domenica 28 ottobre 2012

Paolo Ottaviani
Il giogo della rima
e l’«homme très-faible»



Treccia della parola nella Poesia

Più bella incatenata da libertà eloquente
sta incisa la parola nel ritmo della mente:
non può vagare alata né far la capriola
ma sarà lei a guidarti con sempre nuove arti

per tortuose vie tra dubbi, salti, errori
finché giunge un mattino dischiuso sui bagliori
di sogni e fantasie notturne: cristallino
tra ardue rime ora il verso splende come un disperso

bucaneve viola
nel vergine bianco
di umile parola
che era già al tuo fianco.

Quanti assennati Orlandi vanno in cerca d’Angelica
tra boschi e praterie! Dalla bolla babelica
 che i padri venerandi, tra nausee e allegrie,
ignora, il verso brado s’alza sul più alto grado!

Ma io amo quella voce che ingenua uno spartito
tenacemente insegue col brivido infinito
di mai veder la foce. Qui non ci sono tregue:
la parola t’assilla. Poi, incastonata, brilla

di un più impetuoso
fuoco e, con sorpresa,
rende il generoso
dono dell’impresa!

  
Treccia per Glenn Gould adolescente



L’odore dell’abete rosso, quel muso buono
di Nickolson, le zampe del setter già dentro il suono
come corna d’ariete che il gregge sulle rampe
spinge nei carri e i pesci rossi quando al lago esci:

Bach, Beethoven, Haydn guizzano nell’acqua trasparente,
a casa il pappagallo Mozart guarda paziente:
sulla tastiera schizzano le dita e il tuo cavallo
sogni nella riserva con Oliver, una cerva

puritana amica,
i cani randagi
presi tra l’ortica,
curati negli agi

caldi di Manitouli. Revive us again canti,
ultimo sognatore d’austeri disincanti!
Diatonici cuculi suonano il tempo e le ore
si perdono tra un nero tasto e un bianco levriero.

Il tempo degli accordi lavora nel profondo:
ogni nota una stella nel tuo cuore errabondo
e raccolto, ricordi? “Cesellata è più bella!”.
Profumi di tastiera. Toronto in primavera

s’apre alla foresta,
si specchia nel lago:
la tua anima è in festa
e insegue il suo drago!



* Linguaglossa a Ottaviani

Caro Paolo,

ho letto con molto interesse la tua plaquette, ho letto anche la tua
dotta introduzione ai testi… nulla da eccepire in ordine al tuo
ragionamento, che condivido, ma avrei qualche perplessità a
condividere il tuo stesso ottimismo a proposito del ruolo che la rima
ha nella poesia moderna. Ho apprezzato molti «il fitto reticolato
metrico e ritmico delle “trecce”», che ha dei momenti di grande
seduzione e sensualità… ma ritengo doveroso dirti che l’eccessivo
credito che tu dai alla rima ti faccia fare un errore di
sbilanciamento verso una poesia che si gioca tutte le sue fiches sul
piano ritmico-rimico sottovalutando il piano iconico e metaforico e
quello del «quotidiano» (cioè attinente alla nostra vita quotidiana)…
se tu riuscissi a fondere i due piani mantenendoli su un piano di
parità (senza sbilanciamento sul piano rimico-ritmico) a mio avviso
raggiungeresti livelli molto alti.
Tu utilizzi soltanto un pedale, è come se volessi andare in bicicletta
utilizzando solo un pedale… per la stima che ti porto io ti esorto
invece ad utilizzare anche l’altro pedale, quello che permette la
«messa a fuoco», dal bottom-up al top-down, dall’inconscio mimetico
(il fantasma dell’immagine) all’immagine carica di significato emotivo
e simbolico.

*Nota di Paolo Ottaviani

«Malgré toutes ces réflexions et toutes ces plaintes, nous ne pourrons jamais secouer le joug de la rime; elle est essentielle à la poësie française. Notre language ne comporte que peu d’inversions: nos vers ne souffrent point d’enjambement, du moins cette liberté est très rare: nos syllables ne peuvent produire une harmonie sensible par leur mesures longues ou brèves: nos césures et un certain nombre de pieds ne suffiraient pas pour distinguer la prose avec la versification; la rime est donc nècessaire aux vers français. De plus, tant de grands maîtres qui ont fait des vers rimés, tels que les Corneilles, les Racines, les Despréaux, ont tellement accoutumé nos oreilles à cette harmonie, que nous n’en pourrions pas supporter d’autres; et je le répète encore, quiconque voudrait se délivrer d’un fardeau qu’a porté le grande Corneille, serait regardé avec raison, non pas comme un genie hardi qui s’ouvre une route nouvelle, mais comme un homme très-faible qui ne peut marcher dans l’ancienne carriére».

