mercoledì 12 dicembre 2012

Ennio Abate
Rileggendo "I poeti del Novecento" (2)
Fortini su Gian Pietro Lucini




Fortini dedica  non più di due sbrigative paginette a Gian Pietro Lucini (Milano 1867 - Breglia 1914). Visto che la sua antologia è del 1977, la scelta segnala subito, strisciante, una presa di posizione polemica. Il bersaglio è Edoardo Sanguineti, che nella propria antologia, «La poesia italiana del Novecento» (1969), aveva riscoperto con entusiasmo e l'aveva presentato addirittura come «il primo dei moderni». 

Per Fortini  questo recupero di Lucini come «misconosciuto precursore delle “nuove avanguardie”» non è giustificato. In lui prevalgono le riserve. A Lucini riconosce  una  certa conoscenza di alcune letterature europee, trova le sue posizioni politiche anarchiche (antimonarchiche, antimilitariste) «una singolare eccezione nel panorama letterario di quegli anni», ma giudica fragile e «non di rado dilettantesca» la sua cultura. Vede poi nelle sue prime raccolte di poesia troppo D’Annunzio. E lo giudica in fondo un confuso e tardivo erede della Scapigliatura. Soprattutto per le sue scelte linguistiche (rifiuto della purezza, «mescolanza di eloquio alto e basso»), che proverebbero «una mancanza di sensibilità per il linguaggio che lo portava ad accumulare effetti estrinseci e impennate polemiche». Parla, insomma, di un suo «sostanziale  fallimento». Lucini resta per Fortini un ideologo dell’età giolittiana, che conferma «la condizione subalterna di tutta una cultura che faceva allora riferimento a una “sinistra” politica, anarchica e socialista»[i].

Il giudizio negativo di Fortini è affine a quello di Mengaldo, che da parte sua  esclude Lucini dalla propria antologia «Poeti italiani del Novecento» (1978), critica ancora più apertamente Sanguineti  per   quella «indebita sopravvalutazione - specialmente, ahimè, da sinistra» di Lucini e, in quanto ai risultati poetici di Lucini, fa suo il «giudizio nudo e crudo» di Arbasino:«Lucini non ha mai scritto un bel verso, neanche per sbaglio».[ii]
Questa stroncatura di Fortini (e Mengaldo) non mi convince. La valutazione di Lucini mi pare un problema da non chiudere così sbrigativamente. E in più sento di dover fare i conti con una certa simpatia che ho provato per Lucini.
Sono andato, perciò,  a documentarmi su varie prese di posizione (quella di Sanguineti stesso, di Luperini, di Ferroni) sia per capire meglio le ragioni della controversia, sia per farmi una idea più precisa.
A rileggere quanto scrive Sanguineti su Lucini mi viene da concordare su vari punti. Come non provare simpatia e una certa affinità per «lo spirito buono del contestatore, nell’accezione oggi vulgata, cioè del rivoltoso, che non è ancora detto che sia un rivoluzionario davvero»? (Sanguineti ne parlava così nel 1969. E allora eravamo anche noi contestatori).  O per il suo antidannunzianesimo? Il Vate era di moda a quei tempi  e assecondava - con le condivisibili  parole di Sanguineti - «il trapasso della borghesia grettamente conservatrice in politica interna, a quella ferocemente imperialistica nel concerto europeo»[iii]. E per quella scelta che Lucini fece di sfilarsi  presto dal movimento futurista di Marinetti sia per ragioni politiche (il suo antimilitarismo lo portava a condannare la guerra coloniale in Libia del 1911 che i futuristi esaltavano) che letterarie (teorizzava il verso libero ma non le «parole in libertà»; e voleva «sorpassare le consuetudini» ma per rifarsi alle «antiche maniere»). E poi  del verso libero, di cui Lucini fu il primo consapevole teorico (ecco una sua definizione: «il verso libero deve ondeggiare seguendo tutte le emozioni del poeta, apportandovi quella diversità di ritmo e di armonia le quali meglio convengono ai diversi concetti che manifesta»[iv]),  si sono nutriti  non solo i futuristi, ma tutti quelli venuti dopo. (Me compreso; e  ricordo la sorpresa e l’incoraggiamento che io pure ne trassi, studente di liceo alla fine degli anni Cinquanta, per le mie prime prove poetiche).
Perciò, pur sapendo che Fortini ha sempre tenuto a distinguersi con nettezza dalle posizioni anarchiche, penso che il suo giudizio negativo vada rivisto, anche se la revisione non può portare  a sposare del tutto la tesi di Sanguineti, che risentono parecchio del clima degli anni Sessanta e del ruolo di  protagonista della «neoavanguardia» di quegli anni del poeta genovese.
E mi accorgo che questa correzione di tiro l’ha già fatta Romano Luperini nel suo «Il Novecento» (1981). Riassumo qui la sua posizione molto più equilibrata, anche se sul piano letterario finisce per concordare con Fortini. 
Luperini riconosce, infatti, a Lucini «il merito di una prima netta rottura con l’Ottocento»,  anche se resta «un uomo del suo tempo». Resta cioè «un repubblicano e un anarchico ottocentesco […] un seguace di Sterne e di Blanqui e del Carducci cantore di Satana più che di Nietzsche (da lui pure letto e apprezzato). Lucini è legato ai valori risorgimentali. E «ancora si nutre di illusioni circa la funzione (anche ideologica) della letteratura e di una fiducia nell’impatto sociale morale e civile della poesia»[v]. E' incerto fra la figura del poeta-vate (democratico però) e la messa in discussione di quella tradizione romantico- risorgimentale. L’arte per lui è ancora «un valore supremo e aristocratico, l’attività più alta dell’uomo», «costituzionalmente rivoluzionaria»,  anche se poco a poco anche in lui «si fa strada la concezione di un poeta non più vate e profeta» ma di «un poeta-antieroe, maschera e clown» ( e il pensiero va a Palazzeschi) capace soprattutto di provocare e dissacrare con ironia.
La sua modernità per Luperini sta nell’aver intuito, in polemica con D’Annunzio, «lo stretto nesso che unisce l’ordine letterario e l’ordine politico: la rottura dell’istituzione letteraria non può essere per lui che un aspetto di un più complessivo comportamento antiistuzionale»[vi]. E, dunque,  la sua «poesia di rottura sul piano formale non può che essere una poesia antiborghese».  In conclusione non è «il primo dei moderni», come sostiene Sanguineti, e non bisogna  eccessivamente valorizzarlo «in chiave attualizzante». Anche perché, e qui è il punto in cui Luperini concorda con Fortini, «le decisive novità sul piano teorico (la diffusione di una poetica simbolista, la propaganda e la difesa del verso libero, l’atteggiamento antiborghese  d’avanguardia e di rottura) non trovano adeguato sviluppo nella produzione in prosa e in versi»[vii].

Concorda con Luperini anche Giulio Ferroni: Lucini è uno scrittore «estraneo a tutti gli orientamenti dominanti della cultura d’inizio secolo, spirito ribelle e intollerante, esuberante e disordinato sperimentatore, diviso tra tradizione e anticipazioni del futuro»; la  sua scrittura è «insoddisfacente, come sopraffatta dal volontarismo, da un eccesso di ambizioni, da uno scarso controllo linguistico e stilistico»[viii].

