mercoledì 14 novembre 2012

Donato Salzarulo
Storia della colonna infame.
Il Manzoni di Fortini (Seconda parte)


Il seguito della nota manoscritta è dedicato quasi tutto a «quelle centoventi pagine di prosa che si chiamano Storia della colonna infame». (pag. 1796)

La lingua di Fortini è precisa e densa. Il pensiero si organizza sinteticamente intorno ad alcuni nuclei tematici: l’origine e redazione del libretto, la storicità dell’episodio raccontato, il giudizio estremamente positivo espresso sull’opera (“è un capolavoro”), l’originalità e la nitidezza del dettato, la tragicità dell’accaduto e l’insegnamento morale che se ne può trarre, la sua attualità, le contraddizioni del Manzoni. Poco più di due paginette straordinarie per dire della straordinarietà di un’opera e dell’intensità di pensiero e di scrittura di un autore. Meglio non perdersele. Perciò le ripropongo al rallentatore, seguendo passo dopo passo le frasi fortiniane per enuclearne i problemi, farne un elenco e tentarne un primo commento.

 

Origine e redazione della Storia: «Manzoni aveva pensato di farne un capitolo del libro; poi, per motivi di equilibrio, lo separò.» (pag. 1797). All’inizio (1824), infatti, La Colonna Infame era materia del capitolo V, tomo IV, del Fermo e Lucia. Poi Manzoni, ancora in fase di elaborazione dell’abbozzo, giudicandola digressione troppo lunga e fuorviante, decise di toglierla. Destinata ad Appendice dell’edizione “ventisettana” dei Promessi Sposi (1827), non venne  pubblicata per ragioni editoriali di proporzione. Giustamente Fortini si limita a questo accenno, data la stringatezza e l’economia di una nota. Il problema, però, è importante e chi intende valutarne la portata può utilmente ricorrere ad una delle varie edizioni in circolazione: ad esempio, quella curata da Carla Riccardi per gli Oscar Mondadori (1984) contenente le due versioni della Storia. E’ importante sia per chi voglia seguire correttamente l’evoluzione del pensiero e della poetica manzoniana, sia per chi voglia capire i gusti e le posizioni successive dei lettori e degli interpreti.

 

Storicità dell’episodio raccontato: «L’episodio è storico. Durante la peste del 1632 si era diffusa l’ossessione degli untori, la gente credeva che dei criminali, istigati dal demonio, spargessero nei luoghi pubblici sostanze capaci di trasmettere la peste. In molte città vi furono processi ed esecuzioni di presunti colpevoli.» (pag. 1797). Fortini scrive 1632. Quasi certamente è una svista. La peste ampiamente descritta nei capitoli XXXI e XXXII dei Promessi Sposi è quella del 1630. Milano fu una delle città più gravemente colpite. Del resto, la data è riportata all’inizio della Storia della colonna infame, nella prima riga dell’Introduzione: «Ai giudici che, in Milano, nel 1630, condannarono a supplizi atrocissimi alcuni accusati d’aver propagata la peste…». Essa è ripetuta nel primo capitolo: «La mattina del 21 giugno 1630, verso le quattro e mezzo, una donnicciola chiamata Caterina Rosa…». Al di là delle date, la peste è argomento tragico per eccellenza. Malattia infettiva, originata da un preciso batterio, con un suo periodo di incubazione e delle sue modalità di diffusione, essa è il risultato di un fenomeno naturale (come il morire, purtroppo). Gli esseri umani - ed è proprio la storia a dimostrarlo – non si limitano a queste spiegazioni scientifiche e disincantate. Sono importanti ma non sufficienti. Se ad una persona, infatti, viene diagnosticato un cancro, nove volte su dieci si chiederà: perché proprio a me? Che male ho fatto? Quali peccati ho commesso?...La peste -  come il cancro – costringe a tirare in ballo concetti come “colpa”, “destino”, “male” ed “origine del male”, ecc. Quando alcune malattie assumono forme epidemiche, probabilmente nessun illuminismo e nessuna spiegazione razionale potranno scongiurare il diffondersi di credenze (nel demonio o nel dio Apollo lanciatore di dardi pestiferi nel campo acheo), l’apparire  di ossessioni sociali e di climi paranoici, l’affannosa ricerca di capri espiatori, la preparazione e celebrazione di sacrifici cerimoniali come la messa a morte degli “untori”. E’ utile, inoltre, tener presente lo spettro semantico del termine che trasmigra facilmente dal campo medico-scientifico a quello storico-morale: la peste dell’AIDS, ma anche la peste nazista, della corruzione, del terrorismo, della guerra, del pensiero unico liberista, ecc. La nostra sicurezza è soltanto apparente. In realtà siamo sempre minacciati, sempre sull’orlo dell’abisso mortale.    

 

Cenni brevissimi sui contenuti del libro: «Il libro manzoniano racconta una vicenda di povera gente arrestata, che parla sotto la tortura, accusa altri per salvarsi, coinvolge alte personalità (che, naturalmente, se la caveranno); di giudici ossessionati dalla pubblica opinione che esige vittime; della atroce condanna di innocenti a sei ore di tormenti e di morte cerimoniale. Sul luogo della esecuzione sarà eretta una colonna memoriale dell’infamia. Il libro si conclude con una spietata rassegna critica della ignoranza o viltà di cui dettero prova, nei duecento anni seguenti, gli storici e gli interpreti dell’avvenimento.» (pag. 1797). La sintesi è perfetta. Per non accontentarsi del riassunto stringatissimo di Fortini, non rimane che l’invito ad andare oltre. Recuperare da qualche scaffale la Storia e immergersi nella lettura «d’un gran male fatto senza ragione da uomini a uomini». (pag. 4)[1]. Il problema è qui: il gran male fatto senza ragione. La peste è una tragedia, un’esperienza possibile. Se il suo arrivo si può attribuire al fato, al destino o alla nostra condizione naturale (l’essere fatti di carne), a chi attribuire, se non agli uomini, il farsi del male senza ragione? Perché, anche dopo la peste, tanta ignoranza e viltà degli interpreti? C’è di che disperare. Tanta è la falsa coscienza che le situazioni pestifere attivano.

