lunedì 22 ottobre 2012

SEGNALAZIONE
Ennio Abate
Riflessioni su “Dinanzi al morire”
di Francesca Diano

Vanitas vanitatum - Salvador Dalì

Sul blog di Francesca Diano IL RAMO DI CORALLO uscì il 9 sett. 2012 un suo resoconto (qui) del Convegno internazionale Dinanzi al morire svoltosi presso il Centro Culturale San Gaetano a Padova dal 6 all'8 settembre. Lo lessi il 27 settembre, il giorno successivo alla morte dell'amico Carlo Oliva (qui) e scrissi  alcune considerazioni che Francesca ha avuto la gentilezza di ospitare nel suo blog (qui).  Segnalo la cosa  su Moltinpoesia, invitando chi  volesse commentare a farlo direttamente  sotto il post pubblicato da Francesca. [E.A.]


1.
Ieri sono stato ai funerali di Carlo Oliva. C’era molta gente. Nel salone in sottofondo una canzone anarchica. «Nostra patria è il mondo inter..». Sicuramente molti di questi suoi amici e amiche, oggi coi segni della vecchiaia nei corpi, saranno stati nelle manifestazioni a cui anch’io partecipai nel ’68-’69 per le strade di Milano. Invano cerco di riconoscere  qualche volto. Non siamo più quelli di allora. Tra quanti hanno preso la parola per salutare l’amico morto, le  cose più commosse e amare le ha dette Felice Accame, il libraio della Odradek di Milano, che con Carlo Oliva ha avuto un sodalizio intellettuale durato oltre un quarantennio. Ha accennato alla forza dell’amicizia e alla fiducia che si era costruita tra loro due nel tempo: quello che scriveva uno era condiviso  pienamente dall’altro. Ma ha anche detto che tutto quel lavoro  compiuto assieme in tanti anni è rimasto inascoltato: la società è andata nella direzione opposta a quella desiderata; i nemici si sono dimostrati  più forti. È un atto di coraggio, per me ammirevole, dirselo e dirlo in pubblico davanti alla salma di un amico. Poi ciascuno farà o confermerà la propria scelta: inchinarsi ai forti diventati più forti o continuare a resistere comunque.
2.
Oggi, con ancora nella mente le immagini della salma di Carlo Oliva e del suo funerale, leggo sul blog IL RAMO DI CORALLO «Dinanzi al morire – Un convegno e tre mondi a confronto». È un resoconto dei principali interventi lì tenuti, ma anche una profonda riflessione sul tema della morte che relegata da noi «nel sottoscala, come un parente di cui ci si vergogna». Francesca Diano sostiene, infatti, che «l’occidente non accetta la morte» e non la vuole «guardare in faccia», pur essendo «una delle società più violente, sanguinarie e prive di compassione». Aggiunge che da noi «il lutto diviene spesso una patologia da guarire», per il venir meno di «quelle forme e quei riti codificati che nel corso della storia e delle culture hanno accompagnato il trapasso». E conclude con una sorta di denuncia: oggi si preferisce coprire il vuoto prodotto dalla perdita di senso di quei riti con «l’ossessiva celebrazione dell’eterna giovinezza, dell’eterna efficienza, dell’eterna sopravvivenza a qualunque costo».
[Il testo completo si legge qui]

24 commenti:

Francesca Diano ha detto...

