giovedì 8 novembre 2012

INTERVENTI
Giorgio Linguaglossa
Contro un linguaggio
simil-poetico ed emotivo



Per chi si scrive (oggi) poesia? Mi correggo: perché (oggi) si scrive in poesia? La domanda è meno banale di quanto appaia a prima vista. Non è una domanda in versione sintattica, è una invasione semantica che qui ha luogo: sembra che tutto ciò che ha un ritorno (alla fine del verso) ne debba avere anche uno di senso; ma l’evoluzione semantica in poesia è stata preceduta da processi sociali ben visibili (o invisibili?). Direi che il semantico segue sempre i processi sociali in atto. Il fatto che la più privata e appartata delle attività letterarie, quale la poesia sia scritta da milioni di persone, è rimasta una questione, appunto, «privata» e non è riuscita a bucare il coperchio di ciò che appartiene al «pubblico»; questo è uno spunto di riflessione che non deve essere sottaciuto.
Secondo  i parametri correnti di scrittura poetica oggi in vigore presso le giovani generazioni ho l’impressione che  la scrittura poetica sia quel genere di produzione di artefatti che meglio soddisfa le esigenze di conservazione e di riconoscibilità dell’io, e inoltre il manufatto poesia ha il vantaggio di essere diventato una specie di attività affine al contro spionaggio, ci si sente affiliati a una sorta di carboneria, una attività misteriosa e sotterranea, una sub specie di malattia endemica, capillare e diffusa. Rispetto alla chiacchiera imbonitoria che dilaga dalle televisioni ai giornali e invade la nostra vita quotidiana, la scrittura poetica sembrerebbe avere il vantaggio di una sorta di immunità parlamentare che la proteggerebbe dalla invasione-contagio della «ciarla». Ma, purtroppo, non è così. Indubbiamente, c’è una fetta non irrilevante di acculturati che adotta un linguaggio simil-poetico, intendendo con questa espressione qualcosa di simile a un linguaggio esclusivo,  personale, a metà tra il linguaggio di tutti i giorni e il linguaggio di tutti. Paradossalmente, più il peso delle scuole e delle tradizioni  è diventato nel frattempo quasi invisibile,  più la caratterizzazione stilistico-semantica delle singole individualità tende invece a diventare simile a una scuola o a una religione senza religio e il correlativo linguaggio poetico tende a privilegiare il personale e il privato. O meglio, ciò che il comune sentire pensa che sia il personale e il privato.
L’indicatore espressivo-personale diventa il segnale semaforico della emotività messa a nudo, mai di un concetto o di una macro metafora, semplicemente non ci sono metafore: si scrive a quel modo perché una pulsione insondabile spinge a farlo. Si vuole comunicare qualcosa ma qualcosa di impreciso e indeciso: l’oggetto sfugge perché l’io esperiente si scopre, come dire, povero di esperienze e privo di «forme»; il soggetto sfugge perché le esperienze vive e significative esperite sono simili in tutti gli esseri umani, e quindi generiche, non individualizzate. Manca il medium per eccellenza: il linguaggio, o meglio: l’omogeneizzazione propria del linguaggio poetico. Ciò che è dirimente, invece, non è più una concezione del linguaggio ma una concezione dell’«essere». Si ha l’impressione che si scriva in ordine sparso: oggi si scrive soprattutto perché si sente una spinta insopprimibile dall’interno: il resto si vedrà.

84 commenti:

Anonimo ha detto...

Da "Manca" a "essere" non ho capito.Se potesse
articolare diversamente il discorso le sarei grato.

Alberto Accorsi

Anonimo ha detto...


Scrive Giorgio: "oggi si scrive soprattutto perché si sente una spinta insopprimibile dall’interno"...E beh, che male c'è?...
Ricordi padre Dante in Purgatorio XXIV?

E io a lui: "I' mi son un che, quando
Amor mi spira, noto, e a quel modo
ch'e' ditta dentro vo significando".

Certo, è meglio avere anche una concezione dell'essere come, magari, ce l'aveva Dante. Ma non si nasce con una concezione dell'essere già in testa. Non è possibile conquistarla verso dopo verso?...
Ciao
Donato

Unknown ha detto...

La carta su cui si scrivono le poesie, che poi può o meno rimanere o essere vetro tastiera, è come la pelle ....non tutti hanno perso la memoria della pelle e a causa dei media, hanno perso i loro cinque sensi e pure il sesto. facendo una banale metafora storica del terzo occhio, è come se il lamento continuo di Linguaglossa, fosse di quegli antenati che si erano disperati per via del fatto che gli dei e/o gli uomini(poco conta a questo fine la legenda) lo avevano ostruito e del tutto chiuso ai comuni mortali. Sforzarsi e disperarsi allora di ricordare il terzo occhio, deve essere continuare a far tremare la pelle, ma se la tua pelle è sempre più virtuale ( che te ne sia accorto o meno), se la tua pelle non può piu vedere( "esperienze"), non può più esperire, nemmeno più dai due occhi rimasti senza il terzo, buonanotte alla carta della tua pelle...e questo è un fatto sia intimo, sia personale, sia pubblico.

Anonimo ha detto...

la frase "oggi si scrive perché si sente una spinta insopprimibile dall'interno : il resto si vedrà" ricorda altri luoghi comuni tipo “ in Italia solo una decina di “Veri” poeti “ … sanno cos’è un Verso” oppure “ bisogna differenziarsi senza per questo voler proporre facili aristocrazie” o “ la poesia è per pochi, non è “democratica”.Qui si sente odore di moralismo o di concezioni elitarie.
Se così fosse saremmo di nuovo nel già sentito invece penso di aver capito che il problema sollevato riguarda la poesia contaminata dalla "cultura" imbonitoria delle televisioni e che il privato, il personale siano privilegiati rispetto alla dimensione pubblica. Insomma c'è la sensazione di aver perso gli strumenti critici di aver perso anche gli ultimi saperi, che siamo caduti nelle fauci della "Vanity Press" o nelle frammentazione della Rete.
E' vero però che ci fu un tempo in cui la poesia aveva bucato il coperchio di ciò che appartiene al pubblico e continua in parte a bucarlo ma vorrei capire le ragioni del disinteresse degli esperti rispetto a questi fenomeni.
Mi chiedo anche se questa attenzione al privato, all'individuo, non siano un cercare riparo ai disastri di un genocidio antropologico e finanziario cui impotenti assistiamo già da troppo tempo. Enzo

Anonimo ha detto...

Non basta usare termini come “semantica”, “sintattica”, “indicatore espressivo-personale” per darsi un tono specialistico e intimidire. Bisogna calarsi meglio nei tempi in cui viviamo, interpretare la Storia, accettare i cambiamenti ed essere disposti ad accogliere, non a respingere. Gli studenti non vogliono più leggere i MATTONI, ma vogliono messaggi immediati, semplici, di facile fruibilità e godimento. La società è cambiata e con essa esigenze e richieste. I Tranströmer vanno bene per gli specialisti, ma cosa se ne fa la poesia di pochi specialisti se poi i messaggi importanti rimangono preclusi ai molti? “Manca il medium per eccellenza: il linguaggio, o meglio, l’omogeneizzazione propria del linguaggio poetico”. Queste affermazioni solno fuori dal tempo. Il linguaggio del 2012 è ben definito ormai. È costituito da BRANDELLI. Brandelli di frasi, di sentimenti e di linguaggi si mescolano nelle forme ben circoscritte della parola affatto generica e perfettamente individualizzata; e proprio perché individualizzata alla portata dell’ALTRO da sé che la fa avidamente propria.
Non si scrive poesia solo per sentirsi parte di un gruppo, si scrive perché si ha qualcosa da dire e soprattutto qualcosa da condividere e su cui far soffermare l’altro, visto che i tempi lasciano poco spazio alla riflessione. Ma perché il privato ed il personale sono da scaraventare via? Siamo in tempi di informazione diretta e aperta, la divulgazione e la conoscenza sono alla portata di tutti, non sono più elitari e snob.
Giulia

Anonimo ha detto...

chi ha bisogno del linguaggio simil-critico e imperturbabile di linguaglossa? Nessuno, ne’ se Linguaglossa si maschera da critico ne’ se si maschera da poeta. Tanto l’abito non fa il monaco e la mediocrita' di cio’ che linguaglossa spaccia per poesia o critica sulla poesia viene sempre a galla.
E.

Unknown ha detto...

forse è solo un problema di surplus di contraddizioni...non credo che ferendo chi sia vittima di questo surplus,qualsiasi sia la vittima, si faccia un passo avanti ...inoltre pesanti offese ... le tue, cosi di altri o di analoghe situazioni, nascondono di solito ciò che c'è sempre stato in un ambiente zozzisissimo quale è sempre stato anche quello "artistico", e questa è gia un contraddizione di cui ogni "operatore ecologico" , anche semplice commentatore, dovrebbe essere ipersensibile e super-consapevole.sebbene lo stesso ambiente zozzissimo produca bellezza, è fatto di queste cose.

Anonimo ha detto...

Che senso ha non firmarsi ? Ancora con queste pagliacciate ? Enzo

Unknown ha detto...

anche "firmarsi" è una pagliacciata, anzi diciamola tutta, è una vigliaccata! sia con che senza firma...troppo facile ben nascosti dietro un vetro, inventarsi o non inventarsi un pinco pallo di grido o sconosciuto.

peraltro si fa autogoal e affonda tutti quelli che fossero dissidenti o semplicmente diversi dal pensiero di linguaglossa....gli interventi dal contenuto firmato o meno ma uguale a quello "E." et simili, cadono a ciccio come dimostrazione lapalissiana di parte delle cose sostenute da G.L. e si freghera le mani , felice o infelice poco conta, di chi anzichè sollevare obiezioni LOGICHE, rivela di sé l'assorbimento totale dellle regole del reality mondo.

Moltinpoesia ha detto...

Ennio Abate:

Mi colpisce il commento di Giulia. Non capisco perché l’uso di certi termini (semantica, sintattica, indicatore espressivo-personale) siano di per sé intimidatori. Si potrebbe discutere se siano opportuni o inopportuni nel contesto comunicativo di questo blog, se agevolano o meno il dialogo tra i partecipanti. Si potrebbe anche, come ha fatto legittimamente Accorsi, chiedere di rispiegare con parole più semplici un frase o un concetto che a chi legge risulta ostico.
Ma sostenere che uno possa « calarsi meglio nei tempi in cui viviamo, interpretare la Storia, accettare i cambiamenti» semplicemente accogliendo la volontà (e perché non intimidatoria questa?) di studenti (tutti? quali?) che « non vogliono più leggere i MATTONI» e vogliono - guarda caso! - « messaggi immediati, semplici, di facile fruibilità e godimento», cioè il linguaggio della pubblicità commerciale o degli SMS o di Face book e Twitter, è pr me semplicemente una menzogna.
Né la Storia (addirittura con la maiuscola!) né i cambiamenti - complessi, ambigui, spesso ancora indecifrabili - verranno afferrati solo con questo tipo di comunicazione.
La società sta cambiando ma certe esigenze di ipersemplificazione (del resto non del tutto spontanee ma orientate da potentissime “Multinazionali del condizionamento”, che possono permettersi investimenti giganteschi di capitali e risorse di vario genere) non sono le uniche. Ed infatti convivono con altri linguaggi specialistici e scientificamente rigorosi. Esso sono, semmai, la ricaduta di massa di ricerche ( anche militari) avanzate ( non so se Giulia conosce come è nata Internet…), che gli ingenui neppure sospettano, pur essendone condizionati fin nel loro inconscio.
Sì, un certo linguaggio - quello dei mass media - è «ben definito ormai». Ma proprio perché, come Giulia ammette, «è costituito da Brandelli. Brandelli di, fasi, di sentimenti e di linguaggi», permette di passare solo «brandelli» di quello che viviamo e della realtà in cui viviamo. È un linguaggio-gabbia. È come la ruota in cui i criceti continuamente si arrampicano. Se diventasse l’unico a cui una persona ha accesso, la ridurrebbe appunto a brandelli, limiterebbe o bloccherebbe la sua possibilità oggi sempre più impedita di fare esperienza del mondo.

P.s.
Ricordo a E. 08 novembre 2012 19:30 la regola di questo blog: cancellerò i commenti anonimi miranti solo a diffamare. Non ci servono.

Moltinpoesia ha detto...

Ennio Abate:

Mi pare che Enzo abbia riassunto bene il problema sollevato da Linguaglossa, parlando di una «poesia contaminata dalla "cultura" imbonitoria delle televisioni» e ricordando chme « il privato, il personale siano privilegiati rispetto alla dimensione pubblica».
Vecchissimo problema, del resto. Ma sarebbe il caso, evitando la lamentela, di interrogarsi più decisamente su come affrontarlo o su come lo si sta affrontando. E di ragionarci su bene.
Non credo, ad esempio, che la poesia sia stata sempre « la più privata e appartata delle attività letterarie». Lo è diventata dal romanticismo in poi e in sintonia con processi sociali che portarono al predominio della borghesia. Ma questa è storia vecchia.
Non credo neppure al compito di « bucare il coperchio di ciò che appartiene al «pubblico».
Il pubblico oggi è fatto dalla stampa, dalla TV, da Internet. E a me non pare né possibile né auspicabile che la poesia possa bucare tale «coperchio».
Deve tener conto del fascino che esercita questo linguaggio sulla gente e sui giovani, criticarlo, insinuare, ove fosse possibile, qualcuna delle sue verità fra le false verità e le semplificazioni che dominano in quegli spazi pubblici, essere presente con la sua voce, il suo stile, in alcuni interstizi del sistema (è il caso di questo blog e di tanti altri siti).
Ora l’essere stata messa ai margini può indurre molti a privilegiare il cosiddetto “privato” o “personale” per farsene un «riparo» appunto, una specie di catacomba o di Arcadia casalinga.
Anche a proposito di tale fenomeno, a me pare che Linguaglossa abbia ragione a indicare i rischi: il “privato”, proprio perché privato (= deprivato, ridimensionato), permette solo un’esperienza impoverita («l’io esperiente si scopre, come dire, povero di esperienze e privo di «forme»; il soggetto sfugge perché le esperienze vive e significative esperite sono simili in tutti gli esseri umani, e quindi generiche, non individualizzate»). Quindi anche quest’altra direzione o possibile sbocco è un vicolo cieco.
È possibile, allora, sfuggire al contempo sia alla « chiacchiera imbonitoria che dilaga dalle televisioni ai giornali e invade la nostra vita quotidiana» e sia all’autoreclusione in quel «personale» o «privato» impoverito, che poi sono le due facce di una stessa medaglia?
Non afferro bene cosa Giorgio Linguaglossa intenda quando afferma che «ciò che è dirimente, invece, non è più una concezione del linguaggio ma una concezione dell’«essere»».
Io, come sapete, penso di dovermi muovere verso « una poesia esodante» ( Cfr. http://www.poesia2punto0.com/2012/09/08/quattordici-tesi-per-una-poesia-esodante/), capace appunto di tirarsi fuori da entrambe queste false dimensioni. Ma la mia è al momento solo una mia ipotesi e volentieri la confronterei con altre per cogliere eventuali vicinanze e distanze.
L’utile di questo blog sta proprio in questi confronti di posizioni, che interrompano l’accavallarsi di interventi, in cui ciascuno ripete il suo discorso ed esce subito dopo di scena con lo strascico di qualche commento benevolo o malizioso. Bisogna pur, almeno di tanto in tanto, fermarsi, guardarsi negli occhi e dialogare come facevano gli antichi e non parlare a Sms o no?

