mercoledì 31 ottobre 2012

Marcella Corsi
L'intelletto delle erbe



Pubblico il saggio di Marcella Corsi che esplicita i temi presenti nella sua poesia già pubblicata autonomamente  qui in un confronto con un Fortini  da lei indagato secondo l'ottica dell'ecologia letteraria. [E.A.]


Prove per un approccio ecocritico ai versi di Fortini: Una obbedienza
  
Non di rado scorrendo versi di Fortini ero stata colpita dalla rilevante presenza in essi del mondo animale e di quello vegetale[1]. Ho voluto rileggere quei testi alla luce dell'ottica proposta dall'ecologia letteraria. Forse solo un modo per riproporre versi che mi avevano colpito. Sicuramente un tentativo di far intravedere un modo diverso di avvicinarsi ad un'opera già indagata con approcci differenti.
In estrema sintesi l'ecologia letteraria è un metodo che si situa tra ermeneutica e attivismo, uno strumento con cui l'etica ambientale si esercita criticamente sui prodotti letterari, proponendo un'idea di cultura come strategia di sopravvivenza, motivata da precise esigenze di rifondazione culturale, in continuo esercizio di creatività. Sul versante storico˗ermeneutico si tratta di un approccio volto ad acquisire consapevolezza dei valori ecologici – in senso affermativo o negativo – di cui un'opera, e un autore attraverso le sue opere, si fa portavoce. Da un punto di vista etico˗pedagogico essa vede nel testo letterario, e più in generale nell'opera d'arte, anche uno strumento di alfabetizzazione ambientale volto ad orientare positivamente il modo con cui gli umani si rapportano al mondo non umano[2].   

Rimango per ora nel cerchio ristretto delle poesie raccolte nell'80 sotto il titolo di Una obbedienza, affrontando i testi per quello che, anche loro malgrado, sembrano dire e cercando di liberarmi dai condizionamenti che gli scritti di critica e di passione politica potrebbero esercitare.

Un'ora esiste conosciuta a molti
nera e rada. Che nella campagna
le bestiole abbandonano la cerca,
lenta è ogni persona, gli edifici sono chiusi.
Dico della notte di luglio se è tutta muta.
Hanno ripreso a tremare nella loro tana sparuta
le famiglie dei ricci, vittime sotto le stelle
di raggi ultraterreni o feroci veleni,
cieche alle alte cose che a noi paiono belle.
O rive smorte, incanti grigi, ire disseccate.
Capovolto il capo nei sonni ostinati
la generazione dei dormienti precipitando
sente che mai potrà destarsi.

(1975-'77)

