lunedì 19 novembre 2012

Pietro Peli
Cinque poesie


INTERROGATORIO

A domanda risponde:
se l’odio è di tenebra sono vestito
di raso fino, da dove niente
scivola senza un segno.

Sono venuto a rubare per fame
un pezzo di corpo alle due luci
della fine della notte. L’ho visto
quel morto, non sono fuggito.
Un budello di strade: avevo sonno
ho fatto lo stesso sogno
dei miei padroni…
A domanda risponde: riconosco

e non ho dubbio alcuno a riferire
che io ero vicino al misfatto.
C’era un uomo come tanti
uno che non da nell’occhio.

A domanda risponde: nella lamiera
del treno crepato dalla bomba
c’era lo stesso odore di quando
nella banca si schiusero le porte

in milioni di schegge di uomo
e di vetro e di cemento.
Ora sono nei libri e non ci sono,
nei libri di storia, oggetti scarni.

Eppure nell’alba d’autunno
sembrava uscisse un desiderio.
A domanda risponde: ora che questo corpo
si fa sulla terra pesante

ora le luci che mi abbagliano
sono cadaveri pulsanti di stelle
vedo chiaro, signori interroganti,
quale sia la febbre che mi sento.

Non è triste la notte che fuori
fa di vapore un vetro di caserma
più cupa quella che addensa
di nero inchiostro una città.

Il verbalizzante intima severamente
all’interrogato di attenersi al punto.
Non c’è altra scusa, signori, che possa
concedervi altra voce che quella

che attiene alle coscienze di tutti.
A loro sole, occorre credere.
Per tutti gli occhi piegati
verso il basso che imponeste

che oggi hanno languore di brace
che non si arrende per il freddo,
voi un giorno dovrete dire
la vostra colpevolezza.

A tale nuova intemperanza
l’interrogante dispone l’
immediata ritrattazione
di quanto verbalizzato.

[…]

Voi non lo sapete ma io ho sentito
le parole strappate dai denti
dalle bocche di acqua e di sale,
dalle mani legate alle casse.

Una scarica dai genitali al cranio
all’urlo forsennato: voi avete visto
voi l’avete fatto. Un avallo vale
quanto la stessa colpevolezza.

Per noi solo un pianto rabbioso
un rompersi delle nocche
sulla porta che avete chiusa
e inchiavardata. La protervia

del potere ho visto spiegata
sul corpo e voi con il vestito
del rispetto e del sorriso falso
siete passati oltre. Ma vedete,

signori dalla faccia di cera,
io imprimo su questo corpo
il fatto della mia sconfitta:
a voi lascio l’opinione d’aver vinto.

A domanda risponde: Null’altro
avendo da aggiungere, posso lasciare
la parola mia di legna secca
al fuoco di notti da pensare.

Una firma incerta e calcata
Chiusura verbale: notte fonda.

BRIGATISTA

La notte non
finiva
ancora a lei
non mi arrendevo
ma le manette
d’un tratto
dietro la schiena
la testa verso il basso
la pioggia
sul collo.

Non la preghiera
del penitente
ma la sfilata
del rassegnato.

Matricola
Ispezione
Impronte
Spinte calci e sputi
Rabbia e confusione
Io non mi arrendo
«Prigioniero Politico»

E ora vago da solo
nell’ora d’aria
aprile 1982
sconvolto
ancora le parole
non riusciranno
a ingannare
quella barriera:
mi riempio di vergogna.
Le lacrime ancora
un uragano feroce
anche se non ti piace.

Ti risento mentre dici
le parole che ti regalavo:
«Sei bella
solo se ridici
che non sei poesia per le folle
che sei miele sulla bocca
del mio mitra…»

Ma è in fiamme
la mia fede
e tu non sei qui
a stringermi come sai
anche se
non sono più nulla.

In cenere si raggruma
la centesima sigaretta
che resiste
alla suola della mia scarpa.

Nascondo la mia faccia
al sole livido
che prova ad affacciarsi
sul cortile:
non sono solo stanco…

Dietro
a un muro trasparente
posso solo toccare
la punta un po’ più ròsa
delle tue dita.

«Lasciami qui
lasciami ora
non voglio vederti piangere
tra il vetro che ci separa»

Ti voltasti
forse per sempre
di nuovo alle sbarre
a passare i giorni
che non volli rimangiare
a ritornare sui pensieri
che non potevo
accartocciare.

E ora piove
le grate scorticate
una goccia alla volta
e io di qua…



VIA DELL’IDROSCALO

Più mare sembra il mare
la rotonda biancastra di Ostia.
Le vele nel fumo
cercano tutte una lingua di sabbia
dove arenarsi.
Le navi
laggiù,
l’Idroscalo…

Stropicciando le maniche
sugli occhiali
lustri di sudore
ho visto meglio
le facce da gitanti
di normali uomini
dei bagnanti.
La musica ispida
dai bagnasciuga
è meno brutta
del cemento
dove va a incrostarsi
con la brezza.

Non c’era prima niente…
Solo pugni
troppo caldi
da stringere.

Sono venuto a salutarti, Pier Pà...
Era caldo,
laggiù in fondo
in una periferia di periferia.
E non eri corpo morto:
non parlavi,
non eri solo...