Anonimo ha detto...

Scrivere in-poesia:
è adottare il linguaggio per costruire un'opera d'arte. Nel dopoguerra i poeti italiani sentirono la necessità di uscire dalla retorica e dal linguaggio altisonante del ventennio fascista. Questo a mio parere fu il loro contributo artistico; fattivo e costruttivo di un linguaggio nuovo e costituente. Bisognava cancellare un modello culturale che in fondo era di provenienza futurista, non il futurismo che guardava alla modernità, ma quello becero, insultante e guerrafondaio.
Purtroppo il rinnovamento stilistico generò un linguaggio poetico ibrido, proveniente dalla tradizione colta pre-futurista mischiata con il linguaggio d'uso quotidiano. In sostanza un linguaggio che non era ne' carne ne' pesce, che non è nella tradizione e a guardar bene ha anche poco a che fare con l'italiano parlato perché quest'ultimo è assai più sconnesso, ripetitivo e impreciso di quanto avvenga, da sempre, nella scrittura. Il parlato è sempre linguaggio non-artistico? Non ne sono affatto certo. E' sempre da emendare? Emendare comporta il rischio che si torni a linguaggi monolitici, totalizzanti, incapaci di accogliere forme espressive di diverso prestigio. Inoltre, oggi che siamo socialmente bombardati dal processo di globalizzazione, a soffrirne non è solo l'alto linguaggio letterario, ne soffre anche il parlato d'uso perché anch'esso è costantemente sollecitato dalla spinta verso nuove forme espressive (vedi scomparsa dei dialetti unitamente alla scomparsa dei localismi culturali). Le forme espressive della globalizzazione puntano all'integrazione sociale forzata. O sei così o non ci sei.
Mi sembra pertanto superata, perché inattuale - e perché è una perdita di tempo - la diatriba tra alto e basso linguaggio, tra nobiltà e volgarità. Anzi, personalmente ritengo che la seconda debba essere necessaria alla prima, dal momento che, a detta di tutti, s'è vistosamente infiacchita.
Fa bene Giorgio Linguaglossa a interrogarsi sull'assenza di un linguaggio di riferimento, purché non si finisca col distinguere tra linguaggi di maggiore o minore prestigio o si vada nella direzione di stabilire un linguaggio privilegiato. Equivarrebbe a sprecare la ricchezza della diversità.



Scrivere poesia:
secondo me ci sono ben tre valide ragioni per scrivere poesia, ma sono forme di coscienza. Una è la coscienza individuale, una la coscienza sociale, e l'altra la coscienza ambientale. La coscienza storica fa parte della coscienza sociale (apriti cielo!). La coscienza culturale e intellettiva fa parte della coscienza ambientale. La coscienza individuale appartiene a se stessa.

Mayoor


Anonimo ha detto...

Mi domando cosa ci sia di così complicato da capire nell’analisi di Giorgio Linguaglossa. Egli
dà a una risposta (la sua) su una domanda reiterata in altri post - formulata anche da Ennio Abate - sul cosa è e sul come si pone la poesia oggi, e lo fa con il linguaggio che gli è proprio, cercando il confronto su questo blog. Le reazioni che suscitano domande di questo genere segnalano a mio parere proprio la frammentazione culturale del momento storico in cui oggi siamo calati e taluni interventi rasentano, anche superandoli, i livelli di imbarbarimento a cui siamo sottoposti sia dai media che nel linguaggio comune. Un parallelo per capire ciò che stiamo vivendo si può fare con quanto accadde nel quinto secolo all’indomani della caduta dell’impero e alla frammentazione dell’unità grafica dell’occidente. So che può essere azzardato un confronto simile, ma oggi come allora sembra sia venuto meno un ‘modello’ in cui riconoscersi, nel quinto secolo era il ‘modello grafico’, oggi è la frammentazione dell’io. Linguaglossa si interroga proprio su questo aspetto del fare poesia oggi e si chiede: che cosa è successo per scrivere poesia senza sapere nemmeno l’oggetto di cui si scrive? Una domanda, questa, che a me sembra legittima, posta com’è da un intellettuale - poeta e critico - che cerca il confronto. Sulla questione della libertà di espressione, sacrosanta, per carità, avrei qualche dubbio su come la si applica, almeno stando ai commenti letti qui come altrove. Non mi sembra che oggi siamo più liberi di qualche decennio fa, almeno sotto il profilo culturale. Non lo siamo perché siamo troppo assorbiti dal quotidiano (i problemi economici - i rapporti interpersonali inconcludenti - la perdita di lavoro e quant’altro), da un marasma di internet, telefonini e da tutti i prodotti della nostra civilissima (!?) società iper tecnologica ha prodotto, al punto da non essere quasi più in grado di ascoltare l’altro: siamo immersi - ciascuno per la propria parte - in un pantano di problemi che non ci permettono di avere tempo per niente altro.
Se tutto questo è plausibile, il problema vero resta l’incomunicabilità e la mancanza di confronto con l’altro. E in ogni caso, non è accettabile assistere ad attacchi gratuiti quanto offesivi rivolti a chi esprime la propria opinione, togliendo così all’altro - al critico, al poeta, alla donna e a chiunque altro - proprio quella libertà che si vorrebbe rispettata per se stessi. Si assiste davvero a un gioco al massacro che, personalmente, deploro nella maniera più assoluta.
Poi, per i termini difficili c’è il vocabolario - o internet, se si vuole.
Giuseppina Di Leo

giorgio linguaglossa ha detto...

@ Accorsi e Abate,

scrivevo nell'appunto: «ciò che è dirimente, invece, non è più una concezione del linguaggio ma una concezione dell’"essere"». È appena una frasetta buttata lì, lasciata cadere. Ma per chi capisce di questioni di filosofia è una bomba ad innesco lento.
Il problema, lo ripeto per l'ennesima volta, è che la poesia it. dagli anni Sessanta si è avviata nella direzione di una concezione del linguaggio poetico come fatto linguistico-semantico. Tra l'altro interpretando in chiave acritica gli stessi spunti sulla poesia che si ritrovano in Heidegger; tra l'altro il pensatore tedesco puntava decisamente verso una ontologia del linguaggio poetico, strada poi interrotta e abbandonata sia da Heidegger che dagli altri pensatori del Novecento. Ritengo però che per fare poesia nuova occorra uscire dal concetto di poesia novecentesco (basato sulla sperimentazione dei linguaggi) per aderire ad una concezione del linguaggio poetico come ontologia del linguaggio. Ma qui il vero problema è la latitaqnza del pensiero filosofico contemporaneo che non offre un accompagnamento filosofico alla poesia "nuova" che io in Italia, purtroppo, non vedo ancora o affatto.

È che bisogna essere coscienti che la poesia del secondo Novecento (in netto declino in Italia rispetto a quella della prima metà del secolo) è finita nelle sabbie immobili di un pensiero estetico epigonico e acritico. Di fatto, la poesia it. sembra essersi impantanata nella assenza di un qualsiasi pensiero critico filosofico. La Crisi del Modello proposizionale dei linguaggi poetici è scaturita dalla invasione dei linguaggi tele mediatici; c'è stata una accelerazione della Crisi ma la crisi era già in atto da un cinquantennio. Ed è stato un bene, finalmente la Crisi è visibile anche a occhio nudo: basta dare un'occhiata alla poesia che si scrive oggi in Italia, che è epigonica nel suo fondamento concettuale-filosofico.

Non si ha più il concetto di una poesia che fratturi l'impensato al pensiero, che segnali delle alternative, che crei uno spazio di relazione e di senso, che apra la soluzione stilistica apocritica alle plurime possibilità della "nuova" scrittura poetica, che è di là da venire. Se verrà.

Anonimo ha detto...

Non credo si tratti del vecchio problema esistenziale dell'incomunicabilità nell'era iper-tecnoligica. Credo si strati piuttosto di una mancanza di capacità nel muoversi sotto le maschere, o senza di esse. Maschera è il termine che usò Jung per indicare l'apparire, ed è proprio l'apparire che sta soffocando l'essere. L'essere è diventato socialmente sconveniente. La poesia è ancorata all'essere, è la ragione della sua esistenza, del suo farsi. Se così intesa la sua necessità sociale è ancora oggi da ritenersi, oltre che giusta, anche condivisibile.
Linguaglossa: se ne discutiamo è perché leggiamo con attenzione. Non siamo in pochi (tra i Molti) a sentire riconoscenza per la qualità delle sue riflessioni.
mayoor

Moltinpoesia ha detto...

Ennio Abate:

Detto in breve. Concordo con Mayoor quando dice che, a causa della globalizzazione ( un fatto storico precico, non un Destino), sono in sofferenza sia la cultura alta (e il suo linguaggio letterario, e il suo linguaggio poetico) e sia la cultura bassa o di massa o ex-popolare (e il suo «parlato d’uso»).
Cercherei, dopo tale constatazione, di taglierei la testa al toro, cioè alla contrapposizione, che io pure sento sterile, tra linguaggi alti e letterari e linguaggi bassi o d’uso. E mi chiederei: in quali dei linguaggi, di cui già ci serviamo o che potremmo acquisire (attraverso la pratica, lo studio, l’esperienza diretta o indiretta degli ambiti reali in cui essi vengono usati), troviamo quel "qualcosa" che, nell'estrema confusione dell'epoca, ha per noi *ancora* valore e che, forse, potrebbe averlo anche per quelli ( non per tutti, preciso) a cui noi ci sentiamo vicini o che potrebbero diventare a noi vicini?
Per me è un valore la ricerca della verità.
E allora devo impratichirmi di quei linguaggi che mi passano la verità e non la menzogna. E, allora, rovisterò senza remore sia tra i linguaggi alti sia tra quelli bassi che ho sottomano e darò la preferenza e farò miei soltanto e soprattutto quelli che mi permettono di avvicinarmi alla prima ed evitare la seconda. E a volte possono essere linguaggi alti, altissimi, persino specialistici e che richiedono fatica per essere da me maneggiati. Altre volte riconoscerò che la verità o un pezzo di verità, me la passano magari involontariamente anche il parlato del barista o il chiacchiericcio televisivo o il sito Internet.
Ma, se per un altro valore è la Bellezza o la Qualità o la Grandezza o il Successo o il Mistero, farà una selezione diversa.
E si arriva fino alle estremizzazioni: quel valore sarebbe solo in alto o solo in basso.
Non si scappa. Sono dei valori (o dei pre-giudizi, quindi qualcosa con cui comunque vanno fatti i conti) - di partenza o acquisiti con l’esperienza e più o meno coltivati e verificati - che intervengono nelle nostre valutazioni e nelle nostre scelte.
Valori che spesso difendiamo ad oltranza, spesso senza neppure esplicitarli e sfuggendo alle verifiche ( o accuse) altrui e all'autoverifica che prima o poi le dure prove della vita, della storia, della realtà ci imporrebbero. Dato che molti valori a cui ci attacchiamo svelano la loro fragilità o inconsistenza o parzialità o relatività.
Anche la visione del linguaggio che qui sopra ho appena espresso (un linguaggio-strumento, un linguaggio che lascia trasparire o non trasparire dell'“altro” oltre a se stesso, un linguaggio che serve ad allontanarsi o ad avvicinarsi a qualcosa: la verità…) non è neutra, non è universale, non è condivisa o condivisibile da tutti.
Si può avere, si ha, infatti, anche una visione del linguaggio come Sostanza in sé, che ci domina sempre (e che quindi non può essere affatto *strumento* sottoposto almeno in parte alla nostra volontà o plasmabile dai nostri bisogni e desideri di uomini in carne ed ossa, storici). E tutto cambia.
Senza considerare poi che altri accettano, sì, che il linguaggio sia strumento, ma separano nettamente l’attività linguistica pratica quotidiana (quella che ci permette di intenderci con gli altri per ottenere qualcosa da loro) da un linguaggio-strumento, per loro più apprezzabile solo quando e in quanto esso è/sarebbe veicolo di un Qualcosa di assoluto che ci trascende (la Parola, la Divinità, lo Spirito, il Mistero, l’Inconscio). Anche in questo caso tutto cambia. Non ci si intende. O s'intende che siamo differenti e mossi da istanze diverse e contrapposte, causadi un conflitto forse insanabile...

Anonimo ha detto...

non era la mia intenzione offender nessuno, sono stata solo sincera. E’ un giudizio duro ma e' cio’ che penso, le riflessioni di linguaglossa in poesia e sulla poesia mi sembrano mediocri. mi dispiace essere cosi’ dura ma la penso cosi’, se non lo accettate cancellate i miei commenti, vi capisco. io voglio continuare a dire che penso che i discorsi di linguaglossa sono una maschera che nasconde il vuoto, sono tutti legati a categorie dell’ 800 e sono inutili oggi. anche ammesso e non concesso che” la poesia it. dagli anni Sessanta si è avviata nella direzione di una concezione del linguaggio poetico come fatto linguistico-semantico” senza che linguaglossa dimostri perche’ e’ cosi’, resta da dimostrare perche’ la concezione del linguaggio poetico come fatto linguistico-semantico dovrebbe essere negativa. se linguaglossa pensa che da questa concezione consegue che “L’indicatore espressivo-personale diventa il segnale semaforico della emotività messa a nudo, mai di un concetto o di una macro metafora, semplicemente non ci sono metafore: si scrive a quel modo perché una pulsione insondabile spinge a farlo. Si vuole comunicare qualcosa ma qualcosa di impreciso e indeciso: l’oggetto sfugge perché l’io esperiente si scopre, come dire, povero di esperienze e privo di «forme»; il soggetto sfugge perché le esperienze vive e significative esperite sono simili in tutti gli esseri umani, e quindi generiche, non individualizzate” linguaglossa deve spiegare di quale poesia sta mai parlando, a cosa si riferisce. Io nella poesia italiana di oggi non trovov niente di tutto questo. cosa legge linguaglossa? Di cosa parla? I suoi discorsi sembrano costruiti nel vuoto. L’oggetto di ciò che dice sfugge a linguaglossa perche’ l’io esperiente si scopre, come dire, povero di esperienze e privo di “ forme”
E.

Anonimo ha detto...

Guardati attorno, com'è possibile che si possa addivenire ad un solo linguaggio? Se lo saranno chiesti anche gli strateghi della globalizzazione. Per questo hanno creato un linguaggio semplice, cifrato, fatto di slogan... una parola alla volta, di giorno in giorno. Come parla la pubblicità? Dati alla mano funziona sempre, si saran detti, e quindi ecco arrivare i politici del "senza se e senza ma". I messaggi su Facebook sono per lo più condizionati dal gossip (parola recente), ma potrebbe non essere così. E infatti non è sempre così.
Torno a dire che per me il problema non sta tanto nel linguaggio, se mai nell'uso creativo che se ne fa, pensiero critico e filosofico compresi. Non essere prevedibili è per me forse il solo vero disturbo alla globalizzazione in corso che possiamo mettere in atto.
mayoor

Moltinpoesia ha detto...

Ennio Abate:
Nessuno qui ha voglia di censurare o cancellare un commento perché uno/a la pensa diversamente. Nessuno di noi è intoccabile. Basta argomentare le proprie critiche, come ora ha fatto.
E sarebbe meglio, a meno che non ci siano giusti motivi per non farlo, firmarsi e farsi riconoscere.

Anonimo ha detto...