Caro Ennio, leggendo le tue riflessioni mi sono accorta che effettivamente la distanza tra il modo in cui l’Occidente percepisce la morte e quello in cui lo percepisce l’Oriente è davvero molto ampia. E lo stesso può dirsi per il modo in cui lo fa il mondo contemporaneo rispetto a molte culture del passato. Ciò che mi interessava mettere in evidenza dopo aver ascoltato tre modi di vedere questo evento, era il filo che li legava e che mi era apparso molto evidente, pur nella loro apparente distanza. Ma lì si trattava di un filosofo, di un rabbino e di un lama. Nella quotidianità, l’idea della cessazione dell’esistenza o della perdita di una persona cara sono in genere inaccettabili e causano paura e sofferenza. Ma il discorso non era tanto sulla quotidianità o sul rapporto che l’individuo può avere con la morte, ma sulla visione che un’epoca e una cultura ne hanno.
Eppure, non si può negare che l’Occidente moderno cerchi in tutti i modi di “censurare” la morte. Tu dici che si è sempre fatto. Io dico di no. In realtà non lo dico solo io, ma gli storici delle religioni, gli antropologi, i filosofi, gli etnologi ecc. Oggi l’Occidente non accetta non tanto la morte, quanto la vecchiaia. Cioè l’idea della fine. Si deve essere sempre giovani, anche artatamente giovani, non importa con che mezzo. Insegue il mito dell’immortalità, non importa se prolungando ad libitum degli stati vegetativi, ma anche impadronendosi di organi altrui e inglobandoli in sé. E’ questa ùbris che sovverte un rapporto che, in moltissime culture del passato, ma anche del presente, non bollava la morte come cosa “innaturale”. Ne integrava invece la presenza nel vissuto collettivo e individuale. E in effetti la morte, o meglio, i riti che la accompagnavano, erano un evento collettivo e non privato. Il che fa un’enorme differenza.
E’ ovvio che, se si ritiene che la morte non sia un passaggio, ma solo la cessazione dell’esistere e vi ponga fine, questo non permette di dare a questo evento un qualunque senso. E ciò che è privo di senso non è accettabile.
I medici ti diranno che oggi, con tutti gli strumenti che abbiamo, è molto più difficile definire la morte fisica. Le funzioni fisiologiche possono essere mantenute artificialmente in molti casi e l’encefalogramma piatto non indica necessariamente la cessazione della vita. E’ di oggi la notizia di questa ragazza danese che è uscita dal coma proprio quando i medici ne avevano decretato la morte e stavano “staccando la spina”.
(segue)

Francesca Diano ha detto...

Nella Grecia antica alcune scuole filosofiche insegnavano delle vere e proprie tecniche per esorcizzare la paura della morte. La melèthe thanatou, o meditazione sulla morte (meditatio mortis) affiora spesso nelle tragedie di Euripide, ma lo stesso Epicuro l’insegnava nel suo Giardino.

Tu poi non comprendi in che modo la morte possa dare un senso alla vita. A me pare molto evidente. Una vita senza fine, la condizione dell’immortalità, priverebbe ogni azione e ogni raggiungimento di significato. Ciò che li rende importanti è la loro collocazione nel tempo. Non in un tempo astratto, infinito e perciò inesistente, ma in quello che noi sperimentiamo. E’ sempre quel che io sperimento qui e ora. Che valore avrebbero i progetti, i desideri, la visione di un futuro, la spinta a raggiungere, se fossimo condannati a vivere in un magma indistinto e in cui il futuro non esiste?

Quanto alle tue osservazioni su Krishnamurti, forse dovresti tenere conto di tutto il suo pensiero e dello scopo delle sue parole. Krishnamurti ha come fine quello di liberare l’uomo dai condizionamenti, dalle sovrastrutture, dalle incrostazioni che i dogmi, le credenze, le fedi, i pregiudizi. E dunque nega a tutte queste sovrastrutture, da sempre usate per controllare e dominare le menti, ogni valore. Le spazza via.
Quando dice che per liberarsi dalla paura della morte (cosa che si può fare, se non per quanto riguarda la paura del dolore che vi può essere associato, sicuramente per quanto riguarda l’idea della fine), paura che è stata usata da sempre dal potere, politico o religioso che fosse per controllare le masse, dice che il provare delle esperienze di “fine” è d’aiuto. Secondo il linguaggio della sapienza vedica, fine è semplicemente lo svuotare la mente. Il che è molto difficile. Ed ecco allora che ti porta l’esempio dell’amore. Quando si ama, (e qui amare non si limita a indicare l’amore romantico) si muore a se stessi. Si diventa “vuoti” perché ci si apre all’infinito dell’altro. E’ la cessazione dell’ego. Questo dice Krishnamurti.

Da molti anni mi occupo di studiare le tradizioni funebri irlandesi (qualcosa se ne può leggere in un post sul mio blog) e di tradizioni funebri più in generale e so bene che l’argomento in oggetto è talmente enorme che davvero è difficile circoscriverlo o anche solo affrontarlo in poche parole. Ma vale comunque la pena di rifletterci.
Dunque ti ringrazio di queste tue osservazioni.

Anonimo ha detto...

Il gioco

Vivi e morti
contemporaneamente
dovremmo essere:
per gioco apparire
e per gioco sparire,
temere
il piccolo topo
ed amrlo
quale unico compagno
del nostro morto
teschio.