Leggendo Una obbedienza, prezioso libretto a cura di Giorgio Devoto che ripropone 18 poesie del periodo tra il '69 e il '79 prefate da Andrea Zanzotto[3], alcuni testi colpiscono per l'attenzione partecipe, quasi affettuosa, portata ai piccoli animali della campagna e per la precisione delle citazioni arboree.
In questo Primo dei Cinque recitativi iniziali, entro l'irriducibile pedagogismo di taglio etico˗apocalittico che spesso connota i versi del nostro, s'affacciano bestiole che a sera terminano la loro ricerca di cibo e materiali utili alla riproduzione della vita e si ricoverano nelle tane grandi appena quanto basta (ma l'aggettivo scelto richiama anche la paura che li fa tremare).
Esse sono ‹‹cieche alle alte cose che a noi paiono belle›› e vittime dell'azione umana sull'ambiente naturale (a questo mi sembra rimandino i ‹‹raggi ultreterreni›› e i ‹‹feroci veleni››. Si badi a come l'autore, utilizzando il verbo parere, lasci aperta la possibilità – la suggerisca quasi – che quel che a noi sembra bello poi bello in realtà possa non essere. Per quanto affiancata all'immagine della cecità animale, questa messa in dubbio della percezione umana del reale mi sembra significativa.
Se quel noi avesse un riferimento più 'stretto', non all'umanità nel complesso ma agli uomini che sono in condizione di poter pensare al bello, allora quelle bestiole e quei ricci rimanderebbero allegoricamente ai molti umani che altro non possono che lavorare per riprodurre le condizioni della loro esistenza in vita (si capirebbe allora perché già alla prima lettura quegli animali avessero, conferito loro dal poeta, odore d'umana famiglia).
L'ipotesi pare confermata dai versi seguenti, dove natura, mondo culturale e sfera della bellezza in particolare, ed infine il proprio personale sguardo sulla realtà si presentano contraddittori o, come spesso in Fortini, in compresenza di contrari (‹‹rive smorte, incanti grigi, ire disseccate››). E soprattutto pare, negli ultimi tre versi, che la generazione consapevole della propria incapacità di destarsi anche in avvenire sia senza dubbio quella degli umani, anch'essi, in modo diverso da quello degli animali, ostinatamente dormienti.
E' però qui rilevabile, mi sembra, la percezione di una stretta interrelazione tra natura, animali e uomini, una compresenza che implica reciproci condizionamenti: non solo, come espresso nei versi, dall'azione umana al mondo vegetale e animale ma anche implicitamente all'inverso, dalla natura nel suo complesso sull'uomo, la sua vita, le sue convinzioni.
Incontriamo uno sguardo attento e partecipe sugli animali anche nel Quinto recitativo[4],  in Il nido[5], in La nostra Regione[6]. Perfino in Two-Step, dove non ce lo aspetteremmo. Invece ecco rospi e altre bestiole che stupefatti vedono atterrare aerei, e abbài di cani da guardia e alla fine animali che… contemplano le stelle[7].
Nel Terzo recitativo (e ricordiamo che i Cinque recitativi[8] sono nel libretto in posizione preminente, iniziale) colpiscono i due versi in cui al ‹‹paese delle volpi parlanti›› viene accostata ‹‹l'impossibilità di capire definitiva››, questa degli umani, giacché pochi versi più sopra ‹‹lo spazio tra le persone del gruppo›› era diventato ‹‹come una pelliccia››[9].
Nel Quarto, che in prima persona plurale afferma la necessità di non sfuggire alle responsabilità sociali e soprattutto alla ricerca della verità, non passano inosservate un paio di domande e una finale osservazione: ‹‹E non guardate dove le stelle si riproducono? Non volete/ nemmeno osservare le piccole persone/ che stridono sotto le nostre scarpe?/ Come l'agonizzante diventa un sasso lo sapete››.
Vi sono coinvolti stelle, sassi, insetti e umani agonizzanti, in una compresenza tragicamente interrelata, in una condivisione di condizione che tende significativamente al meticciato. Le stelle si riproducono come umani ed animali, sotto le scarpe non insetti stridono ma ‹‹piccole persone››, e l'umano agonizzante diventa sasso. E' la possibilità della metamorfosi che s'intravede nella mescolanza. E nella commistione la centralità umana sembra essere messa (finalmente) in discussione. Certo il poeta si rammarica che possa accadere il 'diventar sasso' di un uomo ma prende atto della 'verità' che questa ammissione contiene. Il valore dell'umano può dunque non prevalere sul resto del mondo.
Un'obiezione: e se quelle piccole persone che stridono sotto le scarpe non fossero minuscoli viventi animali ma umani indifesi e oppressi? E' probabile che entrambi i significati siano presenti nei versi. Ma, qualora (cosa che non credo) si dovesse scegliere una sola tra le due interpretazioni, è improbabile che si possa escludere quella animale. Credo di poterlo dedurre dalla citazione con cui la poesia inizia: ‹‹Perché alla fine che cos'è/ tutto il genere umano a paragone/ della natura e della universalità delle cose?››.