Mayoor, perché mai l'incomunicabilità è un 'vecchio problema esistenziale, se poi tu stesso affermi che vera radice del problema è nella difficoltà di essere se stessi, a tutti i costi, privilengiando al suo posto l'apparire, sotto e con qualsiasi maschera? A me pare che diciamo le stesse cose, sebbene da due angolazioni differenti, com'è giusto che sia. Sul tema dell'essere in Heidegger ho qualche riserva, non foss'altro che Levinas, suo allievo, ha smontato pezzo per pezzo l'ontologismo del suo maestro mostrando i rischi di tale concezione (i tempi erano sicuramente altri), contrapponendo all'essere a tutti i costi l'Autrui, l'altro, l'alterità. Oggi c'è forse un eccesso di egopatismo e siamo sommersi dall'io, in poesia è dominante, quando credo che varrebbe la pena interrogarsi sull'essere. E sono sempre più convinta che interrogarsi significa aprirsi agli altri. E che studiare non sia una perdita di tempo.
Giuseppina Di Leo

Anonimo ha detto...

anche se solo per ipotesi il linguaggio si limitasse ad "essere" solo un fatto linguistico semantico la cosa mi procurerebbe un certo disagio così come provo disagio di fronte alla rapina perpetuata dalla disastrosa globalizzazione con le sue multinazionali del crimine. Se ad esempio mi stanno rubando la biodiversità mi preoccupo intanto perché qualcun altro decide per me ed anche perché mi stanno sottraendo con la violenza la cultura cioè l'essere e la conservazione dell'infinità varietà dei miei semi volendomi imporre la semantica di un solo seme magari geneticamente modificato. enzo giarmoleo

Anonimo ha detto...

D'accordo su tutto. Parlavo delle maschere perché questo è il luogo, il tabù che viene divelto da ogni poesia, purché onesta (secondo me Ennio sbaglia: cercare la verità con la poesia è come cercare gli occhiali che si hanno in testa). L'incomunicabilità non è cosa che possa riguardare i poeti, se è vero che tutta la loro tensione è rivolta a trasmettere. Se mai la solitudine, ed ecco apparire le maschere. Ma l'era iper-tecnologica in se', sul piano della comunicazione è un moltiplicatore perfino apprezzabile. Ma moltiplicatore di che?
mayoor

Anonimo ha detto...

... comunque: si potrebbe dire che poesia è verità. E che senza verità è niente. Ma tu parli di una verità maiuscola, scritta in minuscolo solo per non creare fraintendimenti. Allora sì, e si ritorna alle parole sagge di Brecht sulla fiducia di poterne scrivere.
may

Anonimo ha detto...

...ma l'incomunicabilità diventa oggetto di poesia. Il poeta è recettore e ricevente nel medesimo tempo e deve farsi portavoce del disagio che accoglie dagli altri, dalla società. Sennò, a che serve la poesia? Per parlare dell'io sono? Che la tecnologia non aiuti la comunicazione sembra un paradosso ma è così. Leggevo di recente il volume "Dialogo con il televisore" del cardinale Martini, nel quale il prelato cerca di comprendere le contraddizioni di una comunicazione da parte dei media che sembra voler sedare ogni spirito critico anziché favorirlo. Ed è un testo che trovo attualissimo, anche se risale ai primi anni '80. In poesia il problema che si pone è in definitiva il medesimo, perché non si può fare poesia parlando per spot o frasi fatte, o cercando parole in rima. A volte ci si perde cercando la verità (la verità del dire) ma occorre cercarla, e dopo aver cercato (ma tanto tanto) ciascun poeta ha secondo me il dovere di porgerla in tutta onestà. Ben sapendo però che quella non è altro che la sua (del poeta) verità.
Giuseppina Di Leo

Moltinpoesia ha detto...

Ennio Abate:

In casuale coincidenza con questa nostra discussione sul linguaggio della poesia e sulla validità o meno di cercare verità tramite la poesia, sono incappato in questa riflessione di Italo Testa, Intrattenere i fantasmi Kritik, Memoria critica (Nov. 02 2012 [già apparso su «il verri», n. 47, pp. 23-29]. (qui il link per chi volesse leggere: http://isintellettualistoria2.myblog.it/archive/2012/11/07/italo-testa-intrattenere-i-fantasmi.html ), che fa il punto, a distanza di oltre vent’anni sull’antologia dei Novissimi, un libro che ha contato molto nella sua formazione. Puo’ essere interessante introdurre nella discussione alcuni spunti (che ora non commento…).
Testa spiega:

1. come lui si pone rispetto a quell’opera. «Porsi, a proposito dei Novissimi, la domanda che essi rivolgevano ai Lirici nuovi di Anceschi. Quando è successo che un linguaggio a suo tempo innovativo e capace di aprire all’accadere si è rivelato come qualcosa che «imprigionava tutti i nostri slanci e non riusciva a contenere ciò che per noi stava diventando l’esperienza» (Introduzione del 1961). La domanda su cui anche I novissimi devono essere giudicati, in base ai loro stessi criteri»;

2. quali compiti quei poeti e teorici della neoavanguardia si davano. Per loro l’ «amplificazione del reale [era] in sostanza il tema della poesia» o lo « scopo della vera contemporanea poesia» era quello - desumibile anche da Leopardi - di «accrescere la vitalità». Essi, per perseguirlo, si affidavano al loro «sentimento della realtà», che intendevano come una «capacità di contatto» con l’accadere e con «la lingua che la realtà parla in noi con i suoi segni». (Antonio Porta in «Poesia e poetica» si era dato questo compito: «Calarsi nella realtà»). Non si trattava però di fare « il tuffo ingenuo nel mare anonimo dei fatti», ma di tentare, attraverso la rappresentazione di oggetti ed eventi, di «intuire la verità». E neppure di «assumere la realtà come qualcosa di per sé dato, immediato, come accade[va] nel «realismo coatto». Bisognava, invece, «farsi carico criticamente del problema della rappresentazione». Poiché per loro il linguaggio della poesia era «alienato, estraniato», essi pensavano a una «mimesi critica della schizofrenia universale», ad un «rispecchiamento e contestazione di uno stato sociale e immaginativo disgregato» (formule di Alfredo Giuliani»). Adottarono perciò le tecniche della comunicazione di massa. E incoraggiarono « forme di scrittura più “impersonale” ed “estensiva”, che avrebbero dovuto portare ad un ampliamento della “possibilità di parlare in versi”». Le loro composizione schizomorfe, sottintendevano un’esperienza schizomorfa, scomposta. Abbandonando le «ambizioni pseudorituali» della versificazione sillabica, volevano stare addosso «al mutamento storico sia della lingua sia dei modi di pensare e della sensibilità, del nostro modo di far contatto con le cose». Da qui, sempre secondo Giuliani, la loro «inquietudine metrica». Per lui faceva parte del movimento di apertura al reale ed era il «sintomo per cui si manifesta nel poeta l’angoscia della realtà». Da qui il compito di «foggiare, come può, un metro diretto sulle cose o sulla biografia»; e il proposito: «io non voglio esprimere me stesso, ma l’esperienza che il “me stesso” fa rispecchiando e anche resistendo al rispecchiamento».Questa «riduzione dell’io» non era una «scelta ideologica». Doveva invece spingere il poeta isolato a fare« esperienza degli altri, nella comunità degli uomini», anche se - e Giuliani pare ne fosse pienamente consapevole - c’era un rischio non da poco: «nelle poesie che vorrebbero essere più aliene dall’intimismo, l’io si nasconde con orgoglio e pervicacia dietro una presunzione di oggettività».

[continua]

Moltinpoesia ha detto...

Ennio Abate (continua):

3. come si arrivò al fallimento di quel progetto, perché si fece strada la consapevolezza «che la modernità stava tramontando e che si era entrati nell’epoca della «sciapa postmodernità».
Testa sottolinea che già nella «Prefazione 1965 comincia a dominare il registro dell’apparenza. L’apertura al reale fa posto ai «rapporti con l’ombra». La realtà al suo fantasma interno, alla proiezione mentale, all’«apparenza reale»». Presto la «vocazione a conoscere» del ’61 è messa a tacere. Si punta a un «arricchimento non tanto cognitivo quanto immaginativo». Fino ad arrivare « ad un’identificazione integrale, senza residui dialettici, tra mondo e linguaggio».

[Fine]

Anonimo ha detto...

Credo che il testo riportato, Ennio, renda esplicita la complessità della materia in merito al come e al quanto possa darsi realtà e verità. E giunge al paradosso del quasi, segno che in poesia non può essere stabilita "la" verità tout court, né per gli altri né tantomeno per se stessi. E dato che le verità sono tante quante sono le realtà, un poeta come Pessoa, attraverso i suoi eteronimi e qualche semi-tale, riusciva contemporaneamente ad essere uno e trino (e andava anche oltre). E a proposito di "frammenti", lo stesso Soares ammetteva a se stesso che ciò che diceva non era la derubricazione della realtà, bensì "frammenti, solo frammenti". E a questo punto mi sentirei di dire che se la poesia è un'arte lo è proprio per questo, perché riesce a conciliare gli opposti estremi.
Giuseppina Di Leo

Anonimo ha detto...

... gli opposti estremi di realtà e finzione (nelle loro varie rappresentazioni).
Giuseppina Di Leo

Anonimo ha detto...

Ma se si pensa che l’uso letterario del linguaggio possa condurre chi legge e chi scrive ad una conoscenza dei rapporti fra gli uomini diversa da quella cui ci conduce l’uso pratico o scientifico del linguaggio, allora l’esperienza della scrittura manzoniana potrà apparire come salutare contro le mitologie dell’immediatezza e la perpetua, la da un secolo ricorrente illusione della avanguardia come rivolta dell’impotenza.»
Qui si parla:
a) della “verità subito”che è un’illusione (insieme alle connesse mitologie dell’immediatezza)
b) dell’uso letterario del linguaggio che può condurre ad una diversa conoscenza dei rapporti fra gli uomini; quindi della sua specificità e autonomia rispetto all’uso pratico e scientifico. L’uso pratico può realizzarsi sia nella “cultura alta” che “bassa” ed è concetto coincidente solo in parte con “linguaggio quotidiano”. Anche nel quotidiano può darsi e scoprirsi il poetico (cioè, un uso letterario del linguaggio);
c) dell’avanguardia (Novissimi e compagnia bella) come rivolta dell’impotenza: un’illusione che dura da oltre un secolo.
Giorgio non sbaglia quando critica le mitologie dell’immediatezza (“l’emotività messa a nudo”…la scrittura nata “perché si sente una spinta insopprimibile dall’interno”, ecc.)…A mio parere sbaglia quando s’impania in sintagmi e proposizioni generali (del tipo “domanda in versione sintattica”, “il semantico segue sempre i processi sociali”, ecc.) e quando non coglie anche nell’immediatezza la spinta ad andare oltre. In fondo, anche padre Dante, mettendo Paolo e Francesca nell’Inferno e cadendo come corpo morto cade, confessa d’aver sbagliato coi suoi giovanili furori dolcestilnovistici; anche Baudelaire parla di “cuore messo a nudo”, anche Leopardi si becca la sua “strage delle illusioni”, anche gli avanguardisti nostrani resistono (poeticamente) se si dotano di concezioni più adeguate dell’essere. Quanto alla maledetta (o benedetta) realtà, il discorso è lungo. Una cosa è certa: non coincide sempre con la verità. Non ci sarebbe altrimenti tensione tra l’essere e il dover essere, tra ciò che si è e ciò che si vorrebbe fare o diventare. L’uomo è un essere che vorrebbe stare spesso altrove. Infine, Ennio, non opporrei bellezza e verità. Il vero solo è bello…
Donato

Anonimo ha detto...

Pardon! E' saltata la parte iniziale. Ve la rimando e abbiate la pazienza di ricostruire voi il tutto!...Grazie.

Scusate, qualche giorno fa ho commentato queste parole di Fortini: «La “verità subito” è l’illusione eternamente romantica di chi rifiuta la pazienza dell’incarnazione, la categoria della mediazione. Certo, si può non leggere Manzoni. Si può non leggere nulla. Ma se si pensa che l’uso letterario del linguaggio possa condurre chi legge e chi scrive ad una conoscenza dei rapporti fra gli uomini diversa da quella cui ci conduce l’uso pratico o scientifico del linguaggio, allora l’esperienza della scrittura manzoniana potrà apparire come salutare contro le mitologie dell’immediatezza e la perpetua, la da un secolo ricorrente illusione della avanguardia come rivolta dell’impotenza.»

giorgio linguaglossa ha detto...

Leggere un poeta come Transtromer è una avventura nel mare dell'oggettività, nel mare dell'oggetto, dentro l'imbuto dello spazio-tempo. Nelle sue poesie il tempo non è mai lineare ma curvo, ed è la curvatura dello spazio-tempo di cui sono fatte le sue metafore che determina lo svolgimento delle composizioni; avviene così che il centro di gravità delle sue composizioni si sposta di continuo. È uno spazio-tempo ellittico, eccentrico, tangenziale. La materia verbale si identifica con la materia metaforica. Qui il «reale», quel reale cui anelava Giuliani e la neoavanguardia (senza mai riuscire ad attingerlo), è il reale dello spazio-tempo metaforico. La storia della lingua è la storia delle sue metafore.

La difficoltà della neoavanguardia che si coglie nella terminologia di Porta e Giuliani («accrescere la vitalità». Essi, per perseguirlo, si affidavano al loro «sentimento della realtà», che intendevano come una «capacità di contatto» con l’accadere e con «la lingua che la realtà parla in noi con i suoi segni». (Antonio Porta in «Poesia e poetica» si era dato questo compito: «Calarsi nella realtà»). Non fare « il tuffo ingenuo nel mare anonimo dei fatti», ma di tentare, attraverso la rappresentazione di oggetti ed eventi, di «intuire la verità» (sic). E neppure di «assumere la realtà (sic)come qualcosa di per sé dato, immediato, come accade[va] nel «realismo coatto (sic)»).

Dove si può notare tutta una terminologia che oggi mi appare straordinariamente ingenua, filosoficamente disarmata, sulla quale non avrei nulla da commentare.

Ad esempio, il romanzo storico così come lo aveva concepito Lukacs è saltato sulla dinamite del Moderno quando è saltata in aria il dogma della concezione lineare del tempo e dello spazio. Un genere letterario tramonta e viene sostituito da altri generi. Nei romanzi moderni la fiction convive con il quotidiano, il giallo con la metafisica; viene narrata e messa in scena la storia, e nelle storie stesse che vengono raccontate, che procedono attraverso viaggi nel tempo o attraverso salti spazio temporali. “The time is out of joint” ricorda Derrida citando Amleto: il tempo è fuori di sesto, è dissestato.
Nella poesia più evoluta, lo spartiacque tra rappresentazione lineare e quella ciclico-eccentrica (in cui lo spazio/tempo è completamente destrutturato), è saltato come sulla dinamite. Il presente è già abitato dal passato ed è già futuro.

Anonimo ha detto...

L'abbraccio, la stretta di mano, un bacio, lo sguardo alto neli occhi di chi ti sta parlando, il rispetto dell'ascolto, la voglia di chiarire, di farsi perdonare, di avere lo scambio di idee con la nostra voce, i gesti del nostro corpo, riderci addosso,piangere, sbuffare , da soli e con gli altri. Senza tutto questo è im possibile cambiare il linguaggio, in ogni parte del mondo, in ogni circostanza in ogni ambiente. Pensiamoci. Emy

Unknown ha detto...

intere parole interessanti le tue Emy . perché? perché completamente buttate al vento.