Questo passo di François-Marie Arouet (1694-1778), tratto dal suo Discours sur la tragédie à Mylord Bolingbroke è risuonato con insistenza e a lungo nella mia mente. Qualche capoverso prima Voltaire aveva parlato dell’esclavage de la rime nella poesia francese rispetto all’heureuse liberté del verso inglese quasi rammaricandosi che un poeta d’oltremanica potesse dire tout ce qu’il veut mentre un francese ne dit que ce qu’il peut. Eppure, nonostante questa libertà limita, chi dovesse abbandonare la strada maestra dei versi rimati non verrebbe considerato come un audace genio precursore che apre inimmaginati orizzonti ma piuttosto, avec raison, come un pavido omuncolo talmente sciocco e debole che, dopo aver perso lungo il cammino il carico più prezioso della propria eredità, non riuscirebbe più nemmeno a camminare.

Le stesse limpidissime ragioni stilistiche e metriche che Voltaire adduce per la rima nella poesia francese credo che, perfino con qualche argomento in più, possano valere per la poesia italiana e, più in generale, per la poesia delle lingue romanze. Ma la mia mente rimaneva inchiodata su quel avec raison e qualcosa mi diceva che le ragioni più vere e profonde del connubio rima-poesia non erano state ancora né esplorate né esplicitate interamente. Doveva esserci un’ulteriore raison, più intima al discorso poetico, decisiva, essenziale e che tuttavia mi rimaneva ostinatamente nascosta.

Non potevo certo sospettare che l’aiuto più significativo a risolvere il mio problema giungesse da un genio famosissimo per ogni virtù poetica tranne che per la rima, pur avendo egli scritto delle satiriche, tragicomiche sestine - I Paralipomeni della Batracomiomachia - che a torto, molto a torto, sono state, rispetto al resto della sua opera, poco studiate e amate: Giacomo Leopardi. Sfogliando lo Zibaldone infatti mi sono imbattuto in alcune assai proficue riflessioni «circa l’infinita varietà delle opinioni e del senso degli uomini, rispetto all’armonia delle parole… Osserverò solo - dice Leopardi - alcune cose relative all’armonia de’ versi. Un forestiero o un fanciullo balbettante, sentendo versi italiani, non solo non vi sente alcun diletto all’orecchio, ma non si accorge di verun’armonia, né li distingue dalla prosa; se pure non si accorge e non prova qualche piccolo, anzi menomo diletto nella conformità regolare della loro cadenza, cioè nella rima». E più oltre: «Ne’ versi rimati, per quanto la rima paia spontanea, e sia lungi dal parere stiracchiata, possiamo dire per esperienza di chi compone, che il concetto è mezzo del poeta, mezzo della rima, e talvolta un terzo di quello, e due di questa, talvolta tutto solo della rima. Ma ben pochi son quelli che appartengono interamente al solo poeta, quantunque non paiano stentati, anzi nati dalla cosa».

Ecco finalmente risolto in modo assai evidente, persino matematico, il mio ostinato quesito! La necessità della rima è una necessità della poesia molto più che del poeta. Incatenarsi a questa schiavitù non solo può produrre un sia pur «menomo diletto» a chi legge o ascolta, ma soprattutto offre la possibilità al verso di sprigionare insospettate energie, inimmaginati rimbalzi di significato, ignoti allo stesso poeta, talvolta totalmente, qualche altra per metà, talaltra per due terzi, più raramente per un terzo. Ma quasi mai il concetto - come dice Leopardi - appartiene totalmente al poeta. È una stima assai credibile perché costruita non su una congettura ma sull’«esperienza di chi compone».

E questo significa che in quella raison di cui parlava Voltaire erano racchiusi tesori forse neppure intuiti dal pensatore francese. Scrivere piegati sotto il giogo della rima da una parte obbliga il poeta a liberare il massimo della propria creatività, dall’altra lo rende impotente, in balia del verso, dei suoni e dei significati che la poesia esige e il verso stesso, più che il poeta, detta. Avere l’umiltà di abbandonarsi consapevolmente a questo potere permetterà poi di godere di frutti di cui si ignorava totalmente il fiore e il seme. È il verso cadenzato, regolamentato e rimato quindi il maggior responsabile della creazione poetica. Voltaire, paradossalmente e un po’ inconsapevolmente, aveva colto nel segno: il poeta dice soltanto quel poco che può. Il miracolo della poesia non gli appartiene. Se davvero le cose stanno così - e dopo aver ascoltato Voltaire e Leopardi diventa più difficile dubitarne -, allora non resta che scegliersi o, tutt’al più, inventarsi una regola nuova e poi, costruito il giogo, chinare il capo sotto il suo peso e camminare lungo i solchi che faticosamente ci si apriranno davanti. Con questa consapevolezza mi sono apprestato ad allestire il fitto reticolato metrico e rimico delle « trecce»: in questo quaderno ne vengono presentate 15 inedite.