 

Giudizio sull’opera e connesse motivazioni: «Il libretto (se si eccettuano alcune pagine di noiosa rassegna delle opinioni giuridiche sull’uso della tortura) è un capolavoro. L’esposizione dei fatti e il commento ideologico e morale sono strettamente connessi. Un senso di tremenda fatalità percorre tutte quelle pagine. La storia delle umili vittime prese nell’orribile ingranaggio della ingiustizia è raccontata con la tecnica classica della Passio Domini Nostri Jesu Christi ossia per “stazioni” successive.» (pag. 1797). Capolavoro. E’ un giudizio netto quello di Fortini, motivato. In tal modo, egli viene a collocarsi in quella schiera di lettori e critici, di poeti e romanzieri che, prediligendo questo libretto, contribuiscono a interpretare l’opera di Manzoni in maniera più ampia e completa. Il nostro classico non è soltanto l’autore dei Promessi Sposi. Proporre che la Storia venga letta a scuola è pia illusione. Nel biennio molti professori hanno eliminato da anni la lettura di Renzo e Lucia, figurarsi se potranno star dietro alle vicende processuali di Guglielmo Piazza e Giangiacomo Mora. La Storia continuerà a restare un libro in penombra. Ci pone di fronte a problemi e dilemmi che preferiamo rimuovere, occultare, evitare.

Originalità e straordinarietà dell’opera sia sul piano degli effetti che della lingua: «E nessun scrittore italiano ha mai saputo raggiungere tali lucidi effetti di atrocità e di pietà, di ferocia e di smarrimento impotente, alternando, alla nitida lingua raziocinante in cui parla l’autore, i frammenti del latino dei cancellieri, le parole in dialetto che la tortura strappa agli imputati.» (pag. 1797). E’ un giudizio condiviso da altri critici (ad esempio, cfr. Lanfranco Caretti, pag. 90 di «Manzoni. Ideologia e stile», Einaudi, 1972 e 1974).

 

Le esperienze di scrittura che Manzoni ha alle spalle e la sua precisa volontà di far ragionare il lettore: «Manzoni – che aveva alle spalle il cosiddetto romanzo gotico inglese e che non aveva sdegnato, nei Promessi sposi, alcune situazioni sadiche – come quella di Lucia, la vergine contadina abbandonata al potente e feroce Innominato o come gli indugi nella rappresentazione dei cadaveri, che tanto piacquero a Edgar Poe – qui trattiene la sua penna, vuole che il lettore ragioni.» (pag. 1797). Questa volontà del gran lombardo non piace, ad esempio, ad uno scrittore come Sandro Veronesi. Un po’ di anni fa, nel settembre del 1993, introdusse un’edizione della Storia distribuita insieme al quotidiano L’Unità, diretta allora da Veltroni. Era il periodo di “Mani Pulite” e il libretto veniva sbandierato strumentalmente da personaggi di un certo rilievo (sicuramente non poveri cristi come Piazza e Mora) per attribuirsi lo stato di perseguitati innocenti. Veronesi contesta correttamente tale uso della “Colonna infame”  (l’opera, infatti, non vuol farci capire soltanto che furono perseguitati ingiustamente degli innocenti) e fornisce al lettore i suggerimenti che ritiene opportuni, fra cui quello di «tenersi distante anche dal narratore, di resistere alle sue lusinghe stilistiche, e alla raffinatissima tecnica retorica con cui finisce per “oggettivizzare” la propria personale posizione.» (pag. VII). Davvero curioso. Manzoni vuole che il lettore ragioni, Veronesi che si abbandoni al fuoco affabulatorio. Però teme che “lingua raziocinante” della prosa manzoniana risulti, alla fin fine, più raffinata e lusinghiera della «magia del gesto narrativo» in sé. Veronesi confessa di preferire la prima versione della Storia della Colonna Infame alla seconda perché in quest’ultima Manzoni avrebbe disinnescato «la potente carica narrativa contenuta nella sua storia», brutalizzandola a scopi saggistici e facendosi prendere dal «demone dell’anti-romanzo», che «avrebbe in seguito scorazzato per tutta la tradizione letteraria italiana» (pag. IX). L’anti-romanzo sarebbe quello che Renzo Negri ha definito «racconto-inchiesta»; secondo questo critico, infatti, la Storia della Colonna infame «prefigura il tipo di odierno racconto-inchiesta di ambiente giudiziario, che da Gide a Capote a Sciascia discende da rami ottocenteschi non ancora ben conosciuti. Oggi si potrebbe aggiungere, ed è il collegamento più vero ed emozionante, il Solzenicyn di Arcipelago Gulag, da lui stesso definito come un ‘saggio di inchiesta narrativa’» (citato in «Il punto su: Manzoni», a cura di E. S. Di Felice, pag. 198-199, Laterza 1989)

 

Il singolo uomo non deve essere spogliato dalla sua libertà morale. Per ognuno di noi esiste una sfera di responsabilità assoluta. Dimostrare la verità di queste affermazioni, ecco qual è il fine di quest’opera. La contraddizione tra il Manzoni stilista e il Manzoni ideologo e filosofo: «Ma quale è il fine di questa sua opera? Afferrate la contraddizione: mentre Manzoni stilista procede con gli strumenti della necessità tragica e quindi dà al lettore il senso della inevitabilità, della caduta verticale verso l’abisso (come, nel romanzo, raccontando la fatale congiura che destinerà al convento e al delitto la figlia dei nobili signori di Monza, Gertrude), Manzoni ideologo e filosofo si oppone alla concezione illuministica che vede in eventi di tal genere solo il risultato del pregiudizio, della superstizione, del fanatismo. Manzoni si rifiuta di spogliare l’uomo della sua libertà morale. Sì che tutto il suo sforzo di dimostrazione è volto a chiarire che, seppure in dipendenza delle condizioni storiche, esiste una sfera di responsabilità assoluta. Nelle peggiori strette del tormento e della tortura resta il dovere di non accusare degli innocenti; il giudice deve rispettare la legge a costo della vita.» (pag. 1797-98). Questo è un punto decisivo. Con la Storia della Colonna Infame, Manzoni non si limita ad offrire alla riflessione dei lettori un caso d’ingiusta persecuzione di poveri innocenti. C’era la peste. C’è stato un gran male fatto da uomini ad altri uomini. Perché?  Pietro Verri risponde: perché avevano pregiudizi, erano superstiziosi, c’era la tortura. Manzoni dice: non basta. Anzi, a tirare solo in ballo l’ignoranza dei tempi e la barbarie della giurisprudenza si rischia di farsi un’idea del fatto non solo dimezzata, ma falsa. Come se l’avvenimento avesse una sua necessità e fatalità e non fosse stato possibile fare altro. L’ignoranza «può produrre degl’inconvenienti, ma non delle iniquità; e una cattiva istituzione non s’applica da sé. Certo, non era un effetto necessario del credere all’efficacia delle unzioni pestifere, il credere che Gugliemo Piazza e Giangiacomo Mora le avessero messe in opera; come dell’esser la tortura in vigore non era effetto necessario che fosse fatta soffrire a tutti gli accusati, né che tutti quelli a cui si faceva soffrire, fossero sentenziati colpevoli. Verità che può parere sciocca per troppa evidenza; ma non di rado le verità troppo evidenti, e che dovrebbero essere sottintese, sono in vece dimenticate.» (Storia della Colonna Infame, pag. 4).