Altrove è lo spirito
come un uccello allegro

Paolo Pezzaglia

Anonimo ha detto...


Solo dalla vita
si fa il morire.
La morte...
ci consumiamo in essa
ridendo e scherzando.

Emy

Anonimo ha detto...

La morte esiste, almeno questo lo sappiamo. Ma dovremmo separare la morte dalla malattia e dal dolore perché, mentre la morte è un fenomeno naturale che riguarda tutto ciò che nasce, la malattia ha a che fare con la vita e spesso non è che la risultante di comportamenti innaturali. A causa di questo errore, malattia-morte, si giunge a credere che curando la malattia, finanche a giungendo all'accanimento terapeutico, ci si liberi dalla colpa di commettere un (inesistente) omicidio. Ma non è così: "Ad esempio, hai mangiato troppo e hai mal di stomaco. Il dolore non è naturale: hai fatto una cosa innaturale. Non hai dormito per due o tre giorni, perché correvi dietro ai soldi… oppure eri candidato in una elezione e non riuscivi a dormire, o non avevi abbastanza tempo per dormire. Ora la tua testa… come se volesse scoppiare. Ma questo è solo un sintomo. La natura ti sta dicendo: ‘Torna da me. Ti sei allontanato troppo’. Molte malattie si presentano solo quando siamo in qualche modo persi rispetto alla natura. Se l’uomo vivesse naturalmente non ci sarebbero malattie. E la natura è così gentile che non grida, anzi bisbiglia. La natura è molto silenziosa, la sua è una voce sottile, delicata. Continua a dirti: ‘Non farlo, non farlo, non farlo’, e continua a sopportare. C’è un punto oltre il quale non può più sopportare e scoppia la malattia." (Osho).

Verso sera
i morti siedono sui fili della luce
come gocce di pioggia
che è già caduta

...

il morto
dalla bocca spalancata
fa sentire sola
l'aria

...

Il morto con le cicale in mano
dice che colma
della promessa dell'estate
è la vuota eternità

(da "Bevendo il tè con i morti"
di Chandravimala Candiani)

mayoor

Moltinpoesia ha detto...

Ennio Abate:

"Se l’uomo vivesse naturalmente non ci sarebbero malattie" ( Osho citato da Mayoor).

Ma l'uomo non ha mai vissuto "naturalmente" da quando è diventato uomo.
Forse solo nel Paradiso terrestre (nel mito) tutto era naturale e nessuna malattia incombeva.

Anonimo ha detto...

Caro Ennio, guarda gli animali: raramente si ammalano e quando accade di solito muoiono. Perché dovrebbe essere diverso per noi? Gli scienziati che indagano sul dna hanno avanzato l'ipotesi che esista in ciascuno di noi una sorta di orologio biologico, chiamiamolo pure una data di scadenza, che potrebbe essere presto individuata. Quanto a Osho ti informo che era perfettamente ateo, e in gioventù fu anche marxista.
mayoor

Unknown ha detto...

essere poetico è essere sulla soglia che "praticamente" non separa la morte dalla vita e viceversa. Non occorre per questa soglia andare lontano o molto lontano, in altri spazi o civiltà o tempo.Ovviamente però se si vuole vivisezionare la soglia con religioni, o ideologie, o scienze, la soglia scipera e prende il volo.

Moltinpoesia ha detto...

Ennio Abate:

Incontrata per caso forse in questo post ci sta bene:

Sulla morte senza esagerare
di Wislawa Szymborska



Non s’intende di scherzi, stelle, ponti,
tessitura, miniere, lavoro dei campi,
costruzione di navi e cottura di dolci.
Quando conversiamo del domani
intromette la sua ultima parola a sproposito.
Non sa fare neppure ciò
che attiene al suo mestiere:
né scavare una fossa,
né mettere insieme una bara,
né rassettare il disordine che lascia.
Occupata a uccidere,
lo fa in modo maldestro,
senza metodo né abilità.
Come se con ognuno di noi stesse imparando.
Vada per i trionfi,
ma quante disfatte, quanti colpi a vuoto
e tentativi ripetuti da capo!
A volte le manca la forza
di far cadere una mosca in volo.
Più di un bruco
la batte in velocità.
Tutti quei bulbi, baccelli,
antenne, pinne, trachee,
piumaggi nuziali e pelame invernale
testimoniano i ritardi
del suo svogliato lavoro.
La cattiva volontà non basta
e perfino il nostro aiuto con guerre e rivoluzioni
è, almeno fino ad ora, insufficiente.
I cuori battono nelle uova.
Crescono gli scheletri dei neonati.
Dai semi spuntano le prime due foglioline,
e spesso anche grandi alberi all’orizzonte.
Chi ne afferma l’onnipotenza
è lui stesso la prova vivente
che essa onnipotente non è.
Non c’è vita
che almeno per un attimo
non sia immortale.
La morte è sempre in ritardo su quell’attimo.
Invano scuote la maniglia
d’una porta invisibile.
A nessuno può sottrarre
il tempo raggiunto.