A rileggere oggi i versi di Lucini e i giudizi dei vari critici (entusiasta quello di Sanguineti, pieni di riserve non trascurabili quelli degli altri), a me pare di poter dire che, sì, in Lucini si ripropose un equivoco (ricorrente): far irrompere in poesia una rabbia e una materia sociopolitica così come immediatamente li si presentava  nel cuore e davanti agli occhi. Ma fu del tutto vano il suo tentativo? Certo, Il suo «egotismo anarchico» (Sanguineti) è senza mediazione, è opposizione pura. Egli  prende «le sue distanze da tutto e da tutti, nel mondo che lo circonda» e non esita a «distinguere chiaramente la propria utopia dal socialismo all’italiana di quegli anni». E inevitabilmente ne consegue  che «chi si sforza di fare opposizione è precipitosamente travolto. […]Individualista anarcoide, conosce fino in fondo l’ostilità degli uomini e dei tempi, e anche, degli uomini e dei tempi, l’estrema viltà, e un po’ per sacrosanto sdegno, un po’ per inguaribile vezzo, si ostenta clandestino. L’epoca lo prende in parola, e si affretta a inchiodarlo alla sua parte, da vivo e da morto» (Sanguineti). 
Eppure, perché  la sua ribellione è rimasta alle porte o sulla soglia della poesia (e della rivoluzione)? Non certo solo per limiti suoi, che, come sostiene pure Sanguineti, pare che li conoscano tutti. Ci fu contro di lui anche un rigetto tutto politico dei letterati allora egemoni, dannunziani e poi futuristi. E' scontato  che quel rovello di un nostro antenato ribelle e isolato debba  essere  accolto solo da ribelli a lui postumi? (Come accadde, ma per breve tempo, al  Sanguineti “rivoltoso” degli anni Sessanta, finito  poi quieto intellettuale  consigliere del Principe PCI). A me pare che  il caso Lucini (ma in altri modi anche  quello di Campana di cui parlerò in seguito) non sia del tutto chiuso. Anche oggi che di ribelli proprio non se ne vede l'ombra. Il caso ripropone per me il problema irrisolto del rapporto politica/poesia; e quello delle difficoltà di fare poesia da “esterni” alla  Istituzione-poesia. Con un po’ di azzardo potrei dire che Lucini si trovò allora  in una condizione simile a quella odierna dei moltinpoesiaLo scontro con i  letterati di potere di allora (i Baricco di oggi, tanto per stabilire un’analogia) ci fu e forte.  Accettare una liquidazione di Lucini è  forse  negare che esista in poesia questo problema politico (che poi mi pare il problema che pose anche Sanguineti insistendo sulla questione linguaggio e ideologia) e fare del risultato estetico una barriera che rischia di essere corporativa.

*APPENDICE

Sul Web si trovano parecchi link  sui quali si possono leggere poesie di Lucini e note critiche sulla sua opera.
Qui, come assaggio, ne pubblico solo una. E' tratta dalla raccolta «Nuove revolverate». Si coglie subito la sua polemica  dissacratoria di poeta in urto con altri poeti (i romantici in primis) e di pentito e deluso della Poesia che tende al sublime dannunziano («Luna, ho creduto in te»), oltre alla presenza senza attenuazioni di contenuti bassi, realistici («sono un povero tisico») e sensuali («sarai libidinosa bocca spalancata»):

Espettorazione di un tisico alla luna

Luna, 
luogo comune degli sfaccendati
in ogni prova prosodica, 
facile rima ai sonetti romantici, 
belletto e vernice sentimentale alla bionda e
alla bruna
per gustar le primizie de contatti antematrimoniali
lenocinio archetipo alle adultere; 
mezza maschera vuota di simboli, 
tegghia d'ottone a friggervi i capricci di Diana, 
crachat maggiore allo stomaco immedagliato del cielo; 
Luna, ho creduto in te: 
al tuo patrocinio incappai nella ragna tesa
da due sguardi e da quattro parolette, 
buscai, solennemente, 
da una verginità posticcia e macera, 
l'imberciatura classica. 
Luna, 
clorotica fortuna d'argento a navigare, 
della tua faccia mi feci un altare: 
vi ho deposto, in offerta, le più tirchie ed avare soddisfazioni
de' miei sensi impotenti e castigati, 
tutto quanto lasciai, con falsa umiltà, 
alle gioje del mondo, 
alla tentata e recusatasi felicità. 
Luna, 
il mio cuor ti sospira e si svuota
d'amarezze e ti vomita bestemmie: 
sono un povero tisico che rece, 
coi coalgoli rossi, il suo buon cuore. 
Luna, balzata sul palcoscenico del firmamento, 
mongolfiera celeste in convulsione sorretta dal vento, 
simulata matrice in gestazione, 
per scodellarci questa Primavera; 
ho vergogna per Te, che senza velo
balli la danza del ventre sul cielo. 
Occhiaccio strabico e permaloso, 
sbirciami in terra, sono il tuo sposo, 
sogguarda dalla palpebra rossa e purolenta. 
Testè, fosti uno spicchio verdognolo
gobbuto ad occidente
di un'acida e bacata melarancia: 
sarai tra poco compressa e glabra pancia
d'adolescente isterica: 
sarai libidinosa bocca spalancata, 
con lunga lingua di luce a imbavare
i bei fianchi alle Nubi vaghe e strane, 
prone al divano dell'orizzonte, 
callipigie e impudiche cortigiane. 
Questo a Te, questo a me
il contagio conserva alla fregola: 
anche sopra le cime della notte
stirano e snodano le membra erotte dal peplo 
le Nubi, 
pazze e infeconde, convulse e corrotte. 
Luna, 
civetta ipocrita a starnazzare
per l'aja insabbiata di stelle, 
tra il carro e lo Scorpione, 
mezza-vergine falsa collaudata, 
sopra il catarro e il colascione, dalla poesia 
classica; 
ho le vertigini, non guardarmi più: 
un giovane impotente e smidollato ti squadra le fiche, 
Luna smorta, o sorella, 
oggi compunta e avvelenata, 
dispensatrice di atroci virtù. 




[i] F. Fortini, I poeti del Novecento, p. 10, Laterza, Bari 1977.
[ii] P.V. Mengaldo, Poeti italiani del Novecento, p. XL, Mondadori, Milano 1978.
[iii] E. Sanguineti, Poesia italiana del Novecento, p.XXXVI, Einaudi, Torino 1969.
[iv] R. Luperini, Il Novecento, p. 94, Loescher, Torino 1981
[v] Idem, p. 90.
[vi] Idem, p. 91.
[vii] Idem, p. 94.
[viii] G. Ferroni,  Profilo storico della letteratura italiana, p. , Einaudi scuola, Torino 1992

30 commenti:

Anonimo ha detto...