Moltinpoesia ha detto...


Ennio Abate:

D’accordo con Giuseppina Di Leo sulla difficoltà di cogliere realtà/verità. Il tentativo della neoavanguardia anni ’60 qui riportato lo prova. Però è un po’ generico e troppo alla Pessoa dare per scontato che « le verità sono tante quante sono le realtà». Non ne siamo certi. Temo che siamo indotti a tali affermazioni dalla caduta innegabile delle Grandi Narrazioni unitarie, ma che abbiamo ceduto troppo presto al pluralismo che ci è stato sbandierato dopo quel tracollo. Del quale prenderei sì atto (io pure mi sento costretto ai «frammenti, solo frammenti»), ma un cosa è il ‘plurale’ delle forme di vita, delle culture, dei linguaggi, altra sono il ‘pluralismo’, l’ideologia, i “nuovi occhiali” pluralistici, che ci stiamo abituando a portare per inerzia, perché “cosi fan tutti”. Altro ancora il problema più complicato: che dietro i fenomeni plurali ci sia davvero una sostanza (o realtà) plurale. Onestamente non mi sento di pronunciarmi.

Meno d’accordo con le affermazioni fatte da Giorgio Linguaglossa (sotto l’altro post, quello di Salzarulo su Fortini e Manzoni). Può darsi che in molte parti dell’opera di Fortini « il concetto di «verità» resta inquinato dal sedimento teologico che quella parolina portava (e porta) con sé». Eppure, proprio perché accanto ad Hegel egli aveva messo Marx ( e non solo il “giovane”, ma anche quello del Capitale, dunque il “vecchio”), ci sono molte altre parti dell’opera di Fortini in cui il concetto di verità si fa persino - alla Lenin - «analisi concreta della situazione concreta». E così si scende dai cieli della meditazione filosofica e ci si misura con la lotta politica per affermare certe verità invece delle menzogne. Dunque, non solo Adorno ma anche Fortini dimostra di sapere a sufficienza che la verità può diventare maschera, ideologia, coprire scelleratezze. Lo dimostra tutta la sua polemica costante con lo stalinismo ( ovvero la verità ufficiale del comunismo della Terza internazionale dopo Lenin) almeno dal ’56 in poi.
Sulla polemica nei confronti dei sostenitori della “verità immediata”, tema trattato da Donato ( Salzarulo) sarei d’accordo se si precisassero contesto e bersagli. Sulla questione dello scarto esistente tra il concetto di verità e quello di realtà, direi brevemente che il primo corre i rischi di teologismo e finalismo e il secondo quelli di positivismo e scientismo (riduzionistico). Siamo, però, abbastanza vaccinati dalle sconfitte per cadere in certe trappole filosofiche di un passato anche recente. E proprio perché «l’uomo è un essere che vorrebbe stare spesso altrove» e questo lo può portare a prolungati sonni della ragione, sarebbe il caso di insistere di più nella caccia di verità concrete da dire e di realtà concrete da controllare.
(Quanto alle «difficoltà della neoavanguardia» nella sua dismessa caccia alla verità, davvero non capisco i ‘sic’ sarcastici di Giorgio. Non credo che quegli autori non si fossero accorti che era «saltata in aria il dogma della concezione lineare del tempo e dello spazio». Lo provano, persino eccessivamente e ossessivamente, i loro testi. In particolare anche la loro critica al romanzo e quella sorta di anti-romanzi scritti da Sanguineti: Capriccio Italiano, Il gioco dell’oca.

Anonimo ha detto...

...vorrei ricordare il famoso motto di Pessoa contenuto in quella autentica miniera di intelligenza che è "Il libro dell'inquietudine", dove si trova la seguente sentenza: «Senza sintassi non c'è potenza semantica». Qui in nuce è concentrato tutto il discorso critico che porta avanti Linguaglossa che da decenni si batte per una poesia che privilegi la sintassi avverso la sopravvalutazione della semantica invalsa qui da noi.

Laura Canciani

Anonimo ha detto...

A Rò:

Il vento da sempre porta semi. Emy

Unknown ha detto...

..S'Emy, forse,la porta delle porte del vento accarezzando o bruciando la terra e smuovendo il cielo..le sue nuvole, i draghi travestiti da cirri ...
ciao.

http://www.youtube.com/watch?v=rev9OWLKQsE

Anonimo ha detto...

A me sembra che siamo giunti alla critica-poetica, o alla critica che si fa poesia. Questa asserzione sullo spazio-tempo, lungi dall'essere una semplice connotazione artistica, per come è condotta fa pensare ad una strategia studiata a tavolino. Affinché il "nuovo" possa farsi strada bisogna abbattere il "vecchio", e bisogna farlo senza tentennamenti perché la posta in gioco (la propria poesia e quella per adesso di pochi altri, ma confusamente) è notevole, e bisogna anche considerare che la vita è breve. Non c'è nulla di male nel perseguire una strategia, ma sotto attacco ci sono anni di lavoro costruttivo (vedi post di Abate sui Novissimi) , che magari non hanno sortito gli effetti speratiì ma che resta una risorsa d'esperienza di cui si può tener conto. Non ho particolari simpatie per il pensiero post-moderno, ma almeno non esclude che ci si possa muovere per sommatoria anziché per eliminazione delle esperienze del passato ( beninteso solo quello che ci troviamo a ridosso)...
mayoor

Anonimo ha detto...

Il commento di Giulia deve far riflettere sulla necessita' (o meno) di un linguaggio ricco ed elaborato, anche storicamente, quale e' quello italiano in un contesto sovranazionale che ormai va verso il global-english in Occidente ed ex colonie, un global-spanish nell'America Latina e il simplified-chinese ad Est. Rimane come al solito tagliata fuori l'Africa, che pero' corre il serio rischio di finlandizzarsi verso la Cina.

Saluti a tutti. Giuseppe Cornacchia

Moltinpoesia ha detto...

Ennio Abate:

Credo di aver riflettuto e dato risposta a Giulia nel mio commento (08 novembre 2012 22:20). I linguaggi ricchi ed elaborati restano indispensabili anche se i linguaggi d'uso vanno verso il global-enghlish o altri global o simplified-linguaggi. I primi continuano a tenere le redini dello sviluppo e dell’amplificazione dei secondi. Anche se questo non appare con evidenza o non viene riconosciuto. Anche se "dal basso" ci sono spinte "creative" e "antagoniste" e non solo gregge o masse. E pure questo non è molto chiaro, perché di greggi e masse sappiamo poco.
Per me resta ingenuo l'invito ad abbandonare i linguaggi complessi ( e la conoscenza che solo attraverso essi può essere raggiunta) e ad abbracciare, usare solo i linguaggi semplici (che non disprezzo, non ritengo in sé dannosi e fanno conoscere altre forme di vita o le stesse dei linguaggi alti in altri modi: da qui l’importanza delle traduzioni non solo da lingua a lingua ma dall’alto dei linguaggi verso il basso dei linguaggi e viceversa).
Si può suonare il pianoforte dei linguaggi con due o anche più mani. Perché imporsi di usarne solo una?
Ora è vero che c'è conflitto ( c'è sempre stato) tra linguaggi alti e linguaggi bassi (perché le società non sono omogenee ma percorse da conflitti: di classe, di ceti, di lobby, di bande, di mafie), ma ritengo preferibile un corpo a corpo serrato tra loro, che ripulisca gli uni di decorazioni superflue e gli altri di semplificazioni eccessive, piuttosto che una ghettizzazione dorata o plebea. Non propongo la via del giusto mezzo, dell'equilibrio, ma della gestione della contraddizione. E tutto ciò misurando i comportamenti rispetto a qualche scopo. Quale? La verità, la bellezza, il progresso, la tecnica, la giustizia, la pace, l’ordine, etc? E' su questo punto - su quel che vale - che cozziamo o non sappiamo procedere...

Unknown ha detto...

L' "alto" ( elite e suoi sinonimi) culturale in senso ampio- se vuole essere con una marcia in più evitando solite estenuanti SS tanto di sintassi o semantica - dovrebbe conoscere la sua storia nel campo del sapere, o meglio dei saperi rispetto al "basso" (significativo che è sempre stata sufficiente questa descrizione, già di per sè allegoria della povertà e sia causa che effetto).
L' "alto" più che un'ormai sterile coscienza della sua grande conoscenza, dovrebbe essere molto preoccupato, anche in modo piu egoistico salutare o vitale che questa, la ricchezza della conoscenza, è destinata ad estinguersi come è successo prima di qualsiasi sintassi o semantica, a centinaia di lingue...per la coscienza che si diceva "di classe" e che reclama ancora, anche in questo luogo, quando si tratta di sviscerare i poteri schiaccianti quali quelli editoriali (che non sono solo in questo campo), dovrebbe essere ben consapevole che il binario programmato dell'immiserimento "economico", ha creato un divario enorme nella distribuzione feudale piramidale della ricchezza, ma in questa la prima forma ante-moneta è sempre stata la conoscenza fino a quella tecnologica ma permamendo tutte le altre forme, compresa quella poetica ..

Proprio perché l'"alto" si sente così forte, tanto come i rapporti di forza governano la vita di relazione sul pianeta in ogni aspetto micro e macro, allora quel tipo di " alto" che "conosce" e voglia essere "contro", deve avere l'onestà intellettuale di non tirar in ballo emozioni e sentimenti per svilirne la vita, sia sua dell'alto che del basso. Si sa perfettamente che :
1 hanno alienato la vita autentica
2 non ci si deve ammalare delle stesse malattie di chi rappresenta il " contro " il quale si vorrebbe andare

L'alto deve, sempre che voglia essere atle -per la responsabilità maggiore che ha rispetto al basso, e il peso della memoria e della conoscenza che reclama- mettersi in gioco senza rapporti di forza con il basso, che di rapporti di forza ne ha fatto il pieno nei secoli e nei millenni. Se l'"alto"(politico o poetico, culturale o artistico etc etc) non ha ancora voluto capire il fallimento della Storia in ogni inganno rappresentato dal suo racconto ufficiale (a cui ora si sono aggiunti altri agenti o media), non può lamentarsi che con se stesso della sua consolidata incapacità , e a volte vero e proprio vuoto o odio, di "amore".

Anonimo ha detto...

La conoscenza può essere abbracciata solo attraverso linguaggi complessi? Non credo. Però è almeno sensato partire dal linguaggio semplice e arrivare gradatamente a quello ricco ed elaborato (sempre che porti alla conoscenza). La gioventù non si perde piacevolmente nei linguaggi complessi, si annoia facilmente e gli adulti non hanno la pazienza e la saggezza di prenderli per mano e dirigerli verso lessici ricchi e, semmai, anche elaborati e progettati criticamente.
Anche gli adulti stanno diventando sbrigativi e sbrindellati. Si sta affermando un nuovo volgare alla velocità della luce, ma non è quello che fu di Dante. Nessuno riesce a opporre resistenza, il fiume in piena trascina tutto ciò che trova, anche la lingua del libro. Proprio perchè (come afferma Ennio Abate) certe potentissime “Multinazionali del condizionamento” investono giganteschi capitali e risorse varie per guidare le masse verso il basso e condizionare il loro inconscio, bisognerebbe sapientemente e correttamente attivare linguaggi sani ed energici che conducano le nuove generazioni verso un saggio e colto uso della parola.
Giulia

Anonimo ha detto...

Direi anche che ci sono altre forme, meno legate al logos, che stanno prendendo il sopravvento grazie a globalizzazione e internet. E' probabilmente il magistero della Parola che sta venendo meno: impacciato, formale, burocratico, gerarchico. Ha iniziato la fotografia, ha proseguito il cinema, poi la musica pop e oggi il multimedia: tutti questi hanno eroso la Parola e reso fluidi, concatenandoli, mezzo e messaggio. I miti universali dell'umanita' sono invarianti e comuni a tutte le epoche, ma le forme per renderli fruibili alle nuove generazioni probabilmente stanno cambiando.

Ancora saluti. Giuseppe Cornacchia

Anonimo ha detto...

La verità che è insita nel mezzo poetico sa di rivelazione miracolistica, qualcosa che sopraggiunge nell'atto creativo di disporre le parole che s'incatena nel verso rendendolo lapidario. Probabilmente è a questa ragione (la comparsa improvvisa del super-significato) che dobbiamo la formulazione in breve di molte poesie, ma evidenzia la difficoltà dei poeti a proseguire perché il verso rivelato non garantisce alcuna continuità, anzi spesso ne determina la fine. L'esempio è in Leopardi: " e il naufragar m'è dolce in questo mare". Prima di questo verso, di questo sconfinamento tra ragione ed emozione, c'è il discorrere poetico. Normalmente, e fatte salve poche eccezioni, è così.
La verità che scaturisse da meditata indagine, che non faccia affidamento sulla rivelazione, può dirsi poesia (super-significato)? Io credo di no, ma può contare sull'eccentricità del linguaggio, sulla forza innovativa dei contenuti, sul capovolgerli, sull'inconsueto e sull'imprevisto. Ma sarebbe come se L''Infinito terminasse a "Così tra questa/immensità s'annega il pensier mio", punto.
Parlare di linguaggio, delle sue difficoltà e dei suoi cambiamenti in questa come in altre epoche, è parlare del discorrere poetico, non di poesia.
mayoor

Moltinpoesia ha detto...

Ennio Abate:

- a Giulia: Alla conoscenza ( del mondo, della realtà o comunque di ciò che facciamo diventare oggetto del nostro tentativo di conoscere) si può arrivare ( ma non sempre, perché vari sono gli impedimenti…) sia attraverso i linguaggi complessi che quelli semplici. (Penso alla conoscenza negli adulti e penso a quella nei bambini). Sarebbe anche «sensato» ( e la scuola in teoria a questo dovrebbe servire) partire dal semplice per arrivare al complesso. In realtà, poiché neppure i bambini o i giovani vivono più sotto una campana di vetro e solo in pochi possono salire «gradatamente» questa (ipotetica) scalinata, moltissime menti - sia dei bambini che degli adulti - sono contemporaneamente invase da tutto: nozioni elementari convivono accanto a nozioni complesse e male afferrate nei loro molteplici e spesso conturbanti significati; processi di apprendimento graduali sono interrotti da valanghe di nozioni traumatizzanti o insensate e incoerenti, ecc. Nella nuova Babele non si sta come in un antico ginnasio per aristocratici ateniesi. E perciò si reagisce anche in modi distruttivi: coi giovani che (da sempre, mica solo oggi) si annoiano facilmente di fronte ai linguaggi complessi e gli adulti che si chiudono a riccio in certezze d’antan e rifiutano di dialogare con i giovani, che d’altronde li ripagano con la stessa moneta. Siamo tutti più o meno «sbrigativi e sbrindellati». Ripeto: tutti. Come ripeto: non è certo che quello che si va affermando «alla velocità della luce» sia un «nuovo volgare». Di quello di Dante, infatti, non ha la complessità di una grande tradizione ( quella greco-romana, ma in parte anche araba) che Dante ( e non da solo) seppe tradurre in lingua volgare, facendone da subito qualcosa di ben poco volgare (nel senso di trascurabile e disprezzabile). Abbiamo forse le plebi planetarie, ma mancano i Dante planetari. A meno di non scorgere la funzione allora svolta da Dante nelle Multinazionali del condizionamento. Mi parrebbe una sciocchezza. Perché Dante educava e non condizionava, avendo una visione generale sia pur da uomo religioso del Medio evo e non una visione in fin dei conti bottegaia e mercantile come l’hanno Google o altri. Ed è, appunto, grave che «il fiume in piena trascina tutto ciò che trova». Il problema non è nepure di resistere ( cosa non disprezzabile per me) con la «lingua del libro», ma di accertarsi che il meglio della cultura del libro sia tradotto nella lingua semplice, visiva o multimediale ( o ‘volgare’ di oggi). Altrimenti ci si disfa di un tesoro e si va avanti con gli spiccioli che ci passano questi nuovi padroni.