Un cenno merita, rilevabile nei versi, la precisione nel nominare le essenze arboree, che dice almeno di frequentazioni, di attenzione e competenza nello specifico. Non si incontrano alberi in Una obbedienza  ma noci e aceri, pini e agrifogli, il gattice, il cipresso, le ginestre, l'elce, il leccio. E anche, o meglio, ‹‹lecci tenaci›› (in La nostra regione[10]), ‹‹larici spirituali›› (in New England[11]). E poi ‹‹prati acuti/ dove passa uno che non capisce›› (Per un sarcofago[12]). Così, mentre gli alberi – come d'altronde qui il mare – nella percezione del poeta acquistano vicinanza e quasi si umanizzano, viene il dubbio che l'acutezza di questi prati non possa essere solo questione di punte d'erbe o di steli spinosi…  
Quando fosse allegoria (come con tutta probabilità è), sarebbe comunque significativa la scelta dell'immagine naturale. Di ‹‹intelletto delle erbe›› Franco Fortini parlerà esplicitamente nella prima delle poesie della prima sezione di Composita solvantur, e più avanti (in La notte oppresse…) definirà la profondità dei fiumi come ‹‹il luogo dell'intelligenza››.
Così l'affermazione finale (‹‹quanto di me si consuma sarà cibo e bevanda di molti››) non sembra contenere paura o tristezza ma, entro un'idea di compresenza nel reale, recare conforto e pacificazione[13].
Torna in mente l'augurio finale del Terzo recitativo (‹‹Il mancato piacere definitivo/ si mutasse in acquisita intelligenza./ E l'acquisita intelligenza si mutasse/ in lode della creazione.››) e la già citata citazione posta all'inizio del Quarto. Il fatto che quest'ultima sia, per esplicita dichiarazione dell'autore[14], una citazione immaginaria la rende, credo, ancora più significativa.

Concluderei questa breve prova di lettura ecocritica preliminare con i versi iniziali e finali del Quinto recitativo, che per primi scorrendo il volumetto mi hanno affascinato.

La luce del gran nuvolo stupefacente
e gli agrifogli e i ghirigori! Ormai
anche i visitatori più assorti avranno compreso
quanto la sera è inevitabile.

L'uccello piangeva dalla vetta del gattice
i rapiti dal nido inconsolabile
[…]
visitatori pellegrini ospiti!
Infilate le maglie, perdete le ricche ginestre,
scendete verso le auto, non vogliate sostare
dove lo stagno detto delle libellule
è discarica assoluta, non chiedete
il doloroso segreto
del serpe mozzo, dell'opaca salamandra.
Furono, sì, sono, saranno; ma fiera la luna
è rapidissima lassù e possiamo, addio,
tra elce e leccio, tra cipresso e leccio
senza suono toglierci, senza pena
dalla complessiva immagine.

Nessun tentativo di rifugiarsi nella natura, nessun riposo dello sguardo. Stupore ammirato di fronte alla magnificenza e all'inevitabilità dei fenomeni naturali, consapevolezza delle contraddizioni che anche qui si mostrano più pesantemente umane che animali (pesantissimo quell'aggettivo assoluta attribuito alla discarica che lo stagno delle libellule è diventato, mentre lo sguardo accoglie partecipe il dolore inconsolabile dell'uccello privato dei piccoli), una residua possibilità di comprensione per chi sia disposto a guardare.
E nell'invito ai visitatori mi colpisce il verbo perdere riferito alle ginestre, ricche – credo – solo dei molti fiori e tuttavia chiaramente preziose.
Erbe e animali nella loro partecipe, sapiente, preziosa (apparente) immobilità rimangono fermi, a sera, dove sono. Ci sono, ora come nel passato, ora come nel futuro. Nei secoli dei secoli, verrebbe di dire se non avessimo ora una consapevolezza diversa della fragilità degli ecosistemi. Al di la della differente percezione delle fragilità naturali propiziata da trent'anni di distanza tra i versi di Fortini e l'oggi, questo rimanere  di piante, acque e animali dolenti promana forza, induce fascinazione. Si collega fermamente alla già sottolineata ‹‹tenacia dei lecci››, alla ‹‹spiritualità dei larici››.
Ma visitatori, ospiti o pellegrini possono approfittare del movimento rapidissimo della luna per muovere anch'essi, e perdere, non sostare, non chiedere.
‹‹Possiamo – ricompare il noi ad infiltrare (o forse ad attestare) l'autore tra i visitatori – senza suono toglierci, senza pena dalla complessiva immagine››. Non sarà così, non più, a mio parere, in Composita solvantur[15].