Non sono in grado di criticare Lucini, posso dire che questa poesia raccoglie molto della sua personalità e mi è molto piaciuta. Limiti? Vorrei leggere ancora poeti come questo con dei limiti come questi... Emy

giorgio linguaglossa ha detto...

ha fatto bene Ennio Abate a rispolverare uno dei principali motivi di querelles del Novecento: la posizione politico-estetica di Gian Pietro Lucini: antimilitarista, antidannunziano, antiborghese e antifuturista, e direi, distanziandomi dal giudizio liquidatorio di Fortini, anche antigiolittiano. E non è poco. Un ribelle per antonomasia e per convinzione. Lucini opera una rottura su tutti i fronti, rompe con le istituzioni del tardo romanticismo e con quelle dell'oppposizione futurista, rompe con la poesia agreste di un Pascoli; sì, la sua cultura è carducciana e dannunziana, ma capovolge l'impostazione conservatrice dei due poeti vati introducendo e perseguendo una polemica politica ed estetica a 360 gradi contro tutte le istituzioni politiche e culturali dell'Italia giolittiana. Lucini è anti interventista convinto e si batte contro la guerra di conquista della Libia (1911), quando altri poeti sprovveduti come Pascoli plaudono alla guerra dell'imperialismo dei poveri. Riscoprire e rivalutare la poesia e la battaglia di idee di Lucini oggi ha un valore diverso dalla scoperta che ne fece Sanguineti nel 1968 quando lo inserì nell'antologia della poesia italiana del Novecento e gli diede un ruolo centrale nella costruzione della «nuova poesia» annettendolo, in qualche modo, come progenitore della neoavanguardia. Lettura forzata, certo e anche erronea, perché Lucini deve essere considerato uno dei più grandi rappresentanti italiani della poesia modernista che in quegli anni influenzava gran parte della poesia europea.
Rivalutare oggi la poesia di Lucini significa dargli un ruolo centrale nella poesia modernista europea, un ruolo strategico e significativo. Lucini poeta modernista però rimane un isolato nella sua battaglia su tutti i fronti, isolato in quanto modernista che non crede nel facile progresso patrocinato dai poeti contadini dell'imperialismo nostrano (Pascoli) e dai poeti stracittadini del nascente futurismo. Lucini deve essere quindi riposizionato nel suo tempo in quella temperie culturale che lo vide soccombente; la sua non è stata una battaglia inutile ma assolutamente necessaria. Ci sono battaglie che vanno combattute anche se non c'è alcuna possibilità di vittoria. Lucini fece la sua battaglia, e la perse. Si badi: una battaglia civile, politica ed estetica.
Mengaldo non perdona a Lucini di essere stato un ribelle e un perdente, nel suo orizzonte istituzionale liquida la poesia e la personalità di Lucini in quanto fuori dell'orizzonte di attesa delle istituzioni letterarie che contavano. Ma è una posizione contestabile e criticabile. Lucini a mio avviso va rivalutato proprio per quegli stessi motivi per cui Mengaldo liquida la sua poesia. Lucini è un poeta centrale del primo Novecento non perché precursore della neoavanguardia (come piace scrivere a Sanguineti) ma perché poeta critico del suo tempo, poeta modernista che non crede nella modernizzazione forzata che porterà l'Italia e l'Europa alla prima guerra mondiale e poi alla seconda. Per non contare la terza.
Rileggere e rivalutare la poesia di Lucini oggi è un atto di intelligenza politico-estetica in un momento in cui certe interpretazioni che vengono da sinistra (Luperini, Ferroni etc.) si ostinano in una visione angusta e istituzionale della poesia italiana.

Anonimo ha detto...

tegghia d'ottone a friggervi i capricci di Diana,
crachat maggiore allo stomaco immedagliato del cielo

da una verginità posticcia e macera,
l'imberciatura classica.

sono un povero tisico che rece,
coi coalgoli rossi, il suo buon cuore.

per scodellarci questa Primavera;

Testè, fosti uno spicchio verdognolo

sarai tra poco compressa e glabra pancia

con lunga lingua di luce a imbavare
i bei fianchi alle Nubi vaghe e strane,
prone al divano dell'orizzonte,
callipigie e impudiche cortigiane.

anche sopra le cime della notte
stirano e snodano le membra erotte dal peplo

mezza-vergine falsa collaudata,
sopra il catarro e il colascione, dalla poesia
classica;

un giovane impotente e smidollato ti squadra le fiche,

Ma su, ragazzi, al di là delle posizioni politiche che possono anche piacerci, questa vi sembra una lingua che possa confrontarsi con quella di Pascoli?...Ma qui siamo al giovane impotente e smidollato che squadra le fiche-Luna! Andiamoci piano con certi entusiasmi.
Ciao
Donato

Anonimo ha detto...

Ci sono limiti anche per il lettore....
Non è confronto con Pascoli è guerra! Emy

Moltinpoesia ha detto...

Ennio Abate:

Lucini dovrebbe piacerci per le posizioni ribellistiche e non piacerci per i risultati estetici?
Questo il dilemma posto dai contrapposti interventi di Giorgio Linguaglossa e Donato Salzarulo.
Per ora e velocemente ( perché dilemmi simili si affacceranno man mano che andrò avanti nella rilettura de «I poeti del Novecento» di Fortini) dico solo questo:

1. Ci dev’essere pure un filo tra posizione politica di Lucini e sua resa estetica. Lucini, cioè, partendo da quelle sue passioni e da quelle sue posizioni politiche non poteva permettersi di essere elegiaco e fine come un Pascoli. ( E, al contempo, non va trascurato il filo politico che porta il Pascoli elegiaco e familiare a quello filocolonialista della «Grande proletaria si è mossa»: non è un semplice “incidente di percorso”, non è qualcosa di causale…).

2. Il ribellismo aristocratico-plebeo di Lucini è un grido che non ha trovato risposta e non è potuto diventare discorso politico-poetico maturo. Il limite però non è solo suo. La mancata risposta mette in causa due elementi fondamentali: - lo stato di debolezza politica e organizzativa di quel “popolo” (assente politicamente e poeticamente) a cui egli rivolgeva le sue invettive contro i dominatori; - c’era una complicità con i dominatori degli oppositori “ di sinistra” d’allora (i socialisti che poi finiranno per collaborare di fatto al Grande Macello della Prima guerra mondiale) che è ben peggio dell’individualismo anarchico di Lucini.

M’interrogherei perciò più a fondo sul dilemma. Oggi più di ieri, perché la posizione di Fortini (che - si ricordi - parla nel 1977) si sosteneva su una premessa che è venuta meno: che quel ribellismo piccolo-borghese doveva essere combattuto in nome della visione marxista, più ampia e culturalmente solida. Anche questa è caduta. Con ciò non ne vedo rivalutato automaticamente quel ribellismo individualistico. Ma è chiaro che non so più cosa contrapporgli di meglio.
Una cosa è liquidare Lucini da una posizione “forte” (diciamo: in nome di Pascoli), ma assumendosi in pieno che essa comporta sul piano politico ( non separabile del tutto a mio parere da quello estetico) l’adesione a quel mondo borghese che s’avviava al colonialismo e alla guerra. Altra cosa è interrogarsi su quel grido “mozzato” di Lucini e anche sulla “bruttezza” di certi suoi versi, tenendo però conto che la parte “mancante” o alla quale alludevano non era affatto disprezzabile.
In altre parole: l’utopia di Lucini è sempre meglio del plauso al colonialismo di Pascoli; e la dolcezza musicale dei versi di Pascoli non occulta e si fa complice dell’Italia colonialista.
(Non parlo per ora delle possibili analogie con la storia presente!...)