- Cornacchia:
Il magistero della Parola (con la maiuscola) è già venuto meno almeno dalla rivoluzione industriale in poi e non comincia a venir meno adesso. Basterebbe rileggersi il “Manifesto del partito comunista” di Marx ( 1848) per vedere cosa il Capitale ha saputo far venir meno. Il rischio della tua visione è di lasciarsi ipnotizzare dai mutamenti delle tecniche e dei medium (fotografia, cinema, musica pop, multimedia) senza mai interrogarsi sui “manovratori” e sul senso di questo progresso tecnologico. A chi giova? Migliora o peggiora i rapporti sociali tra chi comanda e chi esegue? Ha reso più libere certe minoranze o le maggioranze?
Non mi accontenterei neppure della invarianza dei miti né del cambiamento delle forme. Certi miti sono stati resi inerti. Certe forme cambiano ma quel cambiamento maschera la fissità se non il peggioramento della sostanza (per me dei rapporti sociali a cui esse alludono).

Anonimo ha detto...

Non so, mi ritengo piuttosto neutrale rispetto al mezzo: il "quid" dell'umano, ossia il "poetico", lo si ritrova in ogni forma capace di produrre l'epifania citata da mayoor, ad ognuno la propria secondo cultura e censo. Quel che sostanzialmente dice Giulia e' che oggi le forme sono troppo differenti per riuscire a produrre un incontro, il che non era vero fino a due generazioni fa. Questa e' l'accelerazione degli anni recenti. Peraltro, tale incontro e' tutto nelle mani di chi regge la pedagogia: non solo Google, anche l'insegnante che mette 4 a chi scrive un tema in italiano non canonico. A quel punto, il giovane va a farsi un tiro o un goccio, manda un sms e si spupazza la ragazza, senza per questo non trovare le sue epifanie. Illuminante, a tal proposito, la poesia del fu giovin Simone Cattaneo, dalla storia personale tragica e irrisolta, tutta riversata in poesie simili a colate bituminose, gia' molto differenti rispetto alla similirmente tragica Claudia Ruggeri, seppur la differenza fra le due esperienze al mondo resti poco piu' di un decennio.

Saluti. Giuseppe Cornacchia

Anonimo ha detto...

"La verità offende persino quando, per conclamarla, si usano metafore o perifrasi. Se la verità offende, la metafora offende sommamente se riferita alla sfera sessuale. Giordano Bruno oggi non sarebbe più bruciato a Campo dè Fiori con una mordacchia in bocca, ma analizzato nelle sue deviazioni intollerabili, nelle sue enunciazioni eretiche, durante infiniti talk show e con fuori onda di novizi inconsapevoli di essere ripresi.
Scrisse Orwell in "Politics and the English Language": "Se semplifichi il tuo linguaggio, ti liberi dalle peggiori follie dell'ortodossia. Non potendo più parlare nessuno dei gerghi prescritti, se dici una stupidaggine la tua stupidità sarà evidente anche a te. Il linguaggio politico è inteso a far sembrare veritiere le menzogne e rispettabile ogni nefandezza, e a dare una parvenza di verità all'aria fritta." La verità è ormai diventata insulto." (Beppe Grillo)
mayoor

Anonimo ha detto...

... non ho postato questa dichiarazione di Grillo per tentare un'invasione di campo. L'ho solo letta stamattina e mi sembrava curiosamente pertinente.
mayoor

Ivan Pozzoni ha detto...

Caro Giorgio,
Ritengo che le domande a] «per chi si scrive (oggi) poesia?» e b] «perché (oggi) si scrive in poesia?» abbiano due ambiti sociologici di riferimento molto diversi. a] Per chi si scrive (oggi) poesia? Per nessuno («no-one»). b] Perchè (oggi) si scrive in poesia? Per nessun motivo in particolare («none»). Il nessuno è in agguato in entrambi i casi, benché con dimensioni semantiche diverse. a] Per chi si scrive (oggi) poesia, se non c’è nessun destinatario reale? b] Perchè (oggi) si scrive in poesia, se non c’è nessun oggetto reale da raccontare?
L’area di riferimento di a] è il dibattito sulla «pubblicità» della scrittura in versi. Penso che – come sia chiaro a chi abbia mai letto uno dei miei monologhi in rivista o in volume- lo scrivere in versi post-moderno abbia affrontato una crisi, un passaggio, simile al passaggio della lirica greca dall’auralità pragmatica dell’arcaismo al tecnicismo autoreferenziale dell’ellenismo, con un graduale restringimento di ogni pubblicità del messaggio. Forse, siamo arrivati ad un nuovo medio-evo europeo, dove a comunicare messaggi restano solo i codici civili e i trattati di teologia (sostituita, nel post-moderno, dall’economia) e i tecnici. Stiamo arrivando ad un grado vicinissimo allo 0 del messaggio, e, a chi desideri dirsi «poeta», non resta altro che assumere i ruoli di rottura, contro ogni codice e contro ogni trattato, di un Villon o di un Burchiello. La dimensione «privata» della scrittura, caratterizzata dal senso etimologico di «privus», è un dato di fatto sociologico in un mondo caratterizzato dalla corrosione del concetto stesso di istituzione «Stato». Siamo tutti «privati» della dimensione «pubblica»: i nostri modi espressivi non riusciarnno ad essere mai niente che linguaggi de-«privati». La «meta-fora» ha spazio in momenti storici in cui si riesca ad essere condotti oltre qualche cosa, oltre noi stessi, oltre la de-«privazione»: nei nuovi regni romano-barbarici del neo-capitalismo non c’è un orizzonte altro alla mera sopravvivenza nel quotidiano.
L’area di riferimento di b] è il dibattito ontologico. La crisi di ogni forma di ontologia, cagionata dalla precarietà dell’essere, è stata intuita dalle stesse punte estreme del Novecento (Heidegger e Wittgenstein), che hanno condotto ermeneutica ed analitica su posizioni simili. Come discutere di un soggetto durevole, davanti all’imboscata tesa ad esso dai concetti post-moderni di flessibilità e liquidità? Laddove, entrata in crisi la nozione stessa di soggetto, è caduta nello stesso agguato anche la nozione complementare di oggetto, come è possibile discutere di un «oggetto» poetico, di un linguaggio poetico, di un progetto poetico?

Ivan

Anonimo ha detto...

... io non trascurerei la possibilità di interpellare uno psicanalista.
m.

Moltinpoesia ha detto...

Ennio Abate:

"nei nuovi regni romano-barbarici del neo-capitalismo non c’è un orizzonte altro alla mera sopravvivenza nel quotidiano."(Pozzoni)

Lo lasciassero a tutti il "quotidiano". Provare a chiedere
ai siriani.

Anonimo ha detto...

Linguaggio.

Scrisse un cane la sua poesia
di quando porse la zampa
all'uomo uscito da galera
nessuno l'aspettava nessuno
scrisse un cane la sua poesia.
Emy

giorgio linguaglossa ha detto...

caro Ivan,
hai messo acutamente il dito nella piaga. Siamo giunti al punto che il fare poesia è diventato letteralmente impossibile: non c'è più un progetto, non c'è un orizzonte, non c'è più una attesa, non c'è neanche più a portata dimano una casa, tantomeno il linguaggio sembra essere la casa dell'essere. Il mondo ci diventato estraneo e il soggetto si è scoperto estraneo a se stesso. E non c'è più nemmeno un dio che ci può salvare o che ci può indicare la direzione, e neanche un demone. È caduta l'età della metafisica? A me sembra che in queste condizioni sia da rispolverare la categoria marxiana del'estraneazione. Oggi ci può essere soltanto una metafora estraniata, un linguaggio estraniato; bisogna costruirsi un linguaggio estraniato dove vi possa abitare l'estraneo, dove costui possa sentirsi a casa, una casa ovviamente diroccata dal Moderno, che è passato, è ormai fatto del passato; ma l'intima essenza della metafora ci porta subito nel futuro. La stoffa di cui è fatta la metafora è la stoffa del tempo, la temporalità abita la metafora, o meglio, la metafora abita il tempo. Se ciò è vero capiamo anche ciò che un grande scienziato del nostro tempo, René Thom ha scritto: "il tempo sembra abbia una profondità ontologica superiore a quella dello spazio".
Orbene, se così stanno le cose, ci avvediamo che il principale veicolo per poter modellizzare il tempo è la metafora. Di qui ne discende la insopprimibilità della metafora nel discorso poetico. Speculare attorno alla eliminazione dellametafora dal discorso poetico, come è stato fatto negli ultimi decenni in It., è davvero indice di scarsità di risorse intellettuali.

Moltinpoesia ha detto...

Ennio Abate

NICHILISMO CHIAMA NICHILISMO?

- a Ivan Pozzoni:

1. «Per chi si scrive (oggi) poesia? Per nessuno («no-one»).
Falso. Vero è che oggi la poesia ha una circolazione ristretta, quasi amicale, comunque marginale, che tutti scrivono e pochi leggono, che il riscontro del pubblico è scarso.

2. «Perchè (oggi) si scrive in poesia? Per nessun motivo in particolare («none»)».
Falso. Vero è che i motivi per cui si continua ascriverne sono i più vari, magari minimi, di corto respiro, poco radicati nella realtà sociale, immemori della storia.
Il «nessuno» che sarebbe in agguato è una costruzione mentale, soggettiva e a priori, di Ivan Pozzoni con la quale si copre una realtà scoraggiante e magari ai suoi occhi più fastidiosa che ai miei.

3. «non c’è nessun destinatario reale».
Affermazione azzardata. Noi non sappiamo se c’è o non c’è. E facciamo poco per accertarcene. Oppure i mezzi con cui accertiamo la sua esistenza o inesistenza sono obsoleti o spuntati. Oppure il tipo di poesia che uno scrive non cerca destinatari reali.

4. «non c’è nessun oggetto reale da raccontare?».
Affermazione anch’essa azzardata. Valgono nella sostanza le stesse obiezioni del punto 3.

5. L’analogia tra la crisi della poesia contemporanea con quella della lirica greca è unilaterale e soggettiva. Cosa s’intende per «auralità pragmatica»? Cosa ha a che fare il « tecnicismo autoreferenziale dell’ellenismo» con le tecnologie d’oggi? Di mezzo tra gli antichi e noi c’è la rivoluzione industriale capitalistica, il che dovrebbe far soppesare di più e più a lungo qualsiasi analogia.

6. «Forse, siamo arrivati ad un nuovo medio-evo europeo». Forse? Accertiamolo e argomentiamolo. Se no, è solo una frase suggestiva e ad effetto.

7. Se stessimo arrivando a «un grado vicinissimo allo 0 del messaggio», vuol dire che anche ogni codice o trattato è o si sta azzerato. E allora che c’è da rompere più? Semmai ci sarebbe da ricostruire.

8. «i nostri modi espressivi non riusciranno ad essere mai niente che linguaggi de-«privati»».
Cavolo che autostima! E poi: non è vero che usiamo sempre e soltanto « linguaggi de-«privati»». Allo stato puro non ne esistono. Il linguaggio è sempre un fatto sociale, difficile da privatizzare completamente. Esistono, sì, linguaggi falsamente pubblici e falsamente privati che s’intersecano e si sovrappongono. E la separazione netta pubblico/privato è certamente un’imposizione dei dominatori (che sono anche dominatori del linguaggio) ma non è che non trova resistenze.

9. « La «meta-fora» ha spazio in momenti storici in cui si riesca ad essere condotti oltre qualche cosa». La metafora è (per me) solo una figura retorica, che può essere caricata dal letterato di un sovrappiù di senso e adottata anche in momenti storici di decadenza o sfinimento. La metafora allude al possibile, che uno può immaginare anche quando non è in condizione di costruirlo praticamente. Altre volte può alludere anche a un possibile puramente utopico e astorico (e quindi impraticabile, per chi fissa dei momenti di verifica della sua realizzazione o meno). E in tal caso può essere fuga, solo fuga.

10. «nei nuovi regni romano-barbarici del neo-capitalismo». Anche questa mi pare un’analogia forzata e non argomentata. Per dare validità all’analogia bisognerebbe aver chiaro cosa s’intende per «neo-capitalismo», termine in uso negli anni Sessanta e oggi del tutto approssimativo. (Uno studioso serio come La Grassa parla addirittura di vari capitalismi…).

11. «La crisi di ogni forma di ontologia, cagionata dalla precarietà dell’essere, è stata intuita dalle stesse punte estreme del Novecento (Heidegger e Wittgenstein)». Heidegger è troppo di moda (e forse comodo e suggestivo in questa lunghissima fase di crisi…). Le obiezioni del vecchio Lukàcs, autore della dimenticata «Ontologia dell’essere sociale», potrebbero rianimare una discussione che è sempre e solo stancamente, piattamente post-heiddegeriana.

[continua]

Moltinpoesia ha detto...

Ennio Abate (continua):

- a Giorgio Linguaglossa:

1. Se fossimo « giunti al punto che il fare poesia è diventato letteralmente impossibile», perché coerentemente non chiudere questo blog e non recensire più nessuno degli sciocchi che continuano a scriverne?

2. Se si propone di « rispolverare la categoria marxiana del'estraneazione» o di puntare a « una metafora estraniata, un linguaggio estraniato», non vuol dire che si pensa di poter continuare a fare poesia?

3. Se uno scrive «la metafora è la stoffa del tempo, la temporalità abita la metafora, o meglio, la metafora abita il tempo» non sta forse facendo ancora poesia o usando un linguaggio poetico o para-poetico?

4. Se si ha tanta fiducia ( per me unilaterale) nella metafora da parlare di « insopprimibilità della metafora nel discorso poetico», non vuol dire che si continua ad avere fiducia nella poesia ( e magari in una poesia soltanto o soprattutto metaforica? (E allora i punti 2, 3 e 4 non sono in contraddizione con il punto 1).

Conclusione. A me pare che dovremmo sorvegliare di più il nostro linguaggio.

[Fine]

Anonimo ha detto...

A Ennio:

Ottima riflessione. Emy

giorgio linguaglossa ha detto...