Anonimo ha detto...

Affonda il dito nella piaga
e dimmi se ancora puoi amarmi
nel freddo che sarà di un attimo
fammi ancora sentire
il dolore della vita.

Emy

Francesca Diano ha detto...

Infatti è questo il punto, separare la morte dal dolore che potrebbe accompagnarla. E molto spesso si confondono le due cose. Il convegno di cui parlo nel mio post, che forse può interessare leggere per capire meglio le tematiche che voleva affrontare, era molto ampio e l'approccio culturale-filosofico-religioso che mi interessava analizzare era solo un aspetto dell'approccio a 360°che il programma offriva sull'atteggiamento moderno di fronte alla morte (clinico, psichiatrico, medico ecc.). In alcune poche università italiane (Bologna e Padova che io sappia) esiste un corso di perfezionamento in tanatologia, all'interno del dipartimento di psicologia clinica. Serve a formare operatori che si occupano di seguire in un percorso terapeutico chi ha subito una perdita, soprattutto ma non necessariamente di una persona cara. Una perdita può essere anche del lavoro, della casa, di una condizione sociale. Ciò che volevo sottolineare è che nel nostro mondo si può patologizzare il lutto o la paura della morte può diventare paralizzante. Forse chi non è addentro questi temi può non rendersi conto dell'enorme differenza che c'è tra oggi e il passato da questo punto di vista. Il che permette di capire la società in cui viviamo da una prospettiva ancora diversa.
Capisco però che per molti questo tema possa essere ostico.

Roberto Russo ha detto...

@ennio abate

Caro Abate, personalmente io trovo un'assonanza, nelle sue nitide affermazioni, con la disperata lucidità di Milo De Angelis:

"Ma tu passi,non c’è compenso,
aggiustamento, smettila: questa verità è qui,
non opporre.
E guarda i pennelli: distruggili.
Gli asciugamani, le bende.
Distruggi la mia faccia:
ormai è la generazione seguente
che penserà la morte
attraverso la nostra". SOMIGLIANZE, ed. Guanda 1976.

Unknown ha detto...

ciao Francesca :-) , per quanto mi riguarda , non so gli altri, non credo si tratti di questione di ostico, ma piuttosto di separare proprio pe ril tema a cui tieni, l'approccio delel scienze, da quello dell'anima. A me in un contesto poetico quale è questo, deve interessare che chi si dice poeta e/o critico, non abbia a sua volta perso la dimensione anima che tutto tiene unito ( perlomeno se ci si volesse definire poeti o critici). Cio che voglio dirti è che le scienze umane e sociali a volet devono razionalizzare qualcosa per riattivarla, ma che esiste a prescindere dalle stesse.

Se devo pensare ad esempio che qualcuno nel momento della mia morte, se avvenisse con lunga malattia, mi accompagnasse al morire perche ha fatto uno o piu corsi di tanattologia, preferirei spararmi un colpo in testa immediato. Ci sono ancora "balie" che lo sanno fare perfettamente tenendoti la fronte e una mano.

Se poi invece vogliamo parlare di un mondo in cui la vita non conta un ca...e figuriamoci quindi la morte, allora il discorso assume altre pieghe ancora.

un bacione

Unknown ha detto...

ovviamente tanatologia senza doppie

Francesca Diano ha detto...