Anonimo ha detto...

Forse prima di Lucini e dopo ci sono stati altri poeti anarchici e ribelli che non hanno scritto versi brutti come i suoi. La scelta politica influenza quella estetica, ma non la determina. Comunque, parliamone. Innanzitutto quale scelta politica? Il rapporto, ad esempio, arte-anarchia è stato storicamente diverso da quello arte-comunismo o arte-fascismo o arte-democrazia. I calderoni non servono…
Sì, Emilia, hai ragione. Ci sono anche i limiti dei lettori. E’ probabile che io sia uno schizzinoso e che non riesca a comprendere la grande poesia della “glabra pancia” o del “catarro e del colascione”…
Ciao
Donato

Anonimo ha detto...

Ma no Donato, anzi tu la comprendi ma non la accetti, non accetti le condizioni in cui si muove questa poesia , insomma certamente per te questa non è poesia, potrebbe non esserla neanche per me , ma nel momento in cui cambio obiettivo, punto di vista ed entro in un altro aspetto della vita ecco che mi appare chiara e direi, in quel contesto, perfetta, senza nulla, ma proprio nulla, togliere al Pascoli.

Anonimo ha detto...

e.c. "esserlo" emy

Anonimo ha detto...

Una “Revolverata" !!

----------
Rappresento i miei pari: eccomi, Gentiluomo, a paragone
ultimo e primo stipite di mia generazione.
Alla spontanea mia nobiltà

creai, di fantasia, questo blasone:

corna di becchi in croce con lucidi bisanti,
soppannato in damasco rattoppato,
lo cima un grugno impiumato a morione.

….
Sono il Saccard, il Rocambole allegro e dispensiero
della postrema civiltà, Signori;
ho peso nel Consiglio delle Banche
e nei salotti della Prefettura;
governo sui commessi come un ministro,
sopra i jokeys e i bookmakers, scozzone patentato;
dispongo de’ garretti de’ cavalli
e delle coscie delle ballerine;
sto, colle mani scabre di brillanti,
a invigilar la cassa, basilisco mondano;
gioco sui titoli freschi e stagionati,
sull’alea del telegrafo bugiardo,
Demiurgo del rial
Porto camicie stirate a Londra e panciotti sgargianti;
muto ogni giorno tre paja di guanti,
accordandoli al colore del momento,
dal chamois-chaudron al blanc-glacé
………….

Io sono tutto qui, o Signori, vi esprimo; fiero protezionista ed uomo d’ordine,
non vado in chiesa e pregio Santa Religione;
vanto il liberalismo del Corrier della Sera vescovile,
e mi reggo col soldo, colla legge e la truffa:
calo la buffa nelle lotte civili per non farmi conoscere;
uso de’ prestanomi in losche società.
Desidero morir, come conviensi, paralitico osceno,
salvando la morale, l’occhio spento, le mani rattratte,
cencio d’uomo sbiancato e miserabile,
a pubblica e lodata edificazione,
colla assistenza estrema dell’estrema unzione
e magna pompa di funerale;
……………….
Un umorismo dissacrante che difficilmente attecchisce nella nostra cultura, una versificazione senza regole, pastiches per descrivere le ipocrisie e le debolezze della società a lui/a noi contemporanea.
Quanto mai attuale la descrizione di questo parvenu del capitalismo nascente italiano, un imprenditore corrotto rampante che si nasconde dietro un blasone posticcio da lui inventato, che utilizza il danaro accumulato non si sa come, per procacciarsi poteri su poteri e vive in una dimora da pascia dove si fa circondare da parassiti di turno.
Interessante l’uso di forestierismi che saranno vietati dal regime fascista. Enzo

giorgio linguaglossa ha detto...

il fatto è che l'accademia italiana (i Mengaldo, i Luperini, i Ferroni) non hanno mai digerito i «ribelli», chi sta all'«opposizione» di tutte le posizioni e delle finte opposizioni... tutti, sia Sanguineti che Mengaldo e Ferroni hanno inneggiato alla poesia piccolo-borghese e agreste del Pascoli, allo squisito effabile concerto di violini in diminuendo della poesia pascoliana (che io trovo detestabile e risibile). Ma, come bene ha indicato Ennio Abate, tra l'ideologia imperialistica di Pascoli e la sua poesia pacificatrice e piccolo borghese, c'è una linea retta che le congiunge. Linea (moderata) che è rimasta inalterata fino a Pasolini che l'ha riesumata ne «Le ceneri di Gramsci» (1956) riutilizzando il concerto eufonico della terzina pascoliana in chiave catartica e purificatrice. In queste condizioni «istituzionali» della poesia italiana è ovvio che poeti non allineati come Lucini e Ripellino, ma io ci metterei anche Helle Busacca e Ennio Flaiano, vengano letteralmente rimossi dalla storia della poesia italiana. È questa una posizione ideologica nella quale convergono un po' tutti (destra e sinistra, se vogliamo). E ci sarà pure una ragione se tutto l'arco costituzionale della poesia italiana è concorde sull'obbiettivo di rimuovere e denegare la poesia dei «non allineati» alla cornice (falsa e fuorviante) della poesia it. dove c'è da una parte il Governo e dall'altra l'Opposizione (quella finta). Ebbene, ritengo questa una strategia che occorre denunciare e correggere. La storia della poesia italiana non si fa a colpi di esclusioni e di finzioni istituzionali, la si deve ricostruire nel suo avvicendarsi storico, nella dialettica delle diverse posizioni in conflitto.
Personalmente, trovo splendida per il linguaggio (antidannunziano e antipascoliano) e lo spirito la poesia pubblicata sulla «Luna» di Lucini; splendide le sue poesie sulla corruzione dilagante e le cointeressenze Politica-Banche, altro che le finte neoavanguardie degli Anni Sessanta! Altro che le finte poesie ecologiche dei nostri giorni! Leggere Lucini è davvero una ventata di freschezza e di intelligenza! Le sue poesie sono brutte? Ma rispetto a quale parametro? Io trovo bruttissime e intollerabili le poesie del Pascoli, con tutte quelle lacrime intonse e desolanti. Qual è il parametro? Di quale estetica stiamo parlando? Della dolce eufonia? Ma, chiediamoci: che cosa c'è dietro la doce eufonia del Pascoli? Quello che per altri è eufonia per me è detestabile concerto di pseudo essenze sublimate in chiave agricolo pastorale!
Pascoli è il primo gande poeta piccolo-borghese, è lui che fonda il «traliccio» (ideologico-stilistico) sul quale si basa ancora oggi la poesia italiana, e Mengaldo è il suo critico più intelligente, che si muove in chiave moderata tra una Linea Governo e una Linea Opposizione (istituzionale). Ma si tratta di una «storia» che fa acqua da tutte le parti. Dobbiamo credere alla vulgata che ci racconta Mengaldo? o a quella moderata e conservatrice che ci raccontano Luperini e Ferroni?

Anonimo ha detto...