E' probabile che una lettura intertestuale porterebbe anche qui ulteriori suggestioni. E certo sarebbe assai utile seguire alcuni temi della poesia del nostro autore (quello del sonno per esempio) presenti anche nei versi sopra riportati. A me però ora preme sottolineare una diversa possibilità di leggere il Fortini poeta, quella operata alla luce di un importante strumento interpretativo e 'formativo' quale mi sembra sia l'ecologia letteraria. E insieme segnalare l'interesse che i versi di Fortini possono avere per chi tale strumento padroneggi meglio di me.
Con tutta evidenza sarebbe opportuno concentrare l'attenzione su Composita solvantur, giacché, come notò Roversi[16], ‹‹è quando si fa giusta attesa "la vergogna di vecchiezza" che il pubblico fustigatore, il sapiente senza livrea arriva a disporre dopo la lunga macerazione e per intero della propria parola poetica››.
Forte stimolo in questa direzione deriva da poesie come Qualcuno è fermo…, Le piccole piante…, Sono nella stanza, Stanotte…, Saba, Compiendo settantacinque anni, Sopra questa pietra…, Ruotare su se stessi…, La notte oppresse…[17]. Noto qui parenteticamente che sette di nove delle poesie di Composita solvantur che mi sono sembrate le più significative ai fini di una lettura ecocritica sono state titolate con lo stesso criterio adottato per gli Otto recitativi, cioè non hanno titolo (condizione riservata in Una obbedienza ai soli Cinque recitativi).

Ritornando ai testi di Una obbedienza vorrei riprendere qui, per concludere,  alcune delle deduzioni man mano emerse dalla lettura dei versi ed esplicitarne brevemente la rilevanza in termini ecocritici.
Significativa è sembrata nel Primo recitativo la messa in dubbio del valore assoluto della percezione del reale operata dal noi fortiniano, confermata dalla connotazione positiva attribuita a piante e animali riscontrabile in diverse delle poesie riportate.
Ancora di più forse rileva quella condivisione di condizione quasi meticcia di astri, sassi, animali e umani notata nel Quarto recitativo (ma, a ben vedere, anche nel Primo), una compresenza interrelata che ha in sé la possibilità della metamorfosi e sembra mettere in crisi la centralità dell'umano entro il complesso della realtà dei viventi: il modello antropocentrico avviato a decostruzione.
Potevamo aspettarcelo fin dall'inizio che lo sguardo poetico di Fortini transitasse senza intoppi dall'attenzione convinta ai problemi dei deboli entro la società ad una considerazione partecipe anche della condizione dei deboli entro il mondo naturale. L'approccio etico ve lo predisponeva. La messa in discussione dell'io lirico per un noi civile da declinare nei più ampi modi non poteva non estendersi anche al complesso dei (nei più vari modi[18]) viventi entro l'ambiente naturale.
Proprio però la messa in discussione, qui forse solo iniziale, della centralità dell'uomo entro le differenze presenti nell'universo dei viventi è insieme premessa indispensabile e sintomo importante di un atteggiamento ecologico, che fa cioè prevalere un discorso sull'oikos (casa, ambiente nel quale si vive) rispetto ad uno centrato sull'ego. D'altronde la consapevolezza delle contraddizioni dell'azione umana sulla natura è più d'una volta espressa nei versi citati in questo scritto. Ma qui mi sembra ci sia qualcosa che va oltre una generica denuncia dei guasti provocati dalla presunzione degli umani.
Quello che qui avvertiamo in modo non del tutto implicito in Fortini è un ‹‹umanesimo non antropocentrico››[19], capace di immaginare (o comunque cercare) strategie di sopravvivenza culturale in praesentia naturae: senza trascurare il legame stretto tra cultura degli uomini e sapienza della natura.
Anche la virile, quasi serena consapevolezza del finire ‹‹cibo e bevanda di molti›› assume una diversa sfumatura entro questa cornice. C'è, certo, ad aiutare la fiducia che solo quanto di sé si consuma debba finire a quel modo, ma c'è pure quella particolare sdrammatizzazione della morte che si guadagna spazio nella mente di chi si pone in una prospettiva ecologica.
Sentire la cultura come un percorso etico finalizzato alla creazione di un patrimonio comune, inclusivo, in continua autorevisone. Essere 'fedeli' ai figli più, od oltre, che ai padri. In alcune caratteristiche dell'umanesimo non antropocentrico che connota la cultura ambientale come strategia di sopravvivenza mi sembrano riconoscibili intenzioni e pratiche del poeta e dell'uomo Fortini. Riletta in quest'ottica, la sua poesia trova nuove direzioni di attualità.