@ Ennio Abate,
la parola «prospettiva» indica un contenuto temporale; «aspettativa» indica un riferimento di ordine temporale; «metafora» deriva da «meta» (fuori) e «pherein» (portare), il portare fuori implica una prospettiva spazio-temporale ove collocare la «cosa». La «cosa» chiamata «metafora» vive in un ambiente le cui coordinate sono : la Prospettiva e l'Aspettativa. Prospettiva deriva da «prospicere» (guardare innanzi), termine di origine indoeuropea composto di "pro" (davanti) e "specere" (guardare9, col significato di rappresentazione unidimensionale di un oggetto tridimensionale che un osservatore ha in un certo punto di osservazione. Il termine «metafora» quindi è inestricabilmetne connesso e intrecciato con tutti quei termini che richiamano il guardare innanzi e indietro, come «progetto», «prospetto», «avanzamento», «indietreggiamento» etc. Inoltre la «metafora» non è soltanto uno strumento della retorica ma una «forma simbolica», così come il termine «prospettiva», da cui il concetto di «metafora prospettica», «metafora cinetica» da cui si deduce che la funzione della metafora è non soltanto il vedere avanti (anti vedere) e indietro (retro vedere) ma anche «attraverso» (vedere distintamente), cioé attraverso una o più materie o eventi (di qui la metafora tridimensionale di Mandel'stam), dove essi vengono presentati di «scorcio», cioè smontati e rimontati secondo la visione prospettica. La metafora è uno strumento, una categoria del linguaggio appannaggio non solo del cd. linguaggio poetico ma anche del linguaggio cd. scientifico, oltre che del linguaggio quotidiano. Addirittura ci è talmente naturale parlare per metafore che spessissimo, parlando, inventiamo delle metafore senza rendercene conto. Appunto: parlando con degli interlocutori...

leggiamo un verso di Transtromer che ricordo a memoria:

«Il suono delle campane si avviò nell'aria portato dall'ala di un aliante»

dove abbiamo un evento (io suono delle campane) che «si avvia» (termine del burocratico quotidiano ben reso dal traduttore)... ma qui interviene il verbo al participio passato: «portato» in funzione riflessiva (di contro alle flessione attiva del verbo precedente)... e qui il colpo di fulmine «dall'ala di un aliante» che traduce un evento sonoro in un evento atmosferico, in un evento dotato di peso e di spazio: l'aliante...

giorgio linguaglossa ha detto...

@ Ennio Abate

quando io scrivo: «la metafora è la stoffa del tempo, la temporalità abita la metafora, o meglio, la metafora abita il tempo», non è che sto facendo ancora poesia o sto usando un linguaggio poetico o para-poetico, come tu dici ma mi limito a prendere atto di cose ovvie che la pessima influenza dei modesti «maestri» che hanno imperversato nel secondo Novecento It. ci ha fatto dimenticare, cioè che senza far uso di metafore il linguaggio poetico sbiadisce e impallidisce finendo per assomigliare a una prosa smunta ed esangue.
Di qui il famoso assioma berardinelliano secondo cui la poesia sta esondando nella prosa.

Nel punto 4. tu mi imputi di avere troppa «fiducia (per me unilaterale) nella metafora da parlare di "insopprimibilità della metafora nel discorso poetico"»;
e io dico è vero, senza rimettere la metafora al centro del discorso poetico in It. si farà soltanto poesia di seconda mano, pseudo poesia di derivazione della prosa ritmata.

Anonimo ha detto...

Mi chiedo se non sia salutare fare un passo indietro, verso la conduzione del significato (vedi post "sulle Cinque difficoltà", Brecht), magari per sanare il linguaggio metaforico laddove si sia fatto troppo inebriante o intellettualistico. Non mi pare che la "prosa ritmata" sia un bunker inespugnabile per la metafora, in fondo la scrittura ritmata è imparentata con le scritture a schema metrico...
mayoor

Ivan Pozzoni ha detto...

@ Giorgio
Caro Giorgio,

sei sicuro che la categoria teoretica dell’estraneazione («Entfremdung»), nata in Hegel dal necessario raffronto con un’idea di polis, riconvertita da Marx in chiave economicistica (come dis-«appropriazione» tra artista e prodotto artistico), reinterpretata dalla Scuola di Francoforte come «reificazione» dell’essere, abbia ancora attualità in una società fluida, liquida, flessibile, dove alle mura della polis, ai cancelli dell’industria, ai confini dello Stato si sia sostituito il deserto, il no-where delle terre di mezzo, delle terre di nessuno? L’essenza semantica stessa del concetto di «straniero», con la sua radice «extra», presuppone un punto fisso, presuppone un muro, un cancello, un confine. Caduti mura, cancelli e confini, venendo meno la demarcazione classica tra polis e oi barbaroi il mondo si trasforma in un’enorme chora, terra di mezzo tra no-one [soggetti (di diritto civile)] e none (oggetti), una no-where dove ogni mezzo espressivo diventi chorastico (fuori dalle mura e fuori dalle montagne, cioè un “doppio fuori”, una doppia alienazione, un’alienazione alienata). La condizione di ogni metafora (trans-latio o meta-fero) è l’esistenza di confini, di mura, di cancelli, l’esistenza d’orizzonte di un meta, di un trans, di un oltre. Caduti mura, cancelli e confini, trasformato il mondo in una no-where zone senza segni di demarcazione, ogni metafora cade, trns-landosi in metonimia, ogni occasione di linguaggio metaforico cade, dando spazio ad un linguaggio metonimico, ad una continua, confusa, inafferrabile sostituzione di nomi (la tua «babele»). Il nostro destino sta nel gestire la metonimia, neutralizzando il linguaggio metonimico della chora, consci che non ci sarà ritorno alla meta-fora, essendosi dissolte le categorie spaziali del fuori/dentro (meta-alienazione) e temporali del prima/dopo (istantaneità), consci che non ci sarà ritorno alle mura della poilis, ai cancelli delle fabbriche, ai confini degli Stati. La nostra opera sarà un’opera di smantellamento («guastare») della metonimia, e del discorso metonimico senza conoscerne esiti e implicazioni. Non trovi che l’atteggiamento verso una anacronistica Rehabilitierung dei modi di espressione metaforica nasconda una sorta di nost-algia dai tratti teognidei?

Ivan Pozzoni ha detto...

@ Ennio
NICHILISMO NIHIL VOCAT

Caro Ennio

1. Non esiste un «pubblico»: esistono singoli che leggono.
2. «Corto respiro», «senza radici», «senza memoria». Insomma, un corpo morto («none»).
3. «Non c’è nessun destinatario reale»; non «non c’è nessun destinatario». I messaggi nella bottiglia presuppongono un «destinatario virtuale», cioè non un «pubblico», e un mittente, di norma, ubriaco.
4. «oggetto reale» e «oggetto virtuale». La poesia post-moderna è è un linguaggio su «oggetti virtuali».
5. L‘«auralità pragmatica» è – à la Gentili- l’orizzonte di senso di un effettivo confronto semantico tra autore e «pubblico». Caduta la condivisione di senso funzionale alla trasmissione di un messaggio, cadono senso, funzione e messaggio. La società tardo-moderna, similmente alla società tardo-antica, si è trasformata in una società orale (mass-mediatica, visiva, audio-visiva). Con «tecnicismo autoreferenziale dell’ellenismo» intendevo descrivere il medium, formale, del versificare, basato su una estremizzazione chiudente del virtuosismo, «privato» e de-«privato», elitario, cortigiano, non funzionale del linguaggio (avrei dovuto usare il termine alessandrinismo). Non trovi stretti nessi storiografici tra passaggio dall’«auralità pragmatica» della lirica arcaica (con un messaggio, con un pubblico, con un destintario reale) all’alessandrinismo, e dall’alessandrinismo al silenzio artistico dell’alto-medioevo e passaggio dal moderno I (poesia civile), al moderno II (ermetismo) al silenzio del tardo-moderno (magari assordante, come da linguaggio ossimorico dei mass-media)? Per motivare, occorre scrivere un trattato: ciò non rientra nei miei programmi futuri.
6. idem, 5
7. Se non c’è un messaggio, non è detto che non resista un codice (se, ad esempio, le sentenze dei tribunali centrali di una nazione siano sempre disattesi nell’applicazione concreta, i codici civile e penale della nazione stessa non cesserebbero di esistere). Occorre spazzare via i codici inconcreati, «rompere» i codici infruttuosi, «guastarli». Probabilmente è la stessa inconcretabilità (?!) del codice a cagionare l’inesistenza del messaggio.
8. De-«privato» nel senso di privato di un punto di riferimento stabile, non acquoso. Ogni separazione netta tra pubblico e privato si è liquefatta. Come fai a mantenere «/» nell’acqua, che tutto tende a disolvere?
9. La metafora allude al possibile in un mondo dove fuori dalle mura ci sia una strada che, attraverso una chora, no-where zone, conduca alle montagne (oi barbaroi). In un mondo dove fuori dalle mura (ove il termine fuori abbia ancora un senso), franata la solida terra, ci sia immediatamente un burrone, il salto logico della metafora si trasforma in un salto mortale.
10. Più che su «neo-capitalismo» o «neo-capitalismi» (o nebulosi neon-capitalismi) dovremmo aver chiaro cosa si intende con «regni romano-barbarici», stati minimi, o minimalisti, estremizzazioni dell’ideale nozickiano, incapaci di sostenere qualsiasi sforzo del singolo all’edificazione di un «pubblico». Possibile non ci siano nessi storiografici tra tardo-antico e tardo-moderno? La Grassa ha ragione: «neo-capitalismi» è una categoria realizzata da (neo-capitalismo + neo-capitalismo + neo-capitalismo...).
11. Ma il rifugio nel silenzio di Wittgenstein è meno di moda!

Anonimo ha detto...

Non sono d'accordo con il vitalismo negativo di Pozzoni: non abbiamo il diritto di far credere a tutte le Giulie in formazione che l'unica strada e' un'ontologia al rovescio. E' anche questa una posa individuale e pre-comunitaria, comunque una soluzione buona per qualche singolo e non per i molti di cui va in cerca Abate. C'e' ancora margine per coagulare un insieme, solo che probabilmente non sta piu' nel linguaggio, da cui il barbarismo cui fa riferimento Pozzoni. Ma la vita va comunque avanti, altre forme aggreganti e depositarie del quid epifanico comune emergeranno e stanno gia' emergendo.

Saluti. Giuseppe Cornacchia

Ivan Pozzoni ha detto...

@Giuseppe
Caro Giuseppe,
«non abbiamo il diritto di far credere a tutte le Giulie in formazione che l'unica strada è un'ontologia al rovescio», ma abbiamo il dovere intellettuale di registrare il rovesciamento – simile al rovesciamento e alla dissoluzione della terra dopo l’invasione dell’acqua durante la formazione degli acquitrini e delle paludi- dei «fondamenti» del mondo «moderno», se desideriamo che le Giulie restino in formazione e non finiscano definitivamente in panchina! Non si tratta di un’ontologia a rovescio; si tratta della normale ontologia di un mondo a rovescio, rispetto ad una ostinata interpretazione del mondo che continui ad analizzarlo con categorie sociologiche inidonee a darne una «useful philosophical explanation». Questa mia è un’interpretazione post-comunitaria, non pre-comunitaria, suffragata dall’ammissione sociologica dell’impossibilità di mantenere in vita il concetto teoretico stesso di comunità (Bauman, Sennet, etc…) che colleghi i «molti» di Ennio. Nuove forme aggreganti si stanno presentando sul proscenio del mondo, senza avere la sostanza della «comunità» tradizionale, avendo, invece, forma di «sciami» o di «comunità guardaroba», incentrate sulla sostituzione alla nozione di «legami» del binomio connessione / disconnessione. Le nostre soluzioni “rifondative”, se esistono, essendo diventata problematica la nozione stessa di problema, potremo e dovremo cercarle nell’orizzonte di questo nuovo contesto ontologico (e sociologico), con categorie nuove, con nuovi linguaggi, con nuove modalità di rapporto umano, con nuove logiche di resistenza, solo dopo aver smantellato («guastato») ogni nostra anacronistica interpretazione del mondo (categorie – linguaggi – rapporti – logiche di resistenza).

giorgio linguaglossa ha detto...

caro Ivan,
tu scrivi: «La condizione di ogni metafora (trans-latio o meta-fero) è l’esistenza di confini, di mura, di cancelli, l’esistenza d’orizzonte di un meta, di un trans, di un oltre. Caduti mura, cancelli e confini, trasformato il mondo in una no-where zone senza segni di demarcazione, ogni metafora cade, trns-landosi in metonimia, ogni occasione di linguaggio metaforico cade, dando spazio ad un linguaggio metonimico, ad una continua, confusa, inafferrabile sostituzione di nomi (la tua «babele»)».

Ma caduti i cancelli, mura, confini... il problema si ripropone tal quale: la Storia riposiziona i paletti i confini, i muri, i cancelli, solo che ciò avviene all'interno della soggettità e all'esterno, nel «mondo». La metafora vive nel linguaggio e il linguaggio nella Storia, quindi la metafora vive nella Storia, finché ci sarà Storia ci saranno gli esseri umani e la metafora continuerà a sopravvivere.

Io dico molto semplicemente che il discorso poetico continuerà a sopravvivere ma in uno stato di sonnolenza, di letargo, come quello che sta vivendo la poesia it. da "Satura" (1971) in poi. E che la poesia it. sia diventata epigonica e nipotinica deriva dal fatto che nessun poeta succeduto alla generazione dei Pasolini, Fortini, Ripellino ha saputo sterzare con decisione per un'altra strada, nessuno ha scelto un'altra Ragione poetica, nessuno ha avuto questo coraggio e questa consapevolezza che occorreva voltare le spalle al Novecento. A quel Novecento.

tu scrivi: «La società tardo-moderna... si è trasformata in una società orale». Giusto. Ma la poesia la si fa con la forma scritta. E allora? C'è chi sceglie di fare una poesia orale (che viene riposizionata sulla pagina bianca) come fai tu e tutti gli altri delle nuove generazioni... e c'è chi sceglie di fare una poesia per l'occhio dell'interiorità come fa M.R. Madonna.

Quello che vedo è che ci sono dei buoni spunti in molti autori odierni, ma non vedo nessuno con la chiara consapevolezza sul da farsi, su come scrivere. Tutti si somigliano a tutti. E questa forte rassomiglianza che c'è tra un autore e l'altro significherà pur qualcosa, no?

Anonimo ha detto...

"La poesia la si fa con la forma scritta".....
Io dico che la poesia è fuori da ogni scritto, lo scritto è la sua lapide. Emy

Moltinpoesia ha detto...

Ennio Abate:

Ringrazio Giorgio Linguaglossa per il ripasso dell’etimo di «metafora» e di «prospettiva». Tuttavia resta senza risposta l’esigenza di dare concretezza al suo discorso. Quali sono oggi le metafore prospettiche o cinetiche che possano portarci «fuori»? Il suo discorso rischia a mio parere di mantenersi alle premesse, ai princìpi, al metodo da adottare. Trovo, ad esempio, del tutto insufficiente l’esempio che dovrebbe avallare il ruolo centrale della metafora, e cioè il verso di Tranströmer: «Il suono delle campane si avviò nell'aria portato dall'ala di un aliante». Preso in sé a me non pare nemmeno eccezionale. In breve, per uscire da un «linguaggio simil-poetico ed emotivo», il «fuori» a cui si vorrebbe condurre i lettori di poesia dovrebbe essere delineato di più. Al momento a me pare che anche i più intenzionati (come lui) a porre la metafora al centro del discorso poetico questo «fuori» non siano in grado di indicarlo o di alludervi con sufficiente convinzione. In una situazione di incertezza il ricorso alla metafora rischia di apparire una ricetta con cui si tenta di curare una malattia di cui, tra l’altro, non si conoscono a fondo le cause. Oppure non si tiene conto a sufficienza dell’effetto «inebriante o intellettualistico» che una metafora per così dire “vuota” comporta, come rileva per me giustamente Mayoor.