Lune... lumières, sono parole che si sprecano per quanto sono state usate nella poesia simbolista francese. Probabilmente Lucini ne avrà avuto abbastanza e avrà voluto scriverne a modo suo, provocatoriamente. Del resto già il titolo parla chiaro: Espettorazione di un tisico alla luna.
mayoor

Moltinpoesia ha detto...

Ennio Abate:

Alcune precisazioni:

1. È nota, credo, la distinzione tra ribelli e rivoluzionari. Lo storico Hobsbawm ha scritto, in merito, tre libri chiarificatori: ««I ribelli» (1959), «I banditi» (1969), «I rivoluzionari» (1972). Come si vede dalle date, si potrebbe dire con una certa ironia che sono stati tutti scritti “in illo tempore”, quando ancora queste distinzioni e i problemi ad esse connessi avevano un senso e venivano discussi seriamente.
Non è possibile discuterne qui. Mi limito a dire, ricontrollando le quarte di copertina, che Hobsbawm sottolineava quanto i ribelli appartengano a pieno titolo alla storia, malgrado «il loro primitivismo, l’ingenuità dell’azione protestataria, la volontà di essere “fuori” dal sistema o pur venendo prima della protesta organizzata. Non sono cioè da buttare nella spazzatura, come di solito si tende a fare.
Sempre per Hobsbawm i banditi, altri “primitivi” della rivolta, erano in sostanza i ribelli delle società rurali, «espressione di un bisogno insaziabile di giustizia, incarnato in innumerevoli Robin Hood». I rivoluzionari, si potrebbe dire, sono i “ribelli organizzati” dell’epoca dell’industrializzazione. Organizzati, direi, sia quando furono comunisti sia quando furono anarchici, secondo concezioni diverse, e nella pratica anche contrapposte, dello Stato (da abbattere, cambiare, abolire).

2. « La scelta politica influenza quella estetica, ma non la determina» (Salzarulo).

Opinione che sottoscrivo, perché non esiste un unico modo di tradurre una visione politica in un “oggetto estetico” (un testo).
Dobbiamo però precisare che un filo annoda comunque le scelte politiche di Lucini alle sue poesia, proprio come accade anche per Pascoli (e direi per qualsiasi autore, anche se si dichiarasse apolitico o impolitico). E dobbiamo individuare con precisione questo filo; e non perderlo mai di vista. Perché, altrimenti, si finisce - nel caso di Lucini - di misurare i suoi versi da un punto di vista estetico non coerente con la sua visione politica o generale (ad es. considerando estetica e canonica la poesia che troviamo nei versi di Pascoli, che nasce da tutt’altra visione). Non vedremmo quanto certi versi “brutti” (all’occhio di un pascoliano o un dannunziano) siano invece coerenti con la sua visione politico-poetica; e quindi, agli occhi di chi la condividesse, meno “brutti” o giustificati o pienamente accettabili. (Un’analogia possibile sarebbe coi quadri di Picasso: indigeribili da chi si attenesse ai canoni della pittura dell’Ottocento; ammirati da chi condividesse l’atto “dissacratore” che produsse «Le demoiselles d’Avignon).
Oppure si finisce, nel caso di Pascoli, per esaltare i suoi “bei versi” lasciando da parte ogni considerazione sul “represso” autobiografico e storico che ce lo fa considerare, a ragione, poeta sì, ma della piccola borghesia ottocentesca.
Tra politica ed estetica c’è, secondo me, un braccio di ferro continuo. E non dovremmo spalleggiare istintivamente e senza verifiche se davvero la prima prevarica del tutto o quasi sulla seconda (come sostengono all’unisono, nel caso di Lucini, Fortini, Mengaldo, Luperini e Ferroni) o se ci lasciamo suggestionare oltremisura dal mito estetico, da una certa visione della “bellezza” in poesia.

[segue]

Moltinpoesia ha detto...

Ennio Abate (segue):


3. « il fatto è che l'accademia italiana (i Mengaldo, i Luperini, i Ferroni) non hanno mai digerito i «ribelli», chi sta all'«opposizione» di tutte le posizioni e delle finte opposizioni...» (Linguaglossa).

Può darsi. Ma il discorso da fare non va semplificato. E qui ora, dopo aver preso le distanze dal giudizio di Fortini su Lucini, sento di dover fare l’avvocato del diavolo “accademico”. Non mi va mettere semplicemente il segno ‘+’ dove l’accademia ( o singoli suoi rappresentanti) mette il segno ‘-‘.
Bisogna essere rigorosi e analizzare a fondo anche le obiezioni degli “avversari” accademici.
Tutti i critici citati non negano che Lucini sia stato un ribelle. Negano, piuttosto, che le sue posizioni politiche (anche storicamente apprezzabili da Fortini e Luperini, ad es.) abbiano prodotto poesia. (È un po’ la critica che Fortini muove anche ai futuristi e alle neoavanguardie degli anni ’60: siete degli organizzatori culturali, dei teorici; ma, quando si va a vedere i testi poetici prodotti, il fumo si dirada e si vede che l’arrosto è sbruciacchiato).
Quanto a Mengaldo, egli può escludere (cosa che Fortini non fa) Lucini dalla sua antologia, non certo dalla storia della poesia italiana.
Per non « rimuovere e denegare la poesia dei «non allineati» alla cornice (falsa e fuorviante) della poesia it.», bisogna a mio parere non fare dell’accademia un unico blocco compatto, né limitarsi a contrastare solo la visione politica della “linea moderata” (che pure va dimostrata caso per caso, se no rischia di diventare un concetto ideologico), ma dimostrare pure la piena validità poetica dei testi dei “ribelli”.
Fino a che punto quelli di Lucini reggono da un punto di vista estetico diverso da quello che diciamo politicamente “moderato”? Anche Rimbaud fu un anarchico, ma la resa della sua visione anarchica in poesia è indiscussa o meno discutibile.
Certo la storia della poesia italiana fa acqua. Ma è doveroso vedere con precisione quali e dove sono le falle e non sparare sul mucchio (accademico).

Anonimo ha detto...

AaaH! Che demone questa piccola borghesia| Mi sono sempre chiesta quanto male avrà mai fatto questa piccola e condannata borghesia, ma esiste ancora? Vorrei andare a trovarla , o mon dieu! Vuoi vedere che faccio parte anch'io di questa miseria , di questa fragilità umana!?

La vigiglia Natale mi metto un maglione nero e lurex
mangio cibi profumari e panettone con la crema
ascolto canti natalizi che mi scaldano ancora
ricevo regali da un sacco di gente e accendo
il lume sulla ringhiera come se fosse un presepe
ed un po' presepe lo è questa mia piccola vita
per qualche giorno mi lascio coccolare ho poche pretese
accidenti però, non sarò... una piccola borghese?