Ciao cara Rò. Premetto che le considerazioni di Ennio non erano pensate per essere pubblicate su questo suo blog - lo dice lui stesso - e che quindi poco hanno a che vedere con l'argomento che qui si tratta, cioè la poesia. Erano un lungo commento alla mia relazione e alle mie riflessioni pubblicate sul mio blog in merito al convegno. Data la lunghezza dei commenti di Ennio ho pensato di pubblicarli da me come post. Lui poi li ha ripostati qui. Ma in effetti vedo che questo tipo di operazione un po' complicata svia il lettore, perché a leggere solo le considerazioni di Ennio, senza quello che le ha generate, ne risulta qualcosa che così non è molto chiaro al lettore e i commenti che leggo prendono altre strade. L'idea di partenza era l'atteggiamento dell'uomo contemporaneo di fronte alla morte.
Ennio stesso, nel ripostare qui il post pubblicato da me invita il lettore a commentare non qui, ma sul mio blog. In questo modo la discussione forse poteva allargarsi. Ma va bene così.

In effetti mi è parso che, pur rimanendo molto interessanti le poesie che gentilmente e generosamente sono state aggiunte a commento, compresa quella della Szymborska (poetessa che a me dice ben poco) l'unico commento davvero pertinente sia il tuo. Avevo scritto infatti che, se oggi si sente la necessità di istituire dei corsi accademici di tanatologia e se il lutto o la perdita devono essere medicalizzate, qualcosa non va nella nostra società. Ma la tanatologia ha vastissime applicazioni.

(segue)

Francesca Diano ha detto...

Quoto da Wikipedia
"La tanatologia (dal greco θάνατος, thànatos - "morte", e λόγος, lògos - "discorso" o "studio") studia la morte e le successive modificazioni del corpo (fenomeni cadaverici) con finalità relative alla medicina legale. Con lo stesso termine si indicano però anche gli studi sulla morte di carattere antropologico e filosofico.
Gli scopi principali della disciplina in senso medico sono accertare la morte reale del soggetto e stabilire il momento in cui essa è avvenuta. In particolare i rami di interesse dalla tanatologia sono: l'accertamento dell'epoca della morte (tanatocronologia), l'accertamento delle cause della morte e l'accertamento della rapidità del decesso.
L'importanza della tanatologia è da ascriversi alle sue finalità penali (connesse al possibile intervento di terzi, all'epoca e alla dinamica del decesso), civilistiche (connesse con l'estinzione della persona fisica: ad esempio al fine delle successioni ereditarie sarà di fondamentale importanza sapere l'esatto momento dell'obitus di un soggetto rispetto ad un altro), mediche (trapianto d'organi) e deontologiche (eutanasia).

Si parla invece di psicotanatologia, o tanatologia psicologica, per definire il sostegno psicologico davanti alla morte, sia per i pazienti terminali che per i loro parenti (accompagnamento alla morte ed elaborazione del lutto come supporto al moribondo e ai suoi congiunti). In caso di lutto complicato, l'intervento psicotanatologico si può saldare con quello psicotraumatologico, con cui ha diversi punti di contatto. Fanno altresì parte di questo ambito gli interventi psicologici correlati alla comunicazione di decesso, all'accompagnamento al riconoscimento delle salme ed al supporto psicologico durante le eventuali richieste di consenso al trapianto.
Il settore della psicotanatologia ha iniziato a svilupparsi presso gli Hospice e le Lungodegenze, grazie all'apporto di alcuni autori. La psichiatra svizzera Elisabeth Kübler Ross, in particolare, viene considerata la fondatrice dell'approccio psicotanatologico con il suo modello a 5 fasi; le diverse fasi, da lei individuate attraverso molti colloqui ed osservazioni cliniche, rappresentano le principali "tappe di elaborazione psicologica" dell'evento-morte per chi riceve una diagnosi infausta.
Il suo modello ha avuto molta diffusione, ed anche se attualmente viene considerato in parte superato dalle più recenti elaborazioni teoriche di merito, il suo influsso ha aiutato molto a legittimare, diffondere e strutturare l'attività psicotanatologica nelle strutture sanitarie."

La mia tesi di fondo era che la complessità dei riti di passaggio e delle forme collettive di elaborazione del lutto in passato evitavano certe patologie che oggi invece affiorano.
Riporto qui un mio post in merito, in cui la poesia altissima delle elegie funebri irlandesi (caoìneadh) è mezzo e vettore di conservazione dell'identità culturale e sociale di un popolo.

http://emiliashop.wordpress.com/2012/01/07/lamentazione-di-felix-mccarthy-per-la-morte-dei-figli-xvii-sec-traduzione-di-francesca-diano/

Francesca Diano ha detto...