Via dell'Idroscalo, Ostia 23 agosto 2012

PER UN IMPOSSIBILE

Per un impossibile
disperato Padre
non ci sono più figli.
Sei venuto nell’anno
che aveva la tinta di nero
di fumo e cordite
quel fumo orribile e dolce
della carta che brucia
che hai risentito
anche tra il fango
che ha visto
trafiggerti gli occhi.
Sei lì
con gli anni tuoi
persi una notte di novembre
ma tu c’eri.
Hai gridato
forte e disperato
la tua rovina
che è anche nostra,
poi un eco di piombo,
poi il silenzio
di quando sprofonda
un corpo abbandonato
nei margini
della periferia
d’un impero decaduto.
Hai ora novanta inverni
sulle spalle
(trentasette lasciati alla terra)
sei più presente
di noi
al mondo che ci è
toccato in sorte.
L’odio è forte,
quello che si deve sentire
per riuscire ad amare
la nostra miseria.
Cosa vedono ora
i tuoi occhi vivi e tristi
di qua di quella pietra
sul tuo viso magro stesa?
Sai sentire dalle valli di Friuli
i giovani che tu cantavi?
Non credere che tu ci manchi,
impossibile inadatto padre:
sarà dolore riconciliarsi
con le tue parole di rame,
ma pochi dolori
hanno potere (tu lo sai)
di rigenerare una nazione
schiava di se stessa.
Da vecchio
non ti avrebbe visto nessuno:
meglio andarsene allora
anche se novanta anni
sono ancora buoni
per due calci al pallone
tra gli ondulati di eternit
e le casupole scalcinate
il tuo covo di passione
fanciullesca eppure matura.
Non poterti conoscere
è un privilegio di un tempo
che si strugge nella rena
di un mare di inverno
che sta per finire:
ma ci sei lo stesso
e non riesci ad andare via.
Un altro pallone
un altro sorriso
che s’incunea
in quelle labbra dure
stretto in quel trench
un vezzo borghese
per chi ti guarda dal popolo.
Tu non sei
come l’ombra sfuggente
perché la tua bestemmia
sa risuonare ancora
perché sai far piangere
di rabbia autentica

UN UOMO IN MARE

Il mare che aspetta
i raggi che ultimi
andranno a sfasciarsi
sulla coltre di velluto
e qualcuno rimane
col sangue che bolle
raggrumato in cuori
a forma d’imbuto.

Sono io
che forse mi confondo
con il senso
della realtà
e il sentore pacifico
ineguale
che ho del mondo;
non ho capito
dal cadente fischio
delle orecchie con l’acqua
che accade
mentre agito le braccia.

Se l’acqua che ti gratta
le tempie
il mare forse ha lame perverse.
Prova ad ascoltarlo
quando con il fardello
di un’alba inquieta
che ti tende le mani
vorrai in lui
cercare una scia
una sola
di sonno.

Ci ripenseremo
quando inquieti ed innocenti
torneremo tra le mani di un padre
per cercare di scappargli
di liberarsi per nuotare.

Più netto e profondo
coglierai
nel silenzio
di chi sta solo
l’amaro del sale
che è il mondo.





4 commenti:

Anonimo ha detto...

Strappare parole all'animo per far esplodere la più grande delle ragionevolezze quella dei ricordi che non devono morire. Uno stile che sembra spari diritto al bersaglio. Complimenti. Emy

Anonimo ha detto...

la parola mia di legna secca
... cuori / a forma d’imbuto.
che siano note di surrealismo oppure no, poco importa. Importa che sono segnali di poesia. Per il resto, leggendo mi trovo nello stesso imbarazzo che prova chiunque sia stato recluso almeno una volta nella vita: non è una esperienza condivisibile, la si racconta, la si può immaginare, ma non appartiene all'esperienza di chi sta fuori. Per i più son metafore sull'illibertà percepite in condizione di forza, non di debolezza. Ed è ben altro. Il verso brevissimo aiuta a sostenere il linguaggio prosastico evitando di consegnare i versi all'oblio, ma non lo sostituisce.
Complimenti.
mayoor

Anonimo ha detto...

Gentile Mayoor, forse nel tentare di parlare di qualcosa di rimosso e di antistereotipico come un Brigatista (che ho immaginato vicino al Partito Guerriglia di Giovanni Senzani), sono forse inciampato o caduto con tutte e due le scarpe nello stereotipo opposto della visione del mondo carcerario da parte di chi l'ha studiato e letto solamente. Teoria (o teorema) senza vita, insomma. Forse lì sta il tratto di immaturità poetica che io stesso avverto in quel testo. Grazie degli apprezzamenti.

Pietro Peli

Anonimo ha detto...

no no, lei ha descritto molto bene il luogo carcerario. Qualcosa ne so, solo credo sia mission impossible da trasporre in letteratura, è una di quelle esperienze che mettono in evidenza il rapporto verità-finzione che è insito nella scrittura. Credo valga per tutti gli autori che in carcere ci sono stati, e non sono stati pochi. Non sono esperienze condivise, sono narrate. Ed è sicuramente meglio così. Non è questione di immaturità, anzi le ho fatto anche i miei complimenti. Sinceramente.
mayoor