Emy


giorgio linguaglossa ha detto...

caro Ennio Abate,
come già detto trovo splendide le «Revolverate» di Lucini, così come trovo splendida l'«Armonia in grigio» di Govoni, «I cavalli bianchi», «L'incendiario» di Palazzeschi, è lì che la poesia it. spicca il volo verso l'alto, è una fiammata improvvisa e lancinante. Sono tutti, si badi, poeti di estrazione piccolo-borghese che fanno una poesia incendiaria, di revolverate, di fuochi d'artificio, rutilante, scintillante... loro della piccola borghesia dell'Italia giolittiana se ne fregano, scrivono con una libertà espressiva straordinaria, sono «ribelli» nel senso vero, etimologico del termine, sono delle singolarità con una fortissima personalità poetica, mandano in mille pezzi l'eufonia della poesia pascoliana (che fonderà il parametro medio della media poesia it. del Novecento), sbeffeggiano la ricchezza rutilante della poesia dannunziana; se non si comprende, se non si afferra questo tassello non si capisce nulla di quello che succederà nel prosieguo, del ritorno all'ordine di un Cardarelli, di Ungaretti etc. sulla cui vulgata ne ho piene le scatole, sono poeti di secondo piano, bandiscono il rientro nei ranghi dell'ortodossia, fanno squillare le fanfare della medietà.
Mi si dice da più parti che c'è (e non c'è) una corrispondenza tra la posizione politica e quella poetica di ciascun poeta. Vero! Verissimo! Ma se un poeta ritorna all'ordine in politica non mi meraviglia affatto che ritorni anche all'ovile della scrittura media, e lo vediamo oggi che tutti scrivono in una koiné media del medio politichese letterario: una cosa illeggibile, addirittura ridicola.
Quello che mi meraviglia è constatare la sconcertante banalità dei poeti pubblicati dai maggiori editori di questi ultimi 40 anni! Una cortina di nebbia e di marmellata che ha definitivametne sconfitto la poesia italiana!
E allora che cosa fare?, mi chiederete. Semplice: ritorniamo a leggere e a studiare i poeti come Gian Pietro Lucini, Palazzeschi, Govoni, armiamoci di coraggio e gettiamo dagli spalti della loro medietà i poeti di corte e quelli del consenso che sono andati di moda in questi ultimi 40 anni.

Anonimo ha detto...



Da Emy:



Poesia di Corrado Govoni -
Seppi cos'è il cavallo -



Anche in questa poesia la fantasia si sostituisce alla realtà. La bambina ha un giocattolo, un cavallo di cartapesta, e questo cavallo è per lei così reale e così vivo, che si può portarlo in un prato e ordinargli di mangiare l'erba. Ma il poeta non si è limitato a rappresentare un gioco infantile: egli stesso scopre, attraverso l'immaginazione della bambina, che cos' è il cavallo. Dunque un'invenzione della fantasia può attirare la nostra attenzione su qualche cosa che già conoscevamo, facendocela quasi scoprire di nuovo, come se la vedessimo per la prima volta?


Seppi cos'è il cavallo
sol quando vidi la bambina in rosai
tirare in riva al prato il suo balocco
di cartapesta sulle ruote lucide,
lasciar cadere il filo, alzare il dito
e dirgli: -Adesso, mangia!-

Anonimo ha detto...

Una pausa tra il serio e il faceto. Not just for fun!!
Stralci di un'intervista a Paolo Poli, uomo di spettacolo, apparsa ieri sul Corriere della Sera .

Pascoli ? Noiosissimo, l'ho scelto per pigrizia. Era il mio cavallo di battaglia alle elementari quando arrivava la preside. Sono un po' dell'avviso di Sanguineti che delle poesie di Pascoli diceva " macchinette sadiche per far piangere i bambini." Se, con la consueta soavità , Paolo Poli fa una simile premessa vuol dire che, tra le sue maliziose grinfie, il poeta romagnolo si illuminerà di inaspettati riverberi. (Va in scena all'Elfo)
.................................................................
Ma torniamo alla noia: Poli cosa c'è che non va in Pascoli ?
E' che non avendo la profondità di Leopardi, ci ha raccontato fino alla nausea le sue tragedie familiari. Anche a me è morto il babbo da ragazzino, ma non ho mai scritto sopra una poesia....................................E poi ci propinavano sempre i "Poemi conviviali" perché la noia pareva allora più culturale. Ci fece la tesi anche il povero Pasolini".

E poi cosa è successo?

"Grazie agli scritti di Gianfranco Contini, mio professore, ne ho scoperto il plurilinguismo e la capacità di rendere materia di poesia anche il linguaggio degli animali con oltre un decennio di anticipo sulle onomatopee dei Futuristi. E poi andando oltre il dettato crociano, che prediligeva "Myriacae" e i "Canti di Castelvecchio", ho riscoperto i "Poemetti"e anche il Pascoli anarchico, che da giovane rimase tre mesi in galera e fu tirato fuori da Carducci".

"Oh Valentino vestito di nuovo", "Alba", "A nanna", "Orfani", "il lauro", L'assiuolo". C'è una poesia che predilige?

"Non mi piacciono le classifiche. Sono nato sotto il cavalier Mussolini e non vorrei morire sotto quell'altro cavaliere. Sono quelli che vogliono sempre il primo, l'unico, il più bello.
E poi per scegliere i testi di uno spettacolo è lavoro, non è che mi divertii nel mio salottino..........................................

Anonimo ha detto...

Bella scrittura , ma chi sei? emy

Anonimo ha detto...

Ah, quindi Pascoli, per quanto noioso e piccolo borghese, col suo plurilinguismo ha anticipato di oltre un decennio le onomatopee dei Futuristi?...Fossero solo le onomatopee!
Ma, siccome non sono un pascoliano, mi scoccia dover star qui a difendere la sua lingua (non le sue posizioni politiche) contro quella di Lucini. Piccola precisazione: tutti sanno che le parole hanno due facce: quella del significante e quella del significato.
I poeti (soprattutto) le sfruttano ambedue. Se scrivo: «Non è il mare di stelle / il muro della mia anima…» anche un illetterato avverte un “legame musaico” (così lo chiamava Dante) tra mare e muro. Si tratta, infatti, di una consonanza. Questa risorsa poetica la sfrutta ampiamente anche Lucini: dalle rime, alle allitterazioni, ecc. ecc. Rileggere per credere. Non è questione, quindi, di essere eufonico o meno. Lui, poveretto, si sforza di esserlo. Il suo problema è diverso. Ho l’impressione che lui non capisca che la poesia non si limita a comunicare l’altro da sé. E’ il sé. Per cui, se uno convoca, per restare al titolo (“Espettorazione di un tisico alla luna”), "l’azione dell’espettorare”, cioè dello sputare, la propria condizione di “tisico”, cioè di affetto da tubercolosi e, infine, la “luna" dovrebbe rendersi conto che la sua poesia risulterà esattamente quella: la sputacchiata di un tubercolotico alla luna. Cosa volete che gliene freghi alla luna?...E non mi risulta che l'azione dello sputacchiare sia bella. Salzarulo: ma è un'azione simbolica! Ah, sì. Allora, quanto a simbolismo, Pascoli, ancora lui!, batte tutti.
Con affetto
Donato

Anonimo ha detto...

e.c.: scusate vigilia e non vigiglia!!!! Emy

giorgio linguaglossa ha detto...