Insomma, credo che Manzoni abbia ragione; che l’illuminismo del Verri delle Osservazioni sulla tortura abbia un assunto nobile e umano, ma non sufficiente. Non la pensa così Sandro Veronesi nell’introduzione citata: «il Verri sosteneva semplicemente (e illuministicamente) che tutto il garbuglio di orrore e ingiustizia scaturito dalla vicenda della colonna infame era da addebitarsi all’uso della tortura, il Manzoni ribatteva più contortamente (e ecumenicamente) che si doveva risalire sempre alla responsabilità individuale, al libero arbitrio con cui i giudici agirono, indipendentemente dalla esistenza o meno della tortura. Questa idea che sbagliano gli uomini e non le istituzioni, unita a quella che le leggi possono cambiare, sì, ma solo molto gradualmente, erano ciò che Manzoni voleva a tutti i costi mettere in primo piano con la sua seconda e definitiva versione, quei valori ai quali trovò doveroso sacrificare tutte le migliori accelerazioni narrative contenute nella prima, trasformando un racconto in un saggio: e sbagliò, non ci si deve vergognare a sostenerlo, perché delle due versioni rimane più godibile la prima, mentre riguardo ai valori aveva ragione Pietro Verri, abolire la tortura era immensamente più degno, utile e risolutivo che sostenere fino alla noia l’ambigua tesi dell’arbitrio e della Provvidenza.» (pag. IX)

Abbastanza facile opporre al progressismo di Veronesi che Manzoni riconosce il valore del lavoro di Verri, che le istituzioni esercitano i loro compiti e vivono grazie agli uomini, che certe pratiche (la tortura, ad esempio), anche se formalmente abolite, continuano ad essere utilizzate dagli eserciti dei migliori stati democratici (Abu-Ghraib docet), che la responsabilità individuale e il libero arbitrio liberano gli esseri umani, che intendono liberarsi e diventare autonomi e maturi, dalle istituzioni (soprattutto se diventono oppressive) e dal gioco (o giogo) della Provvidenza…Riparliamone, voglio dire. Il problema mi sembra chiaro: quale concezione avere della persona e della sua individualità? Ognuno di noi non incarna in modo unico ed irripetibile, nel bene e nel male, la natura umana? E non ne porta la responsabilità in modo assoluto? Riapriamo pure il capitolo relativo alla nostra libertà di autodeterminarci, di decidere consapevolmente quali azioni compiere e quali evitare. E’ tutta colpa dei contesti sociali, delle istituzioni, delle strutture?... L’idea di Manzoni che ognuno di noi, al di là delle condizioni storico-sociali, è portatore di una sfera di libertà e responsabilità assoluta e irriducibile, risale probabilmente ai più grandi teologi del pensiero cristiano come Agostino, Boezio, Tommaso… Devo dire che il cattolico Manzoni con questa concezione dell’individualità si trova ben poco in consonanza con la sua Chiesa, che sui temi “eticamente sensibili” (aborto, eutanasia, matrimonio, ecc.) continua a trattare credenti e non credenti da immaturi, bisognosi di superiori autorità e di minacciosi divieti di legge.           

  

Il nostro giudizio su questa concezione assoluta dei valori morali. L’accostamento al dilemma dostoevskiano: «A noi questa concezione assoluta dei valori morali sembra assurda, rezionaria. Ma rammentiamo che essa non è lontana dal dilemma dostojeschiano: “Se Dio non c’è, tutto è permesso”.» (pag. 1798). Ci siamo. Siamo al cuore del nichilismo contemporaneo. Perché se Dio non c’è dovrebbe essere tutto permesso? Su questo punto, mi permetto di rinviare al mio articolo apparso su POLISCRITTURE (numero 6, 2009) «La libertà di coscienza e il nichilismo delle gerarchie ecclesiastiche». Mi sembra fondato e condivisibile il rimando di Fortini dalla concezione di Manzoni al dilemma di Dostoevskij. 

 

Sostituzione della parola di Dio con un valore trascendente: «E dobbiamo avere la capacità e la spregiudicatezza di vedere che alla parola di Dio possiamo sostituire, ad esempio, un valore trascendente, una meta che si propone a tutta l’umanità.» (pag. 1798). Ecco un'altra mossa fondamentale di Fortini. Alla parola di Dio (del credente) si può sostituire la proposta di una meta per tutta l’umanità. L’importante è vivere nel presente storico e simultaneamente attivare l’energia  materiale e spirituale del trascendere, dell’andare oltre. Cosa si propone oggi a tutta l’umanità? Il fallimento del “comunismo reale” ha trascinato con sé la perdita e l’annullamento di qualsiasi “valore trascendente”? Ma senza trascendimento non c’è modo di uscire da questo presente angoscioso.