Ogni «treccia» si snoda in sei strofe di cui quattro di versi martelliani  (o doppi settenari) e due di versi senari. In sequenza si dispongono, ripetendo lo schema, due quartine di martelliani e una di senari. I versi vengono ordinati e scalati in modo perfettamente bipartito da una immaginaria linea ortogonale che solca dall’alto in basso il centro della pagina. Viene così a formarsi una sorta di disegno in forma di treccia. Le quartine di senari, disposte a rima alternata secondo lo schema abab, fungono da nodi: qui i versi si chiudono o si raccolgono per poi riaprirsi nelle ampie quartine dei doppi settenari. In questa libera accezione entrambi gli emistichi dei versi martelliani possono essere piani, tronchi o sdruccioli. E le relative strofe presentano, secondo un disegno costante, rime esterne, rime interne e “rime al mezzo”: i primi due versi infatti costituiscono un distico a rima baciata; il primo emistichio del verso 1 rima poi con il primo emistichio del verso 3; il primo emistichio del verso 2 rima con il secondo emistichio del verso 3; il verso 4 presenta infine la “rimalmezzo”.

 Le joug de la rime, così rifinito e lucidato, può ora operare con tutto il peso della sua musicale, poetica potenza e il poeta, se c’è un poeta, potrà soltanto sostenerlo camminando chino lungo i solchi, un po’ come l’homme très-faible di Voltaire.

Febbraio 2012                                                                                                                Paolo Ottaviani







Notizia

Paolo Ottaviani nato a Norcia vive a Perugia. Laureato in Filosofia con una tesi su Giordano Bruno, ha pubblicato negli Annali dell’Università per Stranieri di Perugia saggi sul naturalismo filosofico italiano. E’ stato Direttore della Biblioteca Centrale della medesima Università e ha fondato e diretto la rivista Lettera dalla Biblioteca. Nel 1992 per le Edizioni del Leone di Venezia ha dato alle stampe la raccolta poetica Funambolo con prefazione di Maria Luisa Spaziani. È presente con poesie, saggi, recensioni e articoli di interesse letterario in riviste multimediali, antologie, quotidiani e in numerosi periodici tra i quali AttraVerso, Esperienze letterarie, Perusia, Poesia, Poeti e Poesia, Universo. Nel 2007 ha pubblicato Geminario, un originale poemetto bilingue, composto da canti o gemini strutturati in terzine di endecasillabi nella parte in lingua e in quartine di versi senari in quella in neovolgare umbro-sabino, riecheggiando così le nostre origini linguistiche e letterarie duo-trecentesche,
comprese le arcaiche, suggestive sonorità di quei componimenti poetici che segnano il passaggio dalla metrica dei ritmi bassolatini alla metrica italiana accentuativa. Nel 2009 ha vinto il Concorso di Poesia Verba Agrestia ottenendo la pubblicazione presso l’Editore LietoColle della raccolta Il felice giogo delle trecce dove per treccia si intende una complessa composizione poetica a forma chiusa, di sei strofe, con doppia alternanza di due quartine di versi alessandrini e di una quartina di senari, disposte in una sorta di disegno a forma di treccia, con rime interne, esterne e “rimealmezzo”. Attualmente conduce su Pulsante Radio Web, nell’ambito della trasmissione Poesia, l(‘)abile traccia dell’universo, la rubrica “Cinque minuti di poesia con Paolo Ottaviani”.


Paolo Ottaviani
Via degli Apostoli, 1
06123 Perugia
Tel/Fax 0755727747
e. mail: paolo.ottaviani@libero.it

8 commenti:

Francesca Diano ha detto...

Mi affascina questo gioco complesso della rima e la struttura matematica di questa poesia. Il rigore della tecnica e della forma, lungi dal limitare, apre invece infinite possibilità di libertà, di immaginazione. Si pensi alla lirica cortese e ai suoi rigorosissimi canoni, o alla forma dell'haiku. Non sono mai stati limiti. Né un canone obbligato ha svuotato di senso l'idea.
L'impressione, dopo l'ammirazione per queste preziose "scoperte e invenzioni" (nel senso che a questa definizione si dava a Port-Royal) è di una sostanza vibratile, in costante tensione e movimento, autogeneratrice e rigeneratrice. Queste trecce mi ricordano le stringhe, che conciliano meccanica quantistica e relatività generale.