Anche se non riesco a seguire tutte le acrobazie filosofeggianti di Ivan Pozzoni, a me pare che colga nel segno quando scrive: «la condizione di ogni metafora (trans-latio o meta-fero) è l’esistenza di confini, di mura, di cancelli, l’esistenza d’orizzonte di un meta, di un trans, di un oltre». Egli indica le odierne difficoltà di “metaforizzarci”, anche se non condivido la soluzione rassegnata a cui arriva: «Il nostro destino sta nel gestire la metonimia, neutralizzando il linguaggio metonimico della chora, consci che non ci sarà ritorno alla meta-fora, essendosi dissolte le categorie spaziali del fuori/dentro (meta-alienazione) e temporali del prima/dopo (istantaneità), consci che non ci sarà ritorno alle mura della polis, ai cancelli delle fabbriche, ai confini degli Stati».
Forse le rifondazioni sono impossibili, ma a me pare sbagliata la sua pretesa di voler continuare « un’opera di smantellamento» alla cieca. Accentua troppo il timore di cedere alla nostalgia ( non capisco bene se delle Origini o altro…). Vedo questo suo atteggiamento come semplice allineamento ( non voglio dire ‘obbedienza’) al processo distruttivo (del capitalismo “globalizzante”) che sta facendo cadere «mura, cancelli e confini». E soprattutto cieco rispetto alle nuove «mura, cancelli e confini» con cui i soggetti più potenti e avvantaggiati stanno sostituendo i vecchi. Altro che mondo trasformato in «terra di mezzo», altro che «no-where». Nella sua visione c’è una sorta di soggettiva orgia nichilista, un’ubriacatura non so di quale acqua inquinata «che tutto tende a dissolvere» e che non s’avvede di cosa avviene dietro il palcoscenico. E mi ritrovo perciò nella critica di Cornacchia al suo «vitalismo negativo».
Io, terra terra, inviterei Ivan anche a controllare le metafore che usa: «abbiamo il dovere intellettuale di registrare il rovesciamento – simile al rovesciamento e alla dissoluzione della terra dopo l’invasione dell’acqua durante la formazione degli acquitrini e delle paludi- dei «fondamenti» del mondo «moderno»».
E se non corrispondessero affatto alla realtà della trasformazione in corso? Se egli si fosse troppo innamorato delle teorie di Bauman o Sennet? E se vedesse troppo “nuovo” e troppi “nuovi” in giro?

Anonimo ha detto...

ai lettori tutti

mi sembra chiaro che nella visione critica di Linguaglossa nessuno dei poeti venuti dopo "Satura" (1971) di Montale abbia raggiunto i livelli del PRIMA DI "SATURA" (COMPRESO, OVVIAMENTE MONTALE), compresa la generazione dei Fortini, dei Pasolini, dei Ripellino, per non dire di Giudici, Sereni e minori, la poesia ital. del secondo Novecento è stata un prodotto di minore livello rispetto a quello del PRIMO NOVECENTO. Questa è la diagnosi del critico. Che è anche una sentenza di decesso.

Mi sembra che Linguaglossa ci inviti a fare un raffronto (in poesia) tra il PRIMO e il SECONDO NOVECENTO, e a trarne le dovute conseguente sul piano estetico e politico.

Mi sembra che il critico romano ci fornisca anche una chiave di lettura della poesia del secondo Novecento e ci introduce a un INTERROGATIVO FONDAMENTALE: Perché la poesia ital. del secondo Novecento è di livello molto inferiore rispetto a quella del PRIMO?
Cercare di rispondere a questa DOMANDA ritengo sia essenziale per chi sia interessato alle cose della poesia Italiana.
Poiché la questione assume una rilevanza notevole, mi piacerebbe ascoltare i pareri di chi opera (o crede di operare) all'interno delle cose della poesia.

Luciana Sanguigni

Moltinpoesia ha detto...

Ennio Abate a Luciana Sanguigni:

Su, coraggio, dica anche lei cosa ne pensa!
Non siamo a scuola, non vengono messi voti. Più siamo ad esprimerci e più può venir fuori un panorama di opinioni ampio su cui riflettere.

Ivan Pozzoni ha detto...

@ Giorgio
Caro Giorgio
Purtroppo dai dati (storiografici e sociologici) che sono in grado di raccogliere, non sono così certo che ci sarà un rapido riposizionamento dei «fondamenti»: tutto spinge a rappresentarci due esiti originali, e catastrofici (nel senso radicale di cambiamento definitivo): non riposizionamento dei «fondamenti» o riposizionamento di «fondamenti» affondanti. Siamo ancora nelle fasi iniziali della crisi, del tragitto, per comprenderne a fondo ogni reale esito: forse la mia generazione vivrà sperduta nell’occhio del ciclone (o nell’occhio del ciclope, «Nessuno»). E la famosa «storia» lineare del moderno, nata dalla laicizzazione hegeliana («spirito»), e poi positivista («progresso»), della concezione anti-circolare cristiana, reggerà all’urto della dissoluzione dei «fondamenti» (che erano anche cartelli indispensabili a delineare una salda cartografia dell’esistenza), al netto dei luoghi comuni fukuyamiani sulla c.d. «fine della storia»? O si frammenterà in una serie di istanti senza senso, sconnessi, senza strade, media matematica di evoluzioni e involuzioni? Questa nuova «storia» - carica di angoscia, ansia e depressione da impossibilità di adattamento- sta creando nell’essere umano occidentale, abituato a girare il mondo con cartine aggiornate e satellitari sempre upgradati, la necessità dell’assunzione di sempre maggiori dosi di benzodiazepine intellettuali, ha spezzato la continuità della metafora e, costringendoci a un sovradosaggio di valium, ha – come correttamente scrivi- addormentato un’intera generazione («sonnolenza» e «letargo»). Questa volta non vedo «sonnolenza» e «letargo» come un modo di ricaricare le nostre batterie intellettuali; interpreto «sonnolenza» e «letargo» come conseguenza della nostra ripetuta assunzione di valium, En, Xanax, Serenase, Tavor (poetici), come sostengo nel mio frammento Sobrietà palindroma (Xanax), uscito ultimamente sulla rivista Graphie, dovuta al sovraccarico di angoscia causatoci dalla fine del moderno.

Penso che, attualmente, nel tardo-moderno non sia ancora sostenibile una concezione soterica della scrittura, tipo la concezione sostenuta da John Fante della scrittura come rimedio alla desertificazione dell’esistenza («scrivere, scopare e scrivere»). Sull’oralità / auralità / scrittura di una cultura ci sarebbero centinaia di osservazioni da fare, non appropriate all’urgenza di un botta e risposta. «Tutti si somigliano a tutti. E questa forte rassomiglianza che c'è tra un autore e l'altro significherà pur qualcosa, no», scrivi. Sì, significa che nella crisi, nel dark side della notte, tutti i gatti diventano bigi, e non è detto che, raggiunto il giorno, non lo rimangano.

Ivan Pozzoni ha detto...

@ Ennio
Caro Ennio,
Più che mera rassegnazione, il mio è un modesto contributo alla battaglia. Come scriveva bene Giorgio Linguaglossa, in altra occasione, occorre andare «[...] con le cesoie per spezzare il filo spinato che il Novecento ha posto a difesa dei fortilizi della Tradizione e del Canone […]», e, insieme, con le stesse cesoie, sgombrare il campo dai cavalli di frisia posti a difesa del linguaggio metonimico mass-mediatico (della comunicazione di massa), sotto il fuoco incrociato delle mitragliatrici e, gatti bigi nel dark side della crisi, illuminati dal bagliore poco rassicurante dei traccianti. Chi ci dice, Giorgio, che l’esser costretti ad esser gatti bigi non sia una strategia di mimetizzazione, in un mondo in cui la morte di un poeta «guastatore» sotto il tiro nemico non abbia valore alcuno? Davanti a trincee che cambiano continuamente «posizione», ubicazione, dimensioni, davanti all’impossibilità di stanare il nemico («nomade», inafferrabile, senza volto), come fare a non «smantellare alla cieca»? La denuncia, segnalazione, analisi delle condizioni/conseguenze del tardo-moderno ti sembrano davvero «semplice allineamento (non voglio dire “obbedienza”) al processo distruttivo (del capitalismo “globalizzante”)»? Chi descrive la mostruosità del mondo, è anch’esso un «mostro», vivendo nel mondo, ma ha anche l’opzione di essere un «mostro» di grado differente, un mostro anti-«mostro» (come scrivo nella mia breve Premessa alla mia raccolta Mostri). La difficoltà è che, nell’incertezza totale di una battaglia combattuta su un campo di battaglia che continua a modificarsi più velocemente dei nostri strumenti cartografici, c’è sempre il rischio di trovarsi a smantellare le proprie trincee! Non c’è nessun cieco rispetto dei nuovi «fondamenti» fantasma: semplicemente l’urgenza di opporre nuove tattiche/strategie di guerra a nuove forme di dominanza/sfruttamento! C’è da opporre, in fretta, nuove strategie di guerrilla metrica ai vecchi sistemi di guerra di logoramento: non siamo neanche sicuri che, tagliato il filo spinato, ci siano ancora nemici nascosti nelle trincee che stiamo assaltando. L’unica cosa di cui siamo sicuri è che, da ogni parte, arrivano colpi di mortaio e raffiche di mitragliatrice.

E che dire delle teorie vetero-marxiste di Ennio Abate? E se non corrispondessero affatto alla realtà della trasformazione in corso? Se egli si fosse troppo innamorato delle teorie di Lukacs o Marcuse? E se vedesse troppo “vecchio” e troppi “vecchi” in giro? L’unica consolazione è che si sta combattendo la stessa battaglia, contro i medesimi nemici, con tattiche/strategie differenti, benchè Ennio, a volte, non dia segno di accorgersene.

Moltinpoesia ha detto...

Ennio Abate:

"Davanti a trincee che cambiano continuamente «posizione», ubicazione, dimensioni, davanti all’impossibilità di stanare il nemico («nomade», inafferrabile, senza volto), come fare a non «smantellare alla cieca»?".


Nomade, inafferrabile, senza volto il nemico?
Scherzi?
A te piace rappresentartelo così, perché metaforizzi tutto e non vuoi pronunciare nomi precisi: Obama, premio nobel per la pace, che continua a fare guerre; Netanyahu che in questi giorni sta ribombardando Gaza; Monti da noi che c'impone sacrifici dicendo che stiamo per uscire dalla crisi.
Vedi che le metafore servono anche a raccontarsi delle balle sulla realtà.
Vetero ciao, comunque.


giorgio linguaglossa ha detto...

Cari Luciana Sanguigni, Abate e Pozzoni,

innanzitutto un aspetto: che sebbene la metafora sia fatta dalla stessa stoffa della temporalità, essa non può essere rappresentata che attraverso configurazioni spaziali. Questo è un concetto profondo che ci porta all'interno dell'antinomia della metafora, cioè che essa può essere rappresentata soltanto tramite delle configurazioni spaziali. La poesia it. del secondo Novecento è così povera di metafore e di un pensiero estetico che abbia riflettuto sulle peculiarità del discorso poetico metaforico, che non mi sorprende che la poesia it. si sia andata progressivamente impoverendo dagli anni Sessanta ad oggi. Chi ha fatto poesia ha dovuto farla in assenza di un pensiero filosofico-estetico all'altezza. La poesia che si è imposta nel secondo Novecento è quella che si basa sul parametro lineare discorsivo: un binario minoritario e epigonico.

Una tradizione critica ha posto la domanda: che cos'è l'attualità? Quali sono le esperienze significative che caratterizzano l'attualità?
Una tradizione critica che ha tentato di rispondere attraverso l'analitica della «verità», una sorta di ontologia del Presente, una ontologia di noi stessi.
Ci si è trovati così di fronte a una duplicità di impostazione: o si sceglie una filosofia critica che si offre come analitica della verità, oppure si opta per una ontologia di noi stessi, una ontologia dell'attualità, della «Neuzeit», del Presente. Dove la dimensione del Futuro perde la sua carica simbolica «forte», quando la progettazione del Futuro appare all'immaginario non più come prospettiva liberatoria, bensì come fattore di coazione e interdizione dell'esperienza.
La condizione moderna si presenta sotto le spoglie di una coazione: dover guadagnare tempo attraverso la distruzione della temporalizzazione (e dei risibili sforzi delle individualità di uscirne attraverso una esasperazione della soggettività: vedi la poesia e il romanzo contemporani). C'è in corso una inflazione del tempo che si risolve in una contrazione drastica delle temporalità plurali delle esperienze concrete. Si assiste a una progressiva svalutazione depauperamento delle esperienze significative dei soggetti plurali e delle relative rappresentazioni artistiche. Siamo così entrati nel campo della «radura», della «Lichtung»...

Moltinpoesia ha detto...

Ennio Abate a Giorgio Linguaglossa:

Caro Giorgio,
in ogni commento io tendo a rispondere (direttamente o indirettamente) alle domande che l’altro mi pone e a dire se sono d’accordo o in disaccordo con questa o quella sua affermazione o col senso generale di quel che ha scritto.
Non posso pretendere che gli altri facciano lo stesso. Non importa. Però nel tuo ultimo commento ci sono dei punti che a me risultano incomprensibili e, ammettendo di essere io in difetto, ti chiedo di chiarirli:

1. Cosa significa che la metafora è «fatta dalla stessa stoffa della temporalità»?

2. Cosa significa che « essa non può essere rappresentata che attraverso configurazioni spaziali»?

3. Perché la poesia it. del secondo Novecento sarebbe «così povera di metafore e di un pensiero estetico che abbia riflettuto sulle peculiarità del discorso poetico metaforico»?

4. Cosa intendi per « parametro lineare discorsivo» che si sarebbe imposto nella poesia del secondo Novecento?

5. In cosa consistono i due termini dell’aut aut che poni con queste parole: « o si sceglie una filosofia critica che si offre come analitica della verità, oppure si opta per una ontologia di noi stessi, una ontologia dell'attualità, della «Neuzeit», del Presente»?

6. Cosa vuol dire la frase « C'è in corso una inflazione del tempo che si risolve in una contrazione drastica delle temporalità plurali delle esperienze concrete»?

Spero che tu non intenda queste mie domande come inutili provocazioni.

Ivan Pozzoni ha detto...

Credi davvero che Obama, Netanyahu e Monti siano i volti reali dei poteri occulti dei neo-capitalismi, e non meri esecutori impossibilitati a fare altrimenti (sotto la minaccia dell'attentato alle istituzioni, del crollo delle borse, dell'aumento della disoccupazione, delle delocalizzazioni aziendali, delle recessioni)? Probabilmente, i veri nemici dell'umanità, siedono, cifrati e occultati nei nomi di centinaia di società fittizie, sulle sedie (virtuali) dei consigli di amministrazione delle grandi multinazionali! Nascosti sotto migliaia di ragioni sociali, tutte da de-crittare e de-codificare, con un click del mouse (vendite/acquisti in borsa; delocalizzazioni di interi stabilimenti; ricatti agli stati nazionali sulla mobilità dei capitali e sulla flessibilità del lavoro), decidono le sorti di interi stati, facendoli crollare e risorgere sotto nuovi regimi. Questi sono i nomadi, sfuggenti, non umani, in quanto virtuali, nessuno, inclusi Obama, Netanyahu e Monti ne conoscono le reali identità, mascherate da passaggi indecodificabili tra ragioni sociali, prestanomi nei consigli, società off-shore, etc...), o, se ne conoscono alcune, hanno le mani legate, sotto ricatto dello smantellamento di ogni istituzione statale. Possiamo rimproverare ai politici del tardo-moderno l'impotenza e l'incapacità, non di essere i mandanti della distruzione di interi stati e dello smantellamento di interi stati sociali: nel tardo-moderno il politico perde di senso; la direzione del mondo tocca ai grandi capitali occulti.