 

 

 La proposta di una morale di impegno eroico: «Allora si capirà come Manzoni, apparentemente arretrato, a metà del secolo scorso, nella sua teologia morale antiutilitarista e antipermissiva, abbia saputo proporre una morale di impegno eroico, tanto più eroico quanto meno rumoroso e apparente.» (pag. 1798). Utilitarismo e permissivismo ecco cosa Manzoni combatte. L’eccessiva indulgenza e il lassismo pedagogico sono forme subdole di disprezzo del discente come se costui fosse privo di responsabilità e non avesse consapevolezza dell’eventuali conseguenze delle sue azioni. E’ un soggetto pre-adamitico, che non ha ancora mangiato la mela e non conosce la differenza tra il bene e il male. Ovviamente non essere permissivi, non vuol dire che ci si debba abbandonare al sadismo e all’autoritarismo pedagogico. Quanto alla filosofia utilitarista, Manzoni ritiene che non sia l’utile l’unico mezzo che possa garantire la felicità degli esseri umani, ammesso che questa sia il valore supremo perseguibile. E per il credente Manzoni non lo è. Per chi lo è? Sicuramente per gli estensori della Costituzione statunitense…Come sulla libertà anche sulla questione della felicità bisognerebbe riparlarne, riaprirne il libro e i relativi capitoli.      

 

 Manzoni si sforza di riportare la politica alla morale: «Contro il trionfante pensiero borghese che contrapponeva etica e politica, Manzoni tende a riportare la politica alla morale e, per questo, è meno distante di quanto si creda dalla condizione di tanta parte delle coscienze moderne che riportano la morale alla politica.» (pag. 1798). Altro capitolo fondamentale. Siamo in pieno nel nostro presente storico-sociale. La rivendicazione dell’autonomia della politica dalla morale e dalla religione, l’abbiamo imparato a scuola, ha un sostenitore illustre: Machiavelli. Benintesi: quest’ultimo non nega il valore della morale, non è un cinico; ma ci mette sotto gli occhi la “verità effettuale” del Principe, che per conservare il potere deve saper ricorrere all’astuzia della volpe e alla forza del leone. Contrapporre etica e politica, sostiene Fortini, è pensiero borghese. Manzoni con il suo riportare la politica alla morale è molto più vicino alla condizione di tante “coscienze moderne” di un Machiavelli.   

 

 La grandezza di Manzoni: «Ma la sua grandezza non è in questo tipo di operazione ideologica: è nel fatto che le vittime della ingiustizia e della ferocia sono rappresentate in figure precise, in situazioni concrete, in personaggi e in cadenze di prosa e di poesia» (pag. 1798). E’ il tema del romanzo storico e del suo vero. Manzoni fa i conti con la storia molto più di altri. Egli guarda alle “belle lettere” come ad “un ramo delle scienze morali”. Il problema della verità è al centro della sua ricerca artistica e letteraria.

 

 I due deliri che ci minacciano: «Scrive, nella introduzione alla Storia della Colonna Infame, che di fronte ad una serie di fatti atroci commessi dall’uomo contro l’uomo, ci sentiamo minacciati da “due bestemmie che son due deliri: negare la Provvidenza o accusarla” ma che ci salva la certezza che quelle azioni avrebbero potuto non essere compiute e che quindi la responsabilità umana resta intera e che di quelle si può bensì esser vittime ma non complici» (pag. 1798). Qui forse è possibile intravedere la chiave di volta per la lotta contro il nichilismo contemporaneo: il libero arbitrio, la responsabilità umana. Scrivevo in versi un po’ di anni fa: «Il problema, dunque, non è quello / della morte di Dio. E’ un altro: / l’uomo come sta? Come progetta la giornata / dopo questo lutto? / Ho risposte tutt’altro che tranquille. / Penso che anche l’uomo sia morto. / Purtroppo non se n’è per nulla accorto.» Muore l’uomo ingabbiato nei determinismi naturali e sociali, che si vede negate la dignità e la responsabilità, il diritto all’eguaglianza  e a prospettarsi un futuro che non sia di fame, miseria, frustrazione, impotenza. E’ peste sociale il condannare gli esseri umani ad una vita e ad una morte senza senso.  

 

 Come i due deliri minacciano il mondo odierno: «Ora noi possiamo, alla parola Provvidenza, sostituire una o più parole che in termini meno teologici indichino se vogliamo il rapporto fra passato e futuro, la Preveggenza ossia la tensione dell’umanità ad un fine: e allora apparirà chiaro che tutta una parte del mondo odierno è minacciata da due deliri: negare un senso alla lotta umana o accusarla. E che invece è possibile richiamare ognuno alla durezza delle scelte.» (pag. 1798). Fortini scriveva questa nota la sera del 22 maggio 1973. Da allora ad oggi il delirio di “negare un senso alla lotta umana” verso un fine ed un orizzonte che non sia questo angoscioso presente e il delirio di “accusarla” di tutte le nefandezze possibili hanno esteso enormemente la loro presa in tutto il mondo.

 

 Attualità dello scritto manzoniano: «Questa è l’attualità di uno scritto manzoniano che al suo tempo non fu capito, che più tardi fu interpretato come un saggio di faticoso moralismo e che oggi torna a chiederci orrore, pietà, meditazione, azione. Non si tratta di travestire Manzoni da esistenzialista o da prete operaio. Si tratta di evitare che le superstizioni del progressismo, ieri positivista e magari socialista e oggi neopositivista, tecnocratico e permissivo ci derubino di una parte preziosa della nostra eredità» (pag. 1798-99). Come si diceva all’inizio, le edizioni della Storia della Colonna Infame sono molte. Quando Fortini scriveva la sua nota stava cominciando, per così dire, il “successo editoriale” dell’opera. Il che non significa effettiva lettura e comprensione. Ad ogni buon conto, si può dire che nel decennio 1973 (centenario della morte di Manzoni)- 1985 (centocinquantesimo della sua nascita) apparvero diverse edizioni dell’opera con importanti proposte interpretative (Giancarlo Vigorelli, Renzo Negri, Leonardo Sciascia, Ermanno Paccagnini, Carla Riccardi, ecc.). Alcune abbastanza consonanti con quella di Fortini. Penso, in particolare, all’edizione a cura di Lanfranco Caretti (Mursia, 1973) leggibile in «Manzoni. Ideologia e stile» (Einaudi, 1972 e 1974): «Ed è soltanto con l’ultimo corso della critica manzoniana che s’è mutato il modo di leggere la Colonna Infame rinunciando a servirsene come veridica testimonianza storiografica e cercandovi invece l’approfondimento, in margine al romanzo, di un difficile nodo morale e ideologico: quello, cioè, che lega strettamente e drammaticamente tra loro la forza dei tempi e la libertà dell’uomo, le convinzioni dell’ambiente e la responsabilità della coscienza individuale.» (pag. 88).