[1] Sembra d'altronde che erba e animale siano tra i lemmi a più alta occorrenza in Fortini (Felice Rappazzo, Eredità e conflitto. Fortini Gadda Pagliarani Vittorini Zanzotto, Roma, Quodlibet, 2007, p.105.
[2] Serenella Jovino, Ecologia letteraria. Una strategia di sopravvivenza, Milano, Edizioni Ambiente, 2006. L'ecolologia letteraria può definirsi anche ecocritica (dall' inglese ecocriticism).
[3] Franco Fortini, Una obbedienza, Genova, S. Marco dei Giustiniani, 2005 (I ed. 1980). In copertina il sottotitolo indica 18 poesie 1969–1997, ma è evidentemente un refuso per 1969–1979 (Fortini essendo morto nel '94). Lo conferma anche la lettera dell'autore al curatore riportata a premessa della pubblicazione, la cui prima edizione è appunto del 1980.
[4] Del Quinto recitativo si tratta più avanti nel testo.
[5] A metà marzo fra il il muro e il tetto/ certi uccelli di becco ostile giallo/ nervosi miseri fanno di stecchi un nido./ Quando è notte molto alta e non dormo/ so che stanno dietro il muro i loro nati./ […] Dentro il nido ignoranti esserini/ alla frenesia della madre tremeranno./ Griderà la fame e tutto insegnerà la madre./ Nell'aria inorridita voleranno/ e non sapranno nulla di più mai./ […]. La chiamata in luce che degli uccelli viene fatta in Il nido mi sembra davvero si configuri come una trasposizione allegorica di umane contraddizioni.
[6] Lo spazio della nostra regione basta alle volpi/ che sono scarse e si cibano di piccoli uccelli/ dove al sole la discarica esprime/ della politica invernale i residui e si scorge/ il puntiglio dei passeri e l'incertezza dei gatti/ lo spazio prescritto percorrere./ […].
[7] […] e fuor della sala fra poco/ saltellare lampadine/ perché presto disfatti/ i globi solenni dell'ovest/ e il canotto del guardiacoste a sussulti/ di lampi bianchi viola e i quadrigetti/ ansiosi sulla direttrice/ d'atterraggio a stupefare rospi/ e altre bestiole tra l'erbe./ […] Sera del sabato cena del sabato./ Tutto qui e i canili dei recinti e gli abbai dai depositi./ […] Ah ma noi vivremo/ creature umidi corpi vivremo sempre/ la polizia scherzava amore vivranno sempre/ gli aliti con noi dei motori verso i motel./ E il tic tac bianco viola del guardiacoste/ e le croci dei cieli che i nostri animali contemplano/ e dormiremo insieme/ nella notte del sabato sempre nella pia notte.
[8] I Cinque recitativi con cui si apre il libretto diventano otto (vi si aggiungono La nostra Regione rinominata Lo spazio…, New England e un testo nuovo) e si posizionano al centro della raccolta quando vengono inseriti in Paesaggio con serpente (Torino, Einaudi 1984), che riprende tra le altre 16 delle 18 poesie di Una obbedienza. L'ordine dei cinque recitativi iniziali entro gli otto di Paesaggio con serpente è leggermente diverso (lo specifico nel caso qualcuno possedesse Paesaggio con serpente e non Una obbedienza): al primo posto viene posizionata quella che era La nostra Regione; al secondo e al terzo rispettivamente il Primo e il Secondo recitativo, rititolati a partire dalle prime parole del primo verso (operazione che viene effettuata su tutti i testi di questa sezione); Quello che era il Quarto recitativo occupa, con diverso titolo, il quarto posto degli otto; al quinto troviamo quello che era il Terzo di Una obbedienza; al sesto troviamo La luce del gran nuvolo…, che era in origine il Quinto recitativo; viene interposta una poesia non inclusa nel libretto del 1980, intitolata Come mai le foglie…; e da ultimo ritroviamo New England. Il titolo del librino del 1980 andrà a connotare l'ultima sezione della pubblicazione del 1984.