Anonimo ha detto...

Rime e consol.
Scrivere su campionature metrico-musicali, e su più livelli, mette l'autore delle rime-pattern (schemi ricorrenti) in dinamica competizione con la rapidità con cui il campionatore mentale gestisce i propri frammenti. La riproduzione dei pattern ( anche scelti da tradizione) consente un notevole risparmio di memoria in quanto l'appuntamento, o la coincidenza, sostenendo l'eccitazione creativa, può assegnare parole diverse nell' arco breve dell'asse orizzontale dei versi. La rima- pattern diventa un segnale continuo ad intervalli di tempo regolari, fino a giungere ad un risultato significativamente rappresentativo del contenuto. Ne deriva che maggiore è la quantità dei campioni in un periodo, vale a dire la loro frequenza, maggiore è la qualità del testo prodotto. L'effetto sonoro del pattern, unitamente alla sensibilità e alla sapienza nelle rielaborazioni, può raggiungere una post-moderna unione retro-futuristica, ma può portare ad una sfibrante economia del discorso relativamente al plot narrativo (se collegato a tastiera automatizzata). Serve che il motore di gioco sia comunque in grado di gestire anche le situazioni più caotiche sempre al meglio, senza far calare mai il frame rate (frequenza dei fotogrammi). Diversi tipi di regolarità, similmente alle regolarità delle sequenze biologiche del DNA, permettono il riconoscimento sperimentale di diversi tipi di ancoraggi e in qualche modo possono prefigurarne l'accadimento. Il significato è quindi notevolmente condizionato dalla Gestalt (forma o schema), ma in quest'ultimo termine è maggiormente messo l'accento sull'aspetto della strutturazione. In questo caso i versi-pattern orientati agli oggetti tipicamente mostrano relazioni ed interazioni tra classi o oggetti, senza specificare le classi applicative finali coinvolte. Tali pattern risiedono quindi nel dominio dei moduli e delle interconnessioni. Il riconoscimento di pattern (in inglese, pattern recognition) è una sottoarea dell'apprendimento automatico, ma andrebbero perfezionate l'analisi e l'identificazione di pattern all'interno di dati grezzi in modo da poter ottenere nuove configurazione di stimoli (filtri) utili all'unità percettiva del testo poetico.
mayoor

Anonimo ha detto...

Accipicchia Mayor, che lezione. Spero ci sia un seguito, perchè è terribilmente ostico , per me naturalmente. Emy

Anonimo ha detto...

ma va... è solo una provocazione. Mi sono divertito pescando a piene mani da vari testi specialistici sulle campionature musicali, pattern e refrain, che ho acconciato appositamente con l'obiettivo di creare parallelismi non retrospettivi tra la rima e principi della moltiplicabilità informatica. Bisogna tenere presente che l'informatica è una tipica scoperta antropomorfica basata sulla riproduzione meccanica di alcune funzioni mentali. Ma la conseguenza è che tale scoperta, a seguito di un bizzarro interscambio tra mente e macchina, finisce con l'influenzare a sua volta la mente che l'ha generata. Le strutture metriche, e la rima, in tutte le loro forme sono potenzialmente riproducibili. Per quel che mi riguarda provo scarso interesse per la rima, ma mi affascinano i refrain e la riproducibilità. Mi è capitato di scrivere in rima, talvolta, ma solo perché mi sentivo molto, ma molto gioioso. Immagino sia così anche per Paolo Ottaviani, tant'è che usa la rima per parlar della rima stessa... ciao
mayoor

Anonimo ha detto...

Eh,eh,eh,Mayoor, bell'idea!Creativa! Ma lo sai che la poesia di Transtomner "Volantini" mi ha ricordato parecchio le tue? E mi piace. Emy

Anonimo ha detto...

correggo:Transtromer. Emy

Anonimo ha detto...

dici? io penso che non mi sentirei bene nei panni del bravo traduttore che non ha saputo, o potuto, scrivere di meglio che: "La silenziosa rabbia scarabocchia sul muro in dentro.".
Non ci avrei dormito per nottate perché, in italiano, è un verso scombinato e privo di senso. Ma è vero che quella poesia è parecchio spezzettata, e in ogni frammento assoluta...
mayoor

Anonimo ha detto...

cioè, voglio dire: è un caso, una coincidenza.
m