorità" ma proprio perché essa rimane muta e sorda di fronte alle richieste di chi vuole applicarLe la stampigliatura del prezzo, del sublime, del desublimato etc. Ma il fatto è che per INTERROGARE la poesia occorre possedere una DOMANDA da porle; è la DOMANDA che fa squillare la RISPOSTA della poesia, non la richiesta. E anche la richiesta di voler sapere a che cosa serva la poesia è piuttosto indice di una mentalità borghese e impiegatizia, come se noi dicessimo a un matematico a che cosa servano queglle strane equazioni con otto incognite. A tali richieste non c'è risposta plausibile e possibile, tranne uno squillante silenzio. Se ci chiediamo a che cosa serva una immagine della poesia di Transtromer, l'unica risposta possibile è il silenzio.

Moltinpoesia ha detto...

Ennio Abate:

Caro Giorgio Linguaglossa,

scrivi: «la poesia it. da Sereni Giudici e Sanguineti in giù è una poesia di derivazione minoritaria. Tutta la poesia degli ultimi decenni del Novecento è epigonica e minoritaria (se vista nel quadro europeo). Tranströmer rispetto a Sereni o un Giudici è come paragonare un gigante ad un pigmeo». E ne fai discendere un’indicazione di poetica che parrebbe risolutiva: «Bisogna quindi ripartire da una poesia che punta sul coefficiente altissimo di una poesia metaforica. Ecco il consiglio che mi sento di dare a chi voglia fare poesia di livello europeo in Italia».
Dico subito che non mi convincono né il giudizio-premessa né il suggerimento.
Perché, nel primo caso, mi chiedo quale sia oggi, in poesia, il metro di paragone che permetta di stabilire giganti di qua e pigmei di là; e penso, subito dopo, alla estrema difficoltà e variabilità dei giudizi (specie oggi che un canone o dei canoni mancano; e un’affermazione come la tua si appoggia su una disarmante soggettività e dovrebbe avere l’accortezza di presentarsi al massimo come una scommessa, una preferenza soggettiva).
Se poi il metro di paragone ci fosse e consistesse proprio nel tasso di metaforicità (altissimo, medio, scarso) presente nei poeti, avrei molte obiezioni.
A me pare troppo schematico sostenere che una poesia molto metaforica sia di per sé buona o ottima poesia. Abbiamo esempi che dimostrano l’opposto.
Mi chiederei piuttosto (e qui vengo all’opportunità e all’applicabilità del tuo consiglio…) in quali occasioni e cosa giustifichi in poesia il ricorso a un certo tasso di metaforicità.
Si esce forse così - adottando più metafora o rivalutando « una poesia che ristabilisca al centro della propria procedura la metafora complessa e l'immagine» - dalla poesia «epigonica e minoritaria» (io direi: da uno stato di crisi)?

[continua]

Moltinpoesia ha detto...

Ennio Abate (continua):

E, ammesso e non concesso che questa sia la via giusta (io direi: la scommessa giusta), essa non potrà mai essere perseguita a freddo, in una maniera scolastica. Non può essere presentata come una ricetta o un ricostituente che garantirebbe di fare bella figura nel confronto di una (fantomatica per me) poesia «di livello europeo»? (Dico fantomatica, perché non essendoci un’Europa politica, vedo abbastanza astrazione e genericità elitaria in tutti i discorsi sulla poesia o cultura europea; e pensando, per analogia, a medesimi appelli in campo economico e politico, quelli per abbassare lo spread o imporre la necessità a senso unico di sacrifici proprio con l’obiettivo di adeguarci ai livelli europei a me viene quasi da ridere).
Non credo, poi, che gli ostacoli che ha incontrato la tua analisi critica tendente a rivalutare la metafora e l’immagine ( in quanto più “europee”) siano spiegabili solo con «una generale ottusità e impermeabilità» dei poeti italiani (e ci dovrei essere tra loro io pure, che ti sto facendo queste obiezioni…).
Piuttosto credo, e qui lo dico in breve, che accanto alla poesia molto metaforica e immaginifica ( di ascendenza simbolista) ci sia stata, in relativa concorrenza con essa, anche una poesia meno metaforica, meno d’immagini, a volte tendente al “reale” e al pensiero. E che a determinare le scelte dei poeti di avanzare nel primo o nel secondo solco ( o magari anche all’esterno di entrambi…) non abbiano giocato solo fattori di scuola o di modelli o d’imitazione, ma fattori più profondi e anche storici.
Alla metafora ricorre più volentieri il poeta che si sente investito del compito di esplorare o magari abbandonarsi al “silenzio”, al “mistero”, all’”ineffabile”. Al realismo (in forme variegate da Dante a noi) gli altri, forse in minoranza, ma mai disprezzabili.
Quanto ai fattori storici che hanno potuto condizionare le scelte di poeti come Sereni e Giudici solo un cenno: io non dimenticherei che i due venivano fuori da un’Europa sconvolta da nazismo e fascismo e che quel loro “aggrapparsi al quotidiano” non aveva, almeno inizialmente, un significato così banale.