[9] [..] Camminiamo fra i noci tutti gialli/ e gli aceri rossissimi./ Conoscendo i nostri vizi/ lo spazio tra le persone del gruppo/ diventa come una pelliccia./ [..] Verso Heathrow palpitazioni e luccichii,/ verso nord il paese delle volpi parlanti/ e l'impossibilità di capire definitiva./ [..].
[10] [..] C'è chi dentro la mente si sente straziato/ perché è grave che il mare fiero, i lecci tenaci,/ il cigolio delle auto, il ragionare delle persone,/ tutto racconti di cose sparite/ che nessuno più attende./ C'è chi ne soffre sebbene soffrire non serva. I versi di La nostra regione finiscono sul tema del rapporto con il passato, o meglio con quanto del passato non è riuscito a diventare tradizione. Che fiero sia l'aggettivo scelto per definire il mare è però anch'esso particolare significativo nell'ottica che orienta questo scritto. Fierezza del mare, tenacia dei lecci.
[11] Beninteso posso ancora guardare./ La finestra ha qualche lacrima. Il lume d'occidente/è alla vernice della parete. La sera/è la vertigine dei larici spirituali./ Dalla collina dei padri i pensieri già pensati/ mi guardano.// [..]. Aggiungo: certe volte non mi riesce di terminare la citazione dove sarebbe sufficiente: il verso successivo è così bello che non riesco a non copiarlo. Così qui. Dite: pur nella pochezza della mia analisi, non valeva la pena di rileggere questi versi?
[12] [..] Ho l'età di mio padre e i sogni che rammento/ sono di errori rimediabili, consulti nei dizionari/ sono di dispute cavernose, di prati acuti/ dove passa uno che non capisce/ [..]. Devo dire che il seguito dei versi (…..), che ora rileggo, mi fa decisamente propendere per l'ipotesi della 'spinosità' di quei prati, ma ugualmente lascerei aperto uno spiraglio di possibilità all'altra…
[13] Riporto i versi finali nella loro interezza: [..] Qualcosa mi è stato detto/ che debbo ricordare meglio: che/ quanto di me si consuma sarà cibo e bevanda di molti./ Non so se mette conto ritrovare tra le mie carte/ le precise parole della promessa.
       [14] Cfr. Franco Fortini, Versi scelti 1939–1989, Torino, Einaudi 1990, p. 448.
[15] Questo scritto era, nelle intenzioni, premessa a un tentativo di lettura ecocritica dei testi di Composita solvantur. La chiusura in redazione del numero lo ha forzatamente autonomizzato.
[16] Lo scritto di Roberto Roversi cui faccio riferimento, del 1998, è riportato in questo numero della rivista, a conclusione della rubrica Letture d'autore.
        [17] In Composita solvantur, rispettivamente alla pagine 7, 8, 10, 13, 17, 26, 54, 58, 59.
[18] L'accenno alla vita delle stelle nel Quarto recitativo non mi sembra trascurabile nella direzione di ipotizzare nel nostro una percezione della "vita inanimata" niente affatto inanimata e irrispettabile.
       [19] Riporto in nota una sintesi della definizione che di umanesimo non antropocentrico dà              Serenella Iovino: ‹‹un tipo di umanesimo esteso, capace di stabilire relazioni di prossimità costruttiva [..] con altre specie e con l'ambiente naturale. [..] basato sulla costruzione di identità flessibili e, in quanto tali, democratiche e dialogiche [..] (che) inventano un'etica del futuro a partire dal presente, inteso come com–presenza non dualistica di umanità e natura›› (Ecologia letteraria. Una strategia di sopravvivenza, citato, p. 68).