 

 Il Manzoni proposto da Fortini: «Finora Manzoni è stato per tutti ed era la metà del Manzoni. Quello che proponiamo è un Manzoni più difficile, forse per pochi, ma più vero e drammatico e contraddittorio, e, in definitiva, più utile a tutti.» (pag. 1799)

 




[1] Questa e le altre citazioni successive sono tratte  da Alessandro Manzoni,  «Storia della colonna infame», edizione a cura di Carla Riccardi, Oscar Classici Mondadori, Milano, 1984

14 commenti:

Anonimo ha detto...

Ho letto d'un fiato per la bellezza dell'articolo e la grandezza del contenuto. Quando si parla di livello accademico della scrittura intendo proprio questo: scritto di livello superiore che analizza questioni fondamentali senza cadere nella ripetizione del già detto, si crea insomma qualcosa di inesistente. Complimenti, una bellissima analisi ANCHE PEDAGOGICA E POLITICA. Andrò a leggere "Storia della colonna infame" Una buona scrittura crea sempre poi altra lettura.
Grazie Donato
Giulia

Moltinpoesia ha detto...

RIPARLIAMONE.

Caro Donato, ne riparliamo?
Nella tua attenta analisi dello scritto di Fortini c’è un punto che mi lascia perplesso e su cui vorrei tornare: la sottolineatura che fai sulla libertà di autodeterminazione di ciascuno di noi.
Scrivi: « Il problema mi sembra chiaro: quale concezione avere della persona e della sua individualità? Ognuno di noi non incarna in modo unico ed irripetibile, nel bene e nel male, la natura umana? E non ne porta la responsabilità in modo assoluto? Riapriamo pure il capitolo relativo alla nostra libertà di autodeterminarci, di decidere consapevolmente quali azioni compiere e quali evitare. E’ tutta colpa dei contesti sociali, delle istituzioni, delle strutture?... L’idea di Manzoni che ognuno di noi, al di là delle condizioni storico-sociali, è portatore di una sfera di libertà e responsabilità assoluta e irriducibile, risale probabilmente ai più grandi teologi del pensiero cristiano come Agostino, Boezio, Tommaso…».
Mi chiedo: ma è in questa riproposizione del libero arbitrio il «Manzoni difficile» su cui riflettere?

Nel tuo saggio, dopo aver “scelto” Manzoni contro Machiavelli ( ammetto, con l’autorevole avallo di una frase di Fortini: «Contro il trionfante pensiero borghese che contrapponeva etica e politica, Manzoni tende a riportare la politica alla morale e, per questo, è meno distante di quanto si creda dalla condizione di tanta parte delle coscienze moderne che riportano la morale alla politica.» (pag. 1798)», anche se a me non vengono o ra in mente quali siano queste coscienze moderne, ma posso supporre che Egli si riferisse forse a Simone Weil..), intravvedi « la chiave di volta per la lotta contro il nichilismo contemporaneo» proprio nel libero arbitrio, nella responsabilità umana.
A me spiace fare il bastian contrario, ma mi sento di farti notare che qui vedo una forzatura che, con l’ottima intenzione di contrastare il nichilismo, finisce per recuperare un astratto libero arbitrio e un’astratta responsabilità umana.

[continua]

Moltinpoesia ha detto...

Ennio Abate (continua):


Non tiro in ballo Marx, il marxismo etc. Dico solo che mi pare tu vada anche oltre la stessa interpretazione fortiniana di Manzoni, che non credo valorizzi questo punto, ma l’ambiguità di Manzoni.
È vero che, stando alla lettera, Fortini dice che «Manzoni tende a riportare la politica alla morale». Ma non è che ci riesca, non è che trova un solido rifugio nel libero arbitrio o nella responsabilità umana. Tanto più che subito dopo Fortini, pur dichiarando che egli «è meno distante di quanto si creda dalla condizione di tanta parte delle coscienze moderne», aggiunge e precisa: «Ma la sua grandezza non è in questo tipo di operazione ideologica».
E, infatti, dov’è la grandezza di Manzoni per Fortini?
Mi sono andato a rileggere proprio il testo della conferenza tenuta nel 1973 all’Istituto Italiano di cultura di città del Messico (p. 1461 in «Saggi ed epigrammi»), intitolato «Storia e antistoria nell’opera di Alessandro Manzoni».
Ebbene proprio qui mi pare che la grandezza del Manzoni venga indicata chiaramente.
Dopo aver ricordato che nell’autore dei «Promessi sposi» «c’è soprattutto un doppio piano, storico il primo, dove la guerra, la peste, i ceti, le classi le passioni e le miserie si affrontano e il secondo, metastorico, retto solo dalle leggi ora misteriose ora abbaglianti delle verità metafisiche», Fortini scrive: «Ebbene, la tensione e il conflitto fra questi due piani, la tragica compresenza di eterno e di contingente […] non sono solo nei «Promessi sposi» ma anche, e più, in tutta l’opera del poeta, anzi, possiamo dire, in ogni sua riga».
La grandezza di Manzoni sta appunto in questa tensione. Produttiva finché irrisolta, andrebbe aggiunto.
E più avanti Fortini scrive: «Non si comprende nulla della grandezza del Manzoni se si dimentica che la sua contraddizione profonda [!] è quella di una mente che avverte con eccezionale lucidità il tema della storia come luogo della tragedia e della commedia umana, che non cessa di studiarla e di indagarla in ogni periodo della sua vita» (p. 1468).
Per arrivare però alla «oscura e angosciosa negazione della storia che lo porta a sentire come vani gli sforzi politici e anzi a ricondurre tutta la vita umana nei termini di un dialogo assoluto con l’eterno» (p. 1471).
Chiederei: quale Manzoni ci dice di più: quello della contraddizione tra storia ed eterno, tra politica e morale (che all’eterno in lui si richiamava) o quello della negazione della storia?
Manzoni che dice di più per me è Adelchi, quello che si è rappresentato in Adelchi, che - scrive ancora Fortini - «ricompare come la prima incarnazione di eroe tragico diviso - non già come Amleto - fra l’azione e la meditazione ma fra il senso della necessità e quello della vanità della storia» (p.1473)
È in questa ambiguità, nell’esperienza tragica di cogliere «la dissociazione del mondo in due regni contrapposti» (p. 1476), nella coscienza che nella storia «loco a gentile / ad innocente opra non è; non resta / che far torto o patirlo» che sta la grandezza produttiva di Manzoni. Forse è il Manzoni della contraddizione quello più «vero e drammatico».
Non quello dell’indicazione della morale contro la politica. Che a me pare ripiegamento suo ultimo.