Parlare della poesia di Pascoli significa parlare della questione più nascosta, sottostante, della Lingua poetica media che si è imposta in Italia; ma parlare di una questione linguistica è un modo di parlare della Questione Nazionale. Ora, chiediamoci: qual è stata la questione (poetica) nazionale che si è imposta subito dopo la prima guerra mondiale? Lo dirò: l'emergenza, l'ingresso nel teatro della Storia della piccolissima borghesia, di masse di milioni di uomini (ex contadini,. ex artigiani). Qual è stata la scatola acustica e metrica che ha consentito di strutturare il linguaggio poetico it. dopo la prima guerra mondiale? Ma è ovvio, la poesia pascoliana offriva un eccellente pentagramma ideologico-stilistico che verrà utilizzato un po' da tutti fino a un poeta criticamente consapevole come Pasolini. La fortunata piattaforma critica inventata da Debenedetti con quella formula «sperimentalismo inconsapevole» offrirà il destro a chi negli anni Sessanta teorizzerà e praticherà uno «sperimentalismo professionale». E il cerchio si chiude. Con l'esaurimento dello sperimentalismo finisce anche la spinta propulsiva di quello inconsapevole di matrice pascoliana. Il tardo Novecento rimarrà orfano perché non sarà in grado di inventarsi un altro parametro medio su cui edificare la «nuova poesia». Qual è l'interrogativo fondamentale che la Nazione pone alla Lingua? C'è un interrogativo? Ecco, io rispondo che NO, oggi, nelle mutate condizioni del Dopo il Moderno la questione della lingua non si pone più, o almeno, non si pone più nei termini con cui l'ha posta Pasolini, oggi non si può più parlare di «omologazione» televisiva dei linguaggi; di fatto, i linguaggi televisivi si sono aperti a tutti i linguaggi, bassi e non bassi: da tele Maria alle emittenti di spogliarelli, dalle emittenti di insulti show ai talkshow non c'è distinzione: l'alto viene conglobato nel basso, il destro con il sinistro. E questa indistinzione, questa simmetria del disordine è un dato di fatto dei linguaggi televisivi del Dopo il Moderno. Simmetria del disordine peraltro che ha attecchito anche i linguaggi poetici odierni.
Dirò di più: oggi parlare di una emergenza della lingua e di una questione della lingua è un modo imbonitorio per non parlare dei problemi che linguistici non sono ma che sono reali: LA RECESSIONE ECONOMICA STILISTICA E SPIRITUALE; e della necessità di riposizionare la «nuova poesia» sullo zoccolo duro di un nuovo parametro ideologico-stilistico. E a questo punto bisogna fare i conti con il pascolismo, liquidare Pascoli per poter ripartire.

Anonimo ha detto...

I ribelli sono esploratori, non si avventurano per scoprire le scoperte d'altri. Sono innovatori, non sono come il bravo e simpaticissimo Salzarullo che da ragazzo scriveva alle ragazze nel bello stile di qualcun altro, e riuscendoci si meravigliava. No, la meraviglia degli scrittori ribelli è più tormentata, e se mi permettete anche più coraggiosa perché priva di risultati certi. Si avventurano verso l'ignoto. Di fatto, per la comunità sociale e letteraria rappresentano un fattore di opacità, perché fanno e disfano il linguaggio provocatoriamente, scandalizzando, cambiando le regole nel gioco. Ma di fatto impediscono la tendenza all'omeostasi, tipica di ogni potere consolidato. Sono anti-modelli, non da seguire ma da affiancare, volendo.
Non so se sia questo il caso di Lucini, poeta che conosco troppo poco per poter commentare, ma so che Marinetti lo tenne in grande considerazione (il titolo "revolverate" fu suggerito proprio da Marinetti). Il Futurismo cambiò le regole del gioco su cui vi era consenso grazie all'uso di parole forti, oltre che nuove per quei tempi, parole forti e "veloci" perché il ribellismo si muove sempre in uno spazio temporale assai ridotto e non può fare affidamento sul consenso ottenuto pazientemente. Se funziona, se ciò che viene detto e "come" viene detto trova sufficiente riscontro nell'ambito sociale e culturale, bene, altrimenti è fin troppo facile liberarsene. Questa è l'avventura scomoda del ribellismo.
mayoor

Anonimo ha detto...

solo adesso mi accorgo di non aver firmato il commento su Poli. Ciao enzo

Anonimo ha detto...

Caro Giorgio, il problema era: quale valore attribuire all’esperienza poetica di Lucini? Per me scarso. Per te ed Ennio, se non ho capito male, sufficiente o buono. Bene. Liquidate pure Pascoli e il pascolismo e tenetevi Lucini. Il mio giudizio di valore non muta: “Espettorazione di un tisico alla luna” è una poesia che non rientra nelle mie corde. Per me è inservibile, se non come esempio negativo.
Mayor scrive: «I ribelli sono esploratori, non si avventurano per scoprire le scoperte d'altri. Sono innovatori, non sono come il bravo e simpaticissimo Salzarullo che da ragazzo scriveva alle ragazze nel bello stile di qualcun altro, e riuscendoci si meravigliava. No, la meraviglia degli scrittori ribelli è più tormentata, e se mi permettete anche più coraggiosa perché priva di risultati certi. Si avventurano verso l'ignoto». Non credo che la ricerca poetica dei ribelli sia per forza più tormentata e coraggiosa di quelli che non lo sono. Non credo che si avventurino per forza verso l’ignoto e, infine, non credo che non utilizzino le esperienze poetiche di altri. Lucini, come riferiva Ennio all’inizio del post, era partito da posizioni dannunziane e scapigliate. Io ho cominciato saccheggiando Cavalcanti, Guinizelli, il Dante dolcestinovista, ecc…Ognuno ha i suoi inizi e la sua storia. Mi pare che la questione sia un’altra: Lucini è stato molto meno innovatore di Pascoli. E’ Giorgio stesso a riconoscerlo sulla scia di Giacomo Debenedetti: in lingua poetica è il romagnolo il “rivoluzionario inconsapevole”, Lucini che pur fa delle scelte politiche importanti e anticonformiste per l’epoca, dal punto di vista del linguaggio poetico rimane semplicemente un confusionario. Quanto a me, Mayor, ti ringrazio per “il bravo e simpaticissimo”. Ma non ti fidare! All’occorrenza, so essere cattivo e antipaticissimo.
Ciao
Donato

Anonimo ha detto...

"bravo e simpaticissimo" perché ti prendevo ad esempio, per quel che ho letto nella tua biografia, sperando così di farla franca senza che ci siano offese. Suvvia, anche secondo me questa poesia di Lucini non merita tanta attenzione. La ragione sta nel fatto che il tema non ha niente di rivoluzionario, se non perché la luna è di casa nel lirismo che Lucini avversa. Quindi il suo ribellismo sta solo nel gergo e nell'intento stilistico. Voglio pensare che contestando la cultura contestasse il privilegio sociale, e questo non era tipico dei futuristi, ma può spiegare il suo tono incazzoso nel caso appunto che ci fosse anche della sostanza. Ma come ho detto non lo conosco abbastanza. Di sicuro Marinetti sapeva alzare la voce gridando meglio, e gridando meno. Ma io generalizzavo sul valore innovativo del ribellismo, che porta idee e scombina le regole. Guarda caso succede spesso ai poeti nella prima maturità, poi rientrano nei ranghi.
mayoor

Moltinpoesia ha detto...