Io penso che l'arte, e dunque anche la poesia, sia di per sé un'esperienza liminale e come tale si colloca fuori dal tempo e dallo spazio.

Anonimo ha detto...

Nel 2011 Lucio Magri scelse di morire proprio in Svizzera, in una clinica dove si pratica il suicidio assistito. Questo ha a che fare con la psichiatra svizzera Elisabeth Kübler Ross? Nel caso avrebbe tutta la mia solidarietà. Ho letto il Bardo Thodol all'età di sedici anni, so quanto sia necessario che se ne parli. Potevate affrontare questo tema in modo anche più diretto.
mayoor

Unknown ha detto...

ciao cara Frà :-) ...lascio un attimo cadere uno dei pilastri, almeno per me, che hai citato della morte e il morire, oppure della nascita a a nuova vita (grandissima E.K.Ross che tutti dovrebbero leggere)...il problema di questo post, dunque, è involontariamente aver riproposto nella sua dinamica "deframmentata" , l'eterno mosaico dell'anello mancante...Ennio da una parte e tu dall'altra, lo avete senza intenzione rappresentato e basta ricomporlo...è bellissima all'interno di questo tema questa coincidenza.
un bacione

Francesca Diano ha detto...

Grazie Mayoor. Mi pareva di averlo fatto sul mio blog in modo molto diretto infatti. Qui la cosa è molto diluita per le dinamiche cui accennavo nei miei commenti precedenti. Anche io sono convinta che se ne debba parlare. (Ma tu intendi dell'atteggiamento nei confronti della morte o del suicidio?)

Francesca Diano ha detto...

Elisabeth Kübler-Ross è davvero un caposaldo, così come Brian Weiss e per una storia della morte in Occidente Philip Ariès.
Mi piace la tua osservazione sull'anello mancante, sei incisiva come sempre, ma in effetti, a ben guardare, non manca nessun anello. Solo qualcuno è un po' allentato.
Un abbraccione

Anonimo ha detto...

Della morte. Del suicidio, in un paese come il nostro dov'è così difficile anche solo parlare d'aborto... eppure già nell'antica Grecia, i cittadini ateniesi che volevano suicidarsi bastava che facessero domanda alle autorità, anche se poi erano le stesse autorità a decidere come morire.
No, della morte soltanto. Le mie ricerche però non sono strettamente scientifiche, almeno non nel senso che diamo a questo termine in occidente. Oltre al Bardo ho letto Sogyal Rimpoche (... del vivere e del morire. Ed. Ubaldini) e ho praticato, per persone che ho amato, i 40 giorni che accompagnano l'uscita dal corpo. Ad oggi non ho ancora partecipato a seminari terapeutici sulla morte, ne' so se lo farò mai perché i miei interessi sulla vita e la guarigione sono d'altro genere, diciamo più in armonia con le mie attitudini. In tutti i casi, per tranquillizzare chi confonde l'accompagnamento alla morte con la pratica dell'estrema unzione, credo si possa dire che queste azioni sono rivolte alla vita, all'accettazione della vita in tutte le sue forme, compresa quella del morire. Indispensabile l'apporto della psicanalisi, se è vero che la paura di morire si origina nella natalità... l'argomento è complesso, ma si fa ostico quando bisogna fronteggiare pregiudizi che, per definizione, non hanno nulla di scientifico. I poeti poi, che lo sappiano o no, secondo me questa pratica del morire un po' la conoscono già.
mayoor

Anonimo ha detto...

Grande Mayoor! Emy

Francesca Diano ha detto...

Del suicidio purtroppo mi sono occupata per anni in convegni, seminari e scritti. In passato ci ho anche organizzato un convegno e fondato un'associazione. Ma tutto questo per la sua prevenzione, soprattutto fra i giovani. Il parlarne ancora oggi trova enormi resistenze. Ma lo scopo appunto, come tu dici, non è quello di esaltare la morte, piuttosto quello di dare alla vita il grande valore che ha. Ed è proprio in una società come la nostra, in cui appunto la morte è l'unico tabù rimasto (così come il parlare dell'anima) e la grande rimozione, che la vita ha perso ogni valore e la si dissipa e non la si ama.
In quanto ai poeti, concordo. Come dicevo più sopra, la poesia, l'arte si muovono in uno spazio liminale, di confine.