[Fine]

Anonimo ha detto...

Non ho ben compreso le argomentazioni del signor Abate e mi dispace, rileggerò con calma; mi è chiaro invece lo scritto di Donato che ho apprezzato molto per lucidità e bellezza dello stile. Complimenti, ho riletto spesso in diversi momenti della mia vita la Storia della colonna infame alla luce di Fortini mi sembra ancora più significativa per noi oggi.
Un saluto
Aldo

Moltinpoesia ha detto...

Ennio Abate:

Dispostissimo a chiarire se mi indica i punti non compresi o qualche ragione della sua incomprensione.

Anonimo ha detto...

Ringrazio tutti gli intervenuti. Vorrei, però, interloquire in particolare con Ennio che ha legittimamente espresso una serie perplessità. (Tra l’altro devo dirgli che le ho anch’io…e tante!)
Ti chiedi: ma è in questa riproposizione del libero arbitrio il «Manzoni difficile» su cui riflettere? Sì, nel caso della Storia della Colonna Infame, sì. La sostanza del pensiero di Manzoni è questa: anche in prigione e sotto tortura (il massimo della illibertà!) il dovere del povero Mora era di dire la verità e continuare a proclamare la sua innocenza senza coinvolgere altri, il dovere dei giudici era di riconoscerla perché, al di là dell’esistenza o meno della tortura, chi giudica e deve attribuire responsabilità ha il dovere di compiere indagini fondate e razionali. Fu, invece, fatto un gran male “senza ragione da uomini a uomini”. Perché? In fondo, Mora scegliendo (libero arbitrio) di non continuare a dire la verità, credendo nella promessa dei giudici di aver salva la vita, non salvò né la sua vita, né quella di Piazza che coinvolse. Si salvò, invece, il Padilla che era un potente. Il tema del potere e del male sono squisitamente manzoniani. E Fortini fa bene ad accostare il nostro autore a Dostoevskij.
(continua)
Donato

Anonimo ha detto...

Vedi nel mio scritto “una forzatura”. Con “l’ottima intenzione di contrastare il nichilismo”, finisco per recuperare “un astratto libero arbitrio e un’astratta responsabilità umana.” E’ possibile che compia delle forzature. Però, il problema condiviso che abbiamo è: contrastare il nichilismo. Domanda: che cos’è? quali ne sono oggi le manifestazioni più evidenti? come si contrasta?... Il nichilismo non è solo una questione filosofica. E’ un problema maledettamente pratico. La sua base sociale è la “produzione per la produzione”. Che senso ha produrre per produrre?...Le sue manifestazioni sono molteplici: il no future, la scarsa presenza (se non l’assenza) di una finalità sociale accettabile e riconoscibile (“la lotta per il comunismo”, ad esempio), il cinismo e lo scetticismo diffuso, la “questione morale”, le mafie, ecc
(continua)
Donato

Anonimo ha detto...

Il recupero del “libero arbitrio” e della “responsabilità umana” è troppo astratto per perseguire l’ottima intenzione antinichilista? E’ possibile, ma credo di no. Prendiamo la cosiddetta “questione morale”: tutti a giustificarsi perché così fan tutti. L’evasore, il corruttore, il corrotto, il venditore di voti, il procacciatore di favori e clientele, ecc. ecc. Non sarebbe il caso di spostare un po’ il tiro dall’«ambiente» ( tutto corrotto?) ai «singoli»? I quattromila cittadini che per 50 € hanno venduto il loro voto a Zambetti non hanno nessuna “responsabilità”? Zambetti sicuramente ce l’ha e la magistratura fa bene a perseguirlo. Ma quei quattromila cittadini?...Nulla. Non hanno responsabilità. La colpa è del “sistema”. Ma il sistema cos’è? E’ una parola meno astratta di libero arbitrio?...Il sistema è la peste sociale. Chi ne sono gli inventori, i propagatori, gli untori? Come si combatte questa peste? Partecipando ad azioni collettive, certo. Ma senza dimenticare di riconoscere che nelle proprie situazioni quotidiane, ognuno di noi è libero di autodeterminarsi, manifesta una grado di autonomia nella sua risposta all’ambiente e al sistema. Anche essere indifferente e farsi gli affari propri nel lazzaretto famigliare è una scelta. Anche indignarsi (per delega) applaudendo al grillismo. Insomma, se siamo messi male e appestati, la responsabilità è indubbiamente del colera sistemico che imperversa, della Chiesa cattolica che, come dice Rea, è una “fabbrica dell’obbedienza”, delle imprese diventate (se mai l’avessero dimenticato) luoghi del dispotismo aziendale (Marchionne docet), dei partiti che sono in dissoluzione…Anche del povero Mora, però, (e mia) che, putacaso, ci attribuissero la parte degli untori (c’è sempre una Caterina Rosa che non dorme la notte e stravede), abbiamo il dovere di difenderci e dire la verità. E caso mai non fossimo untori, né propagatori, né inventori della peste abbiamo il dovere, comunque, di combatterla. I “sistemi” e le “istituzioni” vivono coi corpi-menti dei “singoli individui”. Anche le “moltitudini” (poetanti o meno)
Sull’interpretazione che Fortini fa di Manzoni, ritornerò nella terza parte.

Donato

Moltinpoesia ha detto...