Ennio Abate a Donato Salzarulo:

Se ci fermiamo all’ “ipse dixit” di De Benedetti o Mengaldo o Fortini o Luperini o Ferroni, il discorso è subito chiuso. Al massimo si può contrapporre un altro “ipse”, quello di Sanguineti. Anche lui per molti è autorità indiscussa.
Io ho cercato di essere cauto e problematico. A me non interessa tanto dare i voti e stabilire sufficienze, mediocrità o eccellenza, come a scuola; e do per storicizzabile il conflitto tra “partiti letterari” anni Sessanta-Settanta, neoavanguardisti da una parte e mengaldiani o fortiniani dall’altra.
Ho scritto: «Tra politica ed estetica c’è, secondo me, un braccio di ferro continuo. E non dovremmo spalleggiare istintivamente e senza verifiche se davvero la prima prevarica del tutto o quasi sulla seconda (come sostengono all’unisono, nel caso di Lucini, Fortini, Mengaldo, Luperini e Ferroni) o se ci lasciamo suggestionare oltremisura dal mito estetico, da una certa visione della “bellezza” in poesia».
E anche:«Non vedremmo quanto certi versi “brutti” (all’occhio di un pascoliano o un dannunziano) siano invece coerenti con la sua visione politico-poetica; e quindi, agli occhi di chi la condividesse, meno “brutti” o giustificati o pienamente accettabili».
Perché?
Perché credo che sempre in un giudizio estetico - che privilegi Pascoli o Lucini - s’insinui anche un giudizio politico. Non credo alla neutralità e all’oggettività in politica e neppure in estetica.
Come non sospettare o non intravvedere nel giudizio escludente di Mengaldo o in quello meno drastico ma comunque svalutativo di Fortini o in quello contrapposto di Sanguineti, che dalla sua antologia ha escluso persino il nome di Fortini, il conflitto storico-teorico tra marxismo (socialisteggiante, credo, in Mengaldo; “critico” in Fortini) e anarchismo?
Lasciamo stare i tormenti dei ribelli alla Lucini o dei “rivoluzionari inconsapevoli” alla Pascoli (che, però, insisto tanto rivoluzionario sul piano politico non fu, il che a me fa pensare che anche in poesia ci sarebbe bisogno di una controllatina della sua “rivoluzionarietà”…).
E poi: perché assumere l’una o l’altra posizione rigidamente oggi, perché attestarci all’uno o all’altro dei due “ipse dixit” contrapposti, se possiamo forse cogliere i limiti di entrambe quelle visioni (o di parti di esse)?
Tra richiamarsi all’autorità e affidarsi alla propria personale soggettività («“Espettorazione di un tisico alla luna” è una poesia che non rientra nelle mie corde») c’è per me lo spazio per una ricerca o un’interrogazione *aperta*.
Davvero «Espettorazione di un tisico alla luna» (prendiamo questa poesia di Lucini solo come exemplum) è linguaggio poetico di un «confusionario»? Certo, quella crudezza è insolita nella letteratura di allora. Ma lo era meno la “bruttezza” delle «Demoiselles d’Avignon» di Picasso, che mi sono permesso di evocare?
Insisto ad indagare…

Anonimo ha detto...

Che cosa può nascere da una poesia di Pascoli? tanta bellezza. Vi invito a vedere questo spettacolo di Paolo Poli all'Elfo Puccini di Milano. uno spettacolo in cui la bellezza dei versi attraversa i tempi e arriva fino a noi. Gli Aquiloni di Paolo Poli, evoluzione teatrale della produzione di Giovanni Pascoli da Myricae ai Poemetti, sono, immagini,allegorie, emozioni della composizione poetica. L'attore fiorentino declama, canta, gesticola porta in scena il gusto per le parole che sanno far musica fatte di bellezza, di quella bellezza alta e non nascosta, non artefatta, ambigua, tutto questo insieme al suo validissimo quartetto di attori/cantanti/ballerini, un 'esplosione di di emozioni.
La sorpresa è che, raccogliendo una delle grandi tradizioni della cultura italiana, quella della poesia pascoliana, ci ritroviamo ad ammirare, alle bella età di 83 anni, un Paolo Poli immerso nella bellezza delle scene dipinte da Luzzati.
Poli attraversa la poesia di Pascoli e si mette in gioco totalmente. Si veste, si traveste e si riveste. È donna, uomo, perseguitato politico, un selvaggio messicano,un cupo militare, un uccello. Pascoli è recitato in coro dalle cinque voci in scena, ma è anche il flusso di suoni che per lunghi tratti scorre senza soluzione di continuità fra una composizione e l'altra, tanto da costituire un "flusso di coscienza sui generis".
Che cosa resta ? una grande energia, la vitalità di un teatro, di una musica, di una letteratura, di un secolo,il Novecento, che ci ha lasciato gli orrori della guerra, ma anche molta bellezza che resta ancora per fortuna fra noi. Ecco perché “c'è qualcosa di nuovo oggi nel sole, anzi d'antico”.
Non so se tutto questo sarebbe stato possibile con il linguaggio della poesia di Lucini.

Angela

Moltinpoesia ha detto...

Ennio Abate:

« Che cosa può nascere da una poesia di Pascoli? tanta bellezza.» (Angela)

È una domanda che sarebbe lecita anche per Lucini. Con una risposta forse meno unilaterale di quella qui data per Pascoli; e che rivela la persistenza (pericolosa) del suo mito.Qui poi viene tirato in ballo l’interpretazione di «Myricae» che ne dà un attore, famoso oggi forse quanto Pascoli ai suoi tempi, e che aggiunge un “surplus” ai testi mediante la recitazione. Per cui si porrebbe il problema di distinguere quanta bellezza sta nei testi di Pascoli e quanta ( e di che tipo) ne aggiunge Paolo Poli.
Lo stesso problema si pose con un altro “mito poetico”, novecentesco questo, come Dino Campana.
Quanto vi ha contribuito in anni recenti Carmelo Bene?
E infine dovremmo ricordare che la bellezza è solo uno degli attributi della poesia, non l’unico.
Qualche speranza, dunque, resta ancora ai Lucini (e ai poeti “antiestetici”), se i lettori non vanno (coi paraocchi) unicamente a caccia di Bellezza.

giorgio linguaglossa ha detto...

cito da Brecht, "Me Ti. Il libro delle svolte" (trad. Cesare Cases):

Kin-jeh diceva Partire lancia in resta contro la cattiva arte e reclamarne una migliore o vilipendere il gusto del popolo, a che può servire tutto ciò? Bisognerebbe invece chiedersi: Perché il popolo ha bisogno di stupefacenti?

Commento mio:
proviamo a sostituire la dicitura "popolo" con quella di "Medio Ceto Mediatizzato" ed avremo il medesimo problema adeguato ai nostri tempi.

Anonimo ha detto...

A colpi di ideologia è stato fatto a fettine il povero Lucini.
Avanti il prossimo : Sinisgalli , Bodini , Piccolo ( ! ) , per non parlare di Matacotta . Qui si viviseziona il cadavere del personaggio e si dimenticano le sue parole che vanno a capo .
Mi sembra un approccio da entomologo e non da naturalista .
Dimentichiamoci le tessere di partito , altrimenti sotterriamo anche Ungaretti .

leopoldo attolico -