5 commenti:

Anonimo ha detto...

Cara Marcella,
Ho letto e condiviso le tue poesie che mi sono piaciute. Per la parte auto-critica invece, per il mio solito difetto - mi cala quasi subito l'attenzione - ho letto qua e là, perdona.
Perchè - se credi - non sintetizzi per i disabili come me?
Paolo Pezzaglia

fiorellaangelafrancesca ha detto...

Impegnativa lettura, ma scorrevole, fatta per essere compresa al volo. Grazie Marcella.

Anonimo ha detto...

Sì, è comprensibile e trovo interessante la chiave di lettura offerta da Marcella Corsi. Tuttavia non leggo versi espliciti di Fortini volti in questa direzione, la natura e gli elementi sono allegorie che sembrano volte ad indicare altri significati. E' un vezzo dei poeti quello di chiamare per nome, una ad una le foglie, gli alberi, uno ad uno gli animali e le cose. In poesia non si può essere tanto generici, tutto ha un nome. Altri poeti, penso a Neruda, usavano minerali, pietre preziose, e con queste componevano i loro percorsi. Gli esempi sono infiniti, lo stesso Montale è stato inizialmente un ottimo paesaggista... ma trovo interessante "l'umanesimo non antropocentrico che connota la cultura ambientale come strategia" che diviene nuova ed altra, per la vita come anche per la morte. Serve perché dietro la natura si nasconde quasi sempre la funivia che porterebbe a dio, e ho l'impressione che anche Fortini l'abbia notata. E' in quella direzione che un piccolo stop potrebbe servire, a vedere senza immaginare.
mayoor

Anonimo ha detto...

A Marcella:

Grazie alla tua sensibilità ho potuto apprezzare e conoscere anche questo aspetto , così ben descritto, del poeta Fortini. Complimenti. Emy

Anonimo ha detto...

Certo l'allegoria è molto presente nella poesia di Fortini e la precisione nel nominare le essenze arboree gli deriva anche dal fatto di essere poeta. Ma non ti pare, Mayoor, che nei versi che nello scritto vengono sottolineati ci sia quell'umanesimo non antropocentrico che connota la cultura ambientale come strategia? Questo volevo cominciare a mostrare, che il suo modo di considerare la natura e gli esseri in essa viventi è di compresenza e condivisione, e di stretta parentela nel suo sentire è il legame tra cultura umana e sapienza naturale. Questo modo di considerare la natura si avverte anche (forse di più) in Composita solvantur, e lì volevo arrivare con questo scritto, che invece si è di necessità (per motivi di tempo) autonomizzato. Approfitto, tra parentesi, per segnalare che le note sono parte essenziale del testo, giacché tra l'altro riportano i versi di Fortini, e che dove in nota si parla di rivista ci si riferisce al numero in preparazione di "Poliscritture".
ciao a tutti
Marcella