Moltinpoesia ha detto...

Ennio Abate:

Sono d'accordo con te che Obama, Netanyahu e Monti sono solo la punta dell'iceberg dei "grandi capitali occulti" ma essi sono della stessa stoffa ( o ghiaccio...). Sono dei simboli di forze che ad essi si collegano e che li condizionano ma sono anche condizionate. Ma non sono impotenti o incapaci. Gestiscono assieme agli occulti ( o a una parte degli occulti)delle strategie politiche contro altre forze. Fanno parte del loro gioco, non del nostro ( che al momento non c'è, mi pare, perché nessuno ci rappresenta o ci chiede di muoverci tenendo davvero conto di come stanno le cose).

Anonimo ha detto...

"La nostalgia della narrazione perduta è anch'essa perduta per la maggior parte della gente. Ciò non significa che in alcun modo che essa sia votata alla barbarie. Ne è tenuta lontana dal fatto che sa che la legittimazione può avvenire esclusivamente attraverso la pratica linguistica e la interazione comunicativa. Contro ogni altra illusione, la scienza "che sorride sotto i baffi" gli ha insegnato la rude sobrietà del realismo." Dice Lyotard... così, per mettere una nota positiva tra lo scoramento.
mayoor

Anonimo ha detto...

Ennio Abate,
credo che il silenzio degli addetti ai lavori sulle provocazioni di Linguaglossa sia eloquente. Cosa dire? Penso anch'io che il PRIMO NOVECENTO abbia visto una straordinaria fioritura di poesia rispetto alla povertà del SECONDO NOVECENTO.
Credo che questo sia il punto dal quale far ripartire una riflessione critica sulla poesia di OGGI. Fare poesia OGGI è più difficile di IERI perché la situazione del tempo attuale è diventata sfavorevole alla poesia. Leggo che il 21 novembre a Roma si terrà una giornata di riflessione sulla poesia di Vito Riviello considerato da Giulio Ferroni "uno dei poeti più significativi del secondo Novecento". Sì, commento io, è uno dei più significativi rappresentanti della povertà della poesia italiana del secondo Novecento.

Dunque, per riepilogare, da un lato ci sono le Istituzioni che debbono legiferare il proprio status e legittimare se stessi, dall'altro c'è la mancanza di una critica militante, non c'è più alcun filtro: in queste condizioni tutto è assurgibile a poesia, qualsiasi manufatto linguistico in forma di a-capo. È l'Istituzione che benedice chi e che cosa è poesia.

Ad un autore di oggi che voglia fare poesia io mi sento di consigliargli di leggere attentamente i poeti del primo trentennio del Novecento. Leggerli e studiarli. E ripartire da lì. Di saltare completamente la poesia italiana di dopo "Satura" (1971) con l'eccezione di Fortini, Ripellino, Madonna, Maffìa e Linguaglossa.

Fare poesia oggi significa sempre fare i conti con il Presente (e con il Passato), ma certo non possiamo capire il Presente se leggiamo la poesia di Riviello o di Milo De Angelis. O meglio, i poeti di minore spessore piegano il Presente alle loro esigenze, fanno credere che il Loro Presente sia il "vero" Presente. Ma si tratta di un auto inganno.
lUCIANA SANGUIGNI

giorgio linguaglossa ha detto...

caro Ennio Abate,

per rispondere a tutte le tue domande dovrei scrivere un trattato sul concetto «spaziale» della metafora. Però, per risponderti in qualche modo, trascrivo qui un pezzo della prefazione che introdurrà l'edizione di «Tutte le poesie (1985-2002)» di M.R. Madonna:

«Il discorso poetico di Madonna è una avventura nel mare dell'oggettità, nel mare dell'oggetto, dentro l'imbuto dello spazio-tempo della metafora. Se andiamo a indagare la struttura fraseologica e iconologica della poesia di Stige ci accorgeremo che il tempo non è mai lineare ma curvo, ed è la curvatura dello spazio-tempo di cui sono fatte le metafore che determina lo svolgimento delle composizioni; avviene così che il centro di gravità delle composizioni si sposta di continuo da una fraseologia all’altra anche nell’ambito di una stessa poesia. È uno spazio-tempo ellittico, eccentrico, tangenziale. La materia verbale è la stessa cosa della materia metaforica e iconica. Se nella poesia che va dal 1985 al 1992 si nota che la metafora prevalente è quella che scaturisce dalla temporalità e dall’iperbole, negli anni successivi, e in particolare in quelli che precedono la morte della poetessa, si può notare la prevalenza di immagini e metafore legate alla spazialità, all’hic et nunc. Il «reale», quel reale cui anelava lo sperimentalismo privato del tardo Novecento, nella poesia di Madonna assume la formalizzazione in immagini che si estendono nello spazio-tempo. Il «concreto» è l’immagine. La storia della lingua è la storia delle sue metafore. Qui non è in causa un «soggetto» trascendentale ma una «frattura» che espone il «soggetto» a una disseminazione di tracce linguistiche, iconiche e metaforiche. La «neolingua» di Madonna pone il «soggetto» in questione, lo sposta, lo mette tra parentesi, lo mette in scena, lo problematizza attraverso il suo particolarissimo logos. Di qui la necessità di abbandonare, dopo Stige (1992), quella «neolingua» che rischierebbe, alla distanza, di isterilire il discorso poetico in una, seppur brillantissima, forma di retorizzazione; di qui la de-stilizzazione del suo linguaggio poetico che d’ora in poi si appoggerà alle strutture regolative del logos; il linguaggio poetico parlerà (attraverso l’impiego calibratissimo della sintassi e delle immagini) tramite la «reificazione» (una sorta di lingua in stato di rigor mortis) delle proprie esperienze spirituali in quanto il miglior modo per parlare del «soggetto» traslato. L’idea guida costante anche nelle poesie che seguiranno alla crisi di Stige, è la certezza dell’impossibilità di un linguaggio referenziale, la contezza che il locutore ha cessato di essere il fondatore e il fonatore, che il processo della significazione non è separabile da quello della reificazione dei linguaggi e si costruisce sopra le fondamenta della metafora e della retorizzazione del «soggetto», il quale si scopre (si rivela) quale luogo retorico del linguaggio, chiusura del linguaggio, impossibilità di porre il domandare se non attraverso l’interrogazione sulle metafore, sui traslati, in una parola, sul linguaggio. Ma anche nelle poesie del dopo Stige vige una interrogazione le cui leggi finiranno con l’autonomizzarsi in immagini e in catene di immagini che si sostengono le une sulle altre in un ordine architetturale muto, claustrale, in una «lingua morta» è stato detto. Ma è appunto la strategia con cui Madonna risponde alla crisi della poesia del tardo Novecento. Volta le spalle al Novecento, prende congedo dalla poesia del disincanto e dello scetticismo del dopo Satura (1971) che ha contaminato la poesia italiana, sceglie di andare per la strada maestra tracciata dalla poesia modernista europea, abbandona il Modello proposizionale della Ragione poetica del tardo Novecento e opta per una poesia dell’Interrogazione, una Ragione poetica fondata sul traslato e sulla retorizzazione del «parlato» e del «quotidiano» nell’ambito del discorso metaforico. E questa è la sua personalissima chiave per aprire il discorso poetico alle istanze del «futuro».

Moltinpoesia ha detto...


Ennio Abate:

- a Luciana Sanguigni:

1. «Penso anch'io che il PRIMO NOVECENTO abbia visto una straordinaria fioritura di poesia rispetto alla povertà del SECONDO NOVECENTO».
Lo pensi pure, ma per convincere altri deve portare delle prove, degli esempi.

2. « Fare poesia OGGI è più difficile di IERI perché la situazione del tempo attuale è diventata sfavorevole alla poesia».
Idem.

3. « Fare poesia OGGI è più difficile di IERI perché la situazione del tempo attuale è diventata sfavorevole alla poesia».
Idem.

4. «da un lato ci sono le Istituzioni che debbono legiferare il proprio status e legittimare se stessi, dall'altro c'è la mancanza di una critica militante, non c'è più alcun filtro».
Idem.

E potrei continuare. Non voglio provocare inutilmente, ma per me non ha senso fare delle affermazioni del tutto controcorrente e poi non portare le pezze d’appoggio necessarie. Anzi, mettendosi lei nella posizione del ragazzino che, mentre tutti applaudivano il Re di passaggio, gridò: "il Re è nudo!", deve dimostralo con più pezze d’appoggio del necessario.


- a Giorgio Linguaglossa:

caro Giorgio, non me ne volere: mi toccherà aspettare che tu trovi il tempo per scrivere questo trattato. Mi trovo nella condizione del profano che, avendo chiesto spiegazioni su un responso per lui oscuro, se ne vede recapitare uno altrettanto oscuro, sul quale dovrebbe richiedere altre spiegazioni. Con tutta la stima e simpatia ci rinuncia e aspetta il trattato.

giorgio linguaglossa ha detto...

Caro Ennio Abate,
il «trattato» sul concetto «spaziale della metafora» probabilmente non lo scriverò mai. E la ragione è semplice. Perché dovrei scriverlo? E per chi? C'è un pubblico attento alle cose de quibus? Io non vedo nessuno interessato a problematiche senz'altro molto difficili da recepire, anzi, vedo un silenzio ovattato e diffuso come una nebbia gelata, noto un gesuitismo generalizio e cardinalizio... in queste condizioni meglio attenersi a qualche scritto occasionale, a qualche appunto estemporaneo, qui e là, scritto con la mano sinistra, senza crederci più di tanto, senza impegno, senza scommetterci molto.
Lo ripeto, non sono più tempi in cui c'era un Fortini o un Pasolini o un Calvino o un Moravia o un Ripellino, non ci sono interlocutori interessati a problematiche così complesse, ma non lo dico per arroganza elitaria o per scetticismo olimpico... inoltre nello spazio di un blog non ci puoi mettere dei contenuti esondanti, ci puoi mettere soltanto delle pillole, ed io mi accontento di pillole, poche ma buone. Oggi vanno di moda «una serie di linguaggi simil-poetici ed emotivi» il cui valore letterario è ZERO. Questo lo vorrei dire a scanso di equivoci con la maxima chiarezza, altrimenti si rischia di moltiplicare gli equivoci. Su questi pseudo linguaggi poetici non ho veramente nulla da dire tranne la noia. L'ha già detto Luciana Sanguigni: oggi scrivere poesia è diventato più difficile di ieri, e la ragione è chiara: perché c'è in atto un decadimento dell'approfondimento filosofico e intellettuale sulle tecniche, sulle procedure della scrittura poetica, e non solo; ci sono «uomini di fede» che scrivono «poesia», ci sono «sacerdotesse» che scrivono «poesia», officiano una loro «liturgia», parlano un «linguaggio» di adepti, di affiliati alla carboneria. Ma a chi può interessare un tale ridicolo linguaggio di iniziati e di indiziati al Paradiso delle sciocchezze?

Moltinpoesia ha detto...


Ennio Abate a Linguaglossa:

Caro Giorgio,
molti hanno scritto trattati o opere anche quando non esisteva un pubblico attento alle cose de quibus. Gramsci scrisse cose decisive in una prigione, tanto per dire. Uno scrive e magari il pubblico viene dopo o se lo costruisce proprio perché ha scritto in modo da volere un certo pubblico.
E poi, anche se uno si attenesse «a qualche scritto occasionale, a qualche appunto estemporaneo, qui e là, scritto con la mano sinistra, senza crederci più di tanto, senza impegno, senza scommetterci molto», si porrebbe il problema «per chi?».
Inaccettabile mi pare l'opinione diffusa che la forma-blog debba essere usata soltanto come la usano in molti: per la distribuzione di pillole, di commentini, di salamelecchi. No, oggettivamente il blog offre anche uno spazio amplissimo e gratuito per discorsi seri, magari a puntate o comunque ben meditati.
Nessuno obbliga ( e tanto meno la forma del blog) a distribuire o a ingoiare pillole per iniziati o altre sciocchezze. E se la tendenza fosse questa ( e in buona parte lo è), va contrastata. Non ci si deve adeguare.
È «in atto un decadimento dell'approfondimento filosofico e intellettuale sulle tecniche, sulle procedure della scrittura poetica, e non solo»? Ebbene, contrastiamolo più che possiamo intervenendo anche sui blog come fossimo in un seminario di persone appassionate alla ricerca e alla discussione dei problemi piccoli e grandi o grandissimi. Nessuno ci corre dietro. Un commento può essere scritto e riscritto prima di pubblicarlo.
Uno stile si può man mano imporre se ci si convince della sua bontà. Gutta cavat lapidem…

Giovanni Grasso ha detto...

Il Secondo Novecento italiano, a mio parere, ha delle cose di enorme valore. Mario Luzi, innanzitutto, con le sue inquietudini terrene e celesti; la litania ipnotica e stregata di Giorgio Caproni, Vittorio Sereni e le grandi architetture della sua morte e della nostra, Milo De Angelis con quelle somiglianze sconvolgenti. Per non parlare delle donne. Il Secondo Novecento ci ha dato le due maggiori poetesse del secolo: Amelia Rosselli e Antonella Anedda!

Giovanni Grasso

Anonimo ha detto...

La metafora nella poesia di Tranströmer è senz'altro un grandissimo esempio, ma la ricerca o l'invenzione linguistica non può basarsi solo sulla metafora, o principalmente su di essa. L'autore che cercasse mosse inattese, di spiazzamento, si troverà sempre solitario nel crocevia di una nebulosa di linguaggi in rapida trasformazione dove conteranno anche la significazione, la recitazione, l'esteriorizzazione, la performatività, il battito metrico, l'immaginazione… avrà piena libertà di muoversi nei giochi linguistici, senza escludere aspetti della paralogia e dei modi di dire. In tutti i casi anche la pluralità dei sistemi formali serve al poeta, non già come si dà ad intendere per produrre il noto, bensì l'ignoto. Che poi ci riesca o meno, questo non lo garantisce nemmeno l'uso della metafora. Tuttavia tra queste componenti la metafora svolge un ruolo decisivo per il fatto che ricrea la realtà con espressioni e concetti narrativi tali da metterla quasi in astratto. Ne deriva un miglioramento dell'espressività, ma se usata sistematicamente non produce somme rafforzative, il linguaggio non diventa esplosivo, diventa semplicemente altro-linguaggio, ponendosi così in netto contrasto con quanto avviene nell'oggi dei linguaggi brevi, traducibili e comprensibili (e questa non è caratteristica solo dei blog).
La pluralità dei sistemi formali non viene adottata puntano alla formazione di nuove élite.
mayoor

Anonimo ha detto...

Giorgio Linguaglossa ha espresso la sua analisi in Letteratura. Ovvio che vi saranno voci fuori dal coro. Oggi al declino di molti "ismi" la poesia si presenta nuda, sprovvista di quella che era un tempo la traducibile forma del verso. Oggi la versificazione, lo stile, il linguaggio sono cambiati. Vi sono bravi poeti in circolazione, (anche se pochi) per me sono validi alcuni, altri li mettono sugli altari le case editrici dove hanno pubblicato per amicizie e conventicole. La poesia di questi insulsi verrà cancellata e farà giustizia da sè, la lezione magistrale di pochi esemplari basterà alla Storia. Tra essi Maffìa, Conte, De Signoribus, Del Serra, Di Stefano Busà, Fontanella e pochi altri.