Ennio Abate a Donato Salzarulo:

Caro Donato,
rispondo sui punti controversi:

1. «La sostanza del pensiero di Manzoni è questa: anche in prigione e sotto tortura (il massimo della illibertà!) il dovere del povero Mora era di dire la verità e continuare a proclamare la sua innocenza senza coinvolgere altri, il dovere dei giudici era di riconoscerla perché, al di là dell’esistenza o meno della tortura, chi giudica e deve attribuire responsabilità ha il dovere di compiere indagini fondate e razionali».

Sì, il pensiero di Manzoni e quello (ufficiale) della Chiesa ( e di tutti i partiti ormai da essa influenzati) è questo. Ma basta uno sguardo attento alla realtà e alla storia, per vedere di quanti compromessi, mezze verità, piccole e grandi menzogne è intessuta la vita dei potenti e dei dipendenti, degli uomini di destra e di sinistra, di noi tutti. Basta anche vedere la scarsa efficacia di decaloghi e grida di ogni tipo.
Da questa visione realistica non discende, per me, la giustificazione del «così fan tutti» per cui i quattromila cittadini che per 50 € hanno venduto il loro voto a Zambetti non avrebbero nessuna “responsabilità”. Discende, semmai, proprio alla luce della lezione del sempre vituperato Machiavelli e della sua fondamentale distinzione tra morale e politica, che solo un potere politico forte può produrre o dar vigore a una morale decente. E non viceversa.
Discende anche che, sì, «la verità e rivoluzionaria», ma solo quando essa diventa mera predica ma bandiera di un partito “della verità”, che cioè sia in grado di fare della verità un progetto politico reale e costruire il necessario consenso attorno ad essa usando tutti i mezzi - e qui scandalizzerò - persino (tatticamente) la menzogna.
Discende ancora che, «per scrivere la verità» e non solo sulla carta ma anche nella mente e nei cuori della gente, bisogna superare forse ben più delle «cinque difficoltà», di cui diceva il buon B.Brecht nel post che gli ho dedicato.
Altrimenti si delega ai potenti, alla magistratura il cosiddetto accertamento della verità, con le conseguenze che Manzoni mostra nel caso di Mora (i potenti Padilla che si salvano sempre) e che noi continuiamo a vedere da “mani pulite” ai nostri giorni: per un potente che “ha sbagliato” e che viene scalfito o punito, c’è un esercito di sostituti pronti a prendere il suo posto per continuare a “sbagliare”.
In realtà dietro tanto sbandieramento della «questione morale» che si è fatto in Italia dagli anni Ottanta in poi (si dovrebbe dire: dal tramonto della politica in poi) ci sono lobby che regolano i conti con altre lobby per ampliare i loro poteri e farsi accettare da altre lobby più potenti che dominano anche al di sopra di loro. Con vantaggi quasi zero per noi che siamo “in basso”.
Proprio ieri leggevo un’intervista fatta a Rossana Rossanda. La trovi completa a questo link: http://web.rifondazione.it/home/index.php/26-primo-piano/16330-qualcosa-rinascera-ma-sara-diverso. Ma ne stralcio un brano che a mio parere conferma quando finora ho detto sull’importanza fondamentale, trainante della politica e non della morale ( la quela è - direi e credo con l'approvazione di nonno Fortini - o il suo surrogato consolatorio per alcuni o una maschera ipocrita per lobby di politicanti intriganti sia di tipo populista alla Grillo sia di tipo perbenista alla Bersani o la disperata «extrema ratio» quando la politica è crollata):

«Adesso PERÒ C'È UNA CRISI PROFONDA, SISTEMICA DEL CAPITALISMO.
Si, posso essere d’accordo. Però la crisi della sinistra mi sembra ancora più grave.
E CHE PENSI DI QUESTI FENOMENI EMERGENTI DI POPULISMO?
Dopo questa spaccatura sociale, seguita alla devastazione della sinistra, escono i populismi. Fino a che abbiamo avuto il Pci e un sindacato forte si sono avute riforme e progresso, per il lavoro e nei diritti civili. Il Pci ha prodotto grandi riforme anche dall'opposizione. Adesso saranno pure andati al governo, ma c'è stata involuzione e divaricazione nei redditi. La sinistra non c'è più. Ed escono i populismi.»

[continua]

Moltinpoesia ha detto...

Ennio Abate (continua):


Perciò, a me pare, che il tiro non vada spostato « dall’«ambiente» (tutto corrotto?) ai «singoli» ma dal moralismo populistico e perbenistico alla politica.
E per non lasciarti senza un po’ di ricostituente antinichilista (oltremodo necessario per noi in questi tempi), ti stralcio un altro brano sempre della stessa intervista a Rossanda:

« HO DETTO A UNA GIOVANE SPAGNOLA, A UNA INDIGNATA, CHE VENIVO A INTERVISTARTI. LE HO CHIESTO COSA LE SAREBBE PIACIUTO CHIEDERTI. MI HA CHIESTO DI DOMANDARTI COME FA IL 99% A SCONFIGGERE L'1%PERCHÉ IL 99% DELL’UMANITÀ INCASSA DALL' 1%?
Perché si è perso il primato della politica sull'economico. La politica nel Novecento ha portato il primato della uguaglianza. La politica ha perso il primato. Però attenzione: lo ha perso per effetto di una sconfitta politica. Perché è stata sconfitta l'idea di uguaglianza.
INSOMMA, COME CONCLUDIAMO?
Guarda: viviamo un momento tragico e interessante. Oggi c'è un massimo di divaricazione tra movimenti e istituzioni. I movimenti sono forti, ma non superano la barriera di istituzioni spiaccicate. L'Italia è forse la più disgraziata: con tutto questo parlamento schiacciato su Monti.
SEI PESSIMISTA.
Sì. Però penso anche che qualcosa rinascerà. Guarda: la sola ragione per cui mi dispiace di morire è non vederla. Anche perché questa volta non sarà in una società arretrata, come è stato con l'Urss. Questa volta –anche grazie a internet e alla rivoluzione delle comunicazioni –la protagonista sarà una società acculturata. E sarà diverso.»

[Fine]

Anonimo ha detto...