P.s.
No, chiedere alla poesia (ma anche a tutti gli altri saperi: filosofia, matematica, scienze, ecc) a cosa essa serva non è indice di mentalità borghese e impiegatizia. È una richiesta che di solito fanno tutti quelli che si accostano a saperi che non possiedono. Ma è la stessa che in modi più complessi si fanno gli stessi che praticano a fondo questi saperi. Se la fece pure Oppenheimer quando lavorò alla bomba atomica. Se la fecero Freud e Einstein scambiandosi lettere. Penso sia un bene che se la facciano anche i poeti.

[Fine]

Annamaria ha detto...

...posso aggiungere solo una mia piccola considerazione ovvero porre delle domande? Tra i tanti scopi della poesia ( esprimere stati di sofferenza personale ed umana o di lotta politica, come nelle poesie presentate) può starci anche quello di un momento di pausa serena e rigeneratrice? Non mi riferisco alla poesia come consolazione, neanche come espressione di un élite di colti privilegiati, ma come espressione popolare, nelle pause di una vita difficile, penso ai contadini che si riunivano nelle stalle alla sera e si raccontavano fiabe filastrocche poesie, oppure durante i matrimoni campagnoli, quando la bambina con il vestito della festa veniva messa sulla sedia a recitare la poesia per gli sposi o la maestra che, dopo una settimana di lezioni su argomenti pesanti, diceva "Oggi ci vogliamo divertire? Leggiamo una poesia". Certo penso anche ai canti-poesie che accompagnavano il duro lavoro della terra. All'inizio la poesia, potrebbe essere nata da un momento sospeso, quasi ludico? In un mare di guai l'uomo può aver fatto ricorso alla poesia per raccogliere le proprie forze e riprendere il cammino? Durante una grave malattia la poesia ci può aiutare a tenere a bada la morte, a tergiversare con il destino. Alcuni nemici sono davvero potenti, ma tenerli in ascolto può confonderli. La poesia come arma al servizio dei più fragili?

Moltinpoesia ha detto...

Ennio Abate ad Annamaria:

Credo che in poesia entri di fatto, indipendentemente da qualsiasi divieto esplicito o implicito, tutto ciò che occupa in modi passeggeri o prolungati e persino ossessivi il corpo-mente di chi la scrive.
Su questo non ci piove. Se avessimo un computer capace di memorizzare quanto è stato detto/scritto al mondo da quelli che si sono sentiti poeti e avessimo la costanza e gli anni necessari per verificare il materiale messo in banca dati, ne avremmo la conferma scientifica.
Quindi, perché dovrebbero mancare, in questa immaginaria “enciclopedia di ciò che è stato detto poesia”, i testi sereni o allegri o consolatori, scritti da aristocratici o plebei o popolani o borghesi o piccolo-borghesi o proletari o immigrati o barboni?
E mi pare anche documentabile una produzione di poesia vera o di para-poesia da parte di persone che si sono trovate in un mare di guai, in prigione, in battaglia, in ospedali psichiatrici, ecc.
Ma, siccome nelle sue domande, mi pare di cogliere varie istanze, varie “preferenze”, e tutte orientate verso “il basso” e una visione “sentimentale” della poesia (una poesia come gioco, una poesia come “ricostituente”, una poesia come esorcisma contro la minaccia di morte, una poesia maschera per confondere i potenti, una poesia «al servizio dei più fragili» o degli “umili”), mi pare giusto ricordarle che, appunto perché in poesia tutti i contenuti sono entrati, entrano ed entreranno, ci sono stati, sono e saranno anche quelli “cattivi” che lei sembra voler escludere: l’esaltazione della guerra o della violenza o del sadismo, le costruzioni più cerebrali o ideologiche, le pulsioni più perverse, ciniche, misantrope, ecc.
E poiché tutte queste motivazioni o radici della poesia (e della parapoesia) sono contraddittorie e in conflitto tra loro e non possono affatto convivere pacificamente senza disturbarsi e perfino distruggere a volte quanti si fanno portatori di certe passioni, maturano per reazione anche i discorsi (razionali) sulla forma, sulla norma, sul canone. Ai quali si contrappongono imperterriti altri discorsi, che invitano invece alla trasgressione, alla libertà, all’assenza di regole, al rifiuto della critica.
Ordine/disordine, caos/forma, classico/romantico, tradizione (intesa come norme consolidate e utili al singolo o alla polis)/innovazione (intesa come esplorazione dell’ignoto e rifiuto dei “lacci e lacciuoli”). Con momenti più o meno prolungati di estremizzazioni (ad es. le avanguardie, l’underground, la beat generation, la pop art), di restaurazioni e “ritorni all’ordine” (la fine del futurismo nell’Italia fascita, il “realismo socialista” ai tempi di Stalin in Urss), di equilibrio tra opposti o “terze vie”. Tutte tendenze simboleggiati da movimenti o singoli autori che funzionano nel bene o nel male (a seconda dei punti di vista e dell’orientamento prescelto) da modelli, maestri, punti di riferimento. E su cui possiamo e dobbiamo discutere.

annamaria ha detto...

Non volevo escludere i "cattivi" nella poesia, ho semplicemente detto: può starci anche...? Non volevo neanche negare l'importanza della critica. Annamaria

Moltinpoesia ha detto...

Ennio Abate:

Allora siamo pienamente d'accordo.