Caro Ennio,
breve replica sui punti sollevati. Breve! Perché ci vorrebbero pagine e pagine…
1. - Dalla “visione realistica” di Machiavelli (e di Ennio) discende che «solo un potere politico forte può produrre o dar vigore a una morale decente.» E più avanti si sostiene l’«importanza fondamentale, trainante della politica e non della morale». Insomma, la politica al posto di comando. Ma sostenere questo non è già una scelta morale? Se uno pensa che sia il potere, cioè la forza a produrre o a dar vigore alla morale, perché meravigliarsi del niccianesimo imperante? Non è proprio questa la tesi di Nietzsche? Leggere, per credere, Genalogia della morale.
E’ giusto distinguere la politica dalla morale e dal diritto. Le rivendicazioni di “autonomia” nascono e si affermano con la modernità (borghese e illuministica). E’ sbagliato continuare a pensarli separatamente, senza coglierne le reciproche dipendenze. Soprattutto è sbagliato pensare che i valori morali non abbiano una loro “oggettività” e dipendano da Dio o, in sostituzione, da qualche gruppo sociale (gli aristocratici, i borghesi, i proletari…) o politico (i bolscevichi, piuttosto che i fascisti o i liberali).
(continua)

Anonimo ha detto...

Credo che vada prestata correttamente attenzione ai due versanti della relazione: indipendenza-dipendenza, soggettività-oggettività. E’ come la storia del rapporto tra estetica ed etica o tra il letterario e il politico, ecc. ecc. Autocitarsi è antipatico. Comunque, due mesi fa, nell’articolo “Un racconto di Dürrenmatt e la funzione Fortini” ho scritto: «E’ il letterario, un mondo frutto di scelte, che non se ne sta sulla carta per i fatti suoi. E’ in rapporto con altri mondi e li intercetta: l’economico, il giuridico, il politico, l’etico, l’estetico, il religioso, il filosofico, l’ideologico, lo scientifico, e cosi via. Tutti mondi distinti e tutti, comunque, comunicanti come vasi. E’ una totalità fluida, ininterrotta, di spazi-tempi in continuo divenire. Sulla natura di questa totalità sociale e sul rapporto gerarchico tra le varie regioni, è in corso da decenni una discussione fra gli interessati. Per alcuni l’economico la fa da padrone, sia pure in ultima istanza. E’ un po’ sembra vero, se pensi a come esso abbia invaso ogni nostra forma di vita.» Tu vorresti che la facesse da padrone il politico o la politica.
“La politica al primo posto” o il “Tutto è politica” è una storia che abbiamo, in parte, vissuto. Forse bisognerebbe interrogarsi sulla virtù di questa parola d’ordine. Anche le sconfitte non cadono dal cielo. Beninteso, non sto, sostenendo che la politica è tramontata, non conta nulla, è casta, potere bruto, ecc. Vorrei soltanto che non la facessimo diventare un “sostituto di Dio”
(continua)

Anonimo ha detto...

. - «la verità é rivoluzionaria», ma solo quando essa non diventa mera predica ma bandiera di un partito “della verità”, che cioè sia in grado di fare della verità un progetto politico reale e costruire il necessario consenso attorno ad essa usando tutti i mezzi - e qui scandalizzerò - persino (tatticamente) la menzogna.» Ma no, caro Ennio, non scandalizzi. E’ quel “fare della verità un progetto politico reale” che spaventa. Richiama i peggiori incubi del Novecento. In che rapporto sta il potere con la verità? Non ti sembra contraddittorio il sostenere una visione realistica della politica (potere) e poi pensare che un “partito della verità” possa assumersi il compito di propugnare e fare la verità. Cosa vuoi una Pravda? Oh, amico amio, abbandona questo decisionismo. La verità non si può solo fare. Come i valori hanno un’esistenza “oggettiva”. La verità è un’idea fondamentale. Prismatica. Plurale. Con vari livelli di realtà. Ha una faccia rivolta verso l’infinito. E’ sempre da cercare, scoprire, individuare, definire…Il tuo “partito della verità” sarebbe solo il partito delle tue verità. Ce l’hai presente Orwell? E Musil?...
(continua)

Anonimo ha detto...

3. - «In realtà dietro tanto sbandieramento della «questione morale» che si è fatto in Italia dagli anni Ottanta in poi (si dovrebbe dire: dal tramonto della politica in poi) ci sono lobby che regolano i conti con altre lobby per ampliare i loro poteri e farsi accettare da altre lobby più potenti che dominano anche al di sopra di loro. Con vantaggi quasi zero per noi che siamo “in basso”.» Ecco un tuo modo di sostenere la verità. E’ chiaro che è una semplificazione. Come tutte le semplificazioni conterrà pure qualche granello di vero. Ma siamo lontani mille leghe dalla verità storica. Mi limito ad un elenco sommario: evasione ed elusione fiscale di strati bassi, medi, alti; clientelismo a tutti i livelli; familismo; favoritismo; diffusa mafiosità di comportamenti; penetrazione delle mafie in tutto il tessuto economico ed istituzionale; sfruttamento di risorse pubbliche a vantaggio di interessi privati; corruzione a tutti i livelli della vita economica, civile e politica (dal “sistema Sesto” al “sistema Fiorito”); legislazione ad personam, decreti fatti per favorire interessi particolari...Dovrei continuare? Per Ennio: tutta una guerriglia di lobby!...E che lobby sono i 500.000 € di morosità di quei colognesi che, abitando case popolari, dovrebbero pagare affitti quasi simbolici (40-50 € al mese) e non li pagano? Per carità, piccola cosa rispetto ai milioni di un Fiorito! Ma pur sempre un comportamento morale discutibile…
La questione morale attraversa la politica, il diritto, l’economia, l’estetica…Non è al posto di comando. Però, la questione sociale, ad esempio, con milioni di disoccupati e lavoratori diventati invisibili non diventa forse anche un problema morale? E’ giusto che un Marchionne di fronte ad una sentenza di reintegro di 19 lavoratori Fiom annunci per ritorsione la messa in mobilità di altri 19?...Non è giusto, né democratico. Se questa consapevolezza si diffondesse più che “il partito della verità”, potremmo aiutare a far rinascere un “partito del lavoro” (di chi ce l’ha e di chi non ce l’ha…).